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    Il lavoro

    nella Bibbia

    Jean-Louis Ska

     lavoratoribibbia

    Questo studio potrebbe intitolarsi: «Lavoro, servitù o servizio?». Spiego subito il perché di questo titolo. Nella Bibbia, nell'Antico come nel Nuovo Testamento, il lavoro viene presentato come possibilità per la persona umana di rendere servizio oppure dí sottostare a una condizione di schiavitù. La forma più alta del lavoro, nella Bibbia è il «servizio»; la forma degradata è la schiavitù.
    Vorrei partire da un aneddoto per illustrare questo fatto. Anni fa sono andato in Grecia e ho visitato ad Atene il grande museo nazionale. All'entrata, come in tutti i musei del mondo, si trova la scritta con l'orario di apertura. L'iscrizione era in inglese per gli stranieri e in greco per gli abitanti della Grecia. In inglese, si leggeva: visiting hours, cioè «ore di visita». In greco moderno, si leggeva: orès leitourgias, cioè «ore di lavoro», «ore di servizio». In greco antico come in greco moderno, la parola per «servizio» è «leitourgia», che in italiano è diventata la parola «liturgia». Così, in greco, la stessa parola può designare il lavoro normale e il servizio di Dio. Se passiamo all'ebraico, troviamo una radice (`bd) che significa «servizio», «lavoro», ma anche «servitù», «schiavitù», oppure, all'opposto, «liturgia», cioè «servizio» di Dio, «servizio liturgico». Questa radice copre un vasto campo semantico; viene infatti adoperata per descrivere il «servizio» dello schiavo, del servitore o dell'ufficiale di un re, di un ministro, o di un'assemblea liturgica. La vasta gamma di significati di queste parole in greco e in ebraico corrisponde alla polivalenza, ma anche all'ambiguità del concetto di «lavoro» nel mondo biblico.
    Vorrei evidenziare questo fenomeno in alcuni brani emblematici dell'Antico Testamento, in Gen 2-3, poi nell'Esodo e nel libro del Deuteronomio. Infine, leggerò qualche parabola per completare l'indagine e cogliere lo spirito del «lavoro» nel Nuovo Testamento.

    1. LAVORO NEL PARADISO TERRESTRE?

    Inizio il percorso con Gen 2. In merito a questo testo, vorrei dissipare un malinteso. Nel nostro immaginario cristiano associamo spesso il lavoro alle prime conseguenze del peccato originale, come se prima del peccato originale non si dovesse lavorare. È molto comune pensare che Dío, quando creò Adamo ed Eva, li abbia posti in un giardino che era una specie di paese di cuccagna. Adamo ed Eva erano coricati sotto gli alberi a dormire e quando avevano fame i pomodori più maturi cadevano nella loro bocca, forse con un po' di sale, un po' di pepe, un po' di olio e un po' di aceto. Dopo la colpa invece i nostri progenitori sono stati scacciati dal paradiso e siccome fuori del paradiso la terra non era così fertile come nel paradiso, uno dei castighi dell'uomo fu il lavoro. Tuttavia, a mio parere, in questa rappresentazione si mescolano elementi della Bibbia con elementi della mitologia. Se invece leggiamo attentamente il racconto della creazione in Genesi 2, incontriamo questa frase:

    «Il Signore Dio prese l'uomo e lo depose nel Giardino dell'Eden, perché lo lavorasse e lo custodisse» (v. 15).

    Questo accade prima del peccato; è una decisione divina che segue immediatamente la creazione dell'uomo e del giardino. Il primo essere umano nel giardino ha due compiti: la custodia e il lavoro del giardino. Alcuni esegeti vanno più lontano e traducono «perché lo servisse [cioè il giardino] e lo custodisse», poiché il verbo che noi traduciamo con «lavorare» significa anche «servire». Questa traduzione corrisponde abbastanza bene alla mentalità ecologica odierna: l'uomo è al servizio del giardino, cioè della natura creata da Dio.
    A mio parere, però, questa traduzione non si giustifica interamente perché sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento il servizio è sempre personale, è il servizio di qualcuno, non di qualcosa. Si tratta pertanto in Gen 2,15 del lavoro del giardino. Questo fatto permette di trarre una prima conseguenza importante per la nostra riflessione: il lavoro esisteva già prima del peccato. La sola cosa importante che cambia con il peccato è il carattere difficile, penoso, fastidioso e alienante del lavoro. Pertanto il lavoro non è un castigo di per sé, né fa parte delle conseguenze del peccato; fa piuttosto parte della dignità della creatura di Dio.

    2. DALLA SERVITÙ AL SERVIZIO: L'ESPERIENZA DELL'ESODO NELL'ANTICO TESTAMENTO

    a. La schiavitù in Egitto

    Quando passiamo al libro dell'Esodo, vediamo come il lavoro può essere degradato e sfruttato. Il lavoro d'Israele in Egitto era una servitù. JHWH poi libera il suo popolo e lo fa passare dalla servitù al servizio. L'esperienza dell'esodo descrive molto bene qual è la differenza fra l'uno e l'altro. All'inizio del libro dell'Esodo Israele si trova in Egitto, si moltiplica e diventa molto numeroso. Allora il faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe, s'impaurisce, decide di ridurre Israele in servitù e così di impedire al popolo di moltiplicarsi troppo. Il faraone ha paura del popolo e la radice della sua tirannia è proprio questa paura. Se avesse conosciuto Giuseppe non avrebbe avuto paura del popolo e non avrebbe preso queste misure. Questo appare chiaramente nel testo di Es 1,8-12:

    «Dice il faraone: "Ecco il popolo dei figli d'Israele è più grande, più forte di noi, comportiamoci saggiamente con lui, troviamo un modo perché non si moltiplichi e se ci sarà una guerra non si aggiunga anch'esso a chi ci odia e combatta contro di noi e poi se ne vada dal paese". Imposero loro perciò i sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro pesi e fecero loro costruire città-magazzini per il faraone Pitom e Ramses, ma più li opprimevano più si moltiplicava e straripava ed ebbero paura dei figli d'Israele».

    «Ebbero paura»: cosi si traduce normalmente, però l'ebraico ha una parola più forte: «furono disgustati», come se il popolo d'Israele fosse diventato per loro un incubo.

