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    PG a rapporto. Un evento di Congregazione, un evento di Chiesa



    Intervista a d. Fabio Attard SDB *

    (NPG 2011-04-4)


    Dal 3 al 6 febbraio 2011 alla Casa generalizia si è incontrata la Consulta mondiale di pastorale giovanile (il Consigliere e i suoi collaboratori, e un gruppo di esperti teologi, pastoralisti, pedagogisti e operatori di tutto il mondo salesiano) per un «ripensamento della pastorale giovanile» salesiana, in ottemperanza ad una deliberazione del Capitolo Generale 26 e per una revisione-aggiornamento del «Quadro di riferimento fondamentale» (QdR) della pastorale giovanile salesiana che, pubblicato nel 2000, ha costituito la base teorica e la convergenza orientatrice della prassi.
    Al termine delle giornate di studio, abbiamo incontrato d. Fabio Attard per chiedergli il senso e i risultati di questo lavoro, consapevoli che tale esperienza (che è comunque di chiesa) possa interessare anche altri ambienti di riflessione e di azione.

    DOMANDA. La PG salesiana possiede una sua elaborazione teorica approfondita e consolidata nel tempo, frutto di riflessione di vari Capitoli Generali, Rettori Maggiori, centri studio e di buone prassi, che – per certi versi – è all’avanguardia e modello per altri. Cosa c’era che non andava? Quali dunque le ragioni per questo «ripensamento»?

    RISPOSTA. Un grazie sentito per questa opportunità che mi dà anche la possibilità di riflettere meglio su ciò che è avvenuto in questi giorni.
    Prima di tutto, credo che sia importante comprendere queste giornate di studio come un momento collegato strettamente a una esperienza lunga e, speriamo, anche fruttuosa. È un cammino che gode sia di un passato molto positivo, che anche guiderà verso un futuro che continua a vederci vivi a attivi. Dico questo, perché esiste il reale rischio, in questi momenti, di perdere il filo della storia, credendo che stiamo di fronte ad una inedita novità. Non è questo il caso. Siamo in un cammino. E dunque dobbiamo sempre tener presente davanti ai nostri occhi e nelle nostre menti che lo studio e la riflessione camminino con il desiderio di servire sempre meglio i nostri giovani con quel cuore pastorale che ci mostra Don Bosco.
    Ecco, allora, alla prima domanda – cosa non andava? – credo che bisogna dire che non è questo il motivo che ha spinto la Congregazione a proporre il Ripensamento. Chiedere «cosa non andava?» quasi ci indirizza a trovare la colpa, se non addirittura il colpevole. Il Ripensamento non parte dal «cosa non andava?», ma piuttosto dalla constatazione che vivere la vocazione pastorale significa vivere quel contatto con la realtà all’interno della quale rendiamo presente l’amore di Dio per i giovani. Il che vuol dire che il cambio di paradigma esistenziale, il cambio della società e della cultura, del modo di pensare e del modo di interpretare, di comunicare e di trasmettere, tutto influisce sul modo di essere pastori per i giovani oggi.
    Come educatori e pastori non possiamo rimanere indifferenti davanti a tali cambiamenti. Se no, corriamo il rischio di continuare a dire la stessa cosa a gente che non ci capisce più; offrire risposte a domande che non esistono più. E questo sarebbe grave, non solo per noi, ma ancor di più per i giovani, che si troverebbero senza l’accompagnamento e la guida di persone ed esperienze significative.
    La seconda domanda – quali dunque le ragioni per questo ripensamento? – ci porta a dire con chiarezza che le ragioni del ripensamento sono quelle che ci sfidano a rivisitare il nostro modo di essere, il nostro modo di fare. In altre parole il ripensamento ci invita a prendere un po’ di spazio e di distanza, avendo il coraggio di una riflessione sulla nostra vita, come anche sulla nostra azione. Si può anche dire che il ripensamento vorrebbe essere un gesto di quell’intelligenza del cuore che, perché ama, vuole servire in una maniera attuale, piena e vera, connessa con la vita di chi serviamo.
    Infine, credo che sia importante riportare l’invito che ci lancia il nostro ultimo Capitolo Generale 26. È un invito che indica la strada da percorrere, con dei precisi parametri, evitando arbitrarietà o interpretazioni ideologiche: «Il Rettor Maggiore con il suo Consiglio curi, attraverso i Dicasteri competenti, l’approfondimento del rapporto tra evangelizzazione ed educazione, per attualizzare il Sistema preventivo e adeguare il quadro di riferimento della pastorale giovanile alle mutate condizioni culturali» (CG26, n.45).
    Ecco allora «approfondimento» è la parola chiave in relazione al rapporto tra evangelizzazione ed educazione, in relazione ad una applicazione del Sistema preventivo più attuale e viva. E in tutto questo, il QdR, che è lo specchio del patrimonio e della riflessione attualizzata della Congregazione, va reso ancora di più come uno strumento che guida lo sviluppo del cammino che ci aspetta.

