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    Il Dio della vita spezza la logica dell'accaparramento, della ripetizione dell'identità e della solidarietà chiusa (cap. 4 di: Il Dio di Gesù


    Luis A. Gallo, IL DIO DI GESÙ. Un Dio per l'uomo e in cerca dell'uomo, Elledici 1991



    Il Dio della Vita, che si è rivelato agli uomini in forma definitiva nella vicenda di Gesù di Nazaret e soprattutto nella sua Pasqua, viene confessato dalle comunità cristiane come un Dio trinitario. Come mai questa confessione, che le distingue da ogni altro gruppo religioso, e cosa può significare per noi oggi?

    1. Una storia segnata dal protagonismo di tre "figure"

    Rivisitando i testi del Nuovo Testamento ci imbattiamo in un dato molte volte ripetuto e che abbiamo già prima menzionato sia pure di passaggio: essi parlano dell'intervento vivificante di Dio in favore degli uomini riferendolo costantemente a tre "figure" protagoniste: Dio, il Padre; Gesù, suo Figlio; e lo Spirito di tutti e due.
    Infatti, una lettura anche superficiale di tali scritti, e specialmente del libro degli Atti degli Apostoli e delle lettere tanto di S.Paolo quanto degli altri scrittori, porta a constatarvi l'esistenza di un modo caratteristico di parlare della storia della salvezza operata da Dio. A grandi linee si potrebbe dire che in essi si fa costante riferimento a Dio-Padre quale origine o fonte di tutto, sia dell'esistenza sia della salvezza, tanto di Gesù quanto di tutti gli uomini; a Gesù il Figlio suo diletto, quale oggetto primo e privilegiato della sua azione vivificante e allo stesso tempo quale salvatore di tutti e di tutto; e allo Spirito quale forza divina che opera sia la risurrezione di Gesù sia la vivificazione degli uomini.
    Questo modo di parlare riflette una doppia esperienza vissuta dai primi discepoli di Gesù.
    La prima è quella fatta gomito a gomito con lui, durante la sua attività per la causa del regno di Dio. Giudei quali erano, essi avevano chiara coscienza dell'unicità assoluta del loro Dio, unicità che Gesù stesso proclamò con le sue parole e con i suoi atteggiamenti. Ma, allo stesso tempo, sentirono fortemente la vicinanza di questo Dio nelle azioni e nella parola di Gesù, e furono testimoni della forza vivificante presente in lui e che egli sprigionava da sé soprattutto quando guariva gli ammalati o quando espelleva dagli uomini e dalle donne gli spiriti cattivi.
    Essi avevano d'altronde ereditato dalla fede del loro popolo la conoscenza delle diverse mediazioni di cui si era andato servendo il loro Dio per agire nella lunga storia che aveva preceduto la venuta di Gesù: la parola, sia quella della legge, sia quella profetica o quella creatrice; l'angelo di Jahvé, tante volte apportatore di salvezza al popolo nei suoi momenti difficili; la sapienza, illuminazione divina per condurre una vita buona e serena; e lo spirito, forza divina creatrice e vivificante.
    Erano tutte forme di presenza e di vicinanza del Dio tre volte Santo (Is 6,1-5) al suo popolo, forme che avevano subito un processo di progressiva "personificazione" attraverso i secoli fino ad acquistare, soprattutto alcune di esse, una certa consistenza personale. Basta leggere l'autopresentazione che fa di se stessa la sapienza in Sir 24, per farsene un'idea: essa vi appare come una specie di sdoppiamento dello stesso Dio, una persona divina che agisce in ordine alla creazione del mondo e alla salvezza del popolo.
    Stando accanto a Gesù, i suoi discepoli fecero l'esperienza del realismo e dell'attualità di tali mediazioni. Soprattutto della parola e dello spirito. Vedevano infatti Gesù "parlare con autorità" (Mt 8,28-29), ossia con una parola che aveva forza in se stessa e che non aveva bisogno di trovare forza ed evidenza fuori di sé; e lo vedevano agire con una energia vivificante straordinaria. D'altro canto lo vedevano strettamente e intimissimamente unito a Dio fino a dargli il nome di "Abbá".
    Così, senza forse tanto rifletterci, essi sentivano di incontrarsi in Gesù con il Dio dei padri, con la sua Parola illuminatrice e trasformatrice, e con il suo Spirito vivificante e risuscitante.
    La seconda esperienza fu quella che i discepoli vissero dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione. Come abbiamo visto, ad un certo momento essi presero coscienza, attraverso diverse manifestazioni, che egli era vivo e che continuava ad agire; e che era vivo perché Dio, il Dio dei padri, lo aveva risuscitato con la potenza vivificante del suo Spirito. Uno Spirito che d'altronde continuava ad agire comunicando loro forza, coraggio, entusiasmo e luce. Lo stesso Spirito che aveva agito in Gesù muovendolo ad agire per la causa del regno di Dio.
    Tutto ciò li portò a creare anche nuove forme di espressione cultuale, oltre a quelle che avevano ereditato dalla tradizione del loro popolo. Cominciarono ad onorare nelle loro liturgie non solo Dio, il Padre, ma anche Gesù e lo Spirito, ringraziando e lodando insieme la loro opera in favore degli uomini. Perfino, ad un certo punto, cominciarono a segnare l'ingresso nella comunità dei credenti in Gesù con l'invocazione dei loro nomi. Il testo con cui si chiude il vangelo di Matteo ne è una testimonianza. Vi si dice infatti che Gesù, congedandosi dagli apostoli, disse loro: "Andate ... fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).
    È probabile che questo testo, messo in bocca a Gesù dall'evangelista, rifletta una pratica ormai diffusa nelle prime comunità al momento di celebrare il battesimo dei nuovi adepti, mentre inizialmente li battezzavano solo "nel nome di Gesù" (At 2,38).

