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    Il Dio della vita è Padre (cap. 7 di: Il Dio di Gesù)


    Luis A. Gallo, IL DIO DI GESÙ. Un Dio per l'uomo e in cerca dell'uomo, Elledici 1991


    1. Un Dio Padre?

    La preghiera cristiana più conosciuta e più diffusa comincia con la parola "Padre". Molti cristiani usano parlare di Dio come del "Padre Eterno".
    Un tempo questo modo di rivolgersi a Dio e di parlarne tra i cre­denti era così ovvio e scontato, che nessuno avrebbe osato met­terlo in questione.
    Oggi invece, le cose sono cambiate anche da questo punto di vi­sta. Qualche cenno ne abbiamo fatto precedentemente, ma ora lo prendiamo più direttamente in considerazione. 
    C'è anzitutto la contestazione sollevata dalla psicologia, so­prattutto da quella di matrice freudiana: l'immagine paterna di Dio contribuisce, secondo essa, a tenere l'uomo in stato di in­fantilismo, lo perpetua nella sua condizione di minorenne, non gli permette di assumersi le proprie responsabilità nella vita e davanti al mondo.
    Ciò che il padre umano provoca nei suoi figli quando non stabili­sce con loro un rapporto adeguato, si ritrova, ampiamente poten­ziato, nell'ambito religioso. In definitiva, questo Dio Padre si converte in una fonte di alienazione perché non permette al cre­dente di maturare e di diventare adulto; si sostituisce alle sue responsabilità privandolo così di ogni possibilità di crescita. 
    C'è poi anche la difficoltà posta più recentemente dalle femmini­ste cristiane: perché Dio-Padre e non Dio-Madre? 
    Si sa che la Realtà Ultima, il Mistero Grande che è Dio è al di là di ogni connotazione sessuale. Non è questo il problema per loro. Il problema nasce dall'uso del simbolismo maschile per ri­ferirsi a questo Mistero. Un uso che non è sociologicamente inno­cuo, come lo dimostra di fatto l'esperienza di secoli. L'utiliz­zazione esclusiva del linguaggio maschile nei confronti di Dio è senz'altro frutto di una cultura patriarcale e maschilista e  - cosa ancora più preoccupante -  finisce per rafforzarla. "Se Dio è maschio, allora il maschio è Dio", è la frase che potrebbe con­densare questa denuncia. 
    Davanti a queste obiezioni, cosa dire?  Si può ancora continuare a invocare Dio come Padre? Possiamo utilizzare ancora questo sim­bolo, preso da una determinata cultura oggi fortemente contesta­ta, per riferirci a Dio? Non converrebbe sopprimerlo? Continuare ad adoperarlo, sia nella propria intimità che nella professione pubblica della fede, non costituisce un fattore negativo per gli uomini e le donne di questo tempo, e per i loro reciproci rappor­ti? 

    2. La Bibbia ci parla

    Una cosa è innegabile: l'affermazione della paternità di Dio è un dato incontestabilmente biblico.
    Si tratta di un tratto del volto di Dio già presente in qualche misura nell'Antico Testamento. Infatti, fin d'allora tanto il po­polo quanto singoli suoi membri ritenevano il Dio Jahvè come il loro Padre, sia per il fatto di averli generati come popolo sia per quello di proteggerli e di accompagnarli costantemente nelle vicissitudini della vita.
    Tra l'altro, il re era considerato spesso quale "figlio di Dio", soprattutto a partire dal momento del suo insediamento nel potere regale. C'è un salmo che lo afferma chiaramente, mettendo in boc­ca a Dio queste parole rivolte al re: "Tu sei il mio figlio, oggi io ti ho generato" (Sal 2,7). 
    Ma, come si è visto precedentemente, il tratto paterno costitui­sce soprattutto una delle caratteristiche più salienti e più pe­culiari della concezione del Dio vissuto e annunciato da Gesù di Nazaret e, dietro a lui, dalle comunità neotestamentarie.
    E tale paternità ha sempre il suo correlativo nella figliolanza. Tanto il popolo d'Israele nell'A.Testamento, quanto e soprattutto Gesù nel Nuovo, sono considerati como figli di Dio e si ritengono tali agendo di conseguenza. Nel N.Testamento, poi, si sottolinea con forza il fatto che ogni uomo, sotto certe condizioni, può di­ventar tale (Gv 1,18). 
    Come gestire oggi questo dato?  come coniugarlo con le difficoltà sopra menzionate?