    «Allora – continua il testo – l'Egitto sottopose i figli d'Israele ad un lavoro massacrante, amareggiavano la loro vita con un duro lavoro per fare argilla e mattoni, con ogni genere di lavoro nei campi, ogni specie di lavoro massacrante con cui li fecero lavorare» (vv. 13-14).

    La traduzione è molto letterale: la radice «lavorare»/«lavoro» viene ripetuta cinque volte in questi pochi versetti; il testo gioca sulla radice 'abad / 'abodâ per dire che questo lavoro non era «servizio», ma «servitù», «schiavitù».
    Ora qual è la differenza tra il lavoro e la servitù? Per rispondere alla domanda occorre leggere il c. 5 dell'Esodo. Questo capitolo presenta la prima missione di Mosè e il suo fallimento. Mosè chiede al sovrano egiziano di liberare gli israeliti. Quest'ultimo rifiuta e decide invece di aumentare il loro lavoro. Concretamente, non sarà più data loro la paglia per fabbricare i mattoni, ma dovranno cercarsela loro stessi; nondimeno dovranno fornire la stessa quantità di mattoni. In questo brano possiamo rilevare tre caratteristiche della schiavitù:
    (a) Il fatto che la persona viene sottomessa al lavoro come tale e non ha più alcuna libertà; in altre parole, non può più decidere da se stessa cosa intraprendere, ma decide un altro quel che si deve fare.
    (b) La schiavitù elimina la creatività, perché tutto viene determinato da chi ha ordinato il lavoro.
    (c) Infine, ed è un punto molto importante: il lavoratore viene sottoposto a delle norme «matematiche», cioè il numero prestabilito di mattoni conta più della persona. Questa è la schiavitù quale la descrive in termini concreti il libro dell'Esodo.

    b. La liberazione

    Come reagisce Dio? Prima di tutto egli ha pietà del suo popolo e la sua risposta, una risposta concreta come tutte le risposte di Dio, è Mosè. Dio sente il grido del suo popolo, che soffre in Egitto e manda Mosè.
    Ora vorrei soffermarmi su un testo, forse meno conosciuto di altri, che si trova al c. 6 del libro dell'Esodo, vv. 2-8. Questo testo viene spesso chiamato «secondo racconto della vocazione di Mosè» o «conferma della vocazione di Mosè dopo il fallimento della sua prima missione» (c. 5). Questo breve testo appartiene al racconto sacerdotale, che fu scritto alla fine dell'esilio, se non dopo l'esilio (VI-V sec. a.C.). In quest'oracolo, Dio promette a Israele la libertà. Ecco il testo:

    «Io sono il Signore! Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio onnipotente, ma il nome del Signore non l'ho fatto loro conoscere; ho anche stabilito la mia alleanza con loro, per dare ad essi la terra di Canaan, la terra delle loro migrazioni. Ho udito il lamento dei figli d'Israele che gli egiziani hanno resi schiavi e mi sono ricordato della mia alleanza. Perciò di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore! Vi farò uscire dalle fatiche dell'Egitto. Vi libererò dalla loro servitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò per me come mio popolo e sarò per voi Dio e saprete che Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalle fatiche d'Egitto. Vi ricondurrò alla terra per la quale ho alzato la mia mano giurando di darla ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe e ve la darò in eredità. Io sono il Signore!"» (Es 6,2-8).

    È un testo molto ricco di cui alcuni aspetti riguardano specialmente la nostra tematica del lavoro. Il Dio d'Israele si rivela qui come Dio della libertà e della liberazione; Dio lega strettamente l'esperienza di liberazione con la rivelazione del suo nome: «Io sono il Signore» (JHWH). Questa breve formula viene ripetuta all'inizio, in mezzo e alla fine del brano. Dio rivela così il contenuto del suo proprio nome, cioè «il Signore» (JHWH). Qual è il suo contenuto? È l'esperienza di un Dio fedele alla sua alleanza e che libera Israele: questo è il nome del Signore; Signore significa liberatore d'Israele. In altre parole, il contenuto del nome di Dio è la storia della liberazione d'Israele.
    Per quale motivo il Signore vuol liberare il suo popolo? Alcuni elementi del testo nascondono in realtà una profonda riflessione sui rapporti che uniscono Dio al suo popolo. Israele è per ora un popolo di schiavi. Per l'Antico Testamento e per tutto il Medioriente antico uno schiavo non è una persona, è piuttosto una non persona che non ha vera e propria esistenza. Per la Bibbia la persona è persona libera; se la persona non è libera, è una cosa. Perciò la descrizione della liberazione d'Israele non significa un semplice passaggio dalla non libertà della schiavitù alla libertà. Significa piuttosto che Israele passa dalla non esistenza all'esistenza. Questo passaggio viene descritto tappa per tappa. «Vi farò uscire dalle fatiche dell'Egitto», dice Dio (6,6). «Far uscire», quando si tratta di uno schiavo, come in questo caso, significa «liberare», «affrancare» lo schiavo. «Vi farò uscire dalle fatiche dell'Egitto» significa quindi «vi affranco, vi rendo la vostra libertà». Dio prosegue:

    «Vi libererò dalla loro servitù e vi riscatterò con braccio teso e grandi castighi» (6,6).

    Il verbo ga'al, «riscattare», che troviamo qui, è un verbo ben noto. Lo ritroviamo anche nel Nuovo Testamento, e significa che Dio compie il dovere del parente stretto, quello di un go'el, cioè di «redentore». Nella storia di Rut, Booz, allorché «riscatta» il campo di Noemi e sposa Rut, è «redentore» di Noemi. Nel secondo Isaia, Dio è il redentore d'Israele: «sono Io il tuo redentore, Israele» (Is 41,14).
    Qual è il compito del redentore, il parente più stretto o parente prossimo? Doveva intervenire quando la famiglia era in pericolo. Per esempio, quando un membro della famiglia doveva, a causa dei suoi debiti, vendere una parte o la totalità della sua proprietà terriera. In questo caso, il parente più stretto che aveva i mezzi doveva «riscattare» o «redimere» il terreno, cioè comprarlo di nuovo affinché il terreno rimanesse all'interno della famiglia (vedi Lv 25,23-31).
    Un altro esempio, più importante perché descrive una situazione affine a quella del nostro testo, si verificava quando qualcuno in Israele doveva vendere se stesso come schiavo per poter pagare i debiti. Anche lì il parente più stretto doveva intervenire e riscattare il membro della famiglia, affinché rimanesse libero (vedi Lv 25,35-55).
    Nel testo di Es 6,6, Dio si considerava come il parente più stretto d'Israele, perché aveva concluso un'alleanza con i patriarchi. In virtù di questa «alleanza», Dio agisce pertanto come il parente più stretto d'Israele e decide di liberare il suo popolo dalla schiavitù. Es 6,6 descrive quindi la prima tappa della liberazione d'Israele, cioè l'uscita dall'Egitto.
    In Es 6,7 il testo introduce l'elemento seguente:

    «Vi prenderò per me come popolo e sarò per voi Dio e saprete che Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dalle fatiche d'Egitto».

    Troviamo la formula qui adoperata parecchie volte nell'Antico Testamento per descrivere la conclusione di un matrimonio: a questo punto, Dio e Israele entrano in una relazione analoga a quella di marito e moglie e fondano una nuova famiglia. Questo linguaggio del racconto sacerdotale è affine a quello usato in alcuni passi del libro del profeta Osea (Os 2), in alcuni testi di Geremia (Ger 2,1; 11,15) e di Ezechiele (Ez 16). Per Es 6,7, tuttavia, questo «matrimonio» fra JHWH e il suo popolo è stato concluso ai piedi del monte Sinai, durante la permanenza d'Israele nel deserto. Si tratta della seconda tappa importante della storia d'Israele come popolo, dopo l'uscita dall'Egitto (6,6).
    Il v. 8 conclude, infine, il nostro oracolo con queste parole:

    «Vi condurrò alla terra per la quale ho alzato la mia mano giurando di darla ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe e ve la darò in eredità».

    Questo versetto contiene la promessa divina di far entrare il popolo nella terra promessa ai patriarchi con giuramento solenne. Si tratta della terza e ultima tappa di questa storia d'Israele come popolo. Il linguaggio di questo v. 8, nella sua semplicità, ha delle forti connotazioni giuridiche perché usa nuovamente una terminologia di tipo matrimoniale. Alcuni testi (p.e. il matrimonio di Isacco in Gen 24,67; vedi anche Dt 21,12) lasciavano capire che l'ultimo atto del matrimonio era di fare entrare la sposa nella casa; in questo modo il matrimonio viene concluso. In Es 6,8, Dio non soltanto prende Israele come suo popolo, ma lo fa entrare nella casa che gli ha preparato, cioè la terra promessa.
    Questi versetti riassumono in poche parole tutto l'itinerario del popolo dalla schiavitù fino alla terra promessa. In termini giuridici, si passa da un rapporto padrone-schiavo, quello che legava Israele al faraone, a un rapporto in cui Dio è lo sposo d'Israele. Tuttavia, occorre precisare che il passaggio dall'Egitto al deserto non è un passaggio da un faraone a un altro faraone, da un padrone a un altro padrone, cioè un cambiamento in cui cambierebbe soltanto il nome del padrone. Al contrario, il tipo di rapporto cambia completamente: Israele non è più schiavo, è libero, perché è membro della famiglia di JHWH.
    Queste idee vengono riecheggiate da alcuni testi del Nuovo Testamento, per esempio dal Vangelo di Giovanni (8,32): «la verità vi rende liberi»; «se il Figlio vi libera, sarete davvero liberi». Possiamo anche citare la Lettera di s. Paolo ai Romani:

    «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura; avete ricevuto uno spirito da figli adottivi che ci fa gridare: "Abbà, Padre!" Lo spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio; figli e dunque eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo se soffriamo con lui per essere anche glorificati con lui» (Rm 8,15-17).

    E la Lettera agli Efesini va nello stesso senso:

    «Non siete più né stranieri né ospiti; siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).

    Questa spiritualità della figliolanza nel Nuovo Testamento ha le sue radici nell'esperienza dell'esodo.
    Quali sono le conseguenze di questo fatto per il «lavoro»? Tre testi permetteranno di evidenziare aspetti complementari del lavoro nella nuova situazione d'Israele come popolo libero.

    c. Il lavoro di un popolo libero

    Lavoro e riposo: il decalogo

    Nel primo testo, il decalogo, il segno della nuova condizione d'Israele è il sabato. Prendo il testo di Deuteronomio 5. [1] Nel libro del Deuteronomio (5,12-16), il sabato viene collegato direttamente con l'esperienza dell'esodo. Israele deve ricordarsi del sabato e osservarlo perché Dio lo ha liberato. Cosa significa? La risposta è semplice: uno schiavo non può decidere quando iniziare o finire il lavoro perché lavora sette giorni su sette, cioè finché vuole il padrone. Il conflitto fra Mosè e il faraone sorge da questa situazione. Gli israeliti volevano andare nel deserto a celebrare il loro Dio. Il faraone invece diceva: «Voi siete pigri, perciò volete andare a celebrare una festa nel deserto; no, dovete lavorare» (cf. Es 5,8). Dopo l'uscita dall'Egitto, invece, ogni membro d'Israele ha il diritto di riposare un giorno alla settimana: il padre, la madre, i figli, i servi e le serve e persino l'asino e il bue. Nessuno in Israele può contestare questo diritto, perché è stato stabilito da Dio stesso, il solo e unico vero sovrano d'Israele. JHWH ha dato la libertà al suo popolo, nessun altro. Il riposo del sabato, pertanto, è un diritto «divino» e assoluto.

    «Lavoro» e «servizio liturgico»: Es 35

    Prendo il secondo testo dal c. 35 del libro dell'Esodo. Per questo brano, la forma più bella del lavoro è il «servizio» liturgico e il primo grande «lavoro» compiuto nel deserto è la costruzione della tenda. Ricordiamoci che si usa la stessa parola per «servizio liturgico» e «lavoro». Questo «servizio liturgico» ha tre caratteristiche fondamentali: è un lavoro libero, gratuito e creativo.

