Luigi Bettazzi
(NPG 1974-04-73)
La decisione di Paolo VI che anche nel 1975 si tenesse l'Anno Santo, secondo la tradizionale scadenza dei 25 anni, è stata oggetto di ripensamento. Già molti prima ritenevano che il tono un po' «trionfalistico» che inevitabilmente gli Anni Santi vengono ad assumere, meno si addica non solo alla situazione sociale attuale, più sospettosa di ingerenze extra religiose della Chiesa, ma alla situazione stessa della Chiesa, impegnata a delineare più chiaramente la propria funzione di lievito, nascosto ed efficace al di dentro del mondo. Inoltre la più raffinata sensibilità biblico liturgica ci fa riconoscere che, dall'incarnazione, ogni anno è «santo», come ogni mese e ogni giorno. D'altra parte, come è convenzionale – anche se più radicato nella natura – il ritmo che converge sulla Pasqua annuale o sulla domenica, Pasqua settimanale, così si può ben ammettere che vi possa essere un ritmo ancor più convenzionale che richiami l'attenzione su di un Anno particolare.
Tali preoccupazioni sono state vive anche nella mente del Papa, il quale ha così voluto che l'Anno Santo di Roma – quello che più è esposto alla esteriorizzazione della spettacolarità e del turismo – fosse preceduto (non seguito come altre volte) da un Anno Santo realizzato nelle singole diocesi del mondo, aggiungendovi in più l'insistenza a interiorizzarlo sui temi della conversione e della riconciliazione.
Ecco perché, riconoscendo al Papa la responsabilità e il carisma delle ultime decisioni, accettiamo le sue indicazioni e ci mettiamo all'opera. Anche chi per avventura avesse opinato per una soluzione diversa, è chiamato non solo ad accettare docilmente la decisione, ma altresì a credere che la Chiesa intera impegnata in un'iniziativa dalle tante possibilità positive non può non godere di un particolare aiuto del Signore per realizzarle nel migliore dei modi, se tutti i suoi membri vi si impegneranno con la preghiera e la dedizione personale.
Si tratta dunque di cogliere il significato più elevato di questo tempo, appunto come un periodo di «conversione» e di «riconciliazione». Forse le applicazioni individuali possono risultare più agevoli, l'importante è che queste due realtà non vengano limitate al piano – pur nobile – della vittoria sui singoli difetti o su gesti esteriori di gentilezza o di aiuto. Occorre scendere al piano più profondo della «conversione» radicale, secondo l'espressione stessa biblica, che la designa come «cambiamento di mentalità». Viene in mente il notabile del Vangelo (Luca 18, 18-27) desideroso di ottenere la vita eterna, che, invitato da Gesù a osservare i comandamenti, può affermare tranquillamente: «Tutto questo l'ho osservato fin dalla mia giovinezza». Gesù allora aggiunge: «Una cosa ancora manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi». Non basta cioè osservare esteriormente i comandamenti, bisogna essere a disposizione dei fratelli: solo così si può esser discepoli di Gesù (Luca 14,33: «Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»). Convertirsi è rinunciare a una mentalità di comodo, di egocentrismo, di egoismo, per mettere Dio al primo posto e in Lui vedere e vivere tutto. Emerge che condizione di conversione è la docilità alla parola di Dio. Abbiamo troppo tradotto questa Parola nei nostri concetti e nelle nostre parole, convinti così di poterla meglio comprendere, e invece abbiamo finito con perdere la chiarezza e la forza di questa parola che «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr. 4,12). L'Anno Santo, anno di conversione, dovrebb'essere così l'anno della Parola di Dio.
