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    La morte come esistenza inautentica (cap. 4 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994

     

    Diverse concezioni della morte

    L'osservazione fenomenologica secondo cui, nell'ambito antropologico, non esiste il «fatto» ma, insieme con il «fatto», sempre e necessariamente anche «il significato» che lo avvolge, se è vera per tutti i «fatti umani», è ancora più vera per la morte, la cui fattualità - il fatto che si muore - quanto più è incontrovertibile tanto più esige di essere interpretata. Per quanto paradossale, si dovrebbe dire che non «esiste la morte» ma «il modo» o i «modi» con cui gli uomini guardano alla morte.
    Ora, se ci si chiede come gli uomini, nella storia, hanno guardato alla morte, si ottiene una infinità di risposte, tante quante sono le biografie personali. Ma poiché le «visioni» della realtà sono sempre modellate dai grandi «codici» culturali (religioni, filosofie, ideologie, ecc.) entro cui gli uomini vivono, anche di fronte alla morte le concezioni individuali sono mediate da quelle più generali che, per motivi di chiarezza, si possono ricondurre a tre.
    C'è innanzitutto la concezione organicistica o naturalistica per la quale la morte, come la vita, viene letta con la categoria della totalità entro la quale l'individuo vive ed è vissuto come parte del tutto, ad esempio come una foglia nei confronti dell'albero o un membro nei confronti del corpo. In una visione come questa, affermatasi nelle società soprattutto agricole, a contatto con la madre terra, la morte individuale non pone particolari problemi: sia perché ciò che conta è il tutto, che permane eternamente, e sia perché il singolo emerge da esso come la nube dal mare, e ad esso ritorna come il fiume nell'oceano. Se oggi, nella società atomizzata del postmoderno, si diffonde sempre più l'angoscia per la morte, bisogna evitare di «metafisicizzare» tale angoscia, come se facesse parte della natura umana e fosse universale, ricordando che la maggior parte delle culture non conosce l'angoscia della morte.
    Tra queste sicuramente quella anticotestamentaria, la cui fede in Dio e il cui amore alla terra prescindono da qualsiasi riferimento al superamento della morte: «Un tratto essenziale della fede veterotestamentaria è la sua completa e illimitata mondanità... Come la parola e l'azione di Dio accadono nel contingente qui ed ora, così l'essere ... dell'uomo con le sue relazioni con Dio e con il mondo circostante è totalmente legato a questa vita. Solo in essa è possibile una vita umana carica di senso. Perciò l'uomo deve strutturare la sua vita presente in modo tale che essa possa raggiungere qui ed ora il suo pieno e profondo significato. Solo nell'aldiqua l'uomo può conoscere e vivere ciò che si può conoscere e vivere. La vita non serve di preparazione all'aldilà, ma riceve il suo vero valore dal momento presente e irripetibile».[1]
    La seconda concezione è quella fattuale, per la quale la morte è un semplice «fatto» o «accadimento» senza senso che richiede di essere accettato coraggiosamente. Ciò che avviene perché deve avvenire, per destino, fatalità o inderogabile necessità, perché è così e non può essere altrimenti, come vuole ad esempio Hume. Una visione come questa, che nel passato era posizione minoritaria, è divenuta la visione predominante di buona parte della modernità che, avendo espulso il trascendente dal «cielo» e dalla «terra», lo ha espulso anche, di conseguenza, dal nascere e dal morire: «fatti» che, senza più senso oggettivo, sono solo l'«inizio» e la «fine» della pagina bianca dove disegnare i propri sensi e progetti.

