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    Un Dio di vita per tutti, a cominciare dagli ultimi (cap. 3 di: Il Dio di Gesù)


    Luis A. Gallo, IL DIO DI GESÙ. Un Dio per l'uomo e in cerca dell'uomo, Elledici 1991

     

    In Gesù di Nazaret, e specialmente nel momento culminante della sua vicenda, la Pasqua, è venuto alla luce con nitidezza il volto di Dio che si era andato disegnando già a poco a poco nell'Antico Testamento. Vi si è rivelato nei suoi tratti fondamentali. Ora vogliamo guardare meglio questo volto, per conoscerlo più da vicino e per poterlo dire con più consapevolezza a noi stessi e agli altri.

    1. Un atteggiamento da non deporre mai

    Prima di inoltrarci in questa esplorazione del volto del Dio di Gesù Cristo, che si esprimerà necessariamente nelle nostre parole, è conveniente mettere in evidenza l'atmosfera nella quale essa deve venir realizzata.

    1.0. Il discorso cristiano-occidentale su Dio

    Chi rivisita la storia del cristianesimo vissuto coglie facilmente un dato molto caratteristico: nell'Occidente cristiano ha predominato spesso quella che è stata chiamata la tendenza positiva o "catafatica" nel parlare di Dio, a differenza dell'Oriente, dove prevalse invece la tendenza negativa o "apofatica".
    Quest'ultima sostiene che di Dio si può pensare e dire piuttosto ciò che non è, mentre la prima asserisce che di Dio possiamo sapere e dire anche ciò che è.
    Le radici della tendenza all'affermazione nel pensiero e nel discorso occidentale su Dio vanno cercate molto lontano nel tempo.
    Il cristianesimo, nato in un contesto culturale semitico-giudaico, sentì presto la necessità di aprirsi al mondo greco-romano per portare avanti il suo progetto di evangelizzazione universale. Allora cercò di calarsi nella sensibilità culturale di quel contesto.
    Ora, la sensibilità predominante nel mondo greco-romano era segnata da un'accentuata preoccupazione per la conoscenza della verità. Era, quindi, una sensibilità che si muoveva all'insegna della curiosità.
    Pensava l'uomo come un essere assetato di sapere, che trovava la propria felicità e realizzazione nel contemplare, mediante la sua intelligenza, la verità oggettiva delle cose, e specialmente delle realtà del mondo superiore, spirituale.
    Entrando nel mondo dell'impero romano, e nel tentativo di incarnarsi in quel mondo, i cristiani sposarono, all'interno della fede, anche questa preoccupazione. Pensarono, di conseguenza, la felicità definitiva dell'uomo come una "visione beatifica", una situazione cioè in cui l'uomo arriva ad un possesso pieno e definitivo - nella misura in cui ciò è possibile ad una creatura umana - di Colui che è la Verità in persona, Dio. Possesso che lo rende pienamente felice.
    Tutte la aspirazioni umane devono tendere verso questo traguardo, vera meta dell'esistenza umana.
    C'è da aggiungere che, secondo questo modo di concepire le cose, la meta si può e si deve anticipare già a questa vita, senza aspettare il cielo. La fede costituisce effettivamente questo anticipo. Accogliendo la Parola rivelata da Dio stesso, il credente riesce già in questa vita a vedere "in qualche modo" Dio e i suoi misteri più intimi. La fede squarcia quindi "in qualche misura" i veli che ricoprono e nascondono le realtà divine, e gode così anticipatamente la visione di ciò che di per sé supera ogni possibilità umana di conoscenza.
    Ma sono appunto quel "in qualche modo" e quel "in qualche misura" che impediscono l'uomo di adagiarsi. La sua brama di possesso della Verità non è mai soddisfatta finché tale possesso continua ad essere parziale.
    Ciò spiega lo sforzo dei credenti per vedere, per tentar di capire sempre più profondamente i misteri rivelati dalla Parola di Dio. Da tale sforzo nacque anche quell'attività della fede che si chiama "teologia".

    1.1. La teologia: parlare di Dio con modestia

    La teologia esercitò il suo influsso sulla predicazione e sulla catechesi della Chiesa. Ad essa sono dovute anche in gran parte le formule di tipo dogmatico o di altri tipi meno solenni, coniate in circostanze spesso difficili e polemiche, sui contenuti della fede.
    A questo sforzo concreto della fede si deve attribuire, quindi, in gran parte, la responsabilità - in positivo e in negativo - del discorso cristiano su Dio.
    Oltre ad impiegare formule tramandate dalla Bibbia, noi diciamo spesso di Dio, nelle celebrazioni liturgiche, nelle prediche, nella catechesi, ciò che l'intento teologico di approfondire i misteri rivelati ci ha offerto e continua ad offrirci.
    Benché in forma non ancora molto sistematica, la teologia lavorò assiduamente già nei primi secoli per plasmare il modo di pensare e di parlare dei cristiani su Dio.
    Essa non si accontentò col ripetere quanto dicevano i testi biblici, ma ne creò di nuovi. Si pensi, per esempio, ai simboli o credi elaborati in quei tempi per le celebrazioni liturgiche.
    Col correre del tempo, tuttavia, la ricerca teologica soccombette ad un pericolo, sempre in assedio nel discorso umano su Dio. Quello cioè di credere che poteva "tenere ingabbiato Dio" nelle sue formule.
    Lo sforzo fatto per coniare le categorie più appropriate per assicurare l'ortodossia della fede, finì molte volte per farle da tranello da questo punto di vista.
    Si andò così creando la coscienza, all'interno della teologia, ma anche conseguentemente della catechesi e della comunicazione della fede in generale, che il mistero di Dio fosse come a portata di mano. Che lo si potesse pensare e anche dire con completezza ed esattezza.
    Come si è già detto precedentemente, la modestia nei confronti del Mistero ultimo della realtà non era, qualche decennio fa, la caratteristica più rilevante del parlare di Dio nella nostra Chiesa. Anzi, vi si potevano cogliere spesso segni di una certa tracotanza.
    Sembrava che, mediante le formule levigate con cura e attenzione attraverso secoli, si potesse disporre della realtà stessa di Dio, rendendola lucida e trasparente agli occhi da coloro che le pronunciavano e le ascoltavano.
    Ciò avveniva non solo per quel che riguarda l'agire salvifico di Dio nella storia, in qualche modo più facilmente percettibile alla fede, ma anche per lo stesso essere intimo di Dio.
    I discorsi fatti tanto in certi manuali di teologia quanto in alcuni catechismi o nelle prediche sulla Trinità di Dio, ne sono una palese dimostrazione. Sembrava che, con l'affermazione dell'unità di sostanza e della trinità di persone, delle