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    Il giudizio di Dio (cap. 5 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994

     

    Un testo classico

    Nella tradizione cattolica pochi testi hanno avuto tanta fortuna come il Dies irae dies illa («Giorno di ira sarà quel giorno»), un canto risalente al XII o XIII secolo, che per centinaia di anni, fino al Concilio Vaticano II, è stato utilizzato dalle comunità cristiane per accompagnare il fratello defunto nel suo passaggio da questo mondo a Dio. Con un linguaggio carico di paura e di minaccia, l'autore del testo immagina che il defunto compaia dinanzi a Dio per essere giudicato e destinato o alla condanna eterna, l'inferno, oppure alla salvezza eterna, il paradiso. Chi scrive sente ancora risuonare nella profondità della sua memoria queste note solenni e dolenti che, per decenni, lo hanno accompagnato quasi quotidianamente:

    Giorno d'ira sarà quel giorno,
    quando il mondo sarà cenere,
    come annunciarono Davide e la Sibilla.
    Quale spavento,
    quando il Giudice apparirà,
    e ogni cosa giudicherà con severità.
    L'alto squillo di tromba
    dovunque risuonerà sulle tombe
    e radunerà tutti davanti al Trono.
    Morte e natura stupiranno
    quando tutte le creature risorgeranno
    per rispondere al loro Giudice.
    E finalmente sarà aperto il libro
    sul quale è segnata ogni cosa
    in base a cui ognuno sarà giudicato.
    E quando il Giudice si siederà
    ogni segreto sarà svelato
    e nessuna cosa resterà impunita.
    Che dirò, allora, me infelice,
    e quale santo invocherò
    se neppure il giusto è al sicuro?
    O re di tremenda maestà
    che salvi gratuitamente i tuoi amati
    salva anche me,
    tu fonte dell'amore.
    E ricordati, buon Gesù,
    che il motivo della tua venuta sono io:
    per questo, ti prego, non abbandonarmi.
    Ti sei affaticato per cercarmi,
    sei morto sulla croce per salvarmi:
    che questo tuo soffrire non sia vano.
    Tu che sei giudice giusto nel punire
    fammi dono del tuo perdono
    prima ancora che giunga il giorno del giudizio...
    Se tu hai perdonato Maria
    e hai esaudito il ladrone
    allora in te posso sperare anch'io...
    Mettimi fra gli agnelli
    e, separandomi dai capri, mettimi alla tua destra.
    Quando saranno confusi i maledetti
    e condannati al fuoco eterno,
    tu chiamami insieme ai benedetti...
    Giorno di pianto sarà quel giorno
    quando dalle ceneri l'uomo peccatore risorgerà
    e sarà giudicato.
    O Dio, concedigli il perdono!
    O Signore Gesù misericordioso
    dona loro il riposo. Amen.

    Si è citato quasi per esteso questo testo attribuito al Celano non solo perché di grande rilevanza culturale, per aver segnato circa mille anni di storia religiosa cristiana, ma soprattutto perché riassume in forma magistrale la complessità e l'ambiguità del tema del «giudizio universale», il tema escatologico per eccellenza che ha lasciato tracce indelebili nella stessa tradizione artistica occidentale. È sufficiente ricordare, a proposito, il Giudizio Universale di Michelangelo, dipinto nella cappella Sistina dal 1535 al 1541 sotto Paolo III, che al centro presenta la figura di Cristo Giudice insieme a Maria e ai vari santi, a destra gli eletti che salgono in cielo e a sinistra i dannati che precipitano nell'inferno.

    «Il giudizio» nella Bibbia

    Il tema del giudizio come giorno di ira si afferma, nella Chiesa, tardivamente, verso la fine del secolo XIII, quando da una concezione serena della morte si passa a una terrificante e macabra.[1]
    Ciononostante, comunque, nella sostanza teologica il tema del giudizio appartiene al patrimonio stesso della fede e fa parte dello stesso credo: «Credo in un solo Signore Gesù Cristo... [che] di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».
    Se è entrato nel «Credo» delle Chiese cristiane, è perché, prima ancora, il tema del giudizio appartiene al patrimonio biblico, sia anticotestamentario che neotestamentario.
    Per quanto riguarda l'Antico Testamento, nel profetismo è noto il tema del «giorno del Signore», un giorno collocato prima nell'ambito storico poi, successivamente, in quello metastorico, in cui Dio interviene con la sua straordinaria potenza per annullare le potenze del male e instaurare il trionfo del bene. Tra i tanti, esemplare il testo di Malachia, dell'epoca immediatamente postesilica, dove si annuncia l'arrivo di un giorno in cui Dio, come un fuoco purificatore, interviene per salvare il suo popolo:

    Chi sopporterà il giorno della sua venuta?
    Chi resisterà al suo apparire?
    Egli è come il fuoco del fonditore
    e la lisciva dei lavandai.
    Siederà per fondere e purificare;
    purificherà i figli di Levi,
    li affinerà come oro e argento,
    perché possano offrire al Signore
    un'oblazione secondo giustizia.
    Allora l'offerta di Giuda e di Gerusalemme
    sarà gradita al Signore come nei giorni antichi,
    come negli anni lontani
    (Ml 3,2-4; cf pure Is 1,25; 48,10; Ez 22,17-22).

    Si tratta di un testo particolarmente importante non solo perché vi si trova l'immagine del fuoco che diventerà dominante nella concezione cristiana del «purgatorio» e dell'«inferno», ma soprattutto perché ne definisce il senso che, insieme con quello della «lisciva del lavandaio», non è quello della punizione e della condanna, bensì della purificazione e della salvezza.
    Il tema del giudizio si ritrova anche nel Nuovo Testamento, ma riletto cristologicamente. Il «giorno del Signore» diventa il giorno del crocifisso che ha vinto la morte, mentre il Signore che siede sul tribunale per giudicare e salvare diventa il Cristo stesso, il risorto: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10).
    Un altro dei testi molto celebri è quello di Paolo ai Tessalonicesi, dove, con ricchezza di immagini, descrive l'incontro finale, da lui ritenuto imminente, dei morti con il Cristo: «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4,16-17; cf pure 2 Cor 4,14).
    Ma il brano neotestamentario più noto del giudizio universale di Cristo è quello che si trova nel vangelo di Matteo: «Quando il figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra...» (Mt 25,21-23).

    Cosa vuol dire essere giudicati

    Di fronte a testi come questi - dalla sequenza di Tommaso da Celano alla parabola di Matteo - che sono entrati a far parte non solo della tradizione cristiana ma dello stesso immaginario occidentale, è necessario interrogarsi sul loro reale contenuto, evitando sia l'atteggiamento di chi ne assume il linguaggio alla lettera sia l'atteggiamento di chi, pur riconoscendovi un valore poetico, li ritiene privi di ogni verità oggettiva.
    Un equivoco da evitare è di interpretare il tema del «giudizio» divino in chiave di minaccia e di condanna. Anche se è vero che, a partire soprattutto dalla fine del Medioevo e dall'inizio della modernità, spesso il tema del giudizio è stato interpretato in questa chiave, come strumento di paura e di controllo sociale, ciò, comunque, non è mai entrato a far parte della sua sostanza teologica. Se ogni «mito» svela una verità, questo vale anche per il «mito» del giudizio che, in quanto tale, contiene una verità non trascendibile.
    Per capire quale sia questa verità svelata, si può partire dal significato etimologico del termine nella sua forma verbale, dove giudicare significa: dire il giusto, affermare ciò che è giusto. Il giudizio è l'orizzonte dell'è giusto che disegna l'esistenza umana nella verità, definendone la «salvezza» o la «condanna», la conformità alle sue esigenze («è giusta») o difformità («non è giusta»). L'orizzonte dell'è giusto è l'orizzonte dove il soggetto umano si vive come posto e misurato, soggetto a un qualcosa non prodotto dal suo io ma misurante il suo io. È a misura, infatti, che, fondamentalmente, rimanda l'aggettivo «giusto», come nell'espressione un'«ora giusta» oppure un «peso giusto». In frasi come queste, affermare di una cosa che è «giusta» vuol dire rapportarla a un parametro esterno al quale deve adeguarsi e dal quale viene definita.
    Anche se a un livello qualitativamente diverso, perché non più materiale ma morale, il termine conserva lo stesso significato quando viene applicato all'esistenza umana; questa è giusta se conforme a un principio che la misura, «ingiusta» se vi si sottrae. È proprio qui, a livello morale, che il termine «giusto» dischiude il suo spessore semanticamente e ontologicamente più specifico; mentre, infatti, nell'ambito naturale una cosa è «giusta» o «non giusta» in virtù di un principio o parametro esterno che la riguarda indirettamente, nell'ambito morale l'uomo è «giusto» o «ingiusto» in virtù di un gesto sommamente personale: l'accoglienza o rifiuto dell'istanza di trascendenza che lo appella e che, nella parabola matteana sopracitata, è l'istanza dell'Amore che chiama incondizionatamente ad amare.