    La concezione più corrente

    La terza concezione è quella che può essere chiamata trascendente, secondo la quale la morte non è né la fine dell'individuo, come nella concezione organicistica, né l'accadimento senza senso, come nella concezione fattuale, ma il passaggio dall'esistenza terrena, imperfetta e umbratile, a una celeste più felice e completa, la cui immagine efficace è quella della nascita. Di questa concezione si danno soprattutto due figure: una greco-platonica, frutto dell'incontro fra la tradizione platonica e il mito gnostico, l'altra ellenistico-cristiana, frutto dell'incontro fra la tradizione biblica e il pensiero ellenistico.
    Secondo la prima, l'uomo vive nel mondo come in un carcere nel quale resta estraneo e dal quale vuole liberarsi. Questa figura è stata incarnata in forma impareggiabile dalla morte di Socrate così come ce la tramanda Platone nel Fedone: «E la purificazione, come è detto in un'antica dottrina, non sta forse - disse Socrate rivolto a Simmia - nel separare il più possibile l'anima dal corpo e nell'abituarla a raccogliersi e a restare sola in se medesima, sciolta dai vincoli del corpo, e a rimanere nel tempo presente e in quello futuro sola in se medesima sciolta dal corpo come da catene? ...E non è forse questo che noi chiamiamo morte, cioè lo scioglimento e la separazione dell'anima dal corpo?... E a scioglierla, come dicevamo, desiderano ardentemente, sempre e solo, coloro che esercitano filosofia in modo retto. E precisamente questo è il compito dei filosofi: sciogliere e separare l'anima dal corpo... Quindi, come dicevo all'inizio, non sarebbe ridicolo che, mentre un uomo si prepara, durante tutta la sua vita, a vivere in modo da essere quanto più possibile vicino alla morte, quando poi giunga il momento se ne addolori?... È dunque proprio vero, o Simmia, che i veri filosofi si esercitano a morire, e che essi temono il morire molto meno che gli altri uomini... Se essi sono in ogni maniera nemici del corpo, e desiderano avere l'anima sola; e se poi, quando questo avviene, si lasciassero prendere da paura e si sdegnassero, non sarebbe assolutamente assurdo se non andassero volentieri là, dove, giungendo, hanno speranza di possedere, finalmente, quello che amavano in vita, ossia l'amore della saggezza, e di essere liberati dalla compagnia di quello di cui furono nemici quando erano uniti ad esso?» (67B-68A).
    Si è citato per intero questo lungo brano perché come nessun altro ha segnato, in occidente, la concezione della morte, fino a identificarsi tout court con la stessa concezione cristiana.
    La seconda figura è la risultante tra la visione greco-platonica e quella biblica che le fa da parziale correttivo. Qui il corpo e il mondo non sono visti come un «carcere», essendo stati, secondo l'insegnamento scritturistico, creati da Dio, ma neppure come patria definitiva dell'uomo, bensì come tappe inferiori o intermedie da cui «decollare» per entrare nella vita eterna. Da questo punto di vista la morte si carica di una forte ambivalenza: in quanto interruzione di questa vita e di questo mondo - di per sé buoni - rappresenta una rottura dolorosa e drammatica; in quanto introduzione in una vita superiore, rappresenta un evento positivo. Creatura destinata a una felicità superiore per la quale non le bastano le cose create, l'uomo vive la morte come privazione e come arricchimento: privazione del poco che ha e arricchimento del più che avrà. Essere fatto per l'infinito mentre si nutre solo di finito, egli lo sente come sottrazione di questo e accesso a quello.

    La morte come alienazione

    La concezione della morte come passaggio da questa vita a Dio è così radicata e convincente da essere identificata senz'altro - lo si è già notato - con quella biblica. Per quanto, però, suggestiva e appagante, un'identificazione come questa è fuorviante, perché altra è la concezione che della morte ha la Bibbia, se letta al di fuori della precomprensione platonico-ellenistica.
    La differenza radicale tra le due concezioni risiede in questo: che mentre per la grecità la morte è la mortalità come cessazione della vita, per la Bibbia è l'esistenza umana come esistenza alienata; e mentre la cessazione dell'esistenza è per la grecità solo un fatto apparente perché, in quanto passaggio, costituisce in profondità l'ingresso nella vera patria, per la Bibbia è un fatto radicale e irreversibile che accompagna il soggetto umano dalla sua nascita alla tomba, se non ci fosse il nuovo atto ricreatore di Dio attraverso il perdono di Cristo.
    Questa differenza di orizzonte tra la morte come mortalità e la morte come alienazione dell'esistenza umana nel suo dispiegarsi temporale è sostanziale, e qualsiasi ricupero della morte intesa biblicamente passa attraverso il ricupero di questa irriducibile differenza.
    Ma se, per la Bibbia, la morte è l'esistenza alienata e se, per essa, il «morto» non è l'io cadaverico ma il soggetto «estraniato», allora si pone il problema di sapere in cosa consiste questa alienazione.
    Secondo la definizione della filosofia greca, l'alienazione di una cosa è la perdita o fallimento del suo fine; una cosa (dalla pietra al vegetale, all'animale, all'uomo) si aliena quando, non raggiungendo il suo fine iscritto al suo interno, diventa altro (di qui il termine alienazione, che rimanda alla radice aliud, altro) da ciò per cui è fatto. Così, per es., un chicco di grano, fatto per produrre grano, «si alienerebbe» se non lo producesse: non sarebbe più tale, sarebbe altro, estraneo alla «sua» verità per la quale la natura (o l'essere o Dio) l'ha voluto. L'alienazione di una cosa è il fallimento del suo fine, mentre la sua realizzazione ne è il compimento.

