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    Il futuro è Dio (cap. 2 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994


     

    Il futuro come metafora

    La tradizione biblica parla del futuro attraverso le categorie della profezia, dell'apocalittica, della risurrezione e della parusia: «porte» o «finestre» attraverso le quali penetra «nel palazzo del tempo», nel suo labirinto misterioso e affascinante di fronte al quale si arresta muta l'intelligenza umana, come già notava Agostino in una celebre pagina delle Confessioni: «Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo altri parlare. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so».[1]
    Ma le categorie bibliche della profezia, dell'apocalittica, della risurrezione e della parusia, non sono una risposta alla domanda filosofica sul tempo bensì una risposta alla domanda esistenziale sul senso della vita, soprattutto quando questa si scopre minacciata. Le categorie bibliche sul futuro non rispondono alla domanda agostiniana di cosa è il tempo, ma alla domanda se, nel momento della prova e della crisi, vivere ha ancora senso. Ne consegue che le proposizioni bibliche sul futuro non sono, in primo luogo, proposizioni descrittive di ciò che sarà, bensì appelli rivolti al soggetto umano perché, nel momento della prova, non capitoli e non si perda di coraggio. Al di là del suo aspetto cronologico, il futuro biblico è, in profondità, la metafora della permanenza, nel soggetto umano, del Senso oggettivo, al quale egli resta ancorato nel momento stesso della sua assenza apparente.
    Per tutte le culture il senso del presente esiste solo se rapportato a un Senso (che gli studiosi del fenomeno religioso chiamano ordinariamente «sacro») collocato o come già dato, nel passato, o proiettato, come ancora da venire, nel futuro. Qui il passato e il futuro non hanno valore cronologico ma metaforico o simbolico, nel senso che essi rimandano a ciò che è oltre e altro dal tempo inteso come distensione, ed è l'ordine oggettivo non prodotto dal soggetto umano ma offerto ad esso come senso del suo presente. Tornare al passato per attualizzarlo attraverso il racconto mitico, oppure volgere lo sguardo al futuro per alimentarsi della sua utopia, è sempre riattingere al Senso oggettivo che, come le radici dell'albero, nutre il presente dandogli senso.
    La lingua greca ha tre termini diversi per indicare il tempo: il primo è kronos (da cui il nostro cronologico), che esprime il tempo quantitativo come successione temporale dove ogni minuto equivale al l'altro; il secondo è aion (da cui eone, composto di sempre e essere), che esprime il tempo qualitativo, come pienezza, il tempo che, intessuto di felicità e di bellezza, si vorrebbe restasse per sempre e fosse eterno; il terzo è kairos (il momento opportuno o favorevole in cui fare o non fare una determinata cosa) che vuol dire il tempo come occasione e come evento (si pensi a un incontro particolare o all'innamoramento) che cambia per sempre il tempo ordinario, trasfigurandolo da tempo quantitativo (cronologico) in tempo qualitativo (eonico).
    Ricorrendo a questa ricchezza semantica della lingua greca, si potrebbe dire che il presente, tempo cronologico, quantitativo e senza senso, diventa tempo eonico, qualitativo e sensato, grazie al tempo kairologico, il tempo del Senso (o della grazia) che ci viene incontro o dal passato, per le culture mitiche, o dal futuro, per la tradizione biblica.

