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    Un po' di deserto per non morire di buon senso (RGC 8)


     

    cf "Ritratto di un giovane cristiano"

    Ci sono dei fatti che provocano e inquietano. Danno da pensare, anche quando non si riesce a condividerli pienamente.
    Uno di questi è la ricerca del deserto come luogo dove vivere una intensa esperienza di interiorità.
    Molti cristiani hanno amato e cercato il deserto proprio in termini fisici.
    Chi è stato in Terra Santa ha certamente visitato le "laure" del deserto di Giuda. Ti restano negli occhi, come uno squarcio abbagliante di luce.
    Le "laure" sono grotte scavate nella roccia, rudimentali costruzioni arroccate su strapiombi. Lì vivevano, in solitudine e in austerità, i primi monaci nella storia della Chiesa. Anche oggi, è un'impresa raggiungere quei posti, sprofondati tra le gole dei torrenti e le pietraie, lontani qualche ora di jeep dai centri abitati.
    Questi uomini sceglievano il deserto come casa per confessare meglio che solo Dio è il Signore.
    La loro esperienza non si è spenta nello scorrere del tempo.
    Qualcuno ha continuato lo stesso modello di vita; e abita oggi le stesse grotte, con la stessa passione e per la stessa causa.
    Altri - moltissimi altri - si sono costruiti il deserto in casa, nelle loro celle trasformate in luoghi di silenzio e di vita dura. Monasteri e conventi punteggiano le nostre regioni, come piccoli frammenti di una grande pervasiva ricerca di deserto.
    Non sono l'ultimo resto di una gente strana, fuori dal tempo e dalla storia. Chi studia con serietà il cammino della nostra cultura è costretto a far strada sempre con qualcuno di questi uomini grandi. Rintanati nel deserto delle loro celle, hanno scritto la storia dell'Europa.
    Oggi, la loro presenza preziosa continua per la crescita in umanità anche degli uomini distratti e affannati. Molti hanno sostituito agli strumenti con cui dissodavano le terre incolte e curavano gli infermi, le pagine di una produzione letteraria, pensosa e sapiente.
    E non sono isolati. Un grande credente del nostro tempo ha gridato, un giorno non lontano, a mille giovani che ascoltavano affascinati la sua testimonianza: "Quando attraverso queste nostre città, convulse e dissacrate, ho bisogno di un giorno di deserto per poter tornare a pregare".
    Il deserto continua a fiorire, perché ci sono dei cristiani che lo scelgono come loro dimora. Dove noi ci vediamo solo vuoto e tristezza, loro sperimentano gioia e compagnia.
    Danno con i fatti ragione al profeta: "Un giorno, io, il Signore, riconquisterò Israele, il mio popolo. Lo porterò nel deserto e gli dirò parole d'amore. Gli restituirò le vigne che aveva e trasformerò la valle della disgrazia in una porta di speranza. Lì, mi risponderà come al tempo della sua giovinezza quando uscì dall'Egitto. [...] Lì farò un'alleanza con gli animali feroci, con gli uccelli e con i rettili, perché non diano fastidio al mio popolo. Spezzerò l'arco e la spada, eliminerò la guerra da questa terra. Farò vivere il mio popolo in pace.
    Israele, ti farò mia sposa,
    e io sarò giusto e fedele.
    Ti dimostrerò il mio amore
    e la mia tenerezza.
    Sarai mia per sempre" (Osea 2, 16-17, 20-22).
    E se il deserto fosse davvero il luogo in cui Dio dice parole d'amore al suo popolo, anche oggi, in un tempo che sembra avvolto nel suo silenzio?

    Dal deserto come "fatto" al deserto come "parabola"

    L'ipotesi del deserto è seducente.
    Ci immerge in una lunga e consolidata tradizione ecclesiale. Ci offre uno spazio tranquillo e protetto, nel ritmo frenetico della nostra vita quotidiana.
    Questo è vero e certo non possiamo cancellarlo con un colpo sicuro di spugna. Eppure pone grossi problemi. Introduce nell'esperienza quotidiana una divisione pericolosa e ingiustificata.
    Noi non possiamo fuggire dal nostro quotidiano.
    L'abbiamo progressivamente riconquistato come il luogo dove diventare signori della nostra vita, se abbiamo il coraggio di alzare le mani nel gesto dell'invocazione. L'abbiamo costatato il luogo in cui il Dio di Gesù si fa vicino a noi, per accogliere il nostro grido di vita e restituirci alla gioia e alla speranza. Nella trama del nostro quotidiano ci siamo sentiti investiti di responsabilità gravi e affascinanti, per esprimere con i fatti la stessa "compassione" di Dio per la vita di tutti gli uomini.
    Chi sogna il deserto, come punto di fuga dal quotidiano, per respirare interiorità, divide l'esistenza in tempi vuoti, da riscattare, e tempi felici, da sperimentare. Non basta certo finalizzare i secondi alla retta gestione dei primi: l'operazione ha il greve sapore della conquista e del riscatto.
    L'interiorità, che cerchiamo trepidanti per sopravvivere maturi in un tempo di dispersione e di affanno, non è prerogativa di alcuni fortunati (quelli che fanno del deserto la loro dimora abituale) o di alcuni spazi speciali (i tempi del deserto nel tessuto del quotidiano).
    L'interiorità deve diventare qualità pervasiva di ogni gesto dell'esistenza: possibile in ogni gesto e esprimibile in ogni momento.
    Questa è un'esigenza: un sogno, intuito e coltivato, giustificato da molti segnali.
    Ho riscoperto il deserto.
    L'ho scoperto non come luogo fisico, ritagliato nel frastuono di una esistenza che non è deserto. L'ho scoperto come stile di vita, capace di pervadere e organizzare il quotidiano.
    Il deserto diventa parabola dell'interiorità: qualità di vita, per assicurare interiorità nel quotidiano; luogo di purificazione e di passaggio da "attraversare", ogni tanto, come forte esperienza spirituale che rende più autentico il rapporto con Dio e con i fratelli.
    Questa è dunque la mia ipotesi: possiamo vivere come uomini dalla profonda interiorità nella vita quotidiana, solo se riusciamo a riempire il nostro quotidiano delle stesse esperienze che per il popolo ebraico hanno trasformato un luogo maledetto (come è il deserto "fisico") in un tempo felice.
    Il deserto è quindi prima di tutto la "cifra" di un modo di vivere, il segno più espressivo di uno stile di esistenza che dobbiamo recuperare, per vivere in profonda e credente interiorità la nostra vita quotidiana.
    Nel tempo dell'esodo, in quella sofferta marcia che l'ha ricondotto dall'Egitto alla terra dei padri, il popolo ebraico ha trascorsi lunghi anni del deserto. In questo luogo, duro e ostile, si è ritrovato Dio vicino e accogliente, come mai gli era successo prima. L'ha condotto per mano, liberato da mille pericoli, nutrito e dissetato dalla sua potenza. Nel deserto, Dio ha firmato un patto di vita con lui. Lì, la sua fedeltà è stata messa alla prova. Nonostante i continui segni di una insperata benevolenza, anche in questo tempo felice è riaffiorato il tradimento e l'infedeltà. Dio però è rimasto vicino al suo popolo. Lo ha richiamato e colpito. Ma alla fine lo ha salvato, riportato alla casa promessa, "in una terra fertile e spaziosa dove scorre latte e miele" (Es. 3, 8).
    Così, il deserto è stato veramente trasformato. La terra maledetta è diventata terra di benedizione.
    Per questo, l'uomo della Bibbia è pieno di nostalgia per il deserto, anche se lo teme ogni volta che lo deve attraversare, e lo combatte per strappargli fazzoletti di terra fertile. Ricorda con rimpianto il tempo di una fedeltà più grande; è ancora affascinato dall'esperienza di sentirsi sussurrare "parole d'amore" da Dio.

    Prendere ogni tanto le distanze dalla logica corrente

    Il profeta pensa alla faticosa permanenza del popolo ebraico nel deserto come al tempo del "fidanzamento" con Dio. Perché?
    Quando l'amore bussa alla vita di due persone, tutto si tinge dei toni affascinanti dell'entusiasmo, della poesia, della disponibilità a tentare, a rischiare, a sognare.
    Qualcuno ha persino paragonato lo "stato nascente" dei movimenti culturali, sociali e politici al tempo dell'innamoramento, a questo momento felice di giovinezza senza ombre e senza preoccupazioni.
    Chi ha già percorso la dura strada dell'esistenza, ha molto di più i piedi per terra. Ricorda che il tempo delle rose finisce presto. Brutalmente mette davanti l'esigenza di sacrificio, di rinuncia, di previsioni a lunga scadenza.
    Un po' di ragione ce l'ha chi sogna e chi trascina al realismo.
    Lo proclama, con un punta di cinismo, il vecchio saggio della Bibbia:
    "Nella vita dell'uomo,
    per ogni cosa c'è il suo momento,
    per tutto c'è un'occasione opportuna.
    Tempo di nascere, tempo di morire,
    tempo di piangere, tempo di ridere,
    tempo di lutto, tempo di baldoria,
    tempo di abbracciare, tempo di staccarsi,
    tempo di conservare, tempo di buttar via,
    tempo di guerra, tempo di pace" (Qoelet, 3, 1-8).
    Questi discorsi sono sulla bocca di tutti. Ci lasciano però un velo di tristezza: ci resta la nostalgia del tempo del fidanzamento, anche se ci ritroviamo misurati dal tempo del realismo.
    Possiamo essere cristiani del buon senso e dai piedi per terra?
    Il cristiano vive immerso nel mondo. È la sua casa e non la vuole fuggire.
    Delle sue logiche alcune sono certamente contrarie al Vangelo, costruite dentro prospettive mortifere. Da queste non è difficile prendere le distanze, almeno in linea teorica.
    Molte altre, invece, sono meno evidenti. Determinano quello stile di perbenismo e di concretezza che è indispensabile per ogni convivenza ordinata.
    Non ci vuole una gran fantasia per immaginare degli esempi concreti.
    Basta pensare al mondo della politica e a quello dell'economia, alle continue sgomitate necessarie per farsi un po' di spazio, a mille esigenze che sembrano irrinunciabili, che affannano le nostre giornate, ai compromessi che tutte le attraversano.
    Il cristiano percepisce un disagio crescente; s'accorge di dover tentare qualche alternativa nuova. Si sente soffocare, nei suoi sogni e nei suoi progetti. Ma non sa come muoversi e cosa inventare. Ha paura di essere costretto a fare come tanti altri: spegnere l'insofferenza dell'utopia, per vivere a proprio agio nella mischia delle vicende quotidiane.
    Abbiamo bisogno di respirare, ogni tanto, aria pulita: l'aria tersa ed essenziale che si respira nel deserto.
    Il deserto è capacità di prendere le distanze dalle logiche in cui siamo immersi, per verificarle tutte, in un'opera coraggiosa di discernimento critico.
    Se restiamo immersi in queste logiche, non ce la facciamo proprio a giudicarle spassionatamente. Solo collocati altrove, possiamo rivedere tutto in luce nuova.
    Davvero, il deserto è il tempo del fidanzamento: il tempo dove sogniamo ad occhi aperti, dove i buoni consigli e gli inviti a tenere i piedi per terra neppure ci sfiorano, perché è solo tempo di sogni.
    Rifatti nel sogno, possiamo riprendere il ritmo duro di una esistenza che ha bisogno di mercanteggiare le esigenze e di ridimensionare le prospettive.
    Ritornando dal nostro piccolo deserto al ritmo sfrenato della vita quotidiana, ci resta un pizzico di nostalgia per il tempo dell'innamoramento.
    Viviamo nella vita quotidiana, pieni del ricordo pericoloso del deserto.
    Questo primo, importante movimento viene assicurato e consolidato attraverso l'abitudine a rileggere il vissuto "al rallentatore".
    Il processo al rallentatore è un interessante possibilità offerta dai moderni strumenti di registrazione.
    Viene usato abitualmente nelle riprese sportive. Le immagini scorrono con un ritmo che non è quello normale. E così i particolari risaltano meglio, fino ai minimi dettagli. Si può persino ritornare indietro e riprendere da capo l'immagine. Può essere bloccata, congelando in un frammento di presente lo scorrere inesorabile del tempo.
    In moviola, riusciamo a fermare il tempo, riconduciamo il presente nel suo passato, imprimiamo al presente un movimento che non è il suo ritmo naturale: ce lo aggiustiamo sulla nostra lenta capacità di penetrazione.
    Nella vita cristiana abbiamo bisogno di decifrare il presente in questo stile, per non restare soffocati dai suoi ritmi affannosi e non restare prigionieri delle sue trame seducenti.
    Sono molti i momenti in cui possiamo sperimentare "processi al rallentatore". Ogni persona ha i propri: li cerca e se li programma con cura puntigliosa.
    Per tanti giovani ha funzionato come "processo al rallentatore" la partecipazione ad un campo di lavoro. Il ritmo duro della giornata, la condivisione fraterna, l'avvertire la schiena rotta e le mani bruciare per poter dare un frammento di sé ai poveri, quelle lunghe celebrazioni eucaristiche serali, piene di passione e di stanchezza meritata, hanno trasportato in un altro mondo, così diverso e lontano da quello quotidiano.

    Cercare spazi di silenzio

    Nelle nostre città, un rumore di fondo, cupo e continuo, lascia la parola solo a chi urla.

    Elogio del silenzio

    Il silenzio è la condizione irrinunciabile per ascoltare Dio che si fa Parola sussurrata, come la brezza di una calda sera d'estate (Gen. 3, 8), sconvolgente e imprevedibile perché mai posseduto. L'una dimensione e l'altra ce la ricorda una pagina famosa della Bibbia: l'incontro di Dio con Elia, il profeta che "era come il fuoco, la cui parola bruciava come una fiamma" (Sir. 48, 1). "Il Signore stava passando. Davanti a lui un vento fortissimo spaccava le montagne e fracassava le rocce, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento venne il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto venne il fuoco, ma il Signore non era neppure nel fuoco. Dopo il fuoco, Elia udì come un lieve sussurro. Si coprì la faccia con il mantello, uscì sull'apertura della grotta e udì una voce che gli diceva: Che fai qui, Elia?" (1 Re 19, 11-14).
    Per leggere il visibile dalla prospettiva del mistero di Dio che si porta dentro, abbiamo bisogno del silenzio, come dell'aria che respiriamo; altrimenti il mistero resta muto, la voce di Dio viene soffocata. E l'interiorità si dissolve come neve al sole, nella trama seducente del vissuto.
    Nel silenzio impariamo ad ascoltare la voce che giunge dal mistero di Dio. E diventiamo capaci di rispondere a questa voce interpellante.
    Lo sappiamo e celo siamo detti tante volte: Dio è Parola che chiama e che sollecita risposte.
    Anche la nostra risposta è parola sussurrata, in timore e trepidazione. Lo è quando rispondiamo nella preghiera e lo è quando rispondiamo con i fatti del regno di Dio.
    La preghiera del cristiano non è moltiplicare parole a voce alta: "Quando pregate, non fate come gli ipocriti che si mettono a pregare nelle sinagoghe o agli angoli delle piazze per farsi vedere dalla gente. Vi assicuro che questa è l'unica loro ricompensa. Tu invece, quando vuoi pregare, entra in camera tua e chiudi la porta. Poi, prega Dio presente anche in quel luogo nascosto. E Dio, tuo Padre, che vede anche ciò che è nascosto, ti darà la ricompensa. Quando pregate, non usate tante parole come fanno i pagani: essi pensano che a furia di parlare Dio finirà per ascoltarli" (Mt 6, 5-7).
    La nostra risposta è soprattutto intessuta di fatti: "Non tutti quelli che dicono 'Signore, Signore!' entreranno nel regno dei cieli. Vi entreranno soltanto quelli che fanno la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7, 21).
    Solo avvolti nel silenzio, possiamo dire le parole, giuste e sufficienti, per incontrare il Dio del silenzio. Solo nella capacità di una continua attenta verifica, possiamo inventare quei gesti dalla parte della vita, che costruiscono oggi un po' del regno di Dio.

    Il silenzio per la "solitudine"

    Circondati di silenzio, conquistato a fatica nel ritmo ossessivo della giornata, viviamo, finalmente, soli: in compagnia di noi stessi.
    Ho l'impressione che sia una delle esperienze più difficili oggi. Abbiamo tutti un gran paura di restare soli e cerchiamo affannosamente gli altri. Ci sostengono, ci servono di prezioso punto d'appoggio. Diventano persino il grembo materno a cui affidiamo la fragile nostra esistenza.
    Spesso è una compagnia strana: rumorosa e distraente, come un pomeriggio domenicale che dura tutta la vita, passato in discoteca, vicini e tanto isolati, costretti ad urlare per farsi ascoltare, sempre male interpretati, nel sottofondo musicale che distorce ogni voce. Ma ci va bene. Ci aiuta a non pensare: a non avere paura e a non essere costretti ad alzare le mani invocanti.
    Qui è il punto.
    Quando siamo soli, faccia a faccia con la nostra finitudine, ci sentiamo costretti a cercare due polsi robusti a cui ancorare le nostre braccia alzate nell'invocazione. Ma questo ci fa soffrire, troppo per risultare praticabile.
    Scopriamo di non bastare a noi stessi, noi che sappiamo tante cose e usciamo indenni da tutti gli inghippi. E ci accorgiamo che, in fondo, nessuno dei nostri amici ci basta per sopravvivere sull'onda del limite invalicabile della nostra fame di vita e di felicità.
    Abbiamo paura di sprofondarci nell'abisso dell'"oltre", dove i conti non tornano più.
    E così scappiamo dalla difficile e inquietante compagnia di noi stessi.
    La solitudine va invece riconquistata, come condizione e spazio per l'interiorità. L'uomo e la donna che possiedono questa capacità di solitudine non sono più fatti a pezzi dalle mille impressioni che ci circondano e ci affascinano. Sono invece capaci di percepire e capire tutto da un centro interiore in cui regna la pace.
    Soprattutto scopriamo la sete di salvezza che ci inquieta la vita.
    Solitudine non è isolamento: è presenza a tutti, nella verità riconquistata di sé e degli altri.
    "Cantate e danzate insieme e siate felici,
    ma lasciate che ciascuno di voi sia solo.
    Anche le corde del liuto sono sole
    pur se vibrano con la stessa musica.
    State insieme ma non troppo vicini
    perché i pilastri del tempio sono separati
    e la quercia e il cipresso
    non crescono l'uno all'ombra dell'altro" (K. Gibran).


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