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    Pastorale del lavoro e giovani del Sud



    Vincenzo Salvati

    (NPG 1996-05-61)


    Nel corso di un'inchiesta sulla condizione giovanile, Giulia, una ragazza di Crotone, ha così raccontato la sua esperienza lavorativa ai militanti della GiOC:
    «Ho interrotto gli studi in seconda media [...] Non ho mai frequentato nessun corso perché ho sempre lavorato. Ho iniziato a lavorare a tredici anni e ho cambiato due lavori, ho fatto la commessa poi la baby-sitter, ora faccio la cassiera, non ho mai lavorato in regola [...] Il mio orario di lavoro è: dalle 8,30 alle 13,30 e dalle 16 alle 21. Prendo 250.000 al mese, faccio molto straordinario e non ho i libretti a posto, non so neanche cos'è una busta paga... A me non piace fare questo lavoro, lavoro per la mia famiglia perché essendo in dieci c'è bisogno di soldi, visto che mio padre non ha sempre il lavoro [...] Il sindacato non è presente dove lavoro e io non sono iscritta, penso però che sia troppo vicino alle posizioni del datore di lavoro e non è presente nelle aziende [...] Non conosco i diritti dei giovani lavoratori, ma so che tutta la Calabria viene sfruttata, forse perché non c'è nessun servizio di informazione» [1].
    Il documento della Conferenza Episcopale Italiana del 1989 sul Mezzogiorno definiva in maniera molto realistico lo sviluppo delle nostre regioni come «incompiuto, distorto, dipendente e frammentato».[2] È stato importato ed imposto nel contesto meridionale un processo di sviluppo ispirato a «modelli lontani», cioè estranei alle risorse, potenzialità, vocazioni ed identità del territorio (cf ChMez 18).

    IL CONTESTO CON CUI FARE I CONTI

    La cosiddetta questione meridionale è ancora, purtroppo, molto attuale. L'unità europea, che si prospetta sempre più come unione di mercanti, anziché di popoli, non farà che allontanare ancora di più il sud Italia e gli altri Sud dell'Europa dai centri decisionali dell'economia e della politica.
    In una dichiarazione del 1989 il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana rilevava con preoccupazione che «la nostra inquietante e irrisolta questione meridionale rischia di ripresentarsi a livello continentale, lasciando ai margini dell'Europa unita vaste popolazioni e impoverendo l'Europa stessa sotto il profilo umano prima che economico».
    Essere periferia all'interno di una nazione è cosa certamente grave, ma essere periferia di un intero continente è cosa ancor più grave!
    Dovendo riflettere su una pastorale del lavoro e per i giovani lavoratori al Sud, è necessario dare uno sguardo, seppure sommario, ad alcuni nodi problematici con cui la nostra gente deve fare continuamente i conti.
    Con questi stessi nodi dobbiamo fare noi i conti se vogliamo riflettere ed agire pastoralmente in questo contesto.[3]
    Questi nodi infatti rappresentano una ulteriore concrezione del male che si manifesta sempre con atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo.
    Come ricorda Giovanni Paolo II la brama esclusiva del profitto e la sete del potere «a qualsiasi prezzo» concorrono a formare quelle «strutture di peccato» che diventa poi molto difficile rimuovere, e che nel medesimo tempo costituiscono una grande sfida per tutti i credenti (SRS 37).