    Il futuro e Dio

    Per quale ragione la tradizione profetica, a differenza di quella mitica, fa del futuro e non del passato la metafora per eccellenza dell'ordine del Senso che alimenta il presente?
    Cogliere il senso di questa differenza è cogliere lo specifico della concezione biblica del reale e la sua fecondità per ogni epoca, compresa l'attuale.
    Il motivo per cui, nella Bibbia, il Senso oggettivo sotteso al presente è pensato al futuro invece che al passato è che, per i suoi autori, esso non si configura come il Tutto impersonale al quale si appartiene, bensì come il Tu personale, che parla e attende una risposta dall'uomo. Per la Bibbia Dio non è l'ordine del mondo ma la parola che, accolta, dischiude al soggetto umano una possibilità nuova, altra dalle altre, che per questo non può essere prefigurata nel passato e può essere pensata solo al futuro. Quando si sottolinea che la Bibbia alla categoria del sacro, tipica delle religioni mitiche, sostituisce il santo,[2] ci si riferisce a questo tratto personale che non istituisce una diversa nozione del divino entro lo stesso genere, ma un divino di diverso genere: non più come energia o forza che si autoespande, bensì come libertà che dischiude nella storia una possibilità altra dalle altre.
    Per capire questo si pensi all'innamorato che dice a una ragazza di amarla e di voler condividere con lei la sua vita. Una parola come questa dischiude alla ragazza una possibilità nuova, non altra tra le altre, ma altra dalle altre, possibilità oggettiva (una storia d'amore a due) ma ancora inesistente perché sospesa alla sua risposta e, per questo, traducibile solo al futuro. Il futuro è lo spazio del non ancora, dove la possibilità offerta attende di farsi realtà concreta.
    Quando, nella Bibbia, si parla di futuro, questo, in realtà, coincide con Dio, con la sua parola sovrana che, accolta, dischiude all'uomo l'orizzonte della novità e che, tradotta nel registro temporale, è il futuro: non il futuro che è il prodotto dell'uomo ma il futuro che è l'ingresso di Dio nella sua storia, non il futuro che è la proiezione in avanti dei desideri dell'io, ma il futuro che è l'apparire e il dischiudersi, nella sua coscienza, di una realtà nuova.
    Per esprimere questo tipo di futuro che non è la produzione dell'uomo ma l'emergenza di un nuovo orizzonte nella sua coscienza, la lingua latina ricorre al termine ad-ventus, che vuol dire avvento: venuta, arrivo, ingresso nell'io di ciò che è altro dall'io. Dio, per la Bibbia, è l'ospite improvviso che, senza essere stato invitato, irrompe nella «casa» dell'uomo e la scompiglia portandovi la novità radicale perché improgrammata e improgrammabile.
    Non senza significato l'anno liturgico della Chiesa - l'anno che al suo interno ritrascrive, simbolicamente, l'evento cristiano - inizia con l'avvento: celebrazione e memoriale della novità (novum) apportata dall'ingresso di Dio nella storia umana.

    Il regno di Dio

    Per esprimere questo spazio di radicale novità - improgrammata e improgrammabile - dischiuso dall'avvento di Dio nella coscienza umana, il Nuovo Testamento ricorre alla categoria del regno di Dio che, solo nei sinottici, ricorre circa 100 volte. Si tratta di una categoria particolare nella quale, per l'evangelo, si condensa il senso della predicazione e missione di Gesù:
    «Dopo che Giovanni fu arrestato,
    Gesù si recò nella Galilea
    predicando il vangelo di Dio e diceva:
    "Il tempo è compiuto e il regnio di Dio è vicino;
    convertitevi e credete al vangelo"»
    (Mc 1,14-15; cf pure Mt).
    Per il primo evangelista, l'espressione è così comune che egli parla semplicemente di regno: «Gesù andava attorno per tutta la Galilea... predicando il vangelo del regno» (Mt 4,23; 9,35; cf anche 13,19; 24,14), mentre altre volte parla del «regno dei cieli», l'equivalente del «regno di Dio» (Mt 4,17), essendo il cielo, nella Bibbia, sinonimo di Dio.
    Nonostante questa centralità (o forse proprio per questo), la categoria del «regno di Dio» ha subito nella tradizione cristiana una «torsione» semantica che, spesso, ne ha distorto il contenuto fondamentale, indebitamente identificato con la realtà dell'aldilà, mentre biblicamente è l'esatto contrario: non il mondo extrastorico ed extramondano da raggiungere dopo la morte, bensì la trasformazione di questo mondo dalla sua logica di esclusione e di violenza a una di accoglienza e di solidarietà, dove finalmente fiorisce e trionfa l'amore di Dio.