Anche la riconciliazione che deve pur cominciare dal perdono e dallo sforzo di comprensione interpersonale, non va limitata al campo individuale. Le divisioni, le inimicizie, gli odi, che più appesantiscono la vita degli uomini sono quelli che intercorrono tra gruppi e categorie, tra classi sociali, tra nazioni, tra popolazioni di diversa provenienza o di diversa religione. Diventa illusorio lo sforzo – pur meritorio e doveroso – di riconciliazione interpersonale, se non è accompagnato da un analogo sforzo di superare i motivi delle tensioni e dei conflitti più vasti. L'aiuto al fratello bisognoso può persino divenire controproducente se disimpegna chi lo riceve da un più efficace sforzo di solidarietà con gli altri fratelli che si trovano nella stessa necessità e se tranquillizza la coscienza di chi lo dà esimendolo dalla doverosa collaborazione per eliminare le situazioni ingiuste o le cause della miseria del fratello.
L'Anno della riconciliazione dovrebb'essere così un anno di spassionate analisi e di dialoghi sinceri, più ancora di coraggiosi contributi alla vittoria sull'egoismo e sulla violenza non solo nei singoli ma nelle varie collettività.
Una cosa ancora mi sembra necessario sottolineare. La Chiesa che predica la conversione e la riconciliazione deve darne efficace testimonianza nella sua vita. Ad ogni livello – da quello universale a quello delle singole comunità – la conversione, illuminata e sostenuta dalla parola di Dio, deve manifestarsi in una maggiore pienezza di fede, e quindi in un maggiore, visibile distacco dai beni e dai poteri del mondo. In un mondo che vuol «toccare» le idee, la fede in Dio diventa credibile se si traduce in una minore «fede» nel danaro e nell'appoggio dei potenti di questo mondo. La conversione si manifesterà così in un più costante richiamo, in una più totale disponibilità alla parola di Dio, in uno spirito di preghiera più diffuso e più profondo, ma anche in una maggiore purificazione e contestazione degli egoismi e delle ingiustizie che l'amore al danaro e il potere creano nel mondo e inseriscono nella stessa comunità ecclesiale. Anche la riconciliazione dovrà costituire un impegno di tutta la Chiesa, che dovrà non solo accettarla se richiesta – rinunciando così ad atteggiamenti di «prestigio», di «difesa dei suoi diritti», preoccupata e paga come dovrebbe essere di difendere i diritti degli uomini, soprattutto dei più umili e dei più poveri – ma che dovrà ricercarla nei confronti di tutti coloro che per qualche motivo si sentono lontani da essa.
La parola del Signore è chiara (Matteo 5,23): «Se dunque presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi torna ad offrire il tuo dono». Non si tratta di riconciliarsi con quelli contro cui noi abbiamo qualcosa: se il tuo fratello, lui, ha qualcosa contro di te, comunque. Quanti fratelli ce l'hanno con la Chiesa, perché è stata dura nel passato con gli oppositori, perché appare legata ai poteri economici o agli interessi di classe... Anche la Chiesa come tale dovrebbe lasciare la sua offerta e andare a riconciliarsi. Se no, la sua offerta non è gradita. L'impegno di culto e di sacramentalizzazione, pur così essenziale per la Chiesa, deve dar luogo – almeno come priorità di tempo – allo sforzo di riconciliazione con tutti. Quale impegno di ecumenismo religioso e sociale, quale prospettiva di ascolto e di disponibilità, nei confronti dei popoli (es. degli extraeuropei) e delle classi (es. degli operai e dei giovani) si prospetta per tutta la Chiesa e per ogni comunità ecclesiale! E come ogni cristiano dovrà allora sentire in proprio, con umiltà ma con perseveranza, questo dovere, di consiglio e di corresponsabilità, dell'aiutare la Chiesa a realizzare una effettiva riconciliazione con il mondo e i suoi valori (di veracità, di lealtà, di giustizia, di solidarietà, di produzione umana); con i popoli e le varie categorie, in particolare con i più umili, i sofferenti, gli emarginati, con tutti quelli che nella società non riescono a farsi sentire, e dovrebbero trovare nella Chiesa non solo la loro casa, ma la loro voce e la loro forza. Un Anno Santo così risulterà allora per tutta la Chiesa e per ciascuno di noi un anno effettivo di grazia.