    Un necessario cambio di mentalità

    D. Come sempre la PG non passa per i libri, neanche i quadri di riferimento fondamentali, ma attraverso la mentalità: cioè la cultura pastorale (orientata alla prassi) di chi la vive. Anche su questo piano «soggettivo-culturale» e comunitario sono stati avvertiti dei problemi?

    R. Credo che qui entriamo nel cuore della sfida che abbiamo davanti: la cultura pastorale. Giustamente non sono i documenti che cambiano la vita delle persone. I documenti sono uno strumento che suppone un’azione molto più ampia e che arriva a toccare il cuore e la mente delle persone.
    Con questa ottica, direi anche con questa preoccupazione, abbiamo prestato grande attenzione al processo e alle metodologie. L’intenzione ultima non è quella di produrre un documento, anche se questo arriverà a suo tempo e come parte del cammino. Siamo stati molto attenti a quel processo che favorisce e facilita la riflessione del più grande numero possibile di persone. La nostra primaria intenzione è quella di raggiungere chi educa ed evangelizza. Là dove si trova.
    Per questo obiettivo, la prima cosa che ci siamo proposti era quella di organizzare una Consulta mondiale di pastorale giovanile (il Consigliere e i suoi collaboratori, e un gruppo di esperti teologi, pastoralisti, pedagogisti e operatori di tutto il mondo salesiano) per vedere come impostare il cammino partendo da una riflessione teologica e pastorale. E la prima cosa che abbiamo fatto è stata decifrare l’anatomia della sfida: i suoi punti principali, i nodi che vanno rivisitati.
    Durante questo incontro abbiamo proposto due cose: i punti nodali che vanno approfonditi e i soggetti primari che ci accompagnano con la loro riflessione in questa prima parte.
    Abbiamo offerto una griglia di lavoro e la abbiamo mandata ai nostri centri di riflessione, di studio e di pastorale giovanile, insieme ad alcuni esperti in materia, per avere la loro riflessione.
    Questa prima griglia aveva 5 punti nodali: 1. la nostra conoscenza dei giovani e del loro ambiente culturale; 2. il rapporto tra educazione ed evangelizzazione; 3. il soggetto che evangelizza – Salesiano, Co­munità e Comunità Educativa Pastorale (CEP); 4. la centralità di Cristo nella proposta educativa; 5. la conoscenza e la recezione del Quadro di Riferimento.
    Le risposte che abbiamo ricevuto sono state molto utili per avere una prima idea della mappa della Congregazione su questi temi. All’interno del Dicastero abbiamo preparato una sintesi che è stata discussa in un secondo incontro della Consulta mondiale. In più, si è anche programmato il modo di procedere.
    In questa seconda fase si vuole coinvolgere tutta la Congregazione, tutte le comunità.
    Non sarà un lavoro facile, ma possibile. Attualmente stiamo lavorando su un breve schema di lavoro che distribuiamo nella comunità per favorire al loro stesso interno un processo di ripensamento. La nostra proposta è quella che in ogni ispettoria e da ogni ispettoria parta una riflessione, quella chiesta dal CG26, con l’obiettivo di avere una sintesi elaborata in loco.
    Come si può intuire, in questo processo sarà di grande aiuto il ruolo e l’animazione del Delegato della pastorale giovanile ispettoriale. Infatti, negli incontri annuali già stiamo riflettendo e programmando tale processo. Il risultato di tutto questo ci dà l’opportunità di vedere dove stiamo, quali sono le sfide, quali sono i processi che bisogna favorire. Ecco anche qui, allora, le priorità da seguire saranno quelle di vedere il valore del QdR, il suo adeguamento, come dice il CG26, la sua conoscenza e la sua applicazione.
    Il processo proposto vorrebbe affrontare la sfida che incoraggia una cultura pastorale, dove il riflettere e il progettare insieme vanno accompagnati, come è giusto che sia. Da parte del Dicastero, stiamo cercando di seguire questo processo con molta attenzione alle persone, alle loro situazioni culturali diversificate. Finora la reazione e la collaborazione sono state molto positive e incoraggianti.