    Tra vecchie baronie e «nuovi» modelli di sviluppo

    Il primo nodo con cui il Sud deve ancora fare i conti è certamente la dipendenza. Con la mondializzazione dei processi produttivi, la dipendenza del Sud Italia - ma ciò vale per tutti i Sud del mondo - non fa che aggravarsi sempre di più. L'attuale processo di industrializzazione, ingigantito da forme sempre più potenti di energie impiegate (carbone, elettricità, atomo), ha configurato i poli di sviluppo (i Nord del mondo) di fronte ai poli del sottosviluppo (i Sud della terra).
    Guardando al recente passato, è facile notare come il Sud Italia abbia «inseguito» modelli di sviluppo ad esso lontani, raccogliendo solo le briciole di processi produttivi determinati altrove, e pagando, invece, costi umani enormi. Basti pensare ai grandi flussi migratori negli anni del «boom» economico, con le tante vedove e orfani «bianchi», rimasti nei nostri paesi sempre più desolati e privati delle migliori energie.
    I grandi apparati industriali e finanziari italiani ed europei, condizionando le stesse scelte economiche e politiche del Paese, hanno determinato uno sviluppo economico dipendente da logiche capitalistiche e produttivistiche. E così, mentre tra il 1940 e il 1950 il governo varava leggi di riforma fondiaria e istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, negli stessi anni '50 forti ondate migratorie, provocate dal veloce sviluppo industriale italiano ed europeo, trasformarono in modo rapido e profondo la struttura economica del Mezzogiorno, rendendo velocemente superate le politiche di riforma fondiaria e le opere di infrastruttura capillare avviate dalla Cassa per il Mezzogiorno. Come pure negli anni '60 si ebbe la collocazione al Sud dell'industria pesante, siderurgica, chimica e petrolchimica non per alleviare la disoccupazione, ma per trasferire altrove rami di produzione ormai superati e far posto ad attività emergenti più innovative nell'ambito della ristrutturazione dell'intera industria italiana ed europea.[4]
    Questo tipo di sviluppo non solo non ha prodotto un processo di modernizzazione nel senso della cultura urbana, industriale, sindacale propria dei Paesi più avanzati, ma ha prodotto anzi un processo di disintegrazione di quel tessuto di modelli culturali propri del Sud.[5]
    Nella serie di interventi tentati per favorire lo sviluppo del Sud, molto poco conto si è tenuto delle elaborazioni culturali di tanti studiosi che nel corso degli anni passati e recenti hanno cercato di leggere in profondità la «questione meridionale». Come giustamente rileva Domenico Farias, «la politica italiana è stata sempre restia a prendere in seria considerazione i contributi della cultura meridionalista, anche la più seria, la più precisa e costruttiva».[6]
    Giuseppe De Rosa, commentando il XXIV Rapporto del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), rilevava, a proposito del Mezzogiorno, che il divario tra questo e il Centro-Nord non consiste tanto nella ricchezza, ma nello sviluppo.[7] La grande distanza che permane rispetto al resto del Paese riguarda soprattutto la capacità produttiva e le iniziative di allargamento dell'imprenditorialità. Questo tipo di sviluppo ha portato ad una complessiva «struttura di regressione», cioè a una «concatenazione di meccanismi che rischia di diventare come un 'circolo vizioso' che aggrava il disagio del Sud» (ChMez 12). In questo contesto la società civile e le autonomie locali vivono in continua crisi di sviluppo a causa dei rapporti di dipendenza verticale verso le istituzioni. Ciò viene favorito dal peso eccessivo assunto dai rapporti di potere politico (cf ChMez 12).
    La mediazione politica, come denunciavano i vescovi, ha assunto una dimensione di straordinaria ampiezza nel Mezzogiorno, per cui «i gruppi di potere locali si presentano verso il centro come garanti di consenso, e verso la base come imprescindibili trasmettitori di risorse, più o meno clientelari, più o meno soggette all'arbitrio, all'illegalità, al controllo violento (ChMez 12)».[8]
    A tale proposito, bisogna rilevare come il clientelismo politico si è saputo ben innestare su quel rapporto di odiosa dipendenza che è stato nel Sud, fino a non molto tempo fa, il clientelismo notabilare. Questo consisteva in un vero e proprio servaggio, sulla scia del vecchio rapporto feudale.

    Il controllo mafioso del territorio e del mercato del lavoro

    L'altro grande nodo con cui fare i conti è certamente la violenza mafiosa, che ha ridotto le popolazioni del Sud Italia in una condizione di esilio nella loro stessa terra. In alcuni centri abitati non è esagerato parlare di un vero e proprio coprifuoco imposto dalle cosche mafiose. Molte volte è capitato che persone inconsapevoli siano rimaste vittime di esecuzioni mafiose. La criminalità organizzata ha assunto ormai la forma di una vera e propria impresa e si configura come un'economia sommersa e parallela, non solo a livello locale, ma nazionale e internazionale.[9]
    Il fatturato annuo delle attività della criminalità organizzata in Italia nel 1993 è stato calcolato nell'ordine dei duecentomila miliardi: il triplo del guadagno della Fiat e quasi un quinto del prodotto lordo del Paese! I termini «piovra», o «idra», comunemente utilizzati per esprimere la ramificazione tentacolare della criminalità organizzata, esprimono assai bene la realtà.
    «Servendosi di risorse ottenute in modo illegale e spesso violento, [la mafia] impedisce lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno, organizza il commercio e lo spaccio della droga, in concorso con la grande criminalità internazionale, ed insanguina alcune città e zone del Meridione, causando un numero paurosamente alto di omicidi perpetrati con estrema ferocia» (ChMez 14).
    Grande scandalo ha suscitato nell'opinione pubblica la scoperta da parte della polizia, a Napoli e in alcune città della Sicilia, di bande di bambini utilizzati dalla malavita locale per lo spaccio di droga e per i taglieggiamenti. Sono evidentissimi nel nostro territorio, sulle strutture e anche sui volti delle persone, i segni di quella «guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati [...]. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza», come scrive Vincenzo Consolo.[10]
    Questi condizionamenti penetrano in profondità, toccando la stessa struttura antropologica. Alcune inchieste svolte nelle scuole della provincia di Reggio Calabria, di Napoli, di Palermo sull'immagine che i giovani hanno del mafioso, del camorrista mostrano che per molti giovani questi personaggi sono dei modelli da imitare; inoltre sono coloro che danno lavoro e che assicurano una stabilità all'interno di certi quartieri. Tutto ciò ci deve seriamente interrogare.