    1. Il primo aspetto è la libertà. Questo risulta dal discorso in cui Mosè riferisce a Israele gli ordini di Dio a proposito del santuario:

    «Ecco cosa ha ordinato il Signore: "Prelevate su quanto possedete un contributo per il Signore. Quanti hanno cuore generoso [o: quanti sono spinti dal loro cuore], portino questo contributo volontario per il Signore: oro, argento e rame..."» (35,4-5).

    Ai vv. 20-22 troviamo la descrizione di ciò che i figli d'Israele hanno fatto:

    «Tutta la comunità dei figli d'Israele uscì dalla presenza di Mosè, poi vennero, ognuno portato dal proprio cuore, ognuno spinto dal proprio spirito, e portarono l'offerta al Signore per l'opera della tenda del convegno, per tutto il suo servizio e per le vesti sacre. Vennero gli uomini con le donne, chiunque era spinto dal cuore e portarono fermagli, pendenti, anelli, collane...»

    e così via; conclude il testo usando, ancora una volta, lo stesso vocabolario, v. 29:

    Ogni uomo e donna spinti dal proprio cuore a portare qualcosa per l'opera che il Signore aveva ordinato di fare per mezzo di Mosè, la portarono: portarono la loro offerta volontaria al Signore».

    Il testo insiste moltissimo sul fatto che il «servizio» sia un lavoro completamente libero; lo fa chi è «spinto dal proprio cuore», perché non vi è nessun obbligo. Nella schiavitù, al contrario, nessuno poteva decidere del proprio lavoro, poiché tutto veniva deciso da un altro. Questo è il primo elemento fondamentale sottolineato da Es 35: se la schiavitù è alienazione della libertà, il servizio liturgico invece è l'esempio emblematico del lavoro libero e spontaneo.

    2. Un secondo elemento viene evidenziato dal nostro testo: il «servizio liturgico» è lavoro gratuito, frutto di un dono generoso. Il testo non parla di qualsiasi forma di salario: il «servizio» prestato è per sé la propria ricompensa. Sebbene il testo descriva una situazione ideale, rivela nondimeno che il solo vero salario per il lavoro non dovrebbe essere una remunerazione differente dal lavoro stesso o dall'opera compiuta. Si lavora anzitutto perché il lavoro ha valore in se stesso e per la gioia che nasce dalle opere compiute. Questa dovrebbe essere la prima e la più profonda motivazione del lavoro.

    3. Il terzo elemento importante del «servizio» in Es 35 è la creatività:

    «Mosè disse ai figli d'Israele: "Vedete, il Signore ha chiamato per nome Bezaleel, il figlio di Uri, il figlio di Cur, della tribù di Giuda. Lo Spirito di Dio lo ha riempito di sapienza, intelligenza, scienza per ogni opera, per progettare artisticamente ed eseguire in oro, argento e rame, per scolpire la pietra da incastonare, per intagliare il legno per fare ogni opera d'arte; ha posto nel suo cuore la facoltà di insegnare, in lui e in Oolia figlio di Achisamach della tribù di Dan"» (vv. 30-34).

    Questi artisti sono capaci non soltanto di fare, ma in più sono capaci di insegnare a fare. Questo è dono dello Spirito. Nella Bibbia i primi sapienti sono proprio gli artisti o gli artigiani (nel contesto di Es 35, non vi è alcuna differenza fra artista e artigiano), cioè coloro che sono capaci di lavorare l'oro, l'argento, i metalli e il legno, e capaci di disegnare, intagliare, scolpire o ricamare. Tutti gli artigiani sono uomini che possiedono lo spirito di sapienza, lo Spirito di Dio. Queste parole esaltano il lavoro manuale degli artigiani, poiché esso trova la sua ultima origine nello Spirito di Dio. La saggezza e l'intelligenza degli artigiani è una partecipazione allo Spirito del Dio creatore che rende capace di «fare», cioè di «creare» opere artistiche.
    In pochi versetti, Es 35 riassume pertanto l'essenza del lavoro per il popolo di Dio: il lavoro è servizio libero, gratuito e creativo. Sotto questi aspetti, la costruzione della tenda è esattamente l'opposto del lavoro d'Israele in Egitto. Il lavoro, adesso, è liturgia e servizio di Dio.
    Si potrebbe però obiettare che nella nostra esperienza il lavoro è lungi dall'essere libero, gratuito e creativo. Vi è una grande distanza fra la liturgia e la monotonia del lavoro in fabbrica o del lavoro della casalinga. Inoltre le necessità economiche della vita quotidiana non permettono facilmente al lavoro di corrispondere a questo ideale biblico. Però, il testo biblico è emblematico. Le modalità di questo lavoro sono pertanto le modalità di ogni lavoro per Israele, popolo liberato dalla schiavitù. Senza poter dare un'argomentazione completa, direi che idealmente la vita secondo la Bibbia è un «esodo», cioè un passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla servitù al servizio e quindi dal lavoro sperimentato come alienazione al lavoro sperimentato come compimento. La «liturgia» rappresenta in questo contesto l'ideale da raggiungere ed è, allo stesso tempo, il fermento che trasforma a poco a poco il mondo del lavoro.
    Peraltro, la «liturgia» o «servizio del Signore» può difficilmente limitarsi alle poche ore dedicate espressamente al culto. Se JHWH, il Signore, è adesso il solo sovrano del popolo d'Israele, questo popolo non può servire altri dèi o altri «padroni». Tutta la vita diventa un «servizio del Signore».
    Infine, il tempio, come ricorda san Paolo, non è una costruzione di pietra, ma la comunità stessa (1Cor 3,16; 6,19; cf. Ef 2,20-22). Se capiamo bene il significato profondo di questa idea, il «servizio del Signore» diventa quindi la «costruzione» della comunità cristiana. Ogni lavoro dovrebbe idealmente poter contribuire alla costruzione di un mondo più fraterno, secondo lo spirito del vangelo. Questo è, in fin dei conti, il vero e proprio «servizio del Signore».