    Educazione / evangelizzazione

    D. La PG salesiana si qualifica per la compresenza nell’azione pastorale di educazione ed evangelizzazione, come risulta nella storia carismatica di don Bosco e dall’azione storica dei Salesiani. L’obiettivo educativo ormai noto anche sotto forma di slogan «buoni cristiani e onesti cittadini» indica la necessaria compresenza di attenzione all’umano e al «religioso», alla cultura e alla fede; in una parola, di educazione ed evangelizzazione.
    A parte il rischio sempre vivo di dualismi (o solo educare, o solo evangelizzare), la riflessione salesiana ha definito un qualificante rapporto tra i due, anche con una formula significativa: «Educare evangelizzando ed evangelizzare educando». L’avete riaccolta? come viene calibrata? Insomma, quali solo i guadagni dell’educazione e quali quelli dell’evangelizzazione se esse vengono messe in interrelazione? E quale è l’area comune tra le due in maniera che ne risulti un unico processo significativo essendo rivolto verso lo stesso soggetto, il giovane? Non vede molte volte il rischio di una strumentalizzazione… soprattutto dell’educazione (ma allora dove sta l’autonomia» delle scienze umane e della «ragione»?) ma anche talvolta dell’evangelizzazione stessa? Andando sullo specifico: quale antropologia la fede offre all’educazione, sapendo di doversi collocare nel pluralismo e nel conflitto delle interpretazioni? e quale modalità di processo l’educazione offre alla fede perché si dica in maniera «umana»?

