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    Conclusione di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994



    Divieto di pensare all'aldilà

    In uno dei trattati della Mishnah, la prima raccolta del sapere orale ebraico del III secolo dell'era cristiana, si legge: «Chiunque dedica la propria mente a quattro cose: che cosa c'è sopra? cosa c'è sotto? cosa c'è prima? cosa c'è dopo? Sarebbe stato meglio per lui che non fosse venuto al mondo».[1]
    A differenza della tradizione cristiana, quella ebraica non solo mostra scarso interesse tematico per le questioni che riguardano l'aldilà - morte, giudizio, inferno e paradiso, delle quali, se ne parla, lo fa con pudore e con discrezione - ma addirittura scoraggia chi volesse farlo, fino a maledirlo: «Sarebbe stato meglio per lui che non fosse mai nato».
    Il motivo di questo atteggiamento non va ricercato nella negazione dell'escatologia, ma in una sua diversa interpretazione: perché la realtà ultima dell'umano non si dà, per l'ebraismo, nella modalità del fine da raggiungere dopo morte e neppure in quella dell'oggetto totalizzante che viene ad appagare il desiderio d'infinito del cuore umano, bensì nella modalità dell'istanza dell'Amore che si erge di fronte all'io, in ogni istante, chiedendogli obbedienza. È questo - l'obbedienza all'amore e non il desiderio - l'orizzonte decisivo per la coscienza ebraica, dove si instaura il dialogo tra Dio e l'uomo e dove ne va per sempre della salvezza o perdizione di quest'ultimo.
    Un grande mistico musulmano ha scritto:
    Mio Dio, se ti ho adorato per paura dell'inferno,
    bruciami nel suo fuoco.
    Se ti ho adorato per il desiderio del paradiso
    impediscimi di andarci.
    Ma se ti ho adorato solo per te stesso
    non impedirmi di vedere il tuo volto.[2]
    Se l'amore, come ha scritto Imbach commentando questo testo, «non cerca alcuna ricompensa», perché «il senso dell'amore è l'amore stesso»,[3] l'importante non è speculare sull'aldilà ma abbandonarsi a questo amore in ogni istante. «Se amo Dio, affermava il Besht, che bisogno ho di un mondo futuro?».[4]
    C'è però un secondo motivo che spiega lo scarso interesse tematico dell'ebraismo per l'escatologia: la sua presa di distanza dall'impianto concettuale della filosofia greca per la quale l'uomo, come ogni altra realtà, è tendenza irresistibile al fine, e il divino è il suo fine, come ha tematizzato con coerenza la tradizione cristiana.
    Il lettore di queste pagine avrà notato lo sforzo messo in atto per liberare il discorso escatologico dall'impianto naturalistico o vitalistico della grecità: non per una polemica sterile nei confronti della visione platonico-cristiana, di cui si è citata la pagina bellissima ed esemplare di Lucie Christine,[5] ma per amore alla verità biblica e per il convincimento che l'escatologia così ripensata è una luce potente nella crisi della modernità in atto e del soggetto che la inabita.