    L'amore di Dio

    Il Regno di Dio, infatti, prima che il luogo dove Dio regna, è Dio come colui che regna, colui che, per diritto, esercita sull'uomo, singolare e universale, la sua sovranità incondizionata. Per questo la traduzione più vicina al senso originario è «signoria di Dio». Il regno di Dio è la sua signoria sull'uomo, il suo essergli signore, re o padrone: termini che nella Bibbia e, in genere, nelle grandi tradizioni religiose, si equivalgono, e il cui contenuto è quello di esprimere l'emergere, nella coscienza umana, di un'istanza o presenza assoluta che la sovrasta e la vincola incondizionatamente.
    Per la Bibbia questa presenza sovrana (o regalità o signoria) di fronte alla quale ci si sente misurati non è la forza o energia cosmica, come per le religioni naturalistiche, bensì l'amore libero e personale. È la signoria dell'amore o il Dio amore: non l'amore come principio vitalistico, tendenza o dinamismo di autoespansione e di autorealizzazione, che è l'amore di desiderio o di eros, bensì l'amore come libertà e come gratuità, un amore indescrivibilmente tenero e appassionato, come si legge in uno dei testi più belli delle Scritture ebraiche:

    Egli [il Signore] lo [Israele] trovò in terra deserta,
    in una landa di ululati solitari.
    Lo circondò, lo allevò,
    lo custodì come pupilla del suo occhio.
    Come un'aquila che veglia la sua nidiata,
    che vola sopra i suoi nati,
    egli spiegò le ali e lo prese,
    lo sollevò sulle sue ali.
    Il Signore lo guidò da solo,
    non c'era con lui alcun dio straniero.
    Lo fece montare sulle alture della terra,
    e lo nutrì con i prodotti della campagna;
    gli fece succhiare miele dalla rupe
    e olio dai ciottoli della roccia;
    crema di mucca e latte di pecora
    insieme con grasso di agnelli,
    arieti di Basan e capri,
    fior di farina di frumento
    e sangue di uva, che beveva spumeggiante
    (Dt 32,10-14).

    Il futuro intravisto e annunciato dai profeti è questo «regno» o «signoria» dell'amore: un mondo abitato da un Dio Amore inteso non come potenza, bellezza o armonia che in esso si dice e si esprime, ma come bene-volenza, bontà o sollecitudine che si china sull'altro da sé - lo schiavo Israele - custodendolo come la «pupilla del suo occhio» e dandogli gratuitamente «crema di mucca», «latte di pecora», «fior di farina di frumento» e «sangue di uva... spumeggiante».

    L'amore che comanda

    Se, per la Bibbia, l'amore di Dio è amore di libertà esso si può dire e dare solo come comandamento. Dire, infatti, che Dio ama l'uomo liberamente (o, ciò che è lo stesso, gratuitamente o secondo il principio di alterità) vuol dire:
    - che il suo amore, a differenza dell'amore umano, non si iscrive nell'ordine della spontaneità e della necessità, ma in quello della libertà. L'amore di libertà è l'amore che nasce dalla libertà e non dal bisogno dell'io, motore primo e ultimo di ogni agire;
    - che il suo amore, mentre proviene dalla libertà dell'io, si rivolge e promuove la libertà dell'altro. È soprattutto qui che si coglie la novità dell'amore biblico e il perché del suo carattere di imperativo. L'amore di Dio, infatti, non opera di fronte all'uomo come la forza naturale ma come la parola che, con la potenza del suo appello, suscita la libertà dell'altro e le comanda: «Amami, se vuoi» e vi si affida.
    Per la Bibbia Dio è Dio per questo suo amore, impensato e impensabile, con cui, invece di servirsi dell'altro come sua epifania e mediazione necessaria, lo istituisce nella sua irriducibile alterità consegnandosi alla sua libertà con la forza del comandamento.
    Al di fuori del comandamento non sarebbe possibile, per la Bibbia, né l'amore di Dio per l'uomo né l'amore dell'uomo per Dio ma, come ha intravisto con rigore il pensiero della grecità, un unico eterno principio generativo e rigenerativo che è la Natura (dalla radice latina nascere): ciò che nasce e rinasce continuamente in un processo inesauribile, mai concluso e mai concludibile.
    Per capire più a fondo il senso di questo comandamento («amami»), non si dimentichi che, per la Bibbia, il suo contenuto non riguarda Dio ma il prossimo. Comandando all'uomo di amare, Dio comanda all'uomo di amare l'altro uomo. Per la Bibbia amare Dio vuol dire amare il fratello allo stesso modo di come Dio lo ama, sottraendolo all'orizzonte dell'appetibilità, dove esiste come momento interno all'identità dell'io, e istituendolo in quello dell'alterità, lo spazio che il profetismo chiama del «diritto» e della «giustizia». Per le Scritture ebraiche la formulazione più alta di questo amore di alterità è l'amore allo schiavo e allo straniero: «Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Lo straniero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34); mentre per le Scritture cristiane è il comandamento dell'amore ai nemici: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori... Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete. Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,43-44).