    2. Intervengono le nuove istanze culturali

    Le comunità cristiane sorte poi nel secoli seguenti continuarono con naturalezza la prassi primitiva, anche quando dovettero fare lo sforzo di calarsi nelle nuove situazioni culturali in cui vennero a trovarsi. Entrando nell'impero romano dovettero dire Dio e la sua storia di salvezza sulla lunghezza d'onda in cui vibravano gli uomini e le donne del medesimo. Ma anche a questi venivano presentate le tre "figure" centrali di tale storia, utilizzando magari dei termini più consoni con la loro sensibilità. Per esempio, il termine greco Lógos (parola), riferito a Gesù, proprio perché era uno dei termini più amati dalla cultura ellenistica, una specie di formula galvanizzante le reazioni emozionali della gente.
    A poco a poco sorsero però delle difficoltà nel seno delle comunità. Alcuni cristiani non riuscirono a coniugare bene la fede primigenia con le istanze che venivano dalla nuova cultura in cui si erano calate. È così che sorsero le eresie.
    Tra di esse una, che ebbe molte conseguenze per la vita della fede, fu quella dell'arianesimo. Il prete Ario (s.IV), che le diede origine, impersonava ad Alessandria una corrente di cristiani insofferenti del fatto che accanto a Dio, concepito da essi, nello stile dei neoplatonici dell'epoca, come l'Unico assoluto, ci potesse essere un altro. Concretamente, Gesù di Nazaret, il Cristo. E questo soprattutto perché, nella liturgia, sin dagli inizi a Gesù, confessato come Signore, veniva attribuito un culto uguale a quello del Padre.
    Gli ariani si ostinarono nel negare l'unità intimissima e peculiare di Gesù con Dio stesso. In fondo pretendevano difendere l'assolutezza di Dio. In questo modo però concedevano l'ultima parola su Dio non a Gesù, che pur chiamavano Figlio e Lógos per eccellenza di Dio, ma ai pensatori dell'epoca.
    Ciò diede origine a discussioni senza fine nelle chiese, discussioni che si complicarono sino all'inverosimile. Si dovette convocare un concilio ecumenico di tutte le Chiese, il primo della storia, per cercar di risolvere le questioni nate e a poco a poco diventate una matassa inestricabile. Fu il concilio di Nicea (325).
    Purtroppo in esso la discussione portò a impostare le cose molto astrattamente, dimenticando quasi che quel Lógos di cui si discuteva il rapporto di uguaglianza o meno con Dio, era il Gesù di Nazaret morto e risorto per la nostra salvezza.
    Il Concilio proclamò, dopo molta fatica e un lungo lavorio nella precisione dei termini da adoperare, la "co-sostanzialità" tra il Figlio-lógos e Dio-Padre; ossia, asserì la loro uguaglianza nell'essere sin dall'eternità.
    Le discussioni però non furono spente da questa proclamazione conciliare e continuarono per molto tempo, coinvolgendo poi anche l'altra "figura" della storia della salvezza, lo Spirito. Anche per chiarire concettualmente la sua posizione nei confronti di Dio si dovette radunare un concilio ecumenico, il Costantinopolitano I (381). Si definì in esso che lo Spirito è degno "della stessa adorazione" e "della stessa glorificazione" che il Padre e il Figlio, il che equivale ad asserire la sua eterna uguaglianza nell'essere con loro.
    Fu questo insieme di discussioni, sorte dall'incontro della fede iniziale con la cultura ellenistica dell'impero romano, ciò che diede prossimamente origine al dogma trinitario. Esso passò ad essere patrimonio dei credenti in Gesù Cristo, costituendo un elemento intralasciabile della loro fede, e quasi una tessera di ortodossia.
    In poche parole tale dogma afferma che Dio, il Dio della Vita che si è rivelato in Gesù Cristo, è Uno e Trino; che in Lui ci sono, sin dall'eternità, Tre Persone e una sola Sostanza o Natura o Essenza.
    Per secoli continuarono nella Chiesa i tentativi di approfondimenti di questo mistero, arrivando a delle ingegnose costruzioni dottrinali che spesso furono poi fatte oggetto di catechesi e di predicazione a livello popolare. Una specie di "palla di neve" che va crescendo a misura che si avvicina alla valle.
    L'esito fu che, a poco a poco, si andò perdendo di vista l'esperienza iniziale dalla quale era nato il processo, e l'affermazione della trinità eterna di Dio fece quasi dimenticare che si trattava di quel Padre, di quel Gesù e di quello Spirito che erano apparsi alla coscienza dei primi cristiani come i tre grandi Protagonisti della storia della salvezza il cui vertice lo costituiva la Pasqua di Gesù.
    Attualmente sembra che continuare su quella via di approfondimento concettuale sia sterile. Non contribuisce a rendere vivificante l'immagine del Dio della Vita. Occorre cercare di ricomprendere questo dato della fede in altro modo.
    È necessario restituire fecondità vivificante all'affermazione della trinità del Dio della Vita. Bisogna fare che non sia più, come le è stato nel passato per molti cristiani e forse lo è ancora per non pochi, un puro "mistero" o verità arida e lontana che supera la capacità della ragione umana, ma costituisca invece un annuncio gioioso ed efficace di salvezza. Occorre fare della confessione del Dio Uno e Trino una forza che contribuisca a far trionfare la Vita sulla Morte nella realtà concreta della storia.