    Escaton e identità

    Il soggetto moderno (o postmoderno) è in crisi: «forte» o «debole», «monoteista» o «politeista», «dogmatico» o «nomade», egli non sa più definirsi, essendo venuti meno i «grandi racconti» o «le grandi ragioni» (religiosa, filosofica, ideologica, scientifica, ecc.) che lo hanno alimentato e rassicurato. Anche se l'apparente rifiorire del religioso sembra contraddire le previsioni di chi, appena pochi anni fa, ne prevedeva imminente la fine, chi scrive è convinto che, in profondità, anche le religioni sono toccate dalla crisi e che ad essa non si sfugge con un ritorno ai simboli e ai riti del passato. Privato di un referente assoluto (Dio, Ragione, Storia, Futuro, Utopia, ecc.) il soggetto moderno si sente perso, abbandonato a se stesso, come una barca senza àncora, un albero senza radici, una casa senza fondamenta; e di fronte al suo sguardo impaurito si aprono due vie: lasciarsi andare alla deriva, oppure tornare ai grandi «credo» o «racconti». Due vie, però, non facilmente praticabili: la prima perché l'io non si rassegna facilmente alla condanna del non senso, la seconda perché non si intravede all'orizzonte il ritorno delle grandi ideologie, e le stesse religioni, al di là dell'apparenza, sono esse stesse toccate, come si è già notato, dalla crisi.
    L'escaton presentato nelle pagine precedenti dischiude all'esistenza umana un assoluto: non l'assoluto di un'ideologia, di un sistema o di una religione, bensì l'assoluto etico dell'amore, un assoluto che non proviene dalla storia, non ne è il fine teleologicamente inteso, ma la sovrasta dall'alto e la trascende (morte e giudizio) giudicandola perduta o salvata (inferno e paradiso). Di fronte a questo escaton il soggetto umano si scopre sottratto al gioco delle sue seduzioni e dei suoi determinismi, per scoprirsi posto di fronte al bivio: non più essere «spontaneo» o progettuale che gioca con la vita, dominandola o lamentandosene, ma essere responsabile chiamato a decidersi in ogni istante di fronte al Bene. Di fronte all'apparizione del Bene come escaton, come l'ultimale che incrocia l'esistenza umana, l'io si scopre non più come animalità razionale, in cerca, come ogni animalità, di autocompimento, ma come vocazione a un compito non scelto e affidatogli. L'escaton biblico come amore ridefinisce l'esistenza dell'io come vocazione all'amore, come compito irrecusabile da svolgere durante tutti i giorni e le notti della sua vita.
    Questo tipo di esistenza dischiusa all'io dall'escaton biblico non teme la crisi in atto, essendo l'io escatologico - l'io posto di fronte all'assoluto dell'amore - sempre in crisi, perché sempre, in ogni istante, chiamato a decidersi, a tagliare i legami (è questo il significato etimologico del verbo) con le sue radici.
    Ma c'è di più. L'esistenza escatologica non solo non teme la crisi in atto, ma è in grado di attraversarla e superarla senza farsene schiacciare, aprendosi un percorso tra il «soggetto forte» e il «soggetto debole», assumendo i semi di sapienza dell'uno e dell'altro e sfuggendo ai trabocchetti di ciascuno.
    Il soggetto escatologico, infatti, non è né debole né forte. Se per «debole» (e termini equivalenti) si intende l'andare del soggetto alla deriva perché privo, nella storia, dell'assoluto, il soggetto escatologico è più che «forte», perché il suo io è abitato dall'Istanza assoluta dell'Amore che lo chiama ad amare e lo giudica; se per «forte», invece, si intende il rifondare il soggetto umano sui grandi «racconti» religiosi o laici, il soggetto escatologico è più che «debole», perché per amare il suo io non ha bisogno di fare riferimento né agli uni né agli altri. Come insegna la parabola del buon samaritano, l'amore che chiama incondizionatamente ad amare non esige, per essere obbedito, né l'idea di Dio né quella dell'Assoluto o di altro, perché esso si rivela nella nudità di un imperativo incondizionato. È l'incondizionatezza di questo imperativo l'assoluto che inabita la storia e che la giudica e di cui tutti i linguaggi sono interpretazioni o tematizzazioni, in chiave religiosa, filosofica o scientifica.