    Il lavoro: prezioso prodotto di scambio

    In questo contesto si colloca al Sud il problema del lavoro. Come è evidente, in una situazione di grande dipendenza e di violenza così diffusa ed organizzata il poco lavoro che c'è diventa l'oggetto preziosissimo di scambio concentrato nelle mani di pochi, i quali lo distribuiscono a chi vogliono e alle condizioni che essi dettano. Come rilevano gli ultimi dati Istat, il numero dei disoccupati nelle regioni meridionali ha raggiunto il milione e mezzo. In Campania, i disoccupati fino a 25 anni sono il 60,1%, in Calabria il 52%; 49,3 in Basilicata; 54,9 in Sicilia; 47,6 in Sardegna.
    L'attenuarsi del flusso migratorio, rispetto ad alcuni anni fa, non è dovuto ad un aumento della domanda di lavoro in regione, ma alla crisi industriale nelle regioni del Nord Italia e nei Paesi europei dove di solito si riversava la forza lavoro meridionale. La tendenza che si nota attualmente è che lasciano la regione le forze di lavoro più giovani e vi ritornano quelle meno giovani. L'emigrazione tende ad interessare soprattutto le forze di lavoro con diploma di scuola media superiore o di laurea.
    Le ripercussioni di una tale situazione sulla vita di tante famiglie sono altamente negative. Soprattutto i giovani risentono fortemente di questo disagio, e sono costretti ad iniziare la vita senza speranze e senza prospettive e a perdere anni preziosi della propria giovinezza nella vana ricerca di un lavoro (cf ChMez 9).
    Occorre inoltre ricordare che nelle regioni meridionali permangono ancora situazioni di vero e proprio sfruttamento sul lavoro. Ancora è diffuso il fenomeno del «caporalato», che viene puntualmente alla luce solo in occasione di gravi incidenti, spesso mortali. Molti datori di lavoro, approfittando del bisogno, impongono condizioni irregolari di lavoro: orari di molto superiori alle 40 ore settimanali; paghe offensive per la stessa dignità della persona, che diventano anche una frode al fisco, perché si costringono i lavori a firmare buste paghe (quando queste esistono!) che non corrispondono assolutamente alla cifra ricevuta. In molti cantieri di lavoro viene dato ai manovali l'ordine perentorio di «scomparire» quando si prevede la visita di qualche ispettore del lavoro. Le garanzie sociali sono spesso inesistenti. Quante bugie sono costretti a raccontare tanti giovani, al pronto soccorso dell'ospedale o ai carabinieri, dopo qualche infortunio sul lavoro!
    Vista la scarsità di prospettive occupazionali, moltissimi sono costretti a subire tali condizioni sotto il continuo ricatto della minaccia di licenziamento. È da notare che in molti casi si tratta di piccole imprese che ricevono commesse di lavoro da enti pubblici, o di sartorie collegate con le grandi firme della moda italiana, o di supermercati legati a catene di distribuzione multinazionali, o di studi professionali che fanno pagare in modo salato le prestazioni ai loro clienti, registrando cospicui guadagni. Avviene così che l'accumulo di ricchezza da parte di alcuni viene pagato con lo sfruttamento di molti.
    Va rilevato inoltre il fatto che una parte consistente del mercato del lavoro al Sud è gestita dal potere politico. Ed è precisamente qui che si innesta il meccanismo perverso della clientela. Questo meccanismo, in presenza sul territorio di un controllo quasi totale da parte delle organizzazioni criminali, porta inevitabilmente a rapporti di evoluzione mafiosa. L'aspetto più grave della situazione, viste le spinte del rapporto di clientela e della frustrazione giovanile, è che «l'unica possibilità concreta di fare carriera velocemente, di avere disponibilità monetaria, di accedere velocemente ai consumi, è quella mafiosa»![11]
    La criminalità organizzata proprio fra questi giovani recluta la manovalanza, con il miraggio di facili guadagni. In alcuni centri ad «alta densità mafiosa», è risaputo il fatto che vi siano giovani disposti a compiere omicidi e azioni malavitose per un compenso di appena trecentomila lire!
    È stato accertato da indagini delle forze dell'ordine che è capitato di frequente che alcuni giovani si allontanavano per un certo periodo dai loro ambienti, per recarsi in altre regioni a compiere azioni delittuose e ricavare in questo modo forti guadagni.
    A render incerto il futuro non vi sono soltanto i dati esposti sopra. L'assenza di un quadro economico rassicurante lascia prevedere una evoluzione negativa del mercato del lavoro nelle regioni meridionali. Il problema della disoccupazione giovanile meridionale - come rilevavano con preoccupazione i vescovi italiani - si configura «per ragioni economiche, sociali e morali, come la più grande questione nazionale degli anni '90» (ChMez 9).