    Qual è il fine dell'uomo?

    Se, come per ogni cosa, l'uomo si realizza o si aliena a seconda del compimento del fine, è giocoforza chiedersi qual è questo fine.
    Se il fine dell'uomo è di ricongiungersi con il divino, è veramente insensato, come vuole Socrate, attardarsi nel sensibile e nel mondano; in questo caso alienata è quella esistenza che, invece di tendere verso la patria celeste, la dimentica, come il pellegrino disattento si dimentica della casa che l'attende. È questa la visione sottesa alla concezione platonica e gnostica che permane prepotentemente nell'immaginario cristiano.
    Se invece il fine dell'uomo è la reimmersione nella totalità, è insensato permanere nella propria individualità; in questo caso alienata è quella esistenza che, invece di perdersi nel fiume della vita che in essa si esprime, se ne allontana rivendicando la propria individualità.
    Se, da ultimo, il fine dell'uomo è la «volontà di potenza», cioè la piena espressività della sua corporeità luogo di sedimentazione della spinta vitale, alienata è quella vita che, come ha denunciato con violenza Nietzsche, sostituisce platonicamente l'anima al corpo e, cristianamente, Dio all'anima.
    Per la Bibbia, però, altro è il fine dell'uomo: non è né il ricongiungimento con il divino né la reimmersione con la totalità né l'autoespressività della corporeità umana, bensì l'essere partner di Dio al quale questi affida il suo progetto di amore che è la creazione»: il suo «sì» o «l'eccomi» attraverso cui l'eterno entra nel tempo e la storia accoglie il trascendente.[2]
    Ricorrendo alla categoria centrale della Bibbia, il fine per il quale l'uomo è stato voluto da Dio, realizzando il quale egli trova l'identità e incontra la felicità, è l'alleanza che, come la definisce A. Chouraqui, «è il luogo metafisico privilegiato dell'incontro dell'Essere e degli esseri»,[3] dove Dio e l'uomo si incontrano, coesigendosi e coappartenendosi in un rapporto di reciprocità.
    Stando alla logica dell'alleanza, non è l'uomo ad avere bisogno di Dio, facendo di lui il fine del proprio cammino, ma Dio che ha bisogno dell'uomo, affidandogli il fratello da amare gratuitamente, come egli stesso lo ama.
    Per la Bibbia il fine dell'uomo, pertanto, è di «amare il prossimo», secondo quella radicalità di accezione della parabola lucana del samaritano, dove si ridefinisce l'amore come amore di alterità, come movimento che non va verso l'altro già prossimo per una comune appartenenza (biologica, territoriale, ideologica o religiosa), ma che istituisce una nuova prossimità come nuova possibilità: il farsi prossimo all'alterità dell'altro, raggiungendolo nella sua radicale lontananza.
    Il fine dell'uomo, per la Bibbia, è l'amare il prossimo secondo questa modalità di amore che, come quello di Dio, è libertà di amore: gratuità e bontà. L'uomo realizza il suo fine ed entra nello spazio della felicità quando, nel tempo cronologico che ritma i suoi giorni, compie questo gesto di amore di alterità, dentro la cui scarna figura si dischiude, secondo il racconto lucano, la stessa «vita eterna». Si tradirebbe alla radice questa affermazione se la si interpretasse come aldilà metastorico da identificare con il dopo morte. La vita eterna di cui parla il testo è la vita terrestre sottratta all'apparenza e abitata dal senso, la vita che, non nell'immaginario del sogno o del desiderio, ma nel suo scorrere quotidiano ha già vinto la morte che la minaccia.
    Un suggestivo racconto talmudico narra: «Rabbi Jehudah soleva dire:
    Nel mondo sono state create dieci cose dure.
    La montagna è dura. Ma il ferro può spaccarla.
    Il ferro è duro. Ma il fuoco può piegarlo.
    L'acqua è dura. Ma le nuvole la portano.
    Le nuvole sono dure. Ma il vento può cacciarle.
    Il vento è duro. Ma il corpo può resistergli.
    Il corpo umano è duro. Ma la paura può spezzarlo.
    La paura è dura. Ma il vino può bandirla.
    Il vino è duro. Ma il sonno può vincerlo.
    Ma la morte è più forte di ogni cosa.
    Tuttavia la "giustizia libera dalla morte" (Prv 10,2)».[4]
    La vita escatologica, veramente piena, è in questo gesto di bontà che in ogni istante vince la morte perché in ogni istante realizza il fine dell'uomo dischiudendogli la felicità.

