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    Volto di Cristo, volto di uomo ricolmo dello Spirito di Dio



    Luis A. Gallo

    (NPG 2004-05-34)


    Nell’articolo precedente abbiamo visto Gesù portare come stampato sul volto l’intimo e costante rapporto con Dio, suo “abbà”, il grande Tu al quale si rivolge ininterrottamente e con il quale condivide la passione sconfinata per la vita piena degli uomini.
    Ora vogliamo esplorare un’altra sfaccettatura del suo volto, il suo rapporto con lo Spirito, che non è per lui tanto un Tu con il quale dialoga, come è il Padre, quanto piuttosto la forza che lo spinge, il fuoco che gli brucia dentro il cuore, l’atmosfera che respira e in cui vive e agisce. Così cogliamo anche il “risvolto trinitario” del volto di Gesù.

    Alcuni rilievi esegetici

    Esaminando i vangeli, gli studiosi ritengono, fondati su ragionevoli motivi, che Gesù abbia parlato poco dello Spirito, malgrado vi siano dei testi che sembrerebbero dire il contrario, come quelli del discorso inaugurale della sua missione a Nazareth in Lc 4,18-19, o del discorso di congedo nell’ultima cena in Gv 14-16. Sono due casi in cui si tocca con mano la libertà con la quale gli evangelisti hanno tramandato le sue parole.
    È vero che in Israele c’era una lunga tradizione di fede nello Spirito di Dio, attestata sin dalle prime parole della Bibbia (Gen 1,2), e poi da una serie ininterrotta di altri testi storici, profetici e sapienziali. Lo Spirito vi appare come la forza creatrice e vivificante di Dio all’opera nel mondo per l’attuazione della sua benevola volontà verso di esso. Una forza che spesso irrompe, come il vento che l’etimologia del termine rammenta, in uomini e donne, sospingendoli a parlare e ad agire nella direzione del grande progetto divino. Sono particolarmente i profeti gli uomini dello Spirito. In essi quella forza si fa parola che annuncia, denuncia, promette, ammonisce, minaccia, incoraggia, consola...
    Non è da escludere, anzi si può supporre con fondamento, che Gesù abbia frequentato tale tradizione. È molto probabile che la frase, ripresa dal libro di Isaia e riportata da Luca nel già citato discorso inaugurale – “Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato” (Lc 4,18; Is 61,1) – rifletta la consapevolezza che egli aveva di essere “abitato” dallo Spirito. Si deve essere sentito come posseduto da quella forza divina che gli aveva comunicato il Padre. Forse la scena del suo battesimo, narrata dai Sinottici e accennata anche da Giovanni, in cui lo Spirito viene visto scendere su di lui come una colomba (Mt 3,6; Mc 1,10; Lc 3,21-22; Gv 1,32), è un modo di esprimere tale consapevolezza nel suo momento iniziale.
    Malgrado ciò, gli esegeti ritengono che egli abbia parlato poco dello Spirito. Ma ritengono anche che, pur senza averlo fatto oggetto dei suoi discorsi, egli appariva indubbiamente agli occhi della gente che lo seguiva e lo ammirava come un uomo altamente spirituale, ossia ricolmo dello Spirito di Dio.
    Basta seguire con un po’ di attenzione i vangeli per cogliere la convinzione che le prime comunità avevano al riguardo. Lo si coglie nel fatto che collegano la sua concezione nel grembo di Maria all’intervento dello Spirito (Lc 1,35), che raccontano la manifestazione dello Spirito nel suo battesimo (Mt 3,6; Mc 1,10; Lc 3,21-22; Gv 1,32), la sua andata nel deserto delle tentazioni dietro la spinta dello Spirito (Mt 3,1; Mc 1,12), l’inizio della missione con la menzione dell’unzione dello Spirito (Lc 4,16-19), gli esorcismi fatti “con il dito di Dio”, simbolo dello Spirito (Lc 11,20), la preghiera di ringraziamento fatta nello Spirito (Lc 10,21)...