    3. Una paternità non infantilizzante

    È importante, anzitutto, tener presente che questa paternità e la correlativa figliolanza possono essere oggetto di diverse com­prensioni, a seconda della sensibilità culturale all'interno del­le quali ci si muove. 
    Una prima comprensione, tipica di una sensibilità prevalentemente speculativa che caratterizzò l'inculturazione della fede cristia­na nel passato, considera Dio come Padre in quanto Egli rende l'uomo partecipe della sua natura divina. Questi ne risulta così innalzato, per pura grazia divina, alla sfera dell'essere divino, e diventa figlio di Dio in quanto è della stessa natura divina di Dio.
    I trattati teologici classici sulla grazia, e la predicazione e la catechesi che se ne fecero eco, hanno esplicitato ampiamente lungo i secoli il denso contenuto di queste elementari nozioni ricordate. 
    Una seconda comprensione, propria della più recente sensibilità esistenziale-personalistica, interpreta paternità e figliolanza da una prospettiva relazionale.
    Secondo essa il rapporto di comunione interpersonale dell'uomo con Dio nella fede, produce una trasformazione nel suo essere re­lazionale, e lo fa in tale modo diventare figlio di Dio.
    Il fatto che questa trasformazione non possa avvenire se non per una libera iniziativa del Dio Vivente, che apre la sua intimità personale all'uomo, conferisce a detta trasformazione il suo ca­rattere di dono, poiché l'uomo non potrebbe mai arrivare da sé ad una simile relazione intersoggettiva con Dio, il Tu infinito. 
    Una terza comprensione, sorta in questi ultimi decenni a partire da una sensibilità prassica e storica, orientata soprattutto alla trasformazione delle condizioni contraddittorie dell'uomo collet­tivo, interpreta il binomio paternità-figliolanza dal punto di vista dell'agire: Dio Padre associa l'uomo alla sua opera di vi­vificazione e di risurrezione dei morti (Gv 5,17-21); anzi, mette nelle sue mani la realizzazione di quest'opera. L'uomo diventa allora figlio di Dio nella misura in cui si associa attivamente a quest'opera divina. Qui la figliolanza diventa decisamente compi­to nel mondo. 
    Questo Dio-Padre manifesta, infatti, una estrema preoccupazione nei confronti degli uomini: quella di portarli al superamento della Morte e al raggiungimento della pienezza della Vita; e ri­vela anche la sua volontà di associare ogni uomo e ogni gruppo umano, piccolo o grande, in tale sua preoccupazione.
    La figliolanza diventa, perciò stesso, una condizione umana a carattere eminentemente impegnativo. L'uomo, singolo e soprattutto collettivo, può diventare ad ogni passo, con le sue libere deci­sioni, vivificante, e allora anche figlio di Dio, oppure mortifi­cante, e allora anche non-figlio di Dio. 