    L'amore che promette

    Oltre che come comandamento, per la Bibbia l'amore di Dio si presenta come promessa. È, infatti, attraverso la duplice figura del comandamento e della promessa che Dio esercita, nel mondo, la sua signoria dell'amore.
    Nella tradizione ebraica e cristiana il tema della promessa è così importante da fare corpo con lo stesso apparire del Dio biblico. Quando, infatti, Dio chiama Abramo, con il quale la Bibbia fa iniziare la rivelazione, alla chiamata egli accompagna la promessa di una terra, «luogo» di benedizione non solo per coloro che l'abiteranno ma per tutto il mondo:

    Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
    e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.
    Farò di te un grande popolo
    e ti benedirò,
    renderò grande il tuo nome
    e diventerai una benedizione.
    Benedirò coloro che ti benediranno
    e coloro che ti malediranno maledirò
    e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (Gn 12,1-3).
    La promessa di una «terra» come benedizione per tutti i popoli non è un'affermazione isolata, ma, ripresa e ribadita, come leit-motiv, nella storia di Abramo (cf Gn 17,1-6), dei patriarchi (cf Gn 50,24) e di tutta la storia ebraica, diventa parte costitutiva dello stesso racconto esodico (il racconto della rivelazione del Dio biblico) per il quale il fine della liberazione di Israele è di entrare «in un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele...» (Es 3,8). Nell'immaginario dei narratori biblici questo paese promesso da Dio si riveste di tratti così suggestivi di bellezza, di ricchezza e di abbondanza da diventare la metafora per eccellenza della stessa utopia, come si coglie con evidenza da questo testo:
    Il Signore tuo Dio sta per farti entrare
    in un paese fertile:
    paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee
    che scaturiscono nella pianura e sulla montagna;
    paese di frumento, di orzo, di viti,
    di fichi e di melograni;
    paese di ulivi, di olio e di miele;
    paese dove non mangerai con scarsità il pane,
    dove non ti mancherà nulla;
    paese dove le pietre sono ferro
    e dai cui monti scaverai il rame.
    Mangerai dunque a sazietà
    e benedirai il Signore Dio tuo
    a causa del paese fertile che ti avrà dato (Dt 8,7-10).

    La storia di Israele è storia della promessa di una terra piena di felicità ed è da questa promessa che, in occidente, è nata la speranza: speranza come certezza, perché si iscrive non nell'ordine del desiderio ma della volontà di Dio, e come virtù davvero singolare, perché fiorisce là dove tutte le altre si eclissano: «Singolare virtù della speranza, singolare mistero; essa non è una virtù come le altre, è una virtù contro le altre. Essa contraddice tutte le altre. Volta le spalle, potremmo dire, a tutte le altre. E tiene loro testa. A tutte le virtù. A tutti i misteri».[3]

    L'amore che giudica

    Oltre che attraverso la figura dell'amore che comanda e dell'amore che promette, per la Bibbia la signoria di Dio si esercita anche come amore di giudizio, nel duplice significato che inerisce a ogni giudizio: di salvezza o di condanna. Il testo biblico esemplare per accostarsi al senso di questo «giudizio» come figura dell'amore è il capitolo 28 del Deuteronomio:

    Se tu obbedirai fedelmente
    alla voce del Signore tuo Dio,
    preoccupandoti di mettere in pratica
    tutti i suoi comandi che io ti prescrivo,
    il Signore tuo Dio ti metterà
    sopra tutte le nazioni della terra...
    Sarai benedetto nella città
    e benedetto nella campagna.
    Benedetto sarà il frutto del tuo seno,
    il frutto del tuo suolo e il frutto del tuo bestiame;
    benedetti il parto delle tue vacche
    e i nati delle tue pecore.
    Benedette saranno la tua cesta e la tua madia.
    Sarai benedetto quando entri
    e benedetto quando esci...
    Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio,
    se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi
    e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te
    e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni:
    sarai maledetto nella città
    e maledetto nella campagna.
    Maledette saranno la tua cesta e la tua madia.
    Maledetto sarà il frutto del tuo seno
    e il frutto del tuo suolo;
    maledetti i parti delle tue vacche
    e i nati delle tue pecore.
    Maledetto sarai quando entri
    e maledetto quando esci.
    Il Signore lancerà contro di te la maledizione,
    la costernazione e la minaccia in ogni lavoro... (Dt 28,1-20).

    Pochi testi come questi richiedono un'ermeneutica attenta, per sfuggire sia all'interpretazione letterale, che porterebbe all'affermazione di un Dio punitivo, sia all'interpretazione riduttiva, che negherebbe al testo ogni senso oggettivo.
    Il contenuto del brano è nello stabilire un nesso sostanziale tra il comandamento dell'amore dato da Dio e la riuscita della vita nel mondo: la benedizione per chi obbedisce, la maledizione per chi disobbedisce. Obbedienza e disobbedienza al comandamento dell'amore sono le «porte» dalle quali entra nel mondo la «benedizione» oppure la «maledizione», la «vita» oppure la «morte» secondo un altro celebre testo deuteronomistico (Dt 30,15ss). Ma parlare di obbedienza, come pure di disobbedienza, è parlare di libertà, di quella dimensione irriducibile della soggettività umana che è suscitata da Dio nel suo movimento di amore di alterità e alla quale egli si affida e affida il suo amore perché entri nella storia e la fecondi.
    Quando il testo biblico pone sulla bocca di Dio il giudizio di salvezza («se tu obbedirai... sarai benedetto») o di condanna («ma se non obbedirai... sarai maledetto») non presenta un Dio arbitrario che interviene dall'esterno con la forza, ma ribadisce la radicalità del suo amore che invece di passare attraverso l'uomo ne suscita la libertà consegnandosi alla sua responsabilità e, così, esponendosi al rischio del suo stesso fallimento.
    H. Broch ha scritto che la libertà «è una delle nozioni più spaventose inventate dalla terribile e dura logica della teologia ebraica».[4]
    Si tratta di una «delle nozioni più spaventose» perché afferma che, per la Bibbia, il volere di Dio, invece che a un principio naturale, eterno ed efficace, si affida a un volere altro dal proprio che può negarlo e, negandolo, farlo fallire; ma si tratta, contemporaneamente, anche di una delle nozioni più alte dell'antropologia perché ridefinisce l'uomo da canale naturale del divino a suo partner dal quale, come afferma Buber con un linguaggio ardito, dipende la «realizzazione» o «irrealizzazione» stessa di Dio, cioè il «farsi realtà» del suo amore nel mondo.
    Se per la Bibbia l'amore di Dio, che è amore di libertà, può entrare nel mondo solo attraverso il libero acconsentimento umano, ne consegue che è proprio questo acconsentimento che giudica l'uomo definendone l'esistenza come autentica («salvezza») o dannata («perdizione»). L'amore di Dio è amore che giudica proprio perché è amore libero.