    3. No alla logica dell'accaparramento

    3.1. Le affermazioni tradizionali della fede

    Uno spunto per raggiungere questo scopo ci viene offerto da un famoso asserto proclamato da un concilio ecumenico che, già più vicino ai nostri tempi, si occupò della ancora questione trinitaria: il Concilio Fiorentino (1439), convocato con l'intenzione prioritaria di ricucire la scissura apertasi secoli addietro tra le due grandi Chiese d'Oriente e Occidente. Questo Concilio, riferendosi alla Vita intima del Dio rivelatosi in Gesù Cristo, affermò, mediante una terminologia propria dell'epoca, che in Lui "tutto è una sola cosa, eccetto dove interviene una relazione di opposizione" (DS 1330).
    Prendiamo ora in considerazione la prima parte di questo asserto. Dobbiamo chiarire, come prima cosa, che quel "tutto", a cui si riferisce il Concilio, è l'essere divino che, in un sensibilità culturale come quella in cui esso si muoveva, viene espresso con le categorie di essenza, natura, sostanza.
    Noi invece, con termini più vicini alla Bibbia e allo stesso tempo più consoni alla sensibilità dell'uomo d'oggi, lo possiamo tradurre con l'espressione "pienezza di Vita".
    Le parole "è una sola cosa" della formula significano che quel "tutto", ossia "la Vita in pienezza", non è posseduto come proprio ed esclusivo da nessuno dei Tre che sono in Dio e che sono Dio. Significano, quindi, più in concreto che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono allo stesso tempo soggetto collettivo della Vita in pienezza, e che ognuno dei Tre lo è totalmente da parte sua, in modo tale che ognuno di essi può dire, come Gesù nel Vangelo di Giovanni: "Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio" (Gv 17,10; cf Gv 16,15).
    Appunto per questo la Realtà Divina, pur essendo in Se stessa molteplice, è una sola.