    L'esistenza alienata

    Per la Bibbia l'esistenza umana è alienata perché in essa si è inaridito il gesto dell'amore di alterità e l'uomo, invece che custode del fratello, se ne è fatto nemico, sottraendogli la vita invece di donargliela. Per la Bibbia l'esistenza umana è «morta», incapace di realizzarsi nella sua verità e felicità, per questo pervertimento del suo fine che ha transustanziato il soggetto da angelo custode del fratello [5] a omicida, secondo quanto narra la storia biblica di Caino e Abele.
    All'apparenza un'affermazione come questa sembra inaccettabile, perché la storia umana, oltre che dalla violenza, è anche abitata dalla potenza dell'amore che spinge ognuno verso l'altro. Ma, come si è più volte notato, l'amore che, per la Bibbia, realizza l'uomo e il suo fine, non è l'amore di desiderio, dove l'altro è vissuto come momento interno al proprio compimento, bensì l'amore di alterità dove l'altro è l'assoluto che, nella sua irriducibilità, destituisce l'io come volontà di potenza e lo rigenera come servizio ed «eccomi». La Bibbia non ignora che l'uomo ama, ma, per essa, ogni suo amore è dentro il più fondamentale e radicale amore per il suo io, «motore immobile», «principio» e «fine», di ogni suo pensare e agire. Per la Bibbia l'esistenza umana è alienata per questa curvatura dell'io su se stesso, incapace di accedere all'alterità dell'altro che, invece di essere accolta e custodita come la «pupilla» stessa di Dio, viene ignorata e, se riconosciuta, come nel caso di Caino, cancellata con la violenza come insopportabile minaccia.
    La ragione che, come un virus, impedisce all'io di dispiegarsi nella verità e lo aliena, è questa violenza radicale che l'inabita già dal seno materno, secondo la rilettura che recentemente M. Tournier ha fatto della storia di Caino: «Ogni donna incinta porta in seno due bambini. Quello più forte non tollera la presenza del più debole. Non vuole dividere con lui il nutrimento materno. Lo strangola nella pancia della madre. Lo divora. Poi si affaccia al mondo da solo. Macchiato da quel peccato originale, tradito dalle stigmate che si porta addosso. L'umanità è fatta di orchi. Sì, di uomini giganteschi, con mani di strangolatori e denti di cannibali. E questi uomini vagano per il mondo disperatamente soli; pieni di rimorsi, perché sanno che il loro fratricidio originario ha scatenato il torrente di crimini e di violenza che noi chiamiamo Storia».[6]
    Per la Bibbia al fondo della irrealizzazione della storia umana c'è questa violenza negatrice dell'alterità dell'altro che inabita la soggettività umana fin dalla nascita e che aliena non solo se stessa, frustrandone il fine che è la vocazione ad amare, ma ogni altro e lo stesso mondo. La soggettività incapace di alterità non solo si aliena ma, nello steso tempo, aliena, disegnando un mondo dove ogni cosa - persone e cose, affetti e istituzioni - è avvolta nello spessore della sua alienazione.
    Alienazione dell'io, alienazione dell'altro e alienazione del mondo: questa la solitaria e triste landa senza vita dispiegata dalla soggettività autocentrata, incapace di amare, negatrice dell'alterità dell'altro.