    R. Questa domanda multipla richiede molta attenzione. In essa ritorna, non dico l’eterno problema, ma piuttosto la perenne sfida per noi Salesiani, che è anche quella di tutta la Chiesa: il rapporto tra educazione e evangelizzazione. Non è per caso che lo stesso Papa Benedetto XVI sta ponendo tale sfida come una priorità pastorale. Il nostro cammino allora è in sintonia con il cammino della Chiesa universale e, come tale, siamo chiamati ad affrontare il momento presente con tutte le forze che abbiamo.
    Vorrei iniziare richiamando una famosa lettera del Rettor Maggiore don Egidio Viganò sulla nuova educazione (lettera pubblicata in ACG n. 337, Roma, 19 maggio 1991). In questa lettera già troviamo un anticipo del termine ‘emergenza educativa’. Per don Viganò tale termine conduceva ad una analisi, mi pare, molto attuale.
    Egli scrive:
    «L’emergenza del fatto educativo porta con sé almeno due tipi di novità che incidono nel nostro impegno. Da una parte, i valori positivi dei segni dei tempi: rappresentano una vera crescita in umanità. Affermano la centralità dell’uomo, sottolineandone la soggettività (l’autocoscienza, la libertà, il protagonismo). Il giovane si presenta, da questo punto di vista, come il primo attore della sua crescita in quanto è persona cosciente e libera, e quindi capace non solo di assimilare e di ricevere, ma anche di creare e di modificare, formandosi delle proprie convinzioni e credenze. Da un’altra parte, però, questa svolta antropologica è oggi pensata e presentata come una realtà che non ha bisogno di essere rapportata a Cristo perché l’uomo avrebbe in se stesso — prescindendo dal mistero del Verbo incarnato — tutte le ragioni della sua dignità e tutte le capacità per dare senso alla storia».
    Don Viganò coglie davvero l’essenza della sfida, che anche noi oggi ci poniamo, in una maniera ancora più accentuata. Con la stessa attenzione, anche noi oggi siamo obbligati ad interpretare il binomio come una esperienza di inter-relazionalità. Se manchiamo in questo, rimaniamo nella logica delle linee parallele con le sue tragiche conseguenze.
    La sfida per noi Salesiani è quella di riproporre con intelligenza l’esperienza educativa nella sua totalità, come la grande opportunità della evangelizzazione. Non possiamo permetterci che questa svolta antropologica diventi una zona autocefala, cioè una realtà tagliata e separata. In altre parole, mi pare, che in questo stadio della storia umana, di fronte alle sfide della mercificazione del sapere e della illusoria assolutezza della ragione, siamo tutti chiamati ad una duplice conversione: una conversione evangelizzatrice della nostra azione educativa, insieme ad una conversione educativa della nostra proposta evangelizzatrice. Siamo chiamati a recuperare quell’unità interna che per tanti anni abbiamo vissuto in una maniera, direi quasi, naturale, ma che oggi bisogna impegnarci a rendere di nuovo viva e vivificante.
    La soluzione attorno al «come» va proposto e vissuto tutto questo, non si presenta con una formula matematica o meccanica. Qui entra in gioco tutta la nostra comprensione dell’essere persone consacrate: educatori e evangelizzatori. Essere seguaci di Cristo secondo il cuore di Don Bosco, ci chiede di capire una reciprocità che fa parte del nostro patrimonio. Scrive don Viganò nella lettera già citata:
    «La nostra missione di evangelizzatori passa attraverso la scelta educativa… Urge, per noi, essere esperti nella conoscenza dei nuovi valori culturali per promuoverli superando con saggezza la tragedia del dissidio tra Vangelo e cultura, ristabilendo un ponte valido ed ampio tra fatto educativo e fatto pastorale».
    Bisogna dirlo con chiarezza, che la sintesi tra educazione e evangelizzazione si matura in quella scelta personale fondamentale del salesiano educatore e pastore, dove la lettura intima (intus legere) del proprio essere, come persona chiamata a servire i giovani, si esplicita in quel cuore pronto a entrare in sintonia con il cuore di Cristo: e, per conseguenza, con quello dei giovani. È fondamentale non separare mai l’unita tra educazione e evangelizzazione che si matura e diventa vita nel santuario interiore e mistico dell’educatore.
    Possiamo qui richiamare la frase tante volte citata di Don Bosco: «l’educazione è una cosa del cuore». Il punto è che spesso volte lasciamo la seconda parte, che a suo modo amplifica e dà profondità alla prima parte: «l’educazione è cosa del cuore, e Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi».