    Escaton e libertà

    La grandezza della modernità è la nascita del soggetto umano, la presa di coscienza della sua irriducibilità alla totalità: sia a quella naturale, che riduce l'io a un momento interno al cosmo; sia a quella politica, che lo riduce a funzione o ruolo della compagine sociale; sia, infine, a quella religiosa, che lo ricattura e lo rilegge all'interno dell'organismo soprannaturale della Chiesa letta organicamente. Il riflesso soggettivo di questa irriducibilità dell'io è la nascita della libertà che, nella dichiarazione francese dei diritti umani, ha trovato la sua formulazione giuridica più efficace e universale.
    Oggi, però, è proprio la libertà che si sta ritorcendo contro la modernità, essendosi trasformata in libertà illimitata che, invece di introdurre nella patria della felicità, produce un cumulo di inimmaginabile violenza, come stanno a dimostrare Hiroshima, Auschwitz e la distruzione del pianeta in atto.
    L'escaton biblico, mentre istituisce la vera libertà, ne costituisce una ridefinizione radicale rispetto a quella della modernità. Per l'escatologia biblica, infatti, la libertà del soggetto non è libertà di autoaffermazione e di dominio, ma libertà per l'amore; e il sentimento che ad essa si accompagna non è l'autosicurezza ma la responsabilità irrecusabile.
    In una bella pagina Prini parla della libertà come «vertigine» dell'io proveniente dal fatto di «avere la vita» nelle proprie mani: «La libertà è, nella sua origine più profonda, una specie di angosciosa vertigine. Quando in montagna, camminando sull'orlo di uno strapiombo, la vertigine ci prende ed ipnotizza il nostro sguardo verso il fondo dell'abisso, essa non si riduce certamente a qualcosa come la paura che il nostro piede scivoli o il terreno si sgretoli o la corda si spezzi, ma piuttosto è il nostro stesso sentirci slegati dalla decisione di superare quel difficile passaggio come protesi nel vuoto della possibilità di una decisione opposta. La vertigine non è paura di cadere nell'abisso (la quale può essere vinta da una ragionata considerazione degli strumenti che possiamo utilizzare per evitare la caduta), ma è invece la possibilità che noi decidiamo di gettarci nell'abisso. Mentre questo o quel sostegno sono una garanzia sufficientemente sicura per evitare la caduta, non c'è nulla, assolutamente nulla, che ci possa impedire quella decisione. La libertà è, precisamente, questa vertigine sopra l'abisso delle nostre più opposte possibilità; questo sentirci del tutto disancorati da qualunque decisione che già avessimo presa e da qualunque motivazione che già ci avesse determinati; questo perenne riproporci totalmente in questione».[6]
    Anche per la Bibbia la libertà escatologica è «una specie di angosciosa vertigine», ma per una ragione ancora più abissale: non per il fatto di «sentire la vita nelle proprie mani», sospesa alla propria decisione (la possibilità di gettarsi o no nel precipizio), come vuole Prini, ma perché «Dio stesso è nelle proprie mani», per cui ne va di mezzo del suo stesso amore e dell'altro che egli ci affida.
    Rileggendo la pagina di Prini biblicamente, si dovrebbe dire che il soggetto biblico è come il san Cristoforo della nota leggenda, che si trova a portare sulle sue spalle un altro. Qui la libertà si transustanzia di un'ulteriore radicalità: prima che «la possibilità di decidere di gettarsi nell'abisso», la possibilità di decidere di gettare nell'abisso l'altro che Dio «ha posto sulle nostre spalle», tradendo così la fiducia dell'uno e procurando la morte all'altro.
    Questa idea della libertà biblica, se per un verso, come vuole H. Broch, è davvero «una delle nozioni più spaventose inventate dalla terribile e dura logica della teologia ebraica»,[7] per l'altro costituisce anche la suprema altezza e dignità dell'uomo, ridefinito come colui che Dio costituisce sua «immagine e somiglianza», suo «luogo-tenente» o «vice» al quale egli affida il suo progetto d'amore: la creazione.
    Quest'idea della libertà biblica, mentre assume fino in fondo il valore incondizionato dell'io, come vuole la modernità, lo sottrae all'arbitrio affidandogli il compito dell'amore che lo vincola orientandolo e dandogli senso. La vera libertà, per la Bibbia, è la libertà per l'amore, con cui l'io raggiunge la sua autenticità, ciò che ha di più singolarmente proprio e irriducibile: l'uscire da sé e raggiungere l'altro facendosi prossimità alla sua lontananza.
    Questa libertà per l'amore è l'impensabile esodo che, lungi dal costituire la fine dell'io, ne costituisce l'ingresso nella «vita eterna», nell'orizzonte dell'assoluto, nella patria del senso. Ciò a sua stessa insaputa, come insegna la parabola del buon samaritano.