    Lo Spirito si manifestava in Gesù come passione per la vita

    Secondo le attestazioni evangeliche, lo Spirito di Dio si manifestava in Gesù in svariate maniere.
    Si manifestava, anzitutto e basilarmente, come passione per la vita in abbondanza di tutti. Come si diceva più sopra, gli scritti neotestamentari permettono di intuire una profonda convinzione dei primi discepoli: quello Spirito di Dio che si era andato manifestando in svariate maniere nella lunga storia di Israele, impossessandosi in qualche modo di uomini e donne per operare attraverso di essi la salvezza del popolo, in Gesù dimorava in forma stabile. E non abitava in maniera inerte e passiva, bensì in maniera intensamente dinamica.
    Infatti, dopo il racconto evangelico del suo battesimo, in cui lo Spirito scende su di lui, fanno vedere che è lo stesso Spirito che lo muove costantemente verso la realizzazione della sua missione, a cominciare dai quaranta giorni passati nel deserto (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13). Le numerose guarigioni da lui operate le attribuiscono ugualmente a quella energia che, uscendo da lui, “guariva tutti” (Lc 6,19; cf Mc 5,25-31; Lc 8,43-46), e gli esorcismi mediante i quali liberava coloro che erano sotto il potere degli spiriti maligni, li ascrivono al “dito di Dio” che agisce attraverso di lui (Lc 11,20; Mt 12,28). Due metafore – energia e dito – con le quali i vangeli sinottici esprimono la presenza vivificante dello Spirito operante in lui.
    Giovanni, in un altro contesto, lascia trasparire la stessa convinzione. Lo si vede nel racconto dell’intervento di Gesù durante la festa delle Capanne, nella quale, in mezzo alla solenne processione che si muoveva portando l’acqua viva dalla fontana di Siloe verso il Tempio, si sente la sua voce proclamare: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sorgeranno dal suo seno”. E l’evangelista aggiunge esplicitamente che egli intendeva riferirsi allo Spirito Santo (Gv 7,37-38). Secondo alcuni interpreti, i fiumi di acqua viva, a cui alludono le sue parole, sgorgano dal suo stesso seno. È lo Spirito che promana da lui, perché è in lui.
    L’immagine dell’acqua per parlare dello Spirito è, infatti, presente anche in un altro testo del medesimo vangelo, quello in cui si narra l’incontro di Gesù con la donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe. A lei, che gli chiede l’acqua viva per non dover tornare al pozzo ad attingerla, Gesù risponde: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,13-14). È facile cogliere il nesso che c’è nel testo tra “acqua” e “vita eterna”, nel senso sopra accennato. Ed è facile anche percepire come l’evangelista pensi a Gesù come sorgente di vita piena precisamente perché è ricolmo di Spirito Santo.
    Fuoco e acqua sono due realtà che si respingono a vicenda nella nostra esperienza; ma nel mondo dei simboli possono stare molto bene insieme. Tutti e due servono a trasmettere la stessa convinzione: Gesù di Nazareth è un uomo pieno dello Spirito di Dio, uno Spirito che è fuoco ed è acqua viva, e che non lo lascia tranquillo ma lo spinge costantemente a uscire in qualche modo da se stesso per andare verso la realizzazione dell’unica grande volontà di Dio, suo Padre: che gli uomini e le donne “abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
    Si potrebbe dire, quindi, che lo Spirito è la passione infinita di Dio per la vita del mondo, e che Gesù di tale passione ne è ricolmo.

    Lo Spirito appariva in Gesù come Spirito di figliolanza

    Un altro modo di manifestarsi dello Spirito in Gesù era quello della figliolanza. Abbiamo già dedicato l’intero articolo precedente a evidenziare il risvolto filiale della sua esperienza.
    Uno dei momenti più forti di tale esperienza deve essere stato, possiamo supporlo, quello della preghiera. Che Gesù pregasse personalmente è scontato se si tiene conto che era un ebreo, e come tale seguiva in ciò l’uso dei suoi connazionali. Ma il fatto è attestato anche più di una volta espressamente dai vangeli (Mc 1,35; Lc 6, 12; Eb 5,7; ecc.). Per conto suo Giovanni riporta una lunga e solenne preghiera – la cosiddetta “preghiera sacerdotale” – che egli avrebbe fatto durante l’ultima cena, dopo aver parlato ampiamente con i suoi amici (Gv 17,1-26). Ma, soprattutto, impressiona il racconto che fanno i Sinottici della sua dolorosa preghiera nell’Orto degli Ulivi, prima di essere tradito e consegnato ai suoi avversari (Mt 26,36-45; Mc 14,32-40; Lc 22,39-45). Secondo la narrazione di Marco, fu proprio in quel contesto di angoscia mortale che egli pronunziò la parola che gli era tanto familiare, aggiungendo poi la dichiarazione della sua intera disponibilità al suo volere: “Abbà, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). È una preghiera fatta d’intensa fiducia, ma allo stesso tempo di estremo abbandono.
    Luca pone sulle sue labbra, sul patibolo della croce, quando si trova innalzato tra il cielo e la terra e in preda alla più profonda sensazione di abbandono, le parole più di una volta ripetute dai salmisti dell’Antico Testamento (Sal 16,5; 31,6.16): “Nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46), ma anteponendovi l’invocazione filiale “Padre” che probabilmente dovrebbe essere sostituita da “abbà”. Così, ciò che egli aveva vissuto lungo tutta la sua vita trovò la sua espressione più alta nel momento apice della sua vita. Egli si abbandonò fiduciosamente, pur in mezzo ai terribili dolori fisici e alla più angosciante sensazione di solitudine, nelle mani di Colui che aveva sempre invocato come Padre tenero e sollecito. Morì come figlio, affidandosi all’amore indefettibile di Dio.
    Non è difficile derivare da questi dati la convinzione che egli fosse pieno di uno Spirito intensamente filiale, che impregnava ogni suo pensiero, ogni sua parola, ogni sua azione.

