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    Il continente che non c'è


    Manuel Vásquez Montalbán

    (NPG 1995-06-62)

     

    La geologia non ci aiuta. Dalla cintura in su, l'Europa è un continente vecchio e, dalla cintura in giù, nuovo; ecco perché al Nord non ci sono né terremoti né vulcani e nel Sud abbiamo sempre la strizza in corpo, come se la Terra ci influenzasse con la sua incompiutezza naturale. Si sono già più volte rivisti i confini geografici per riproporre i quattro punti cardinali che si stabiliscono di solito come riferimenti convenzionali. Prima tutto era molto chiaro. Non c'era che una sola verità. Due sessi. Tre piramidi d'Egitto..Quattro punti cardinali e l'Europa confinava a Nord con l'Oceano Glaciale Artico, a Est con gli Urali, a Sud con il Mediterraneo, a Ovest con l'Atlantico. Negli ultimi tempi persino i dizionari enciclopedici ritengono l'Europa una parte di qualcosa chiamata Eurasia, denominazione di notevole merito, perché venne elaborata assai prima che prosperasse l'eclettismo postmoderno.
    Dalla caduta dell'Impero Romano fino alla prima guerra mondiale, l'Europa era la nostalgia di un'unità politico- spirituale (Impero e Chiesa), mai completamente esistita, che tuttavia servì da immaginario per stabilire l'alibi della lotta delle nazioni per l'egemonia. Il povero Carlo Magno è il santo patrono laico dell'europeismo, secondo la retorica ideologizzante che bisognò elaborare negli Anni Cinquanta in quattro e quattr'otto per « spiritual i zzare » l'obiettivo oscenamente materialista della creazione di un mercato, pattuito piuttosto che comune, in grado di eliminare le lotte per l'espansionismo delle Nazioni-Stato con volontà o necessità egemoniche.
    Così come Virgilio risalì fino a Enea, eroe troiano, per nobilitare la stirpe dei fondatori di Roma, gli imprenditori coinvolti nella prima alleanza del Carbone e dell'Acciaio e gli ideatori della prima Europa dei Sei ebbero bisogno di un avallo storico della stazza di un Carlo Magno o di un Carlo V. Addirittura Napoleone venne con frequenza tirato in ballo come precedente con un volontarismo europeista metafisico. Forse verso la fine degli Anni Quaranta e all'inizio dei Cinquanta sarebbe stato opportuno l'insegnamento della necessità dell'Europa, necessità nata dalla paura che si riproducessero le cause delle guerre mondiali e paura dell'espansione del blocco comunista a spese del resto dell'Europa decimata dalle distruzioni. Allora si sarebbe senz'altro plasmato un sincero immaginario europeo, sospeso tra la paura e la speranza, ma si consentì invece che la retorica essenzialista servisse da maschera, mentre si costruiva un'Europa degli Stati mercanti, preludio di un'Europa soltanto dei mercanti (...). Non venne intrapreso uno sforzo culturale serio per creare una coscienza europea.
    I mezzi di comunicazione sono riusciti a malapena a combinare il Festival della Canzone in Eurovisione, nonché a far imparare a memoria ai tifosi di ciascun Paese i nomi dei giocatori di calcio nel campionato tedesco o in quello inglese. Nemmeno il turismo, trasportato soprattutto da un flusso da Nord verso Sud, è servito a creare una coscienza di compaesanità europea. Al contrario, il turista va e torna con i luoghi comuni e i pregiudizi addosso, e in fondo alla coscienza conserva la propria memoria storica e la propria cultura convenzionale come decisive banche-dati con cui giudicare gli altri Stati, nazioni, Paesi, che formano quel che chiamiamo Europa. L'immaginario europeo non ha tratto beneficio dai media o dal turismo, e non lo ha nemmeno cercato in quanto politica di relazione con la gente degli altri Paesi (...).
    Le élites del potere economico, politico e burocratico hanno pattuito una cultura retorica dell'Europa, fomentata da congressi e simposi perfettamente inutili, con la perfezione raggiunta spesso solo dall'inutilità; non si è mai costruito un apparato comune per l'educazione pubblica, né un'industria culturale europea utile a una identificazione. Forse solo l'industria editoriale ha compiuto uno sforzo di scambio culturale, perché, nonostante le sue difficoltà logistiche, continua a essere lo sforzo più a portata di mano. Ma nel campo assai determinante degli audiovisivi, la colonizzazione effettiva dell'Europa o la subalternità di alcune risposte (cinema francese, televisione inglese) hanno impedito che si realizzasse quell'«immaginario europeo» indispensabile affinché l'Europa possa diventare un progetto a cui tutti partecipano.