    Il giudizio dell'amore

    Quando si parla di giudizio, la prima reazione è quella di fastidio, come se si stesse subendo un torto. È questa la ragione per la quale Gesù proibisce ai suoi discepoli di giudicare: «Non giudicate per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello» (Mt 7,1-5).
    Forse i motivi per cui l'evangelo sottrae all'uomo il giudizio sul suo simile sono due: perché esso troppo facilmente, come ci mostra l'esperienza, più che del «giusto» è l'espressione dell'«ingiusto» e soprattutto perché, a causa della violenza che avviluppa la soggettività umana, esso è sempre inquinato, e più che dall'istanza del bene è mosso da quella della vendetta. È questa la ragione per la quale la conquista più alta nella storia umana è l'istituzione del Tribunale, la cellula originaria del Diritto, con il quale si sottrae al singolo il «giudizio» - l'affermazione del giusto e dell'ingiusto - per affidarlo a un'istanza transindividuale che non sia l'espressione della vendetta soggettiva ma dell'ordine oggettivo violato.
    L'evangelo - la buona novella - mette però in guardia anche nei confronti del giudizio dei tribunali: «A chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Mt 5,40-42). Questo testo non è la negazione del valore del Tribunale, bensì la messa in guardia del limite che inerisce anche ad esso: perché l'ordine del giusto, che il Tribunale afferma e riafferma, non è, per l'evangelo, l'ordine della necessità e della fatalità, bensì dell'Amore personale che, al di là dell'ordine violato, si prende a cuore la sorte di colui che l'ha infranto. Risiede qui, per l'evangelo, il limite intrinseco di ogni Tribunale, che, se ha il potere di ristabilire l'ordine violato, è impotente di fronte al soggetto - il «peccatore», il «violento», il «malvagio», ecc. - che l'ha infranto. È questa l'aporia di ogni diritto penale, il quale, se può ottenere che chi fa il male venga messo nelle condizioni di non farlo più, non è però in grado di modificarne la soggettività.
    Per questo solo Dio, per la Bibbia, è di diritto il Giudice dell'uomo e della storia: perché solo il suo è un giudizio che proviene dall'Amore, capace di ricostituire non soltanto l'ordine violato ma anche il soggetto - il «peccatore» - che ne è l'autore.
    Un giorno un giornale riferiva l'intervista a una madre il cui figlio si era macchiato di omicidio; alla domanda di cosa provasse nei suoi confronti ha risposto: «Sì, lo condanno. È vero, ha fatto male. Deve pagare per quello che ha fatto. È giusto che rimanga in carcere. Ma io lo amo, continuo ad amarlo».
    A differenza del giudizio del tribunale, il giudizio di questa madre tiene insieme uniti, paradossalmente, sia la condanna, sia l'amore; per lei non solo la condanna, che è senza mezzi termini e ferma, non cancella l'amore, ma questo si riaccende dentro quella come nuovo amore che è il perdono.
    Per la Bibbia il giudizio al quale Dio sottopone l'esistenza umana è il giudizio dell'amore, un giudizio che proviene dall'amore e che ricostituisce l'amore e che, mentre ne smaschera la dimensione di violenza e di alienazione, continua ad avvolgerla nel superiore e nuovo amore del perdono, il gesto di non violenza che, nel mondo di violenza, ha in sé il potere di rigenerarla. Per questo, per il Nuovo Testamento, il giudizio sul mondo è quello stesso di Cristo: «Egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» (At 10,42); «il Padre, infatti, non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio» (Gv 5,22); «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19). Si tratta di un giudizio peculiare, il cui fine paradossale, in realtà, è quello di annullarlo: «Chi crede in lui [Cristo] non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito figlio di Dio» (Gv 3,18).