    LE DOMANDE ETICHE PROVENIENTI DAL CONTESTO

    La Traccia in preparazione al Convegno di Palermo afferma che «siamo tutti dentro un grande travaglio da cui non ci è consentito estraniarci o chiamarci fuori». Occorre saper leggere «i segni di vita e le istanze positive che aprono alla speranza», ma anche «i segni di morte e gli indici negativi che, spesso sotto mentite spoglie, rendono problematica e ambigua la situazione spirituale, culturale, sociale e politica del nostro tempo» (Traccia n. 8).
    Quali possono essere le domande etiche emergenti dal nostro contesto e alle quali la chiesa deve saper dare risposte adeguate attraverso un progetto pastorale che sappia tenere in conto le speranze e le attese degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto, come ci ha insegnato il Concilio (cf GS 1)? Queste domande affiorano per contrasto con le negatività presenti sul territorio.

    Speranza nel futuro di fronte alla tentazione disperante

    Una domanda che emerge impellente è prima di tutto un profondo bisogno di speranza nel futuro. In molti giovani che vivono il problema della ricerca del lavoro si riscontrano i tipici fenomeni delle crisi depressive, e si parla ormai di «sindrome da scoramento». Spesso mi chiedo che senso ha oggi parlare a tanti giovani meridionali di scelta professionale come risposta ad una vocazione. In un tale contesto la stessa progettualità personale oltre che quella sociale viene messa seriamente in discussione. Anche rispetto alla cappa paralizzante imposta dalla violenza mafiosa ci si chiede quando finirà tutto questo. Quando si potrà finalmente lavorare ed abitare con dignità nella nostra terra? Quando si potrà tornare a vivere in pace, senza più paura, nelle nostre piazze e nelle nostre strade?
    Il perdurare nel tempo di tante condizioni negative, i tentativi di cambiamento spesso falliti, l'accumularsi di problemi che per la loro gravità sovrastano, e di molto, l'impegno del singolo o di un gruppo ristretto, il disinganno per le tante promesse non mantenute dalla classe politica, hanno generato un diffuso senso di incertezza e di impotenza riguardo al futuro. Nel momento storico che sta attraversando il Sud Italia, così difficile e così bisognoso di speranza, i credenti sono chiamati a saper rendere ragione della speranza che è in loro (cf 1 Pt 3,15). Giovanni Paolo II, nella sua visita a Napoli nel novembre 1990, ha invitato espressantemente i credenti e tutti gli uomini di buona volontà ad impegnarsi per il cambiamento e ad «organizzare la speranza». Questo appello però, come ha ribadito lo stesso papa, non vuole, né può essere semplicemente una formula consolatoria! «Ma deve divenire una maniera di professare la fede cristiana mediante segni concreti di impegno e di solidarietà, mediante la promozione costante della crescita morale e del risanamento dei costumi, mediante il superamento della paura e della rassegnazione».

    Liberazione di fronte alla sopraffazione

    Da queste domande sul futuro scaturiscono altre domande che riguardano sia il singolo che la collettività nel suo insieme. La domanda fondamentale, che è quella che conferisce significato ad ogni esistenza umana, è una domanda di libertà e di liberazione da ogni condizionamento. La stessa capacità di autodeterminazione propria dell'essere umano, col protrarsi di pesanti condizionamenti esterni, più o meno violenti, subisce insopportabili limitazioni. Giovanni Paolo II, parlando ai vescovi calabresi in visita «ad limina» l'1 febbraio 1992, sottolineò precisamente questo aspetto quando affermò che le piaghe sociali e civili della Calabria compromettono «alla radice il progresso integrale della vostra gente» e privano «in maniera sempre più grave le persone, soprattutto i giovani, della libertà autentica».
    Spesso nelle nostre città e nei nostri paesi la gente si è trovata ad assistere, allibita e impotente (nelle piazze, per strada, sotto casa, nei bar, in pizzeria), alle esecuzioni mafiose, scansandosi, terrorizzata, davanti ai killers che si facevano largo tra la folla sparando colpi di pistola in aria. In un clima così pesante è molto facile che si crei nella coscienza delle persone una sorta di autocensura, per cui certi argomenti diventano tabù, e si arrivi ad accettare come normali situazioni che in nessun modo possono essere considerate tali. L'omertà, che rende le persone complici involontari di odiosi delitti e anche del male verso se stessi (nei casi di estorsione), è forse la più grande forma di violenza esercitata dai mafiosi sulla coscienza di tanta gente.

    Equità di fronte alle disparità

    Un'altra forte esigenza che emerge dal contesto del Sud è una domanda di equità. In una situazione così problematica è molto facile che vengano a crearsi delle sperequazioni tra alcuni garantiti, privilegiati, ed altri che rimangono al di fuori della partecipazione alle risorse e al bene prezioso del lavoro. Soprattutto chi ha meno professionalità, in mancanza di altre alternative, deve subire l'odioso ricatto di condizioni di lavoro indegne, senza alcuna garanzia sindacale. In una tale condizione aumenterà sempre di più il potere di chi è in grado di gestire il mercato del lavoro, divenuto un prezioso prodotto di scambio concentrato nelle mani di pochi.
    Anche per quanto riguarda la qualità della vita sono evidentissime le disparità esistenti tra le aree del Mezzogiorno ed il resto del Paese. Basti pensare alla qualità del servizio ferroviario e autostradale, alla qualità del servizio sanitario, alla manutenzione dei complessi scolastici, solo per fare alcuni esempi. Proprio in presenza di condizioni di base carenti nel settore pubblico, sono ancora più stridenti le disparità tra chi può permettersi la possibilità di accedere ai servizi sempre più qualificati offerti dai privati, o cercati altrove, sia nel campo della salute, della cultura, della formazione, del tempo libero, e chi invece è costretto ancora a vivere in ambienti malsani, in quartieri degradati, privi dei servizi più essenziali.