    Se la si vede in questa terza prospettiva, che ci sembra molto attuale e feconda, la paternità di Dio e la correlativa figlio­lanza dell'uomo, lungi dal favorire un atteggiamento di infanti­lismo irresponsabile nei confronti della realtà, o la reazione edipica della rivolta contro il padre visto come principale osta­colo al proprio desiderio narcisista, costituisce una fonte di responsabilità e impegno. 
    Da quel che si legge nei vangeli, è così che Gesù di Nazaret vive la sua relazione filiale con Dio: impegnandosi appassionatamente per la Vita degli uomini suoi fratelli. Egli fa propria la volon­tà del Padre suo e, come Lui, lavora indefessamente per la "ri­surrezione dei morti" (Gv 5,21). 
    È in questo senso che si può anche comprendere la sua obbedienza a Dio.
    Purtroppo un certo modo di intendere tale obbedienza, quasi come una sottomissione passiva ad un volere fatale di Dio nei suoi confronti e nei confronti del mondo, portò alle volte a fare di lui un mero esecutore di ordini ricevuti dall'alto. Perfino la sua morte in croce venne spesso vista in questa prospettiva, con­vertendola nell'espressione massima della sua sottomissione ad una sovrana e ineluttabile volontà del Padre.
    Tanto il racconto della sua preghiera nell'orto (Mc 14,32-40: "non si faccia la mia volontà ma la tua"), quanto la frase dell'inno cristologico di Fil 2,8 ("e si fece obbediente fino al­la morte, e alla morte di croce")  possono venire interpretati in questa maniera. Ma l'intero modo di portare avanti la sua vicenda per il regno di Dio ci permette invece di cogliere che l'obbe­dienza di Gesù al Padre è di un altro tipo. Egli si dimostra emi­nentemente attivo e creativo nello svolgere la sua attività per la causa della Vita della gente. Non è un semplice esecutore, ma un "inventore" di soluzioni a dei problemi reali e concreti che la situazione gli va proponendo. Egli sa assumere da figlio adul­to la preoccupazione che condivide con il suo Padre. 
    Naturalmente, questa sua concezione prioritariamente prassica della paternità di Dio e della sua figliolanza non elimina la di­mensione relazionale e addirittura affettiva che vi è implicata. Infatti, egli si dimostra figlio nella realizzazione della volon­tà di Vita del Padre per gli uomini, ma a partire da una inten­sissima relazione interpersonale con Lui, come lo lascia capire il già ricordato appellativo "Abbà" con il quale si rivolge Lui. 
    Ancora un aspetto va tenuto presente in questo contesto: se si tiene conto di quanto si è detto precedentemente sulla "parziali­tà" di questo Dio-Padre e di Gesù verso i più poveri e piccoli, i più deboli, emarginati e oppressi, si può allora capire il reali­smo storico che comporta tale figliolanza. Realismo che la sot­trae ad un'interpretazione puramente interpersonale e, più anco­ra, ad un'interpretazione intimistica o addirittura narcisistica, per aprirla alle più vaste esigenze sociali e anche politiche.
    Non potrà, quindi, avere veramente Dio per Padre chi non ha atti­vamente e responsabilmente questi piccoli del mondo per fratelli. 