    Escaton e violenza

    Le accuse alla modernità che ne postulano il superamento si riassumono soprattutto in quella della violenza, che in Hiroshima e Auschwitz hanno raggiunto un livello inimmaginabile: «Hiroshima è, come profezia di sciagura di una possibile guerra nucleare, il troppo quantitativo della violenza: l'eventualità di un eccidio che porti addirittura all'estinzione della specie umana; Auschwitz è il troppo qualitativo: la distruzione dell'altro voluta in ragione di se stessa, non come condizione per raggiungere un obiettivo ma fattasi essa stessa obiettivo, fine in sé».[8]
    Per molti critici alla radice di questa violenza c'è anche l'idea monoteistica del Dio biblico («Non c'è niente di più pericoloso per l'umanità che le religioni monoteiste», ha ribadito recentemente C. Lévi Strauss su «Le Figaro») che, responsabile dell'imperialismo della verità unica e della ragione unica, si fa produttrice di intolleranza e di cancellazione di ogni alterità.
    L'escaton biblico dispiegato nelle pagine precedenti non solo si nega a questa critica ma costituisce la vera messa in crisi del soggetto violento, decretandone la morte e annunciandone la rinascita come soggetto di pace, capace di compassione e di perdono.
    Se infatti, dopo Hiroshima e dopo Auschwitz, si vuole che la vita sul pianeta abbia ancora un futuro, è necessario decostruire alla radice il soggetto violento.
    L'escaton biblico dispiegato nelle pagine precedenti è il principio stesso di decostruzione del soggetto violento. Se infatti, per la Bibbia, l'escaton non è l'amore di cui l'io si impossessa ma l'amore che chiama l'io a uscire da sé e ad amare, l'altro, per l'io, non è più l'estraneo, colui che gli è extra minacciandolo, bensì colui che partecipa dello stesso Amore da accogliere e da ridonare. Se all'origine della violenza c'è l'io come essere di bisogno in cerca di soddisfarsi, l'escaton biblico, instaurando l'orizzonte della gratuità dove l'io è colmato non in forza della sua progettualità ma dell'amore di Dio dato gratis, de- legittima alla radice la violenza, denunciandone la falsa razionalità e smascherandone il volto autentico che è quello di essere negazione dell'amore che chiede recettività e obbedienza.
    Tra i suoi racconti chassidici M. Buber annovera una storia di ladri che «si introdussero nella notte in casa di Rabbi Wolf e rubarono tutto quello che venne loro sottomano. Il Rabbi li stette a guardare dalla sua camera e non li disturbò. Quando ebbero finito presero, insieme con altre suppellettili, un boccale in cui prima era stata portata a un malato la pozione della sera. Rabbi Wolf corse loro dietro: "Buona gente", gridò, "ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono. Ma fate attenzione, vi prego, a codesto boccale; vi è rimasto attaccato l'alito di un malato e potrebbe contagiarvi". Da allora ogni sera prima di andare a letto diceva: "Io regalo a tutti ciò che possiedo". In quel modo, se fossero tornati dei ladri, voleva togliere loro ogni colpa»[9]
    Dicendo ai ladri «ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono» e affermando ogni sera, prima di coricarsi, «io regalo a tutti ciò che possiedo», Rabbi Wolf instaura l'orizzonte della gratuità dove, non essendoci più posto per il mio, non c'è più posto neppure per i nemici - qui personificati dai ladri - che da minacciosa presenza alla propria sicurezza si scoprono commensali alla stessa mensa.
    L'escaton biblico elimina alla radice la violenza umana perché pone a fondamento dell'agire l'Amore che dona gratuitamente, che fa «sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» e fa «piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45).
    Nell'orizzonte della gratuità instaurata dall'escaton biblico si annulla, alla radice, ogni inimicizia: sia l'inimicizia dell'estraneità dalla quale l'io si sente minacciato, sia, soprattutto, l'inimicizia dell'offesa dalla quale ha subito e subisce violenza. Per l'escaton neo-testamentario, rivelatosi nel perdono della croce, assumere questa violenza è l'unica condizione per sradicarla. Come ha scritto Gandhi: «Soffrire l'offesa nella propria persona fa parte dell'essenza della non violenza e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo».[10]
    Il soggetto escatologico è il soggetto che, nella storia dominata dalla violenza, vince la violenza con la non violenza e il male con il bene (Rm 12,21), reinstaurando così nel mondo l'orizzonte della creazione, che è l'orizzonte della benedizione, nelle cui pieghe, al di là della fattualità e della stessa violenza, si dice la presenza di un Bene come Bontà che ama gratuitamente e chiama a fare altrettanto.