    Il cuore dell’educatore

    Ecco, allora l’area comune che dobbiamo scoprire, curare e educare: il cuore dell’educatore, inteso nel senso di uno spazio sacro dove, con l’aiuto della grazia di Dio, si maturano le grandi visioni della vita. Quel santuario sacro dove iniziano e si maturano i veri processi, che poi possono essere trasmessi, soltanto perché sono stati assunti.
    In questa logica possiamo parlare di veri testimoni e profeti come li ha intesi Paolo VI nella sua Evangelii nuntiandi quando scrive che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (EN 41).
    In questa visione unitaria si coglie la circolarità del binomio e si supera il pericolo della separazione, che può portare, poi, alla strumentalizzazione – voluta o no. Il pericolo di quest’ultima si verifica nel momento che ci limitiamo a vedere l’educazione solo come merce da consegnare o informazione da distribuire. Cioè, sosteniamo quella svolta antropologica centrata su una nuova acquisita auto-sufficienza, e dove Dio non necessariamente entra!
    Difatti, uno dei nostri costanti pericoli, per esempio nelle nostre scuole, è questo. Sono istituzioni che stanno facendo bene grazie allo sforzo e alla generosità di tanti Salesiani e laici che si dedicano in modo esemplare alla missione salesiana. Però nel momento in cui salta l’unità interna del binomio, allora la nostra proposta educativa prende quella svolta dove il risultato accademico prende il posto di quella esperienza educativa integrale. Finiamo per offrire un prodotto, ma non necessariamente una esperienza educativa; aumentiamo la conoscenza ma non consolidiamo il sapere.
    Una vera educazione che si lascia animare dai valori evangelici, non è mai meno seria o fondata, al contrario. La storia della Chiesa ci offre ampi esempi dove l’anima cristiana non solo non ha impedito lo sviluppo del sapere, ma era la sua forza. Per noi non c’è proprio bisogna di andare lontano: basta guardare le scelte e il cammino del nostro padre e maestro Don Bosco.
    Una parentesi: credo che anche l’attuale dibattito sulla scienza e la fede, l’autonomia della prima e l’urgenza della seconda, sta indicando che la contrapposizione tra le due realtà è un falso problema. Solo nell’equilibrio e nella convergenza si trova la bellezza dell’educazione che si apre al mistero senza vergogna e senza sentirsi inferiore.
    L’ultima battuta della domanda tocca il discorso del modello antropologico. Credo che qui abbiamo una ispirazione unica – il vangelo di Gesù. Il modello antropologico è quello che la fede cristiana ci dona nella «buona notizia». All’interno di questa antropologia abbiamo una visione della persona umana che è chiamata, con amore e nell’amore, amore che è agape, per essere partner di Dio. È una chiamata fatta nella persona di Gesù con la forza dello Spirito.
    È una antropologia, questa, dove Dio è al centro, non perché prenda il posto della persona, ma perché glielo prepari. L’antropologia della fede cristiana è una antropologia che mette l’uomo, ‘maschio e femmina li creò’ (Gen 1,27), al centro della preoccupazione di Dio. È una antropologia teo-centrica. E guai se così non fosse, perché l’alternativa a questa sarà una antropologia che considera, si, Dio ma soltanto come una parte della res, e non come suo creatore, redentore e santificatore. Una antropologia che non ha una chiara fondazione nel Dio trinitario, finisce per essere un modello antropo-centrico.
    E si ritorna al punto dal quale siamo partiti – una svolta antropologica «pensata e presentata come una realtà che non ha bisogno di essere rapportata a Cristo perché l’uomo avrebbe in se stesso – prescindendo dal mistero del Verbo incarnato – tutte le ragioni della sua dignità e tutte le capacità per dare senso alla storia» (d. Viganò).
    Il pluralismo segna la situazione dove siamo chiamati a testimoniare.
    È una sua dimensione, ma in se stesso non è una fonte di valori. Il pluralismo è una dimensione culturale e, come tutte le dimensioni culturali, va colto nella sua verità, ma mai interpretato come un assoluto. Il pluralismo ci invita a riflettere considerandolo come un elemento essenziale del nostro tempo e della nostra storia; ma mai a subirlo, in quanto rimane sempre una realtà fluida. Dobbiamo fare i conti con il pluralismo e il conflitto delle interpretazioni in una maniera sana e serena, nella misura in cui noi siamo radicati in quella antropologia che coglie l’antropologico come espressione del sacro e anche sua opportunità.
    In questo cammino la chiamata alla condivisione della fede si ispira a quel paradigma educativo che troviamo la sera della risurrezione del Signore – il cammino di Emmaus. Gesù «educa alla fede» in una maniera pienamente «umana». L’ascolto e l’accompagnamento, la pazienza e l’empatia conducono in una maniera semplice e profonda all’accoglienza di quello straniero, della sua parola e poi della sua persona. Una accoglienza frutto della carità dei due disperati discepoli. Una carità che finisce per rafforzare la ricerca umana in una fede: e una volta trovata, va condivisa, anche nel buio della notte!