    4. Paternità o maternità di Dio?

    Invocare Dio come Padre e vivere il rapporto con Lui in questa chiave non è, quindi, una forma di alienazione infantilizzante, come denunciava Freud. Tutt'altro. Ma, perché utilizzare il sim­bolo paterno e non quello materno? 
    La questione posta con vivacità del femminismo contemporaneo non è da sottovalutare. Soprattutto in un momento storico come que­sto, in cui l'ancestrale patriarcalismo della cultura sta soffrendo delle profonde trasformazioni. E, infatti, ci sono dei teologi e teologhesse che lo stanno affrontando con crescente se­rietà. 
    Cosa dire al riguardo?  Anzitutto, occorre ricordare ancora una volta qualcosa di molto elementare già accennato sopra: che la caratterizzazione sessuale è tipica degli esseri del mondo della nostra esperienza; Dio, quindi, è al di sopra di essa. Egli, pro­prio per il fatto di essere "l'Altro", è al di là di tale carat­terizzazione, e non è quindi né maschio né femmina. 
    È importante tener presente, in secondo luogo, quanto si disse precedentemente sulla natura del nostro discorso su Dio: esso è sempre metaforico e non può mai pretendere di rinchiudere il Mistero grande che è Dio nelle sue formule. L'affermazione della paternità di Dio non fa eccezione a questa regola. Essa si serve di parole umane, ma nella chiara coscienza della loro limitatezza e precarietà. Sa di dire qualcosa di vero circa la sua realtà, ma è anche convinta della sovrastante grandezza della medesima. Dire che Dio è Padre è, como diceva P.Ricoeur parlando della metafora, fare un "errore calcolato": unire due parole sapendo chiaramente che il senso ovvio e scontato del discorso va smontato per crear­ne uno nuovo, insolito, imprevisto. 
    In concreto, chiamare Dio "Padre" significa riconoscere che Egli è Colui che genera la Vita, ma che lo è in un senso infinitamente più grande di come lo sono i padri nella nostra esperienza umana.
    In questo senso si può aggiungere che il simbolo materno potrebbe essere addirittura più adeguato che quello paterno per parlare del Dio della Vita. La madre, infatti, è nell'esperienza umana, più direttamente e più impegnatamente vincolata alla generazione della vita che il padre. 
    Pensare Dio come Madre e parlare del suo Mistero in termini fem­minili non è, quindi, una stranezza.
    Ne abbiamo d'altronde delle anticipazioni nella stessa Bibbia, tanto dell'Antico quanto del N.Testamento. E ciò malgrado il for­te condizionamento culturale di tipo patriarcale e maschilista che essa rivela nelle sue pagine.
    Uno dei termini più usati per caratterizzare il modo di agire di Dio nell'A.Testamento ha nella sua radice le consonanti "rhm", che sono quelle utilizzate per designare il seno materno. La te­nerezza materna di Jahvè è d'altronde messa più di una volta in evidenza dai Profeti, e specialmente da Isaia (Is 49,15).
    E nei vangeli lo stesso Gesù, che pure invoca Dio come suo "babbo", non esita a parlare del suo Mistero utilizzando termini presi  dal mondo femminile (Lc 13,34; 15,8-10; ecc.). 
    Il superamento del linguaggio esclusivamente maschile per rife­rirsi a Dio può avere degli affetti vivificanti e liberatori mol­to notevoli ai giorni nostri. Può contribuire, anzitutto, a liberare le donne dalla loro ancestrale condizione di emarginazione nella convivenza umana. Se Dio non è più visto come la divinizza­zione della maschilità, si toglierà il fondamento alla "diviniz­zazione" dell'uomo maschio, lasciando spazio alla realizzazione di quella parola che si trova già, quale una stupenda profezia, nel­le prime pagina della Bibbia: "Creò Dio l'uomo: maschio e femmina lo creò... Saranno una cosa sola" (Gen 1,27; 2,24).
    Già Gesù si era appellato a queste parole per difendere la digni­tà della donna (Mt 19,3-6). 
    I tempi non erano forse maturi per trarne le conseguenze. Ma ora la storia ha portato all'urgenza di prenderle sul serio. E il modo di parlare di Dio non è indifferente al riguardo. 
    Ma, inoltre, l'utilizzo di un linguaggio anche femminile per parlare di Dio può contribuire a dare alla fede una connotazione più "compassionevole".
    La "compassione", infatti, quella che traduce la densa parola greca utilizzata per indicare la "commozione fino alle viscere" davanti ai bisogni veri degli altri, è frutto dell'amore appas­sionato per la Vita, e specialmente della Vita di coloro che sono più spogliati di essa. Nella parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37) è questo l'atteggiamento di fondo che scatena la premu­rosa attuazione del viaggiatore straniero verso l'uomo lasciato semimorto lungo la strada dai briganti che lo hanno aggredito. Egli si sente toccato nelle sue viscere e, a differenza del sa­cerdote e del levita, non continua la sua strada, ma "si fa suo prossimo". 
    Secondi certi studi psicologici (E.FROMM, L'arte di amare), l'a­more materno ha proprio questo di caratteristico: istillare, nel cuore del figlio, l'amore per la vita. Se Dio viene visto come madre, probabilmente un po' del suo interessamento vivificante nei confronti degli uomini, e soprattutto dei più "moribondi" tra di essi, passerà nel cuore degli uomini e delle donne che voglio­no vivere da figli suoi.


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