    Il lavoro nella terra promessa: Dt 8

    Il terzo testo, Dt 8, descrive un'ultima fase dell'itinerario d'Israele. Israele è stato schiavo in Egitto, poi è uscito dall'Egitto ed è arrivato nel deserto; nella sua nuova condizione di popolo di Dio, Israele vive in un rapporto sponsale con JHWH, il suo Dio. Ora dobbiamo vedere come dovrà comportarsi nella terra promessa. Il c. 8 del Deuteronomio è ben conosciuto, perché viene citato da Gesù nelle tentazioni raccontate da Matteo e Luca: «L'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3; cf. Mt 4,4; Lc 4,4). Il testo di Dt 8 contiene tre parti. Prima, descrive l'esperienza del deserto (8,1-6); poi si proietta nel futuro della terra promessa (8,7-18); infine conclude spiegando che cosa accadrà se Israele non è fedele al suo Dio (8,19-20).
    Tutto il brano potrebbe riassumersi nelle parole «ricordati» e «non dimenticare». Israele è ormai libero, ma potrebbe essere tentato di dimenticare il suo Dio. Il pericolo, in questo caso, sarebbe di ricadere nella schiavitù. Come? Leggiamo alcuni vv. di Dt 8:

    «[Nel deserto, il Signore] ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, ti ha fatto mangiare la manna che tu non conoscevi, che non conoscevano i tuoi padri, per insegnarti che non di solo pane vive l'uomo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio, vive l'uomo. Il tuo mantello non si è logorato e non si sono gonfiati i tuoi piedi in questi quarant'anni. Riconosci dunque, nel tuo cuore che come un padre corregge il figlio, così il Signore tuo Dio ti corregge» (vv. 3-5).

    Ricompare il linguaggio della famiglia; in Dt 8, tuttavia, non si tratta più del matrimonio, ma del rapporto fra padre e figlio. Continua il testo:

    «Osserva i comandamenti del Signore, perché il Signore sta per farti entrare nella terra buona, terra di torrenti, di fonti di abissi che sgorgano nelle valli dalla montagna; terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi, di melograni, terra di oliveti, di miele, terra dove non mangerai il pane nella miseria, dove non ti mancherà nulla, terra le cui pietre sono di ferro e dalle cui montagne estrarrai il rame. Mangerai, sarai sazio e benedirai il Signore tuo Dio per la buona terra che ti ha donato» (vv. 6-10).

    In confronto con il deserto, la terra promessa appare come un vero paese di cuccagna dove non manca niente. E pertanto il lavoro sembra quasi superfluo. Di primo acchito, la situazione d'Israele è ideale, però si nasconde proprio qui il pericolo descritto nel capoverso seguente.
    La seconda parte insiste difatti sul «non dimenticare!», perché il pericolo in agguato nell'abbondanza è proprio la dimenticanza:

    «Guardati dal dimenticare il Signore tuo Dio, non osservando i suoi precetti, i decreti, le prescrizioni che oggi ti ordino. Quando mangerai e sarai sazio, costruirai belle case e vi abiterai, quando si moltiplicherà il tuo bestiame grosso e quello minuto, si moltiplicherà l'argento e l'oro e si moltiplicheranno tutti i tuoi beni, il tuo cuore non si inorgoglisca così da dimenticare il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù» (vv. 11-15).

    La terza parte che inizia al v. 19, contempla la possibilità della dimenticanza e le sue conseguenze:

    «Se dimenticherai completamente il Signore tuo Dio, seguirai altri dèi, li servirai prostrandoti dinanzi a loro, oggi io testimonio contro di voi che certo perirete. Come le nazioni che il Signore sta per far perire innanzi a voi, così anche voi perirete, perché non avete ascoltato la voce del Signore vostro Dio» (vv. 19-20).

    La grande tentazione, in poche parole, è la tentazione della ricchezza. Come definisce questa tentazione il testo di Dt 8? Si potrebbe pensare a una forma di idolatria: Israele dimentica il suo Dio perché, ora, il valore supremo è l'abbondanza di beni. Però Dt 8 non equipara esplicitamente la ricchezza con falsi dèi. La tentazione è forse più sottile. Una volta sazio e soddisfatto, Israele dirà in se stesso, secondo Dt 8:

    «La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ti ricorderai invece del Signore tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere la sua alleanza che ha giurata aí tuoi padri, come fa oggi» (Dt 8,17-18).

    La tentazione porta esattamente sull'origine della ricchezza, non sulla ricchezza come tale. Israele potrebbe illudersi e pensare che le ricchezze del paese sono il frutto del proprio lavoro o della propria potenza, mentre sono un dono del Signore. Il testo usa una forma verbale che esprime il presente: «il Signore ti dà»: non è un dono del passato o del futuro, è un dono che il Signore fa e continua a fare in ogni istante dell'esistenza d'Israele. Un po' prima, il testo esprime la stessa verità nel vocabolario della storia: potresti «dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile...» (8,14). Se Dio non fosse intervenuto, Israele sarebbe ancora schiavo in Egitto o sarebbe morto di fame e di sete nel deserto e non sarebbe mai entrato nella terra promessa. La grande tentazione dell'abbondanza e della ricchezza equivale pertanto a dimenticare la storia. Se Israele perde la memoria del suo passato, perde la ,memoria della propria identità perché l'esistenza d'Israele nel proprio paese è il frutto non delle proprie opere o realizzazioni, ma di una storia dove si rivela il Signore. Questo è il fondamento saldo, benché invisibile, sul quale Israele può costruire l'edificio del proprio «lavoro» o «servizio».