    LA RISPOSTA PASTORALE

    Se diamo uno sguardo alla prassi pastorale nelle nostre regioni, è facile evidenziare come, purtroppo, una seria e costante attenzione alla realtà, anche in ambienti fortemente provati da gravi problemi sociali, è ancora di là da venire. L'attenzione alla storia e al territorio, che è dimensione costitutiva della missionarietà della chiesa, quando è affidata alla sola sensibilità personale del singolo parroco e non diventa scelta di chiesa, diocesana, o «regionale», finisce per essere sempre precaria, legata cioè all'entusiasmo del singolo, o durevole fino... al suo prossimo trasferimento. Tutto ciò fa sì che le comunità cristiane non arrivino mai a delineare una loro precisa identità, costituita dalla storia del loro cammino di fede, legato a delle precise scelte di impegno sul territorio.
    Insomma ciò che manca, a me sembra, è una tradizione pastorale entro cui collocarsi, un riferimento chiaro e preciso, con una gradualità di intervento, e soprattutto con una attenta verifica dell'efficacia o meno dell'azione pastorale. Mancando questa tradizione pastorale, si continua purtroppo ad avere l'impressione che si tratti di ricominciare sempre daccapo.
    Sarebbe opportuno chiedersi come mai anche i numerosi documenti prodotti dai vescovi, con denunce molto forti ed analisi approfondite, molto spesso esauriscono il loro peso nel breve giro di tempo dell'attenzione data loro dai mezzi di informazione e non entrano nel tessuto vivo delle comunità ecclesiali. I soli documenti dei vescovi evidentemente non bastano a trasformare la realtà, occorre un lavoro organico ed incisivo prima di tutto nello stesso tessuto ecclesiale. D'altronde sappiamo che è precisamente la vita quotidiana delle singole comunità, oltre che il pronunciamento chiaro e la testimonianza coerente dei pastori, la via obbligata perché si possa parlare di una significativa presenza di chiesa in un dato tempo ed in un dato territorio. Una tale distanza tra la riflessione ecclesiale e la vita delle numerose comunità sparse sul territorio è dovuta al fatto che spesso manca in questi documenti un preciso riferimento alla prassi pastorale con suggerimenti chiari e precisi sulle linee da seguire per una nuova testimonianza di chiesa, consequenziale alle denunce espresse ed alle analisi prodotte.[12]
    Tutto ciò postula come via obbligata per una nuova prassi pastorale un serio rinnovamento delle stesse comunità ecclesiali presenti nelle nostre regioni. Nel pensiero di Giovanni Paolo II il discorso della «nuova evangelizzazione» si concretizza e prende corpo precisamente nel rinnovamento delle stesse comunità ecclesiali (cfChL 34).

    Quale consapevolezza «ecclesiale»?