    Il regno di Dio e Gesù

    Delle due possibilità dischiuse dall'amore di Dio come giudizio, la storia testimonia, con una persistenza da sembrare deterministica, quella negativa: non la «benedizione», ma la «maledizione», non il regno dell'amore e della comunione, ma della violenza e dell'alienazione. Il brano per eccellenza dove, per la coscienza biblica, si raccoglie questo convincimento radicale è il capitolo 3 della Genesi, il capitolo della «caduta» o del «peccato originale», in cui si narra della disobbedienza dell'Uomo Originario - Adam - a causa del quale sono entrate nel mondo la violenza e la sofferenza.
    L'Uomo Originario alla cui disobbedienza la Bibbia fa risalire il male del mondo, il mancato realizzarsi del regno di Dio, non è da intendere in senso cronologico, come il primo degli uomini, bensì in modo simbolico, come colui che rappresenta ogni uomo e ogni donna che, con il gesto della disobbedienza fattasi connaturale, impedisce al regno di Dio di realizzarsi, pervertendolo nel regno della morte.
    Ma se la storia dell'uomo è storia della sua disobbedienza che, fattasi, per così dire, organica, produce «abitualmente» alienazione e sofferenza, come se ciò fosse la sua vera «natura» o habitus,[5] non è la stessa signoria di Dio come amore che si espone al fallimento? Come si può, infatti, parlare della signoria dell'amore - di un amore che vince e che trionfa - se di fatto viene rifiutato e, una volta rifiutato, a pagarne le conseguenze non è solo Dio ma anche il fratello che in forza di quell'amore avrebbe dovuto vivere?
    Per il Nuovo Testamento queste due aporie trovano una risposta in Gesù: nelle sue «parole» e «opere», ma soprattutto nella sua «morte» e nella sua «risurrezione», dove i suoi discepoli hanno visto riaccendersi, nel mondo, il regno di Dio come signoria dell'amore.
    Al centro della predicazione di Gesù c'è infatti la proclamazione del «regno di Dio»: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,14-15).
    La caratteristica del Nuovo Testamento non è di annunciare il «regno di Dio», che, come si è notato, è categoria anticotestamentaria, ma di annunciare che esso, dall'ordine dell'attesa, è entrato in quello della realtà: «Il tempo è compiuto», dice il testo di Marco. Cioè: il tempo dell'attesa è finito e all'attesa subentra la realizzazione.
    Parlando del tempo come «tempo compiuto» il vangelo ricorre a una immagine o, meglio, a una personificazione. Chi attende, infatti, non è né può essere il tempo inteso come tempo cronologico, segnato dal muto scorrere degli orologi, ma gli uomini e le donne che lo abitano. Per l'evangelista il tempo è come la donna incinta, per la quale, approssimandosi il mese del parto, giunge a compimento l'attesa e, evento irripetibile di grazia (kairos è il termine usato dal testo evangelico), inizia una vita nuova. Per l'e- vangelo il tempo della storia come tempo dell'attesa del regno di Dio sta per concludersi per diventare realtà.
    Ma il Nuovo Testamento, oltre ad annunciare come imminente la realizzazione del regno di Dio, indica soprattutto dove questa fine e questo inizio si realizzano: in Gesù, nelle sue «parole» e nelle sue «opere», nella sua «morte» e nella sua «risurrezione».
    Nei capitoli dedicati alla morte, al giudizio, all'inferno e al paradiso, si vedrà perché e in che senso nella vita di Gesù, nella sua morte e nella sua risurrezione, si realizza il regno di Dio. Qui, per il momento, è sufficiente ricordare il nuovo principio che, per il Nuovo Testamento, si dischiude in quella morte e in quella risurrezione e che riscatta la storia umana dal «peccato», cioè dal fallimento: il principio perdono con cui Dio, in Cristo, l'assume e, assumendolo, lo vince, risuscitando l'uomo alla vocazione originaria di responsabilità radicale attraverso la quale l'amore di Dio entra nel tempo e si fa storia.


    NOTE

    [1] Confessioni, XI, 14. Cf pure De Civitate Dei XI, 5.
    [2] Cf il libro di E. LÉVINAS, Dal sacro al santo, Città Nuova, Roma 1985.
    [3] Ch. Péguy. Testo citato in G. GRESHAKE, Breve trattato sui novissimi, Queriniana, Brescia 1978, p. 6.
    [4] Citato da P. Ricci SINDONI, Sulle tracce di Abramo. Storia e memoria nell'ebraismo contemporaneo, Intilla Editore, Messina 1990, p. 33
    [5] La tradizione cristiana chiamerà «peccato originale» la storia caratterizzata dalla tendenza al male.


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