    3.2. Per una convivenza vivificante tra gli uomini

    Questo modo di essere del Dio della Vita si offre come un programma e una proposta per la costruzione vivificante della convivenza umana. Se gli uomini vogliono essere viventi, hanno qui indicata la strada. Essi devono spezzare la logica dell'accaparramento, che vuole tutto per sé e crea necessariamente e di conseguenza delle divisioni "mortificanti" e delle esclusioni emarginatrici tra di loro. Devono cercare di condividere il più possibile ciò che hanno e ciò che sono.
    Ora, se prendiamo in considerazione la realtà attuale della convivenza umana, dobbiamo costatare invece che essa, considerata nella sua globalità planetaria, non è attualmente "una".
    Ciò si manifesta soprattutto e concretamente nella triplice spaccatura esistente in base all'avere, al sapere e al potere che è attivamente presente nella società mondiale, e che si riflette anche nelle singole società più ristrette e nei singoli individui che le compongono.
    Constatiamo anzitutto che i beni della vita, a cominciare da quelli più elementari, accresciuti oggi enormemente grazie al processo scientifico-tecnico, sono in realtà nelle mani di relativamente pochi. Il rapporto con essi è retto dalla logica dell'accaparramento: enormi masse di uomini e donne sono escluse dal loro possesso e dal loro godimento, in ragione della struttura economica, ma anche sociale, politica e culturale del mondo. C'è infatti in esso chi può dire realmente: "Questo è mio ed esclusivamente mio".
    E ciò non solo a livello individuale, ma anche e soprattutto a livello collettivo, e addirittura planetario.
    Questo fatto crea una reale spaccatura nel seno dell'umanità e, di conseguenza, anche una situazione di subordinazione dei più ai meno. Una subordinazione in ragione della quale i primi, ossia gli esclusi, i dipendenti, gli emarginati diventano non co-signori o co-soggetti dei beni con i secondi, ma viceversa i loro schiavi. È una forma di schiavitù non sempre chiaramente percettibile, ma non per questo meno reale.
    In secondo luogo constatiamo che la cultura, come possibilità di accesso alla conoscenza e all'informazione, specialmente a quella che dà anche la possibilità di agire, è anche oggi monopolio di relativamente pochi. E generalmente di coloro che sono più favoriti dalla situazione economica, sociale e politica. Anch'essa viene retta dalla logica dell'accaparramento.
    Anche da questo punto di vista interi gruppi umani vengono emarginati da qualcosa che, di fatto, costituisce un bene della vita, poiché apre la strada a molteplici possibilità nel mondo attuale.
    Una tale emarginazione crea in essi una nuova situazione di subordinazione e di dipendenza nei confronti di coloro che "sanno".
    Constatiamo ancora una terza spaccatura, strettamente legata alle due precedenti: quelli che "hanno e sanno" sono anche quelli che ordinariamente detengono in mano il potere decisionale, e decidono di fatto circa i fini e i mezzi della vita collettiva. Sono i potenti, quelli "che contano". Il potere viene da essi gestito secondo la logica dell'accaparramento.
    In questo modo, il processo di subordinazione e di dipendenza schiavizzante dei più ai meno raggiunge il suo ultimo gradino.
    Le decisioni sul proprio destino collettivo, e in gran parte su quello individuale, non sono comuni bensì proprie ed esclusive di alcuni soltanto. Il soggetto umano delle opzioni non è in realtà la collettività o gli individui interessati da esse, dal momento che molti sono esclusi da esse e si convertono in semplici passivi esecutori, consciamente o inconsciamente, di quanto decidono altri, ossia coloro che detengono il potere.
    Questa triplice spaccatura globale della convivenza sociale si riproduce, in modi e misure diversi, ad altri livelli settoriali: nello stato, nei partiti politici, nei sindacati, nella scuola, nella famiglia e, perfino, alle volte nella stessa Chiesa.
    Non occorre dimostrare quanto una simile situazione sia fonte di Morte per l'umanità. Degli uni e degli altri: delle maggioranze, che sono spogliate in mille forme della Vita, e delle minoranze, che lo sono anche per via del loro modo di agire verso le prime. I fatti sono davanti a chiunque non vuole chiudere gli occhi.
    In questo contesto la confessione del Dio della Vita come un Dio trinitario comporta necessariamente l'impegno in ordine ad una trasformazione vivificante della situazione, una trasformazione che porti al superamento della triplice spaccatura sopra descritta e della logica che la regge.
    Ciò significa che, se si crede in questo Dio, occorre avviare una prassi orientata ad un superamento della realtà spaccata, ossia non-una, in modo tale che il soggetto reale dei beni della vita, del sapere e del potere decisionale, ai suoi diversi livelli, siano tutti e ognuno degli interessati, e non soltanto alcuni di essi. È il modo concreto di far possibile il trionfo della Vita sulla Morte.