    Processi e metodologie

    D. In questa ricomprensione della relazione tra i due processi fondamentali di educazione ed evangelizzazione, come vengono allora riformulate le mete e gli obiettivi, i processi educativi, il sistema della verifica e la stessa modalità di essere degli educatori?

    R. Questa domanda tocca la sfera metodologica, certamente non meno importante dei «contenuti». La formulazione degli obiettivi segue una focalizzazione sempre più attenta ai contenuti come li abbiamo commentati, in primis, la dimensione evangelizzatrice. Con quest’ultima, si presenta tutto il discorso di una proposta centrata attorno (1) al mistero di Cristo, che porta (2) alla celebrazione dello stesso mistero, per (3) diventarne poi suoi trasmettitori. Tutto questo processo chiede che l’evangelizzazione non sia semplicemente una dimensione come le altre, una in più o una in meno.
    Attorno a questa focalizzazione bisogna formulare cammini che, da una parte, rispettano la situazione dei giovani che serviamo, ma dall’altra non indeboliscono la meta: quella di portare Cristo giovani. Il CG26, al n.25, commenta così tale sfida:
    «l’evangelizzazione richiede di salvaguardare insieme l’integralità dell’annuncio e la gradualità della proposta. Don Bosco assunse questa doppia attenzione per poter proporre a tutti i giovani una profonda esperienza di Dio, tenendo conto della loro situazione concreta».
    Quella che nella domanda è chiamata ‘ricomprensione’, è piuttosto una ‘esigenza’ che va assunta dalla riflessione, per poter a sua volta illuminare e guidare l’azione pastorale. Troviamo nella stesso n. 25 del CG26:
    «nella tradizione salesiana abbiamo espresso tale rapporto in modi diversi: ad esempio ‘onesti cittadini e buoni cristiani’ oppure ‘evangelizzare educando ed educare evangelizzando’. Avvertiamo l’esigenza di proseguire la riflessione su questo delicato rapporto. In ogni caso siamo convinti che l’evangelizzazione propone all’educazione un modello di umanità pienamente riuscita e che l’educazione, quando giunge a toccare il cuore dei giovani e sviluppa il senso religioso della vita, favorisce e accompagna il processo di evangelizzazione».
    I processi seguono questa traiettoria, attenta al contenuto come anche al vissuto, un equilibrio che è stato sempre richiesto nella nostra tradizione. Credo che qui le parole di Papa Benedetto XVI al CG26 sono puntuali: «senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura» (Benedetto XVI, Lettera a don Pascual Chávez Vil­la­nueva, Rettor Maggiore dei Salesiani, in occasione del Capitolo generale XXVI, 1 marzo 2008, n. 4).
    Allora, sono veri quei processi che si fondano su una proposta evangelizzatrice solida, che, a sua volta, favorisce una vera crescita e maturazione umana integrale. Processi che sono accompagnati da «un cambio di mentalità e di cultura». Tali sono i punti di verifica e allo stesso tempo i parametri che segnano la modalità di essere degli educatori.

    D. Per questo lavoro avete utilizzato una metodologia nuova, come si vede almeno dalla presenza di diverse discipline, di persone della teoria e della prassi, di provenienza da diversi contesti culturali. Come è possibile lavorare insieme e trovare linee di accordo?