    Si tratta a questo punto di individuare quali sono le difficoltà che hanno impedito ed impediscono alla nostra evangelizzazione di essere efficace e di suscitare nei credenti un impegno cristiano coerente.
    Mi sembra di poter individuare una delle cause di debolezza di tante esperienze ecclesiali in una inadeguata riflessione teologica.
    La Traccia in preparazione al Convegno di Palermo rileva come la maggioranza della gente si riconosce solo genericamente in valori di matrice cristiana, rischiando di smarrire progressivamente il senso dell'autentica esperienza di Cristo e dell'appartenenza ecclesiale, con i suoi precisi contenuti di verità e di fede e di morale (Traccia n.10). Di fronte alla ricerca di surrogati spirituali di vario genere e provenienza, ci si chiede se ciò non derivi da un'insufficiente formazione di fede, per cui «non possiamo non domandarci se questo fenomeno non denuncia anche una carenza di genuina e robusta spiritualità nella proposta che viene fatta nelle nostre comunità» (ivi).
    Il problema che occorre evidenziare è quello della consistenza delle nostre proposte pastorali. È vero, purtroppo, che molto spesso la conduzione pastorale di tante parrocchie si riduce ad una stanca ripetizione di riti e di tradizioni. Manca vistosamente nella nostra prassi pastorale l'elemento dinamico e profetico, per cui spesso ci si riduce a gestire l'esistente.
    La maggior parte del popolo cristiano, dobbiamo ammetterlo, vive ancora una completa estraneità rispetto alla vita ecclesiale, restando solo oggetto di piani e formule pastorali, e raccogliendo solamente le briciole della teologia e della spiritualità cristiana. Occorre dunque riscoprire una maggiore organicità anche nella riflessione teologica, affinché tutto il popolo di Dio sia coinvolto. Questa è la strada obbligata per lo sviluppo di comunità cristiane mature, che vivano un'autentica esperienza di chiesa. La teologia non può ridursi ad attività intellettuale riservata a poche élites, ma deve entrare nel vivo del tessuto ecclesiale. È necessario che tutto il corpo ecclesiale sia permeato di un pensiero teologico.
    L'interrogativo centrale in fondo è precisamente questo: qual è l'imposizione teologica a cui si ispirano nella loro prassi coloro che hanno la responsabilità del cammino ecclesiale ai diversi livelli: vescovi, parroci, diaconi, religiosi, catechisti, animatori di pastorale? Questa impostazione teologica è in grado di rispondere alle sfide che pone l'attuale situazione del Sud Italia? Se la risposta a questa domanda è negativa, allora abbiamo individuato la radice del problema.
    Molto difficilmente, infatti, coloro che sono sprovvisti di una formazione teologica idonea a leggere il vissuto storico e a coglierne tutte le implicanze per l'annuncio cristiano saranno in grado di trasferire nella prassi questa attenzione né tanto meno sapranno comunicarla ad altri.
    Già alcuni anni fa Walter Kasper avvertiva la necessità che nella ricerca teologica si partisse dalle domande poste dalle comunità o che alle comunità vengono poste in un dato contesto storico. Si deve trattare - egli puntualizzava - «di problemi che ci vengono posti veramente e che non ci poniamo noi stessi traendoli fuori dalla sistematica e dalla problematica immanenti alla nostra specializzazione. Molte volte rispondiamo a domande che nessuno ci ha posto e non sappiamo rispondere alle domande che ci sono poste».[12] È molto significativa in tal senso la linea nella quale si sta incaminando la Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale attraverso la ricerca dei docenti, i corsi offerti agli studenti e gli stessi convegni annuali.

    Tra profezia ed eccessiva prudenza

    L'azione pastorale riveste un ruolo importantissimo per la formazione delle coscienze dei singoli, ma anche per la maturazione di una coscienza collettiva che sappia reagire adeguatamente alla sopraffazione e all'illegalità.
    Se la chiesa è la comunità di Gesù Cristo, chiamata non solo ad annunciare verbalmente, ma ad essere luogo profetico dove i nuovi valori del regno di Dio vengono incarnati e indicati al mondo, allora cogliamo quanto arduo e difficile sia oggi il compito delle nostre chiese. Si badi bene, non si tratta di svolgere funzioni di supplenza, o di perdersi in questioni secondarie rispetto alla propria missione. Ragioni di ordine eminentemente teologico, in cui si gioca la fedeltà al vangelo di Gesù e alla missione da lui affidata alla sua chiesa, richiedono che i pastori, i laici, le comunità ecclesiali presenti nelle nostre regioni prendano sempre più sul serio il ministero della evangelizzazione e della liberazione loro affidato.
    Quando, infatti, il peccato assume caratteristiche così diffuse fino a diventare «strutturale», condizionando la vita di intere popolazioni, la fede e la testimonianza dei credenti viene messa seriamente in discussione.
    D'altra parte, nel nostro Sud Italia stiamo cominciando a sperimentare quanto sia pericoloso annunciare il vangelo della liberazione. Alcuni fatti avvenuti in questi ultimi anni - come l'uccisione di don Giuseppe Puglisi e di don Peppino Diana - sono lì ad indicare che se la chiesa meridionale imbocca la strada della testimonianza profetica, le conseguenze non tardano ad arrivare. È precisamente quando l'azione della chiesa disturba i potenti e dona speranza ai poveri che si cerca di impedirle di compiere la sua missione.
    Tuttavia, queste testimonianze coraggiose, che si spingono fino al martirio, suonano anche come un severo rimprovero all'indolenza e alla mancanza di impegno dei più, che, nascondendosi spesso dietro una falsa prudenza, contribuiscono a mantenere lo «status quo».
    Non solo alcuni «illuminati», o coloro a cui si attribuisce il «pallino del sociale» - e che sovente vengono duramente criticati ed osteggiati in tanti ambienti ecclesiastici -, ma tutta la chiesa è chiamata, per sua stessa natura, ad essere segno profetico del futuro di Dio per l'umanità.
    Bisogna sinceramente riconoscere - come affermavano i firmatari di una lettera indirizzata al papa in occasione della sua visita in Sicilia nel 1993 - che di fronte alle alleanze e collusioni tra il sistema mafioso e il sistema politico-clientelare, «gran parte del mondo ecclesiastico, purtroppo, ha per lungo tempo taciuto: o per incapacità a cogliere la realtà; o per difendere valori cristiani a costo di farsi garante di una classe politica assai lontana da tali valori; o perché dal sistema politico-mafioso ha tratto e trae vantaggi notevoli».[14]
    In molti casi, occorrerebbe da parte degli uomini di chiesa prendere bene le distanze da certi personaggi e da certe procedure da parte degli uomini di chiesa prendere bene le distanze da certi personaggi e da certe procedure poco pulite, evitando ogni possibile comportamento che sappia di compromesso o di connivenza. In alcune situazioni, e l'attuale situazione del Sud Italia è una di queste, c'è un silenzio, o un quietismo, o una «prudenza», che diventano inevitabilmente collaborazione col male. Si badi bene, la prudenza spesso invocata in certi ambienti ecclesiastici non ha nulla a che fare con la virtù-cardine cristiana; molto spesso è solamente un espediente per non prendere posizione nei conflitti sociali, o per non perdere la benevolenza di qualche personaggio influente.