    3. L'INSEGNAMENTO DI GESÙ SUL LAVORO

    In questa seconda parte, la nostra riflessione prenderà come punto di partenza tre parabole di Gesù per mostrare come il Nuovo Testamento prolunga e approfondisce il messaggio dell'Antico sul tema del lavoro. Queste tre parabole sono quelle del figlio prodigo nel Vangelo di Luca, dei talenti e degli operai della vigna nel Vangelo di Matteo.

    a. La parabola del figlio prodigo: figli o schiavi? (Lc 15,11-32)

    Benché la parabola del figlio prodigo abbia come tema centrale senz'altro la misericordia e non il lavoro, gli accenni al mondo del la-voro sono tuttavia numerosi e sotto questo aspetto, la parabola è ricca di insegnamenti.
    I personaggi principali sono il padre e i due figli e il nodo della parabola è appunto la relazione fra padre e figlio. In realtà, nessuno dei due figli è un vero figlio. Ambedue si comportano piuttosto come degli schiavi e considerano loro padre come un padrone. Una lettura della parabola suffraga questa interpretazione.
    Il figlio più giovane, dopo aver sperperato tutti i suoi averi, si «pente» e torna a casa. Ma quali sono le vere ragioni del suo ritorno? Il pentimento? La realtà è ben diversa: ha fame. Si ricorda che i braccianti [2] di suo padre mangiano bene, mentre lui rimane a stomaco vuoto; anzi, i maiali ricevono un cibo migliore del suo (Lc 15,16-17). Per poter riempire il suo stomaco, decide di tornare a casa di suo padre e di lavorare come bracciante o salariato, poiché nella casa di suo padre si mangia meglio (15,17). Torna da suo padre non tanto per il padre quanto per il cibo dato dal padre ai suoi giornalieri. Perciò non è più figlio, ma schiavo, e schiavo del suo stomaco, poiché vuol «servire» anzitutto al fine di soddisfare la sua fame. E suo padre non è un padre; è soltanto un padrone più generoso dello straniero che gli faceva pascolare i maiali.
    Il figlio primogenito, anche lui, è uno schiavo. Quando rifiuta di entrare per partecipare al banchetto organizzato in occasione del ritorno di suo fratello, dice a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando...» (15,29). Questo figlio non è figlio, è un operaio, e il padre è un padrone più che un padre. Un padrone dà ordini, un servitore «serve» [4] La relazione fra padre e figlio è diversa e la parabola lo mostra con tutta la chiarezza richiesta.
    Come questi «schiavi» possono. diventare figli? Qui si rivela il ruolo essenziale del padre. Due volte, il padre andrà incontro ai suoi figli. Due volte li inviterà a cambiare atteggiamento.
    La prima volta, il padre vede suo figlio da lontano, si commuove, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia (15,20). Certamente, il padre non accoglierebbe così un semplice salariato. Inoltre, chiede ai servitori di portare il vestito più bello, un anello e dei calzari. Tutti questi gesti sono molto significativi nell'ambiente dell'epoca. Il vestito è segno della posizione sociale e della dignità dell'individuo. Se dunque il figlio porta il vestito più bello della casa, occupa una posizione privilegiata fra i suoi. L'anello è simbolo di potere, perché l'anello porta un sigillo con cui il padre di famiglia può firmare documenti. Dunque il figlio tornato a casa gode di una autorità uguale a quella del padre. Infine, gli schiavi non portano calzari; gli uomini liberi, invece sì (cf. Is 20). Pertanto tutti i gesti del padre hanno come unico scopo di trasformare il bracciante che torna a casa in un vero figlio. L'ultimo ordine del padre è ancora più esplicito: organizza un banchetto, e il miglior banchetto che si possa immaginare, poiché fa ammazzare il vitello grasso, cioè la carne più tenera e più apprezzata in quei tempi (cf. Gen 18,7). Secondo un'altra parabola di Luca, la parabola del «servitore inutile», un «servitore» non deve aspettare di essere servito dal suo padrone:

    «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola?". Non gli dirà piuttosto: "Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu"?» (Lc 17,7-10).

    Il confronto fra l'atteggiamento del padrone in Lc 17 e del padre in Lc 15 mostra in modo evidente che il figlio prodigo di Lc 15 non viene in alcun modo trattato come un servo.
    Il padre uscirà una seconda volta nella parabola; va ad invitare il figlio primogenito a festeggiare il ritorno di colui che non vuol riconoscere come suo fratello: «... questo tuo figlio...» dice il primogenito al padre (15,30). Per il primogenito, il passaggio dalla schiavitù alla figliolanza equivale a riconoscere che il rapporto fra padre e figlio non è condizionato unicamente dall'osservanza dei comandamenti e sui rispettivi «meriti». Vi sono altri valori più fondamentali. Per riconoscere questa verità e scoprire questi valori, dovrebbe accettare l'invito del padre, partecipare al banchetto e pertanto riconciliarsi con suo fratello. La parabola però finisce sull'invito del padre e non sappiamo come ha risposto il figlio primogenito. Altri scriveranno la conclusione della parabola.
    In conclusione, l'insegnamento della parabola del figlio prodigo sul lavoro è consono a quello dell'Antico Testamento. Non sfamo schiavi, ma figli, il che significa, in parole concrete, che non lavoriamo solo per un «salario» o per obbedire senza trasgredire un solo comando. Siamo i figli della casa, i figli del padre.
    Certo, questa parabola ha uno scopo primariamente teologico, poiché Gesù giustifica in questa maniera la sua condotta verso i peccatori e i pubblicani (cf. Lc 15,1-2). Il suo comportamento poggia su una visione originale della misericordia divina e del giusto comportamento del credente davanti al suo Signore. Nondimeno, il racconto si presenta anche come una sorgente alla quale il mondo del lavoro potrebbe attingere spunti di interessanti riflessioni. I due figli impersonano due possibili perversioni del lavoro. Il figlio prodigo lavora solo a causa di una necessità materiale: viene spinto dalla fame. Il figlio primogenito cede a una tentazione meno grossolana, però non meno pericolosa: egli lavora per necessità psicologica, perché teme l'immagine del padrone che ha preso il posto di suo padre nella sua mente.

    b. La parabola dei talenti: il vero servitore (Mt 25,14-30)

    Passiamo alla parabola dei talenti, abbastanza simile a quella della parabola del figlio prodigo per certi versi. La parabola dei talenti si trova al c. 25 di Matteo, capitolo che conclude l'attività di Gesù a Gerusalemme, immediatamente prima della passione e della risurrezione. Mt 25 tratta in vari modi della fine dei tempi.
    La situazione iniziale della parabola dei talenti corrisponde a delle condizioni abbastanza comuni nell'Israele del tempo. Un ricco proprietario sta per partire in viaggio. Chiama i suoi servitori e affida loro i suoi beni. Dà cinque talenti al primo, due al secondo e uno solo al terzo. Il talento è una somma considerevole: corrisponde a 26 chili di oro o argento. Il primo servitore comincia immediatamente a far fruttificare il danaro affidatogli e guadagna altri cinque talenti.
    Nello stesso modo, il secondo servitore guadagna altri due talenti. Il terzo, invece, scava una fossa nella terra e vi nasconde il suo talento. Secondo le prescrizioni dei rabbini, quest'ultimo fa esattamente quello che era richiesto nel caso di un prestito.
    Quando il padrone torna per fare i conti, si congratula con il primo e il secondo dei suoi servitori. Le cose cambiano con il terzo servitore. La parabola gli dedica più spazio e si capisce subito che è il personaggio importante: lì si trova il messaggio della parabola. Occorre leggere attentamente il discorso di questo terzo servitore:

    «Disse: "Signore, sapevo che tu sei un uomo severo, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per questo ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra, ecco prendi ciò che è tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e infingardo, sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso, per questo avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri in modo che al mio ritorno avrei potuto ritirare il mio con l'interesse; toglietegli il talento e datelo a quello che ne ha dieci. Infatti a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha"» (25,24-29).