    L'esistenza amata

    Affermare il giudizio di Dio sull'esistenza umana è affermare, su di essa, l'amore del Padre, il quale «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45); ed è soprattutto affermare che, per quanto alienata, essa è sempre nella possibilità di redimersi. Per questo, il giudizio di Dio sul mondo, lungi dal rivelarsi come una condanna, si rivela, in profondità, come «evangelo», come buona notizia, come parola di fiducia e di speranza.
    Già è stato notato che, nella Bibbia, le affermazioni escatologiche riguardanti il futuro non nascono dal desiderio e neppure dall'intelligenza bisognosa di trascendimento, bensì dall'esperienza della fedeltà e della vicinanza di Dio alla propria vita. Se questo è vero per tutte le affermazioni escatologiche, lo è ancora più per il tema del giudizio, il cui significato primario è quello di affermare il valore incondizionato della positività dell'esistenza umana. Se infatti a giudicarla è il Crocifisso, colui la cui identità è di essere, per definizione, la «compagnia» dei «pubblicani» e dei «peccatori», allora ciò vuol dire che essa è già redenta, essendo sotto lo sguardo di amore e di perdono di colui la cui vita, secondo l'ardita immagine di Paolo ai Corinzi, Dio ha scambiato e barattato con quella dei peccatori (cf 2 Cor 5,18-21).
    Come ci ha insegnato l'esistenzialismo, l'esistenza umana può dispiegarsi storicamente secondo due modalità irriducibili: come esistenza autentica oppure inautentica, come esistenza realizzata oppure alienata. Per chi vive, nella fede, sotto il giudizio divino dell'amore e del perdono, il tratto costitutivo dell'esistenza autentica è, innanzitutto, la coscienza di essere amato, nonostante e al di là della stessa inautenticità o alienazione. L'esistenza umana diventa se stessa e si disvela nella verità quando cessa di essere vissuta come esistenza progettuale per entrare nell'orizzonte della gratuità, quando, cioè, si scopre esistenza donata e perdonata.
    Secondo la narrazione evangelica, Gesù muore crocifisso insieme con due malfattori appesi uno alla sua destra, uno alla sua sinistra. Se durante la sua vita Gesù è stato il grande amico dei «pubblicani» e dei «peccatori», parlando la loro lingua e sedendo alla loro mensa, è sulla croce che, lasciandosi crocifiggere insieme con due di loro, incarna il massimo della sua compagnia facendosi vicinanza nel luogo dell'estrema lontananza.
    Nella versione di Marco anche i due malfattori scherniscono Gesù, mentre nella versione di Luca uno di essi si dissocia invocando: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Al che segue la risposta di Gesù: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,42-43). Il senso di questa aggiunta sapiente non è di riferirci che, dei due malfattori, Gesù salva solo quello che, all'ultimo momento, si è ravveduto ed è diventato buono (un'interpretazione come questa sarebbe la negazione stessa dell'evento della croce); bensì quello di esplicitare, attraverso il dispiegamento narrativo, che ogni esistenza, per quanto alienata come quella di un malfattore che muore condannato sulla croce, è già, in profondità, esistenza redenta («oggi sarai con me in paradiso») perché esistenza donata dall'amore del Padre e ridonata dal perdono del Figlio crocifisso.
    Il giudizio che inabita la storia di ogni uomo è il giudizio del crocifisso che, invece di condannare il peccatore che sbaglia, ne assume il peso portandolo lui stesso. Ed entro questo gesto così radicale e così paradossale - il gesto di chi «paga» al posto di un altro - l'uomo riscopre la sua identità originaria di soggetto amato che vive in forza della grazia, di ciò che, in ogni istante, gli è dato gratis.