    La colpa alla radice dell'esistenza alienata

    Per la Bibbia, però, il racconto di Caino che pone alla radice dell'alienazione umana la violenza, a differenza delle culture organiche, non è ritenuto un mito fondatore. Essa, infatti, non fa iniziare la storia umana con la violenza di Caino, nella Genesi collocata al capitolo quarto, bensì con il mito della creazione sette volte «buona» (Gn 1) e bella come un giardino di delizie (Gn 2) che Adamo, con la sua disobbedienza, trasforma da creazione in anticreazione e da paradiso in inferno (Gn 3).
    La grande affermazione del testo biblico, che a livello di fenomenologia religiosa e letteraria resta forse unica, è pertanto questa: la violenza che segna la storia umana con una costanza e persistenza da sembrare la sua stessa legge, come affermano la maggior parte dei miti fondatori, è estranea alla volontà creatrice e ricade sul volere umano che si nega a Dio. È questo il senso del racconto del peccato di Adamo - l'Uomo che sta per l'uomo di ogni tempo - dal cui gesto di disobbedienza entrano nel mondo la sofferenza, il disorientamento e il caos. Come scrive un maestro dell'esegesi, Gerhard von Rad: «L' agiografo non presenta una descrizione diretta e positiva dello stato di vita paradisiaco, ma si limita ad elencare i grandi disordini introdotti nella nostra vita presente - vergogna, paura, incongruenze nella vita della donna e dell'uomo - e a trovarne la causa nel peccato. E questo è precisamente lo scopo di tutto il racconto. Si può vedere in esso "una teodicea di proporzioni universali" (Hempel); infatti si tratta di non far risalire a Dio e alla creazione tutti gli affanni e le sofferenze che si sono introdotti nel mondo... la storia jahvistica del paradiso e della caduta vuol far vedere in che modo dalla creazione si sia venuti al caos della vita disordinata che oggi ci circonda».[7]
    Questo nesso causale tra la disobbedienza dell'uomo e l'alienazione del mondo (che, come si è visto, è il cuore stesso dell'alleanza) viene formulato esplicitamente nello stesso racconto edenico quando, al termine della creazione del giardino, Dio, consegnandolo alla libertà di Adamo, lo ammonisce: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,16).
    Viene così stabilito il grande principio biblico secondo cui disobbedire a Dio è morire e che il Nuovo Testamento, con Paolo, condensa nella massima lapidaria: «Il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23), attraverso la quale egli rilegge la storia umana di alienazione e quella della sua liberazione mediante il gesto di perdono di Cristo sulla croce.
    Ma se non si vuole restare vittima di un abbaglio ermeneutico, bisogna guardarsi dall'interpretare la mortalità della Genesi e di Paolo come sanzione o castigo esterno che Dio ha inflitto all'umanità privandola dell'immortalità originaria che le era stata donata.
    Per C. Westermann, «la pena minacciata da Dio in Gn 2,16s ("nel giorno che ne mangerai, per certo morrai") non indica il passaggio da una presunta immortalità alla condizione mortale, ma esprime una sentenza di condanna da eseguirsi dopo la trasgressione. Dopo la trasgressione, la sentenza di morte sarà da Dio commutata in una sorta di carcere duro a vita: Adamo ed Eva non morranno, ma vivranno una vita non più così come Dio l'avrebbe voluta, ma segnata da tribolazioni e avversità».[8]
    Westermann ha ragione nell'interpretare la minaccia del testo biblico non nel passaggio dalla immortalità alla mortalità ma nella «condanna a morte»: a condizione però di non intenderla (come sembra ancora fare Westermann) in senso estrinseco, come un intervento motivato dalla volontà punitiva di Dio, bensì come l'alienarsi stesso dell'esistenza umana, estrinsecazione e oggettivazione della potenza distruttiva del peccato. Disobbedire a Dio, per la Bibbia, non è un gesto che si consuma tra Dio, l'offeso, e l'uomo, l'offensore, ma coinvolge, contemporaneamente e necessariamente, anche il mondo come creazione. Essendone Dio, infatti, il principio d'amore, una volta negato con il peccato, è il mondo stesso come creazione che viene negato e che, per questo, si perverte in anticreazione.
    L'alienazione è la creazione capovolta, o l'anticreazione, frutto della colpa: della libertà dell'io che si nega a Dio e al suo principio di amore che è il principio della creazione.