    Percorsi educativi possibili

    Nel contesto che abbiamo descritto come si collocano i giovani lavoratori? Spesso essi appaiono rassegnati, assorbiti dal sistema politico-clientelare ed irretiti in una mentalità consumistica. Dal punto di vista lavorativo poi, vista la rapida evoluzione del mercato del lavoro, con tecnologie sempre più sofisticate, coloro che mancano di formazione adeguata, resteranno sempre più emarginati dall'accesso al lavoro. Ritorna di grande attualità il messaggio di don Milani sulla formazione dei giovani lavoratori: «Se il tuo padrone sa più parole di te ti frega!». Di fatto, questi giovani restano fregati in tutti i sensi. Molto spesso non conoscono i loro diritti sul lavoro; non hanno una professionalità da poter spendere per il loro futuro; e, come se non bastasse, in mancanza di un'attrezzatura culturale, sono i più esposti agli stimoli pervasivi della società dei consumi.
    Se guardiamo poi ai nostri ambienti ecclesiali, scopriamo molto spesso che proprio i giovani lavoratori, che vivono situazioni pesanti di lavoro, con bassa scolarità, sono quelli più assenti dai cammini formativi proposti dalle parrocchie e dalle associazioni. In un certo senso sembra che questi giovani siano inutili. Nessuno scommette su di loro, né i partiti, né i sindacati; e nemmeno la chiesa. Avviene, di fatto, che anche a livello pastorale si facciano delle vere e proprie discriminazioni. Ci siamo chiesti come mai succede questo? Evidentemente questi giovani non si trovano a loro agio nei nostri ambienti ecclesiali. I problemi che essi vivono non sono argomento dei nostri incontri. Gli orari del loro tempo libero non corrispondono a quelli dei giovani studenti che frequentano i nostri locali. Soprattutto i linguaggi che utilizziamo non sono alla loro portata. Forse percepiscono che le «cose di chiesa» sono adatte a gente che non ha altro a cui pensare. Riunioni, messe, ritiri... sentono che non sono cose per loro. Molti di loro si accontentano di una religiosità tradizionale, reminescenza della loro infanzia.
    È quanto mai necessario dunque che ci interroghiamo su quali cammini formativi proporre ai giovani lavoratori. Ed è importante che questi cammini abbiano la vita di questi giovani come punto di partenza, per cercare di capire insieme a loro ciò che avviene nella loro vita, nell'ambiente in cui vivono, nel mondo del lavoro, e imparare a discernere nella vita di ogni giorno i segni della presenza di Dio e gli appelli al cambiamento. Dalla mia esperienza di assistente dei gruppi della GiOC posso dire che quando, dopo tanta fatica, «parte» un gruppo di giovani lavoratori, questo è un gruppo che difficilmente si arenerà. Questi giovani sanno scoprire il gusto della partecipazione, diventano entusiasti di qualcosa che essi stessi costruiscono man mano, assumendo le loro responsabilità, e diventando protagonisti nella comunità ecclesiale, sul posto di lavoro, nella società.
    È proprio vero ciò che diceva Joseph Cardijn, il fondatore della GiOC: «Non c'è soluzione esterna. Non si deve cercare una soluzione a fianco, esterna alla gioventù operaia. Non si può trovare la soluzione nel clero, nei genitori, negli educatori, nei padroni, nei poteri pubblici.
    Tutti questi fattori possono e debbono contribuire; ma non si possono sostituire ai giovani lavoratori. È un compito personale, un compito loro proprio. È il loro compito!».
    Questo compito, assunto dai giovani lavoratori in seno alla chiesa, rifluisce poi come stimolo a tutta la comunità perché si faccia carico della situazione di ingiustizia.
    Notavo prima come ci sia bisogno di un rinnovamento teologico nel nostro Sud Italia, perché avvenga anche un rinnovamento pastorale.
    Un contributo a tale rinnovamento può venire proprio dai gruppi di giovani lavoratori capaci di coniugare la fede cristiana con la loro vita di ogni giorno.