    L'esistenza amante

    La parola ultima e decisiva dell'esistenza autentica non è, però, la recettività passiva, la coscienza di vivere in forza della grazia, bensì la sua trasformazione in principio del proprio agire, cioè la responsabilità radicale nei confronti dell'altro: la responsabilità escatologica.
    La parabola matteana continua, infatti, riportando il discorso inappellabile di Cristo giudice di fronte alla totalità dell'umanità raccolta in due parti, annunciando all'una la salvezza («Venite, benedetti dal Padre mio ... perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...»), all'altra la condanna («Via, lontani da me, maledetti, nel fuoco eterno ... perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare...»).
    Il nucleo narrativo della parabola, però, più che dalla salvezza o dalla condanna è rappresentato dalle ragioni che motivano l'una al posto dell'altra: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (vv. 37-39).
    La stessa domanda sale dall'altra parte dell'umanità: «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me» (vv. 44-45).
    Per la parabola l'evento che giudica definitivamente l'esistenza umana, a insaputa degli stessi interessati, è il gesto/simbolo del «dare da mangiare», «offrire da bere», «accogliere lo straniero», «vestire gli ignudi», «visitare gli ammalati» e «i carcerati»; mentre l'assenza di questo gesto la condanna definitivamente all'inautenticità: «Via maledetti nel fuoco eterno».
    Nel racconto parabolico ciò che colpisce non è solo il tratto umile e quotidiano del gesto (dare «da mangiare», «da bere», ecc.) dal quale dipende la realizzazione escatologica - cioè ultima - della vita, quanto il carattere areligioso e aconfessionale con cui si presenta e che, proprio nel suo essere areligioso e aconfessionale, si carica di una dimensione assoluta e trascendente. Infatti il gesto del «dare da mangiare», che, per oggetto ha l'uomo, trascende questo significato empirico (nutrire chi ha fame) e si carica di una dimensione di assolutezza che, per chi lo compie, diventa la salvezza «eterna». Il motivo di questa transvalutazione, di questa elevazione di un gesto empirico dal suo piano funzionale al piano eterno, per il testo evangelico è la presenza di Cristo nell'affamato; una presenza, da notare, anonima, di cui chi compie il gesto non è a conoscenza.
    Qual è il senso di questa identificazione tra l'affamato e il Cristo per cui il gesto fatto al primo in realtà è fatto al secondo?
    Si tradirebbe il testo biblico se si interpretasse questa identificazione in chiave riduttiva, secondo la logica della ricompensa: quello che viene fatto all'affamato è come se fosse fatto al Cristo e, per questo, premiato con la salvezza eterna. In realtà Cristo si identifica con l'affamato a una dimensione più radicale: in quanto istanza di amore che ne avvolge il bisogno e che, nella potenza del suo appello, istituisce chi vi passa accanto come responsabile, generandolo al gesto della bontà.[2]
    Per il testo biblico, il principio ultimo e radicale che giudica l'esistenza umana e ne definisce l'autenticità o il fallimento è la bontà. L'esistenza di un uomo è veramente se stessa (è questo il significato di autos di cui si compone autentico), raggiunge ciò che ha di più proprio e si realizza ogni qualvolta compie il gesto della bontà: l'impensabile esodo dal proprio io all'altro.
    Compiere il miracolo dell'amore come bontà - l'amore che non sale verso il valore per colmarsene ma discende verso il senza valore per colmarlo - non è dell'uomo ma di Dio. Ma Dio è Dio, per la Bibbia, in quanto dischiude alla libertà umana questa impossibile possibilità, e Cristo, nel perdono della croce, è il messia redentore in quanto risveglia la libertà negata alla sua vocazione originaria di libertà per l'altro.
    Ogni qualvolta, entro un'esistenza umana, per quanto alienata, si accende il gesto della bontà, che la pagina matteana esemplifica nel gesto/simbolo del «dare da mangiare», si è dentro l'assoluto che salva e condanna.