    4. Sì all'esistenza dell'"altro"

    4.1. Il dato della fede

    Prendiamo ora in considerazione la seconda parte del succitato asserto del Concilio Fiorentino che, lo ricordiamo, diceva: "In Dio tutto è una sola cosa, eccetto dove interviene una relazione di opposizione" (DS 1330).
    Le ultime parole, che suonano probabilmente molto strane ai nostri orecchi, sono un modo proprio dell'epoca di affermare, all'interno dell'unità sostanziale della Vita divina, la distinzione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito.
    Ognuno di Essi -si vuole dire- è se stesso in una irrepetibile singolarità, singolarità che si conserva intatta nel seno della più totale unità. Quest'ultima, infatti, non elimina la distinzione, così come la distinzione non elimina l'unità.
    Noi possiamo esprimere mediante le parole "originalità" o "alterità" ciò che il Concilio Fiorentino, data la sensibilità culturale in cui si moveva, cercò di dire adoperando la mediazione della categoria, forse troppo lontana dalla nostra mentalità attuale, di "relazione di opposizione".

    4.2. Per uno stare insieme vivificante tra gli uomini

    Se guardiamo ora alla realtà umana, in ordine alla cui trasformazione vivificante confessiamo la nostra fede trinitaria nel Dio della Vita, constatiamo che in essa è presente un vasto processo - aperto o spesso velato - di soppressione dell'originalità o alterità dei soggetti, tanto a livello globale quanto a livelli settoriali. Esso è retto dalla logica della ripetizione dell'identico.
    Anzitutto, a livello globale o planetario.
    Ciò che è avvenuto in passato, nei casi di colonizzazione da parte di alcune nazioni dominatrici verso altri popoli da esse assoggettati, si riscontra oggi su scala mondiale, anche se in modo differente.
    Nel contesto della triplice spaccatura sopra descritta, il gruppo di coloro che hanno, che sanno e che decidono, non permette alla massa dei più di essere veramente se stessi.
    Infatti, o li emarginano non considerandoli soggetti di valori o ricchezze umane proprie, o esercitano su di essi un influsso colonizzante, nel senso che magari accettano di integrarli nella loro cerchia ma solo a condizione che assimilino la loro visione delle cose, o si adoperano in mille modi per istillare tale visione in essi.
    Non si tratta ora, come in passato, della soppressione di ciò che di proprio, di nuovo e di irrepetibile porta con sé un settore culturale, ma della eliminazione o repressione di quanto di storicamente originale o diverso porta con sé e in sé la massa dei più, anche se a volte in modo confuso e poco sistematicamente elaborato. Non si permette loro di essere "altri".
    Lo schema descritto si riproduce in forme e misure diverse a livello settoriale.
    Ciò succede spesso, per esempio, nella famiglia, nell'ambito del rapporto genitori-figli; nella scuola, nell'ambito del rapporto docenti-studenti, educatori-educandi; nella società politica, nell'ambito del rapporto autorità-popolo, adulti-giovani, uomini-donne, bianchi-neri, padroni-operai, "civilizzati"-indigeni, ecc.; nella stessa Chiesa, nell'ambito del rapporto pastori-fedeli, ecc.
    In tutti questi casi il secondo membro del binomio non ha spesso "il permesso" di essere differente del primo, di essere "altro".
    Esso deve risultare, in realtà, una ripetizione del primo, una ripetizione dell'identico.
    Anche qui, come già nell'altro aspetto prima considerato, risulta facile constatare quanto questo soffocamento dell'originalità dei soggetti costituisca una fonte di Morte per l'umanità, e faccia sfociare la antitesi o dialettica Vita-Morte sul versante della Morte.
    Confessare la fede nel Dio Uno e Trino in questo contesto concreto e conflittuale significherà agire per spezzare la logica dell'omologazione, che tende a fare dell'altro la semplice ripetizione di se stesso.
    Concretamente, a dare spazio umano all'originalità o alterità dei soggetti e, quindi, a impegnarsi nella trasformazione della società affinché ogni forma di "colonizzazione" venga eliminata, tanto quella globale quanto quelle settoriali.
    Cioè affinché ogni soggetto, individuale o collettivo, venga riconosciuto e accettato nella sua irrepetibile originalità e nella sua novità.
    Più in concreto, significherà agire perché la società mondiale elimini dal suo seno la colonizzazione ideologica del blocco di quelli che hanno, sanno e possono decidere, nei confronti dei più che non hanno, non sanno e non hanno tale potere; perché nella famiglia i figli vengano accettati come diversi dai genitori e incoraggiati ad esserlo; perché nella scuola gli studenti vengano animati nella loro capacità di novità nei riguardi dei loro insegnanti; perché nella società politica non siano gli adulti ad imporre i loro modelli di pensiero e di vita ai giovani, né gli uomini alle donne, né i bianchi ai negri, né i padroni agli operai; perché nella Chiesa del Dio Uni-trino i laici abbiano riconosciuto il loro posto e la loro originale responsabilità; ecc.