    La risurrezione come disalienazione della storia

    Se la morte è l'esistenza umana alienata a causa della colpa, la risurrezione è il capovolgimento di questo capovolgimento: dell'esistenza alienata in esistenza autentica e della colpa che la genera in libertà buona che la cancella. Di qui il duplice e sconvolgente significato della risurrezione, il messaggio centrale e l'«evangelo» - cioè la buona novella - del Nuovo Testamento: che l'esistenza alienata può disalienarsi e che la colpa che la genera può essere sconfitta. «Non abbiate paura. So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto... Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l'ho detto» (Mt 28,5-7): quando all'udito dei primi cristiani risuonava questo annuncio, chiamato chérigma, essi non pensavano al fatto che, dopo la loro morte, sarebbero tornati in vita, ma che l'alienazione del mondo, di cui erano artefici e vittime, per essi non era più «potenza» invincibile e che, nella loro storia, si ridischiudeva l'orizzonte del regno di Dio o della creazione.
    In quanto ricostituzione della creazione, la risurrezione è la reinstaurazione della bontà del mondo, la speranza/certezza che le inesauribili potenze e figure di male che lo avvolgono, dalle sofferenze, alle malattie, alle ingiustizie, ecc., devono e possono essere sconfitte perché non ineriscono alla storia come legge immanente, come castigo irreversibile o come destino malvagio, ma sono il frutto della soggettività umana; ma soprattutto è la reinstaurazione del principio soggettivo, al quale è sospesa la creazione: il principio alleanza che la sorregge e la cui negazione la aliena.
    È soprattutto a questo livello che i discepoli colgono la potenza di senso della risurrezione di Gesù: la soggettività che, nel mondo alienato, vittima della più nefanda alienazione che è la morte ingiusta sulla croce, nonostante tutto si vive come soggettività obbediente e amante, dando a ogni altra soggettività la possibilità di fare altrettanto.
    Così, per loro, si dischiude, lentamente, una nuova coscienza: la disalienazione del mondo, la sconfitta delle potenze del male, l'avvento del regno di Dio e della pace, la realizzazione dell'era messianica, il sogno di un mondo ordinato e felice, ecc., non sono realtà da attendere né nel lontano futuro, come voleva il profetismo, e neppure nell'aldilà metastorico, come volevano gli apocalittici, ma sono realtà finalmente attuali legate a un «cuore nuovo»: al gesto di amore di alterità, all'amore accolto e acconsentito del Dio della creazione.
    Per l'evangelo l'uomo «risorge», disalienandosi e disalienando, ogni qualvolta, come il samaritano della parabola lucana, torna a compiere il gesto dell'amore di alterità, grazie al quale accede alla «vita eterna»; ogni qualvolta, cioè, il suo cuore da curvato irrimediabilmente sul suo io, torna a farsi prossimità all'altro, custode del suo bisogno con il dono del «pane» e dell'amicizia, cioè della creazione. È questa la ragione per la quale per Paolo il senso della morte e risurrezione di Gesù è colto nel dono dello spirito: perché è il dono dello spirito che risveglia il soggetto umano alla sua vocazione di agape, il principio ultimo o escaton grazie al quale il mondo rifiorisce come creazione (cf 1 Cor 13).