    Il giudizio come interruzione della storia

    Se l'assoluto che giudica la storia è la bontà, ciò vuol dire che, per la Bibbia, è impossibile qualsiasi visione teleologica o provvidenzialistica secondo cui gli eventi, siano essi naturali o storici, vanno verso un futuro garantito da un principio (poco importa se organico, razionale o divino) ad essi intrinseco. Si tratta di una concezione che ha segnato profondamente non solo la modernità, fino a farne, al di là delle sue diverse figure (si pensi solo alle più importanti come il razionalismo, lo storicismo, l'evoluzionismo, il «progressismo», ecc.) il tratto dominante, ma la stessa teologia e la stessa esegesi biblica. Come esempio basti ricordare la visione di P. Teilhard de Chardin (1881-1955) che pensa l'universo come un organismo vivente non ancora formato che evolve verso il suo compimento e le cui tappe sono rappresentate dalla biogenesi (la nascita della vita), dalla noogenesi (la nascita del pensiero) e dalla cristogenesi (la nascita dell'uomo compiuto), in attesa del punto omega finale dove Dio e mondo saranno, finalmente, nell'unità, secondo il principio paolino del Dio che è «tutto in tutti» (1 Cor 15,28).
    La categoria del giudizio è la messa in discussione di concezioni come queste e delle inesauribili figure che, pur modificandosi nella forma, ne riproducono la sostanza. Credere nel «giudizio» finale e inappellabile di Dio vuol dire, per la Bibbia, sottrarre la storia a qualsiasi concezione teleologica per instaurare, al suo interno, la soggettività umana, non come soggettività naturale, che agisce in forza di un principio che la guida, bensì come soggettività etica, sottratta al determinismo dell'io e sottoposta all'istanza del bene come imperativo: «Io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male». L'assoluto che inabita la storia e in ogni istante la giudica come «vita» o come «morte», è il Bene: non il bene oggetto di cui ci si appaga, e neppure il bene fine verso il quale si tende perché attraente, bensì il Bene come imperativo o come comandamento che, con il suo apparire, dischiude un orizzonte che è oltre la necessità e oltre la spontaneità: la gratuità o libertà per l'amore.
    Attraverso la categoria del «giudizio di Dio» la Bibbia, pertanto, ridefinisce la stessa definizione di Bene, e qualsiasi ermeneutica che non colga questo aspetto, dal punto di visto scritturistico resta inadeguata.
    Secondo la definizione classica di Aristotele, «il Bene è ciò che ogni cosa (essere) appetisce». Stando a questa definizione, i tratti del Bene sono riconducibili soprattutto a due: il suo essere oggetto di fronte all'uomo soggetto e il suo essere attrazione che attira a sé quest'ultimo. Per la Bibbia, invece, altra è la definizione del bene sottesa al giudizio: non il Bene che si offre come oggetto e neppure il Bene che si offre come meta, bensì il Bene come imperativo che dischiude al soggetto una nuova identità: non più spontaneità e movimento ascensionale verso ciò che attrae, ma nascita - che Giovanni chiama una «nascita dall'alto» o una «nuova nascita» - alla bontà come discesa verso il «povero» e lo «straniero»: verso il disvalore che chiede di essere eliminato.
    Non si tratta di un cambiamento secondario ma sostanziale: dal Bene come appagamento al Bene come imperativo assoluto e incondizionato che dischiude al soggetto storico la sua indeclinabile responsabilità decretandone, in ogni istante, la salvezza o la condanna, la vita o la morte, la felicità o la perdizione. Per Giovanni Cristo stesso è il volto di questo Bene che, in ogni istante, salva o condanna attraverso la decisione presa nei suoi confronti: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito figlio di Dio» (Gv 3,18).