    Escaton e futuro

    La crisi della modernità è anche crisi del futuro: da «luogo» dove l'utopia - la patria della felicità - si sarebbe finalmente realizzata, a «luogo» di incertezza e di minaccia. Dopo il crollo dell'utopia marxista che ha alimentato per decenni molti sogni dell'umanità, il futuro torna a farsi incerto e l'uomo postmoderno non ripone più in esso le speranze ma, diffidandone, torna a guardare e a coltivare il presente con disincanto. È questa la «fine della storia», come alcuni autori hanno scritto dopo la caduta del muro di Berlino: la fine di una storia che alla tensione per il futuro, orientando verso di esso le energie, sostituisce lo sguardo disincantato di chi si limita a gestire il presente e lo amministra risolvendone pragmaticamente i problemi.
    L'annuncio della «fine della storia» causata dal tramonto delle grandi utopie o «racconti» della modernità, di cui il marxismo, in ordine temporale, è stata l'ultima, ha colto di sorpresa anche molti cristiani che, nel tramonto del futuro della modernità, hanno visto minacciato lo stesso futuro biblico, non sufficientemente consapevoli della identificazione indebita tra l'uno e l'altro.
    Nella rilettura che ne è stata fatta, l'escaton biblico non teme «la fine della storia», perché essa l'annuncia ogni giorno: il suo futuro, infatti, non nasce dalla storia, dal «cuore» o dal «profondo» dei suoi sogni, bensì dall'alto, dalla trascendenza dell'Amore, evento non storico ma metastorico, che la mette in crisi e che, acconsentito, la rigenera veramente come nuova. Riletto non teleologicamente, l'escaton biblico non è il fine della storia ma il principio di trascendenza che in ogni istante la giudica, interrompendola come processo inteso linearmente e istituendo al suo interno il processo inteso giuridicamente, sul cui proscenio i suoi attori vengono giudicati.
    Prima che dall'ultima stagione della modernità, la fine della storia era già stata anticipata e celebrata da Nietzsche, per il quale il mondo non procede in maniera rettilinea verso un fine, ma è eterna necessità «dove tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi».[11]
    Nietzsche, come la Bibbia, annuncia la fine della storia. Ma mentre per Nietzsche la fine della storia come teleologia coincide con l'«eterno ritorno» dove «tornerà anche questa tela di ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, ed anche questo identico momento, ed io stesso»,[12] per la Bibbia essa coincide con il suo aprirsi al futuro radicale, non come proiezione in avanti del non ancora del presente, bensì come avvento di Dio, di ciò che è altro e viene da oltre: il suo amore, la sua gratuità, il suo disinteressamento. Se per Nietzsche la fine della storia coincide con il trionfo dell'io e della sua volontà di potenza come volontà di autoespansione, per la Bibbia è l'esatto contrario e coincide con la sua messa in discussione e con la negazione della sua innocenza, per farlo risorgere come vocazione al bene.
    È qui la potenza liberatrice dell'escaton biblico, capace di sottrarre l'io al gioco di tutti i determinismi (biologici, psicologici, culturali, ecc.) e di (ri)costituirlo nella gratuità. Il futuro vero, carico di novità e di utopia, per la Bibbia è l'orizzonte della gratuità, del disinteresse o disinteressamento: il futuro di cui il soggetto - e non la storia, non la rivoluzione, non il tempo - ha le chiavi e diventa realtà ogni qualvolta accoglie il mondo come dono e lo ridona.
    Parlando della spiritualità ebraica, Heschel ha scritto che essa consiste nella percezione «dei miracoli che sono quotidianamente con noi» e nella sensazione delle «continue meraviglie» che Dio opera, e che una delle mete cui tende il vivere ebraico è «sentire gli atti più banali come avventure spirituali, percepire l'amore e la saggezza che si celano in tutte le cose».[13]
    L'unico vero miracolo è la gratuità.
    È questa la vera utopia e il vero futuro che l'escaton biblico dischiude nella storia, spezzandone i determinismi e generandola e rigenerandola ogni giorno come dono da accogliere nella recettività e come compito da realizzare nella responsabilità.


    NOTE

    [1] Questa massima si trova nel trattato Chagigah 2,1.
    [2] Rabi a al-Adawiyya, cit. in J. ImiziAcu, La dottrina sui «novissimi»: messaggio di minaccia o lieta novella?, in «Studium» 87/1991, p. 34.
    [3] Ivi.
    [4] Citato da A. NEHER, L'esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 240.
    [5] Cf capitolo 7, pp. 153-154.
    [6] P. PRINI, L'esistenzialismo, Roma 1959, p. 170.
    [7] Già citato, cf ivi, p. 52.
    [8] A Rizzi, L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991, p. 125.
    [9] M. BUBER, I racconti dei chassidim, Milano, Garzanti 1979, p. 330.
    [10] GANDHI, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, Torino 1973, p. 6.
    [11] Cf G. REALE-D. ANTISERI, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, III, La Scuola, Brescia 1983, p. 336.
    [12] Ivi.
    [13] A. J. HESCHEL, Dio alla ricerca dell'uomo. Una filosofia dell'ebraismo, Borla, Torino 1969, pp. 68-71.


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