    Le due «figure» della risurrezione

    La risurrezione come principio di disalienazione del mondo e della sua ricostituzione come creazione si presta a una obiezione che la smentisce impietosamente: dove, in duemila anni di storia, da quando i credenti nel Risorto hanno continuato a proclamarne la vittoria, le forze del male sono state sconfitte e il mondo è stato redento? E, obiezione ancora più impietosa: non è vero che, anche dopo e nonostante l'evento del Crocifisso risorto, l'ingiustizia ha continuato come sempre ad abbattersi sugli innocenti e sui giusti e che questi, invece di avere compiuta la loro esistenza secondo il principio dell'alleanza, se la vedono sempre sottratta dalla violenza dei prepotenti e dei malvagi?
    Per quanto riguarda la prima obiezione c'è da precisare che, se è vero che il mondo, nonostante il Risorto, non è ancora redento e mai lo sarà, è altrettanto vero, anche se paradossalmente, che nella coscienza neotestamentaria si fa strada lentamente la convinzione radicale che il dono del Risorto non consiste nella redenzione del mondo ma del principio soggettivo che sottostà alla sua alienazione, del «cuore pietrificato» (cf Ez 36,26), che, incapace di leggere il mondo come creazione e di rispondervi, lo cancella con la sua insensibilità e violenza. È vero che, dopo il Risorto, il mondo ancora attende di essere redento; ma la buona novella data dall'evangelo è che, dopo il Risorto, a ogni uomo e a ogni donna del mondo è data la possibilità di rinascere alla coscienza della propria responsabilità indeclinabile alla quale Dio affida la creazione e alla quale, attraverso il perdono, chiede di nuovo di farla rifiorire. Per la coscienza neotestamentaria il mondo è redento perché in esso i soggetti che lo abitano possono compiere, entro le potenze del male prodotto dal peccato, un gesto che può capovolgerle e detronizzarle: il gesto dell'amore e del perdono con cui l'io torna a farsi cuore obbediente e amante, spezzando la logica della violenza e reinstaurando quella della creazione da accogliere e ridonare.
    Ma come rispondere alla seconda obiezione, a quella di chi osserva come, ancora oggi, il mondo che si vuole redento è ancora, come sempre, il mondo dove gli innocenti e gli ingiusti pagano per i cattivi e i violenti?
    A un primo livello va notato che anche il giusto che muore ingiustamente, proprio nel suo essere giusto, nel suo gesto di amore e di perdono, può trovare il suo senso e la sua felicità. Come vuole Kant, la virtù etica, in senso alto, è premio a se stessa e il fine dell'azione buona è il suo stesso dispiegamento nella luminosità e verità della sua oggettività. Ma poi ché per la Bibbia il soggetto giusto è anche il soggetto al quale Dio, per la logica dell'alleanza, ha promesso la felicità, dove questa viene a mancare è la giustizia stessa di Dio che viene a fallire. È questa la ragione, come si è già notato, per la quale la Bibbia ebraica, prima ancora di Gesù e sulle soglie del Nuovo Testamento, giunge al postulato dell'esistenza di uno spazio non più storico ma metastorico dove finalmente si ristabilisce quel nesso tra giustizia e autocompimento, responsabilità e autorealizzazione, bontà e felicità che, per la potenza del male, a livello empirico, troppo spesso viene negato.
    Di qui la ragione per la quale la risurrezione come ricreazione del mondo diventa, già nel Nuovo Testamento, la realizzazione della piena felicità da raggiungere dopo morte, la comunione piena di tutti «i risorti» nel Cristo «Risorto», dove «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì né mai entrarono in cuore d'uomo» (cf 1 Cor 2,9) diventeranno realtà.
    Ma questa dimensione reale e irrinunciabile della risurrezione come evento metastorico non deve cancellare quella della risurrezione come ricreazione della storia alienata, con il rischio, altrimenti, di omologarla indebitamente alla categoria della immortalità estranea alla Bibbia.
    È vero. L'evento della risurrezione non si limita alla storia ma raggiunge la metastoria. Questa, però, non è altra dalla storia ma il suo pieno dispiegamento come creazione dove, finalmente e stabilmente, la libertà buona e il mondo buono si baceranno per farsi alleati per sempre.
    La risurrezione come ricreazione del mondo alienato e la risurrezione come evento metastorico finale non sono altre l'una dall'altra ma ambedue il dispiegamento del principio alleanza.
    Perché è questa la realtà ultima e intrascendibile, l'escaton, dal quale fiorisce la creazione: a livello storico e anche metastorico.


    NOTE

    [1] G. Fohrer, cit. da D. GARRONE, Morte e vita eterna secondo la Bibbia ebraica, in AA. VV., L'aldilà nella Bibbia. Atti del Convegno Nazionale, Biblia, Settimello (FI) 1992, pp. 12-13.
    [2] Di questo «eccomi» sostanza dell'antropologia biblica, la vergine di Nazaret, nel suo «ecce ancilla Domini» («ecco la serva del Signore») è l'immagine o icona espressiva e permanente.
    [3] A. CHOURAQUI, Il pensiero ebraico, Queriniana, Brescia 1989, pp. 17-18.
    [4] Talmud babilonese Bava Bathra 10a. Cf J. J. PETUCHOWSKI, «I nostri maestri insegnavano...», Morcelliana, Brescia 1983, p. 178. Si noti però che indebitamente la traduzione italiana rende con carità il termine originale che è «giustizia».
    [5] Cf quanto ho scritto in Celebrare la vita. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1991, pp. 54-56: «Chi è l'angelo custode?».
    [6] M. TOURNIER, Il re delle ontani. Le meteore in «La Repubblica» 22.1.1993, p. 28.
    [7] G. von RAD, La Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 126.
    [8] Così è riassunta la tesi di C. Westermann da D. GARRONE, in Dallo Sheol alla Gerusalemme celeste. Morte e vita eterna secondo la Bibbia ebraica, in AA. VV., L'aldilà nella Bibbia, cit., p. 28.


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