    Il giudizio come ridefinizione di Dio e dell'uomo

    Oltre che ridefinire la storia, al cui interno opera una rottura, la categoria del giudizio ridefinisce pure Dio e l'uomo, oltre l'orizzonte del desiderio e oltre quello dell'affinità.
    È noto come il termine peculiare con cui la Bibbia presenta Dio è, in ebraico, Torah che, con pertinenza, i LXX hanno tradotto con nomos, cioè Legge.
    Il termine legge, a causa della ingenerosa polemica antigiudaica, nella tradizione cristiana ha avuto una storia paradossale, essendo stata contrapposta alla grazia neotestamentaria ed essendo divenuta sinonimo di legalismo castrante la libertà umana.
    A un'ermeneutica, però, non più condizionata dal pregiudizio antiebraico, il senso della legge non è la negazione della libertà ma il principio o condizione della sua stessa instaurazione nel soggetto umano, come mostra questa suggestiva parabola talmudica: «Quando Dio creò la colomba, questa tornò dal suo creatore e si lamentò: "O Signore dell'universo, c'è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi e io devo correre tutto il giorno con le mie zampe così corte". Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un'altra volta dal suo creatore e pianse: "O Signore dell'universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre via con le ali addosso. Esse sono pesanti e io non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli". Ma Dio le sorrise dicendo: "Non ti ho dato le ali perché tu le porti ma perché le ali portino te". Così è anche per Israele, conclude il commentatore. Quando (gli ebrei) si lamentano della Torah e dei comandamenti, Dio risponde loro: "Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi"».[3]
    La legge - instauratrice di giudizio - dischiude al soggetto umano un orizzonte che è oltre e altro da quello della spontaneità o del desiderio. L'ordine della spontaneità è l'ordine dell'attrazione, dell'affinità e dell'appetizione dove la relazione che vi si istituisce è quella del soggetto desiderante e dell'oggetto appetito; l'ordine della libertà è, invece, quello del volere che si consegna a un altro non in forza dell'attrazione ma per una decisione personale che introduce nell'io una rottura (non senza significato de-cisione vuol dire, nel suo etimo latino, «separazione», «rottura») rigenerandolo dalla libertà come spontaneità alla libertà come responsabilità. Apparendo come Legge, Dio si definisce come colui che istituisce, nell'uomo, la libertà suprema chiedendogli di aderire al suo volere - volere di amore - non in forza di una spinta attrattiva ma di una scelta indeclinabile dalla quale si esce irreversibilmente giudicati positivamente oppure negativamente.
    Se, per la Bibbia, questa è la Legge, ci troviamo di fronte a un'accezione diversa da quella della cosiddetta Legge naturale, che tanta importanza ha giocato e gioca nella tradizione cristiana. Per la Bibbia la legge non è la ritrascrizione dell'ordine dato, della sua struttura e della sua teleologia, cioè del suo logos - è questo il senso delle leggi della scienza - bensì l'interpellazione suscitatrice di libertà come responsabilità radicale. Per essa la Legge è la legge dell'amore: l'amore nella modalità della legge e la legge il cui contenuto è l'amore.