    R. Mi fa piacere che si colga questo aspetto. Non è una scelta funzionale, neppure una scelta intenzionata ad accontentare tutti. Al contrario, credo che sia una scelta che invita a vedere come l’azione pastorale non può mai essere disgiunta da una comprensione teologica. Quella che possiamo chiamare teoria, alcune volte interpretandola quasi come una scelta inutile, non è altro che la fondazione della nostra identità. La cosiddetta «teoria» non è l’antitesi della prassi.
    La teoria va capita come quella conoscenza del mistero – mysterium – all’interno del quale va scritta e vissuta la prassi. Quando la prassi nasce fuori dalla comprensione del mistero di Dio fatto uomo per noi, allora la sua radice e il suo humus saranno le nostre idee, le nostre concezioni, le nostre ideologie.
    Lavorare in questa linea ci ha obbligato a mettere le basi per quel necessario sano equilibrio che sarà indispensabile per il rapporto tra educazione ed evangelizzazione. Di qui comincia tutto. Allora anche il discorso culturale, quello del pluralismo, trova la sua giusta collocazione senza sbilanciare la proposta pastorale.
    Le linee d’accordo le abbiamo trovate subito, perché siamo partiti da ciò che ci unisce – il vissuto della fede in Gesù – e da ciò che ci contraddistingue carismaticamente – il nostro padre e maestro Don Bosco. Non c’era da fare una ricerca intellettuale per trovare queste linee d’accordo.
    Il tutto sembra facile, e in effetti lo è, stando al fatto che ci siamo trovati tutti alla fonte, e non alle confuse periferie del pensiero passeggero.

    Il coinvolgimento di tutti

    D. Come procederete adesso e come sarà il coinvolgimento delle comunità e dei salesiani stessi? E come tutto questo si tradurrà nel cambiamento di mentalità e nell’atto pastorale?

    R. Qui comincia il bello, come si suol dire! A questo punto la riflessione fatta va presentata al Rettor Maggiore e al suo Consiglio con alcune linee di azione molto semplici. Si suggerisce di coinvolgere tutte le comunità a fare una lettura della loro azione pastorale secondo alcune linee che saranno offerte loro. Si spera che ogni ispettoria faccia una sintesi che sarà presentata al Dicastero di pastorale giovanile. E si vedranno poi quali potranno essere i passi da compiere per «adeguare il quadro di riferimento della pastorale giovanile alle mutate condizioni culturali» (CG26, n.45). Tale fase poi ci chiederà ancora un processo di socializzazione e conoscenza che rafforza la riflessione stessa effettuata nelle comunità e nelle ispettorie.
    Il cambio di una mentalità pastorale non passa attraverso la pubblicazione di documenti. Ma quest’ultimi sono strumenti necessari e indispensabili in quel processo continuo e accessibile che facilita la lettura della storia dei giovani e propone una azione pastorale che sia in sintonia con le sfide attuali.
    Vorrei concludere con le parole del CG26:
    «Fin dal primo momento, l’educazione deve prendere ispirazione dal Vangelo e l’evangelizzazione deve adattarsi alla condizione evolutiva del giovane… Consapevoli che siamo chiamati a educare ed evangelizzare anche mentalità, linguaggi, costumi ed istituzioni, ci impegniamo a promuovere il dialogo tra fede, cultura e religioni; ciò aiuterà a illuminare con il Vangelo le grandi sfide poste alla persona umana e alla società dai cambiamenti epocali e a trasformare il mondo con il lievito del Regno».
    Le sottolineature in corsivo colgono bene il bisogno continuo della riflessione sul vissuto che dobbiamo sostenere, come anche l’urgenza della contemplazione del mysterium che siamo chiamati a vivere e testimoniare.

    * Consigliere generale per la pastorale giovanile


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