    Ogni immaginario ha avuto bisogno di una denominazione: Europa dei Mercanti venne ideato da una sinistra che tardò vent'anni ad avere una denominazione alternativa; Europa delle Patrie, di radice gollista, nasconde la paura della castrazione nazionalista; Europa delle Regioni è un eufemismo, utilizzato soprattutto dalle Nazioni europee senza Stato, per questionare il ruolo dello Stato in effetti inesistente; Europa delle Città cerca di opporsi all'Europa dei nazionalismi rimandati, scatenati, se non addirittura di perpetuare, come male minore, l'attuale divisione tra gli Stati; Europa dei Popoli, con un'immediata semantica di sinistra, è diventata una generalizzazione adoperata da tutte le famiglie filologiche.
    Chi può essere contro un'Europa dei Popoli? E tutto questo perché è difficile costruire un immaginario in grado di stimolare le masse e che contenga in sé quasi tutte le verità configuranti il progetto europeo: espansionismo economico interno pattuito, divisione dei ruoli dei diversi sistemi produttivi, difficoltà a rendere omogenei i livelli di sviluppo palesemente disuguali e, in quanto al ruolo dell'Europa, che cosa lo rende diverso da quello che muove gli Stati Uniti, il Giappone o una Csi diventata superpotenza capitalista in lotta per una fetta della torta universale?
    Costruire l'immaginario europeo come un paradiso dello sviluppo fornito dal substrato culturale più diversificato e ricco dell'universo non mi sembra facile in questi momenti di recessione in cui bussano alla porta del brefotrofio dei Dodici gli orfani abbandonati dell'Urss destinati a diventare i domestici venuti dall'Est. L'Europa tende nel profondo a presentare un immaginario nordico e uno meridionale, come già accade in quanto coscienza di spreco in ogni Nazione-Stato, dove ogni Nord comincia a considerare il suo Sud come una zavorra. Per certi versi bisogna di nuovo provare paura per il Mr. Hyde che quest'Europa (intenta a beatificare il dr. Jekyll) si porta dentro. Quanto alle differenze nel rapporto tra l'Europa del fertile Nord e il Sud tanto prossimo, bisogna scegliere tra programmare una battaglia di Lepanto dissuasoria (alla maniera della guerra del Golfo) ogni quattro o cinque anni, oppure progettare una razionalizzazione dei rapporti di dipendenza e di saccheggio in cui si fronteggiano il Nord e il Sud d'Europa. Nell'ultimo caso l'accettazione del meticciato non è meno importante della riduzione della capacità di accumulo, sempre che si riesca a favorire lo sviluppo di coloro che sono, sempre più, i dannati della Terra.
    È quindi necessario un immaginario che ci ricordi tutte le Sarajevo e i Buchenwald che abbiamo nella nostra cattiva coscienza e qual è stato il nostro ruolo imperialista, saccheggiatore e fomentatore di rivincite che nascondiamo nella nostra falsa coscienza. Consapevole delle difficoltà di ogni genere insite nella proposta di un simile tipo di immaginario, che porterebbe alla sconfitta elettorale qualsiasi gruppo politico disposto a inserirlo nel suo programma nonché al fallimento personale chiunque si ostinasse a sostituire gli specchi deformanti con specchi necessari, io temo che continueremo ad autoingannarci con l'inestimabile aiuto del linguaggio. Doppia velocità. Circoli concentrici? E continueremo a rimpiangere quei tempi in cui, costretta a scegliere tra la tentazione dell'Occidente e quella dell'Oriente, l'Europa era una fanciulla in ricostruzione, minacciata da stupratori di ogni genere. Non chiedo, quindi, che la proposta di un'immaginario lucido e per forza solidale venga accettata dai lividi trionfalisti del passato.
    Come in ogni esercizio di coscienza esterna critica, l'avanguardia non pretende tracciare i confini della verità, ma che non ci raccontiamo ancora bugie reciproche. E per cominciare, parafrasando Georges Arnaud nella sua prefazione a Il salario della paura («Il Guatemala non esiste, lo so perché ci ho vissuto»), dobbiamo capire che l'Europa non esiste ancora, e lo sappiamo perché ci viviamo.


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