    5. No alle solidarietà chiuse

    5.1. Ancora una affermazione dogmatica

    Ma, oltre a dire che nel Dio della Vita si dà la perfetta unità nel rispetto più assoluto dell'alterità, la fede trinitaria ci dice anche che questa unità e quest'alterità si danno concretamente fra tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito.
    Già l'alterità di cui abbiamo parlato nel punto precedente rompeva il cerchio chiuso della semplice ripetizione dell'identico; ora l'affermazione dell'esistenza di tre, e non solo di due, nel seno dell'infinita pienezza di Vita di Dio, ci offre lo spunto per una comprensione feconda per la convivenza umana, ad ogni livello.

    5.2. Per una apertura vivificante tra gli uomini

    Nel nostro mondo esistono degli stili di convivenza che sono organizzati all'insegna della logica della solidarietà chiusa.
    Ci sono dei gruppi, piccoli o grandi, che condividono al loro interno ciò che hanno e alle volte perfino ciò che sono, ma che si chiudono nel loro cerchio bloccando la circolazione dei beni all'interno delle frontiere che li separano dagli altri.
    Così, capita alle volte nell'ambito familiare che marito e moglie vivono un intenso rapporto coniugale reciproco, ma non vogliono aprirsi alla possibilità di un terzo o di terzi che condividano la loro felicità; oppure che l'intera famiglia vive al suo interno una dinamica e arricchente situazione di condivisione di affetto e di beni materiali e culturali, ma non ha nessuna apertura verso i bisogni degli altri.
    Ci sono anche delle associazioni culturali, sociali, economiche e perfino religiose i cui membri condividono ampiamente alcuni beni che costituiscono il loro patrimonio comune, ma che non sono disposti ad aprirsi ad altri che non vi appartengono. Essi custodiscono gelosamente ciò che è loro, e magari sviluppano al loro interno degli atteggiamenti fortemente altruisti e solidali, ma tutto finisce nel cerchio limitato della loro appartenenza.
    Può succedere anche all'interno delle comunità ecclesiale una cosa del genere.
    L'intera umanità è oggi segnata planetariamente da una tale situazione, se si tiene presente la breccia esistente tra il Nord ricco e "ipersviluppato" e il Sud povero e sempre più sottosviluppato (Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei Socialis). I popoli del Nord tendono a creare una forte solidarietà tra di loro, e ad appoggiarsi e difendersi a vicenda. Ma lasciano i popoli del Sud ad aspettare invano "le briciole che cadono dalla loro mensa".
    Si tratta di situazioni concrete che incidono intensamente sulla Vita e sulla Morte di milioni di persone.
    Confessare che in Dio la pienezza di Vita è condivisa da Tre e non solo da due, significa impegnarsi nello sforzo di superare la logica della solidarietà chiusa, nella convinzione che solo così si potrà portare la dialettica tra la Vita e la Morte verso la vittoria della prima sulla seconda.
    In questo modo la fede trinitaria nel Dio della Vita si costituisce in una critica radicale del presente, e in uno stimolo costante in vista di un futuro più pieno, più maturo e vivificante per tutti.


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