    Il giudizio puntuale, finale e universale

    Si è sottolineato con insistenza che il luogo dove Dio esercita il suo giudizio è l'esistenza umana che si autentica o aliena a seconda se giocata nella responsabilità o irresponsabilità, nell'amore per l'altro o nell'amore per il proprio io. Ciò vuol dire che il giudizio è giudizio puntuale: giudizio che il soggetto esperisce di volta in volta, nell'istante di ogni sua scelta.
    Ma la tradizione cristiana, oltre al giudizio puntuale, conosce pure un giudizio finale e universale: il primo riservato a ogni singolo, dopo la sua morte e coinvolgente tutta la sua vita trascorsa nel mondo; il secondo riservato a tutta l'umanità alla fine della storia e coinvolgente lo stesso mondo e la stessa terra.
    Il giudizio come «giudizio puntuale» sviluppato in queste pagine non è altro da quello finale e universale ma una prospettiva diversa nel modo di intenderli, a partire dall'esperienza di fede del credente. Piuttosto che contrapporsi, queste tr prospettive si illuminano reciprocamente, ciascun correggendo e arricchendo l'altra.
    La prospettiva del giudizio puntuale ha il vantaggio di sottrarre la categoria del giudizio al gioco dell'immaginario (critiche che i maestri del sospetto riferiscono soprattutto alle realtà escatologiche) e di radicarlo nel cuore dell'esistenza individuale come responsabilità indeclinabile di fronte all'altro. Da questo punto di vista restano sempre illuminanti le parole di Barth: «L'uomo, in quanto tale [cioè in quanto creatura finita], non ha alcun aldilà e neppure ne ha bisogno; perché Dio è il suo aldilà. Dio, come creatore, partner dell'alleanza, giudice e salvatore, è stato il fedele vis à vis dell'uomo già nella sua vita e lo è e lo sarà in modo esclusivo e totale nella sua morte: questo è l'aldilà dell'uomo. L'uomo però, in quanto tale, appartiene all'aldiqua ed è perciò finito e mortale e, come prima non era ancora, dovrà un giorno non essere più. Anche nella forma di uno che è stato e non è più egli non sarà un nulla, ma parteciperà alla vita eterna di Dio: questa è la promessa che gli è stata data nel suo essere di fronte a Dio, questa la sua speranza, questa la sua fiducia».[4]
    Ma se ogni esistenza è giudicata dalle sue scelte di fronte al Bene e al Male, ne consegue che, ad essa, è necessaria la consapevolezza: un'esistenza autentica o inautentica senza la coscienza di essere tale sarebbe una contraddizione in termini: sarebbe solo un'esistenza fattuale, al di là del bene e del male e perciò non giudicabile. Nell'esistenza storica, però, a causa della violenza e dell'alienazione che l'avvolge, la coscienza della nostra realtà, cioè della nostra autenticità o della nostra inautenticità, della nostra «salvezza» o della nostra «dannazione», è quasi sempre chiaroscurale. È qui, allora, che va colto il senso profondo del giudizio finale personale: il momento in cui, al termine della vita e delle proprie possibilità, l'io prende coscienza della sua vera realtà: della sua autenticità o meno, di come essa è stata e poteva non essere, di come non è stata e poteva essere. Il giudizio finale è lo sguardo gettato sulla propria vita e compresa nella sua verità, senza il velo dell' autogiustificazione e dell'inganno; è il vedersi come Dio stesso ci vede al di là delle maschere e al di là delle falsità accumulate per salvare la propria immagine.
    Una delle credenze più care alla tradizione cattolica preconciliare era l'esistenza del «purgatorio», il luogo della purificazione, dove, nella sofferenza del fuoco, le anime, dopo morte, si liberavano dalle macchie del peccato. Passando dal piano dell'immagine a quello della realtà, si potrebbe dire che il fuoco che purifica - nel duplice senso che cancella le macchie e ridona la purità - è lo sguardo di Dio che sostituisce lo sguardo dell'io, e l'indicibile sofferenza che esso accende è l'incolmabile discrepanza tra come si credeva di essere e come in realtà si scopre di essere. Discrepanza incolmabile, se quello sguardo di Dio giudice non fosse anche, contemporaneamente, lo sguardo del Dio Amore e del Dio crocifisso, fattosi compagnia e prossimità alle più estreme lontananze.
    Cosa dire infine del giudizio universale?
    Se con esso si intende la fine~logica del mondo, come vogliono gli apocalittici e gli interpreti alla lettera delle pagine escatologiche della Bibbia, la prospettiva sviluppata in queste pagine ne costituisce una netta presa di distanza. Secondo l'interpretazione qui data, la fine del mondo e il giudizio universale non sono affermazioni scientifiche che ci dicono cosa sarà del mondo fra mille anni o un miliardo di anni, bensì affermazioni «teologiche»: parole pronunciate dal Dio dell'amore sul senso dell'esistenza umana.
    Teologicamente parlando, con la categoria del giudizio universale non si intende qualcosa di diverso dalle due accezioni precedenti, ma la loro estensione a ogni uomo e a ogni donna di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ogni giudizio puntuale (che avviene nell'arco della propria esistenza) e finale (che si dispiega nella sua piena consapevolezza alla fine della vita) è sempre anche universale, perché riguarda tutti e sempre indistintamente, sotto ogni cielo e dentro ogni tempo.
    Perché ogni uomo e ogni donna si troveranno sempre, in ogni tempo, di fronte al bivio del Bene e del Male e su ciascuno di essi, al termine dell'esistenza, risplenderà il giudizio di amore e di perdono del Dio crocifisso.


    NOTE

    [1] È infatti in questo periodo che sorge il racconto, tradotto subito anche iconograficamente nella maggior parte delle grandi chiese europee, dell'incontro di tre cavalieri con tre scheletri dialoganti, che sono l'immagine/specchio, al di là dell'apparenza, della realtà intima dei primi: cf CH. FRUGONI, La scoperta del macabro nel medioevo, in AA. VV., L'aldilà nella Bibbia. Atti del Convegno nazionale, Biblia, Settimello 1992, pp. 187-192.
    [2] Si rilegga in questa prospettiva il battesimo cristiano e la «nascita dall'alto» di Giovanni: cf il mio Celebrare la vita. Viaggio nel mondo dei sacramenti, cit., pp. 28-35.
    [3] Cit. da M. CUNZ, in AA. VV., La credibilità ecumenica della Chiesa..., Dehoniane, Napoli 1985, p. 34.
    [4] In Die Kirkliche Dogmatik, 111/2, 770. Testo italiano in Garrone, Dallo sheol alla Gerusalemme celeste. Morte e vita eterna secondo la Bibbia ebraica, in AA. VV., L'aldilà nella Bibbia, cit., p. 61.


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