     

    Preghiera di un giovane lavoratore

    Signore, sono un giovane lavoratore; da quando ho 16 anni, sono operaio in una piccola azienda. Ti ringrazio, perché per me il lavoro è una cosa molto importante, perché mi sento utile e posso aiutare la mia famiglia ad andare avanti. Nel lavoro condivido la mia vita con altri lavoratori, e in loro ho la possibilità di incontrarTi. Ti ringrazio, perché attraverso l'ascolto della tua Parola ho imparato a scorgere i segni del Regno nella fatica quotidiana dei miei compagni. Da quando ho cominciato a lavorare ho la fortuna, con un gruppo di giovani del mio quartiere, di confrontare la mia esperienza con la Tua Parola. Questo mi aiuta a vivere la mia fede nella realtà del mondo del lavoro, dove sento di poter partecipare alla costruzione del Tuo progetto di vita piena e gioiosa per l'uomo. In questi anni ho scoperto che non per tutti il lavoro è un'esperienza positiva. Spesso, sperimentiamo la solitudine, e molti di noi, lavorando in piccole aziende dove il sindacato non può entrare, vivono situazioni pesanti, ritmi massacranti, costretti a fare tante ore di straordinario che lasciano pochissimo tempo al riposo, all'incontro con gli amici e allo stare in famiglia. Dove lavoro io, siamo a contatto con acidi e vernici, ma i controlli sulla salute e sugli impianti sono inesistenti. Non sempre siamo solidali tra noi, anche perché abbiamo paura di pagare di persona e di rimetterci del nostro. Signore aiutaci a non cedere davanti alle difficoltà; aiutaci a capire che il lavoro, come il sabato, deve essere al servizio dell'uomo; aiutaci a continuare a lottare, seguendo il tuo esempio, perché queste situazioni di sofferenza e di ingiustizia trovino sempre più dei militanti credenti che se ne facciano carico in un progetto di liberazione e di costruzione del Regno. [15]

     

    NOTE

    [1] Gioventù Operaia Cristiana, Il lavoro dei giovani tra necessità e progetto. Ricerca nazionale GiOC sul rapporto giovani e lavoro negli anni '90, Edizioni Solidarietà, Rimini 1991, 12.
    [2] Cf Episcopato Italiano, Documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, Roma 18 ottobre 1989, n. 8: Enchiridion CEI 4/1929. D'ora in poi ChMez nel testo.

    [3] Per un'analisi più approfondita delle sfide con cui fare i conti al Sud, e delle relative provocazioni per la chiesa e per la teologia, rimando al mio libro Il Signore Dio e gli altri signori. Chiesa e teologia di fronte a dipendenza, mafia, disoccupazione, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1994.
    [4] Cf A. Graziani, «Il Mezzogiorno e l'economia di oggi», in L. Tamburrino-M. Villari (a cura), Questioni del Mezzogiorno. Le ipotesi di sviluppo nel dibattito meridionalista degli anni Ottanta, Edizioni Rinascita, Roma 1988, 147-148.
    [5] Cf F. D'Agostino, La «grammatica» dello sviluppo, Liguori, Napoli 1984, 19.
    [6] D. Farias, Situazioni ecclesiali e crisi culturali nella Calabria contemporanea, Marra Editore, Cosenza 1987, 134; si veda su tale questione tutto l'interessante capitolo La distanza tra politica e cultura nella storia della questione meridionale, 131-178.
    [7] G. De Rosa, «L'Italia 1990 vista dal Censis», in La Civiltà Cattolica 142 (1991) I, 295-303.
    [8] Per l'esplicitazione di questo intreccio, si veda P. Arlacchi, Clientelismo, politica, mafia e lobbies politico-mafiose nel Mezzogiorno contemporaneo, in Aa.Vv., Mafia, partiti e pubblica amministrazione, Jovene, Napoli 1985; F. Cavallaro (ed.), Mafia.Album di «Cosa Nostra», Rizzoli, Milano 1992.
    [9] P. Arlacchi, «L'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo», in Magistratura Democratica, Mafia e istituzioni, Casa del libro, Reggio Calabria 1981; Id., «Tendenze della criminalità», 141-164; P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1989; R. Catanzaro, Il delitto come impresa, Liviana Editrice, Padova 1988; il numero monografico su: «Mafia, 'Ndrangheta e Camorra», in Meridiana 7-8 (1990); U. Santino-G. La Fiura, Impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; G. Falcone, Cose di cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Rizzoli, Milano 1991: per ciò che riguarda l'economia mafiosa, si veda il capitolo Profitti e perdite, 123-145.
    [10] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, 172.
    [11] Cf P. Fantozzi, Intervento alla tavola rotonda, in Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini della Piana, Atti del Convegno Ecclesiale [Taurianova (RC) 19-22 giugno 1985], Tipografia Marafioti, Polistena (RC) 1982, 75-82.
    [12] Si vedano le interessanti proposte in una linea di dissonanza cognitiva e di mediazione creativa delineate da D. Pizzuti, «Il Mezzogiorno degli anni '90: nuovi compiti dei Gesuiti», in Rassegna di Teologia 34 (1993) 2, 170-188.
    [13] W. Kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, Editrice Queriniana, Brescia 1969 [1967], 41-42.
    [14] Si veda il testo integrale della lettera in Adista 27 (1993) 35, 4).
    [15] Gioventù Operaia Cristiana, Il lavoro dei giovani 36.


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