    Alcuni aspetti stilistici di questo brano ne evidenziano il significato. Prima, quando il terzo servitore parla, egli insiste molto sull'appartenenza del talento: è il talento del padrone: «Signore sapevo che tu sei un uomo severo che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per questo ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. Ecco, prendi ciò che è tuo». Questo è tuo, non è mio; è affare tuo, non è affare mio. Queste parole rivelano lo stato d'animo del servitore: non vuoi avere niente in comune con il padrone e perciò mantiene una «distanza di sicurezza».
    Le parole del servitore rivelano un secondo elemento basilare della sua indole: la sua condotta è motivata dalla paura (25,25). Ora nel Nuovo Testamento come nell'Antico, la radice della schiavitù è la paura (cf. Rm 8,15). Questo terzo servo vive come schiavo e perciò viene condannato. Ma qual è allora l'atteggiamento giusto?
    Gli altri due servitori rappresentano il modello positivo del servizio. Anche qui un tratto stilistico permette di cogliere la differenza fra il terzo servitore e i primi due. Al v. 16, la frase contiene un avverbio di tempo: «Quello che aveva ricevuto cinque talenti andò subito a impiegarli». Questo servitore non perde tempo; allo stesso modo quello che aveva ricevuto due talenti. Si mettono immediatamente al lavoro. Perché? La parabola non dà una risposta chiara a questa domanda. Suggerisce tuttavia che i due servitori erano premurosi di far fruttificare il loro deposito perché cí tenevano. Trattano il danaro del padrone come se fosse il proprio danaro: gli affari del padrone sono come i loro affari.
    Il messaggio della parabola diventa ora più chiaro. Il padrone partito e che tornerà un giorno è Cristo. Come i servitori lavoriamo nell'attesa del suo ritorno. I talenti possono essere interpretati in vari modi. Possono essere semplicemente il nostro mondo e l'umanità di oggi. Possiamo comportarci come dei servitori paurosi che badano anzitutto a non fare sbagli per paura di essere castigati oppure come dei veri servitori che agiscono come dei figli e prendono a cuore la loro missione nel mondo. Gli affari di Cristo sono i nostri affari. Questo messaggio prettamente religioso non manca però di risvolti per chi vuol applicarlo al mondo del lavoro.

    c. La parabola degli operai dell'undicesima ora (Mt 20,1-15)

    In questa parabola compare un ultimo punto di vista sul lavoro: la solidarietà. Il lavoro non è solo lavoro individuale; ha anche una dimensione sociale essenziale. Questa dimensione viene illustrata in modo peculiare dalla parabola degli operai dell'ultima ora.
    La parabola si divide facilmente in due scene. La prima inizia all'alba (20,1) e finisce all'undicesima ora, alle 17.00 (20,7). Questa scena descrive l'assunzione dei vari gruppi di operai da parte del padrone. La seconda scena ha luogo alla sera, dopo il lavoro, quando il padrone paga i lavoratori (20,8-16).
    Il quadro della parabola corrisponde a una situazione frequente nel mondo antico. L'impresa era normalmente familiare. Il padre di famiglia dirigeva tutte le operazioni con i suoi figli, i suoi familiari e i servitori che abitavano con lui nella stessa casa. [4] Per i lavori più importanti come la messe o la vendemmia, occorreva trovare una manodopera supplementare. In questo caso, il padrone andava a cercare operai nei villaggi ove i braccianti si radunavano al far del giorno sul piazzale del posto. Il contratto era per una giornata; perciò questi lavoratori si chiamano ancora oggi «giornalieri». Il lavoro inizia all'alba, cioè la «prima ora» del giorno, più o meno fra le sei e le sette del mattino, e finisce con il tramonto, verso le sei di sera, cioè la dodicesima ora. Una giornata completa di lavoro conta dunque dodici ore. Il padrone della parabola va pertanto ad assumere lavoratori il più presto possibile per approfittare al massimo della giornata. Nella parabola, il padrone e i primi operai concordano sulla paga, cioè un denaro. Era il salario normale per una giornata. Il padrone, però torna a cercare lavoratori alla terza (9.00), alla sesta (12.00), alla nona (15.00) e finalmente alla undicesima (17.00) ora. In tutto sarà andato cinque volte ad assumere operai per la sua vigna: ogni tre ore, più un'ora prima del tramonto e della conclusione del lavoro (18.00 circa). Ogni volta trova delle persone inoperose e le manda alla sua vigna. Ogni volta conclude un contratto sul salario.
    Uno potrebbe chiedersi come mai vi sono dei lavoratori inoperosi tutto il giorno, perfino alle cinque di sera. Dov'erano prima? Perché non erano presenti all'alba, quando venne il padrone per la prima volta a cercare braccianti? Forse alcuni si sono alzati prima degli altri. Gli altri erano un po' meno diligenti, o persino erano degli scansafatiche? Oppure non lavoravano bene, o non erano del tutto onesti, e per questa ragione nessuno li aveva assunti? Tuttavia, la parabola ci lascia nell'incertezza in merito a queste domande. Una sola cosa conta: il padrone esce cinque volte, trova cinque volte gente oziosa e cinque volte manda questa gente a lavorare nella sua vigna dopo essersi accordato con loro sulla paga.
    La seconda scena si svolge di sera, alla fine della giornata (25 ,8- 15). Il padrone chiama il suo fattore e gli chiede di pagare gli operai, iniziando dagli ultimi. Vi sono cinque gruppi da pagare, e ciascuno ha lavorato un tempo determinato. Evidentemente, gli ultimi arrivati hanno lavorato meno, solo un'ora. Gli altri hanno lavorato, a seconda del momento dell'arrivo, tre, sei, nove o dodici ore. Però la parabola semplifica le cose e parla solo di due gruppi, il gruppo che ha lavorato di meno, cioè un'ora, e quello che ha lavorato di più, cioè dodici ore. In questo modo il racconto accentua il contrasto e porta al parossismo il paradossale comportamento del padrone. Difatti tutti quanti ricevono lo stesso salario: un denaro.
    La reazione è immediata: gli operai arrivati alla prima ora del mattino «mormoravano contro il padrone» (20,11). È del tutto comprensibile perché il salario dovrebbe essere proporzionato alla durata del lavoro. Questo principio sembra universalmente indiscusso e indiscutibile. Ma perché il padrone non lo vuol rispettare? Egli si giustifica dicendo a uno di coloro che era arrivato presto al mattino:

    «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (20,13-15).

    Il padrone chiarisce immediatamente un punto essenziale: non vi è alcun'ingiustizia nel suo modo di pagare i lavoratori. Il padrone ha rispettato il suo contratto, perché si erano accordati per un denaro. Il problema non è la giustizia, è la generosità. Perché mostrarsi generoso verso gli uni e non verso gli altri?
    Per capire il comportamento insolito del padrone, occorre porsi qualche domanda. La prima tocca la sua volontà di trovare ad ogni costo lavoratori per la sua vigna. Perché esce cinque volte ad assumere operai? Che cosa lo spinge ad agire in questo modo, alquanto bizzarro?
    Una seconda domanda tocca il salario. Perché il padrone vuol dare la stessa paga a tutti gli operai?
    Queste due domande sono legate e la risposta alla prima sarà anche la risposta alla seconda. Se sappiamo perché il padrone vuol assumere più lavoratori possibile, sapremo anche perché paga tutti nella stessa maniera. La risposta che mi pare più probabile è la seguente: il padrone vuol finire la vendemmia ad ogni costo. Col passar del tempo, la sua impazienza cresce perché il numero degli operai non è sufficiente. Se no, perché andare a cercarne sino alla sera?
    Inoltre il padrone è felice di trovare dei braccianti, anche molto tardi. Poco importa se lavorano un'ora sola. Un'ora di lavoro è meglio di niente. Quel che conta è di aver lavorato, molto o poco, a seconda dei casi. Il resto diventa secondario. Perciò il padrone paga gli ultimi come i primi. Hanno tutti lavorato, hanno tutti partecipato all'opera comune. Nella sua felicità, il padrone ricompensa il fatto di aver partecipato assieme alla vendemmia come tale, senza mancare alla stretta giustizia, ma anche senza tener conto delle differenze quantitative nel lavoro fornito.
    In conclusione, il messaggio di questa parabola riassume sotto forma di una vivace narrazione l'essenziale di quello che la Bibbia ci insegna sul «lavoro» o «servizio». Il semplice fatto di poter lavorare assieme nella stessa vigna per lo stesso Signore è già una grazia. La solidarietà nel lavoro è già la ricompensa del lavoro. La felicità del Signore che trova operai per la sua vigna è forse la più grande ricompensa del lavoro. Se non troviamo delle soluzioni adeguate ai problemi del lavoro nel nostro mondo moderno, possiamo almeno intravedere una direzione da seguire per vivere il lavoro quotidiano secondo lo spirito della Bibbia, specialmente del vangelo. Il problema è di poter trovare o ritrovare i veri valori del lavoro, poi di farli affiorare nel nostro mondo.

    NOTE

    1 L'altra versione del decalogo, in Es 20, collega il sabato con il riposo di Dio il «settimo giorno della creazione» (Gen 2,1-3).
    2 In greco misthioi. La parola greca misthos significa «paga», «salario», «soldo».
    3 In greco, la parola usata qui è douleuó, «servire». La parola greca doulos significa «servitore», «servo», ma anche «schiavo».
    4 È il caso, per esempio, dei servitori menzionati nella parabola del figliol prodigo.

    BREVE BIBLIOGRAFIA

    Sul lavoro nella Bibbia e sui testi dell'AT:
    Lavoro e vita spirituale, Roma 1977.
    Lavoro e riposo nella Bibbia, Studio biblico teologico aquilano, a cura di G. DE GENNARO, Napoli 1987.
    FARA L., Lavoro di Dio e lavoro dell'uomo, Padova 1971.
    LOHFINK N., «Freizeit. Arbeitswoche und Sabbat im Alten Testament, insbesondere in der priesterlichen Geschichtserzählung», in Unsere grossen Wörter. Das Alte Testament zu Themen dieser Jahre, Freiburg i. Breisgau 1977, 190-208.
    RIBER M., Il lavoro nella Bibbia, Bari 1969.
    ROSELLI B., Il lavoro umano nella Bibbia, Roma 1966.
    SICA J.L., «Popolo sacerdotale e popolo dell'Alleanza nell'Antico e Nuovo Testamento», in I laici nel popolo di Dio. Esegesi biblica, a cura di V. LIBERTI, Studio biblico teologico aquilano, Roma 1990, 19-38 (su Es 6,2-8: 20-24).

    – Sulle parabole:
    DUPONT J., Il metodo parabolico di Gesù, Brescia 1978.
    FUSCO V., Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983.
    GUTBROD K., Guida alle parabole di Gesù, Brescia 1980.

    JEREMIAS J., Le parabole di Gesù, Brescia 1973.
    KEMMER A., Le parabole di Gesù: come leggerle, come comprenderle, Brescia 1990.
    MAGGIONI B., Le parabole evangeliche, Milano 1993.
    MUSSNER F., Il messaggio delle parabole di Gesù, Brescia 1986.
    WEDER H., Metafore del Regno: le parabole di Gesù. Ricostruzione e interpretazione, Brescia 1991.

    (da: La strada e la casa. Itinerari biblici, EDB 2001, pp.65-87)


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