    Lo Spirito si mostrava in Gesù come Spirito di fraternità

    Ancora in un terzo modo si manifestava lo Spirito di Dio in lui: se questo Spirito, che era dinamicamente presente in lui, lo plasmò come un figlio che si rapportava con piena confidenza e tenerezza con Dio fino a chiamarlo “babbo”, questo stesso Spirito fece di lui un fratello tra fratelli e sorelle. Era uno Spirito di fratellanza.
    Impressionano, infatti, da questo punto di vista, nella lettura dei vangeli, sia le parole che l’agire di Gesù. La parabola del buon Samaritano (Lc 10,30-37), da lui raccontata in risposta alla domanda di un maestro sul comandamento principale della Legge, svela luminosamente la disposizione radicale e, possiamo anche dire, viscerale che egli stesso aveva. Davanti all’uomo lasciato mezzo morto dai ladri ai margini della strada, mentre il sacerdote e il levita proseguono la loro strada senza fermarsi, il Samaritano si lascia invece impietosire e si commuove profondamente. La parola usata dal testo originale per descrivere tale commozione fa riferimento alle viscere: egli, dice la narrazione, “si sentì toccato nel più intimo delle sue viscere”. E quella commozione lo portò a “usargli misericordia”, a “farsi prossimo” suo. Diventò così vero fratello di colui che, secondo la maniera di vedere del tempo in Israele, era un nemico (cf Gv 4,9).
    I vangeli presentano un Gesù intensamente coinvolto nelle situazioni concrete di coloro che incontra sulla sua strada, siano essi uomini o donne. Egli si dimostra sensibilissimo ai loro bisogni e alle loro attese, e la sua sensibilità lo porta a vibrare con essi, a commuoversi intensamente davanti alle loro sofferenze e alle loro gioie, e a venire incontro alle loro necessità.
    Basta un solo esempio, tra tanti, per averne la conferma. È quello della risurrezione del figlio della vedova di Nain, raccontato in Lc 7,12-15. La scena iniziale è straziante: una madre vedova, accompagnata da molta gente del paese, cammina piangendo dietro la bara in cui portano a seppellire il suo unico figlio. Gesù la incontra e reagisce anzitutto in maniera viscerale. Il testo, infatti, utilizzando lo stesso termine della parabola del buon Samaritano, dice: “Vedendola, il Signore si commosse profondamente e le disse: ‘Non piangere!’”. Lo si coglie tra le righe: egli si lascia coinvolgere dal dolore della donna e interviene esortandola a non piangere. Un’esortazione che potrebbe suonare a sarcasmo o a sterile commiserazione, ma che acquista il suo vero senso da ciò che segue: “E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: ‘Giovinetto, dico a te, alzati!’. Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre”. Ancora una volta, la sensibilità fraterna di Gesù si esprime a due livelli: quello della commozione intensa, e quello dell’intervento concreto in cui essa sfocia.
    Questo esempio fa toccare con mano come lo Spirito che muove Gesù sia veramente una forza che lo spinge a farsi attivamente fratello degli altri, amando appassionatamente la loro vita e la loro vera felicità. Per lui, essere fratello non è un semplice sentimento, ma un farsi seriamente e attivamente responsabile della vita e della morte degli altri. È, in definitiva, una espressione di quella passione per il regno di Dio che gli riempie il cuore. Si spiega così come questo Spirito di fraternità lo porti a occuparsi particolarmente di coloro che di vita ne hanno di meno.

    Lo Spirito produceva in Gesù un rapporto sereno e maturo con se stesso

    Anche il rapporto con se stesso era impregnato in Gesù dallo Spirito di Dio, e perciò era un rapporto spirituale. Lo si può desumere dagli effetti che si colgono nel suo modo di comportarsi e di agire.
    Egli, infatti, non appare mai come ripiegato egoisticamente su se stesso. Paolo espresse bene questo dato nella sua stringata frase: “Cristo non cercò di piacere a se stesso” (Rm 15,3). E i vangeli all’unisono l’attestano: egli non visse per sé, non riservò se stesso per sé, ma visse mettendo se stesso al servizio di Dio e degli altri.
    Usando la terminologia degli psicologi, potremmo dire che egli non fu un “essere di piacere e di desiderio”, che non ha ancora la coscienza vera né di se stesso né degli altri, e quindi infantile e immaturo, ma viceversa “un essere affrancato e libero dall’avidità smodata”, un uomo che visse decentrato, che ripose cioè il suo centro nell’altro. Nell’Altro divino che invocò come “abbà” e la cui volontà desiderò ardentemente attuare costantemente e ad ogni costo (Gv 4,34; Fil 2,8; Eb 7,7-8), e nell’altro umano del quale egli, come è stato anche ricordato poc’anzi, si fece attivamene fratello.
    In lui, quindi, l’amore di alterità prevalse sull’amore di bisogno. Così si spiega la sua croce, che umanamente parlando appare come un assurdo o una pazzia (1Cor 1,23), ma nella sua prospettiva esprime una donazione totale della propria vita per gli altri (Gv 15,13). Essa rappresenta il momento più alto della sua maturità umana. Non per niente il vangelo di Giovanni vede nella sua morte in croce la sua esaltazione alla gloria (Gv 3,14; 12,23-24), e il momento in cui egli “attira tutto a sé” (Gv 12,32).
    Questo stesso decentramento nell’amore di alterità, che in termini neotestamentari si chiama “agápe” (Gv 13,34; 15,17; 1Cor 13,1-13; ecc.), era anche alla base della sua padronanza di sé, dei suoi atteggiamenti, delle sue emozioni, delle sue azioni e reazioni. Ora, come dice Paolo, “l’amore (agápe) di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Il che fa vedere come la radice di tale padronanza sia la presenza nel suo cuore dello Spirito Santo di Dio.

    Lo Spirito originava in Gesù un rapporto amicale con la natura

    Un’ultima manifestazione della presenza dello Spirito di Dio in Gesù ha a che fare con il suo peculiare rapporto con la natura.
    Dai dati che possiamo raccogliere nei vangeli si ricava la giustificata impressione che egli abbia avuto una spiccata sensibilità verso di essa, che considerava un dono del Padre, il quale “veste l’erba del campo e nutre gli uccelli del cielo” (Mt 6,26-30; Lc 12,24-28).
    L’incantevole ambiente naturale in cui era cresciuto, le ridenti colline della Galilea, le sue valli fiorenti in primavera e notevolmente feconde in autunno, e particolarmente il bel lago di Gennesaret, devono aver certamente contribuito a creargliela.
    I riferimenti a elementi e fenomeni della natura sono frequenti nei suoi discorsi, e sono sempre improntati a grande simpatia verso di essi: il sole, il fuoco, la luce e le tenebre, il vento e le nubi, la pioggia e il fulmine, il tramonto, l’acqua e il vino, i gigli del campo, gli uccelli del cielo, i corvi, le pecore e i buoi, i pesci, le volpi, le vipere, la vite, la mietitura, la vendemmia, la pesca... sono alcuni dei molti elementi della natura che popolano i suoi discorsi e parlano del suo sereno rapporto con essi. Egli non li riteneva indegni di attenzione, ma viceversa si rapportava con essi con amicale naturalezza e persino con ammirazione. Nelle narrazioni tramandate dai vangeli sprizza un sano rispetto verso l’intera natura e un positivo rapporto da parte sua con essa.
    Gesù sapeva certamente, come lo sapeva tutto il Popolo d’Israele, che lo Spirito di Dio era uno Spirito creatore (Gen 1,3; Sal 103,30), che la natura con cui era a contatto era scaturita dalla Potenza creatrice di Dio, e che quindi tutto ciò che la natura forniva agli uomini per la loro vita e la loro gioia era un dono dello Spirito. Si spiega quindi come sia stato capace di un rapporto così singolare con essa, dal momento che lui stesso era ricolmo di tale Spirito.

    Il volto spirituale di Gesù

    Dai dati rivisitati appare il volto di Gesù come quello di un uomo davvero intensamente spirituale. Spirituale, ma non “spiritualista”.
    Non si ritrova effettivamente in lui nessun segno di un dualismo spirito-materia, o anima-corpo nello stile ellenistico; né si ritrovano in lui segni di una tendenza a evadere da “questo” mondo; anzi, a differenza di Giovanni Battista egli vive immerso in esso: ama stare con la gente, partecipare alle sue gioie e alle sue sofferenze, sedere a mensa con gli amici, prendere parte a un banchetto di nozze...
    La sua spiritualità consiste nel vivere tutto ciò a partire da un’immersione piena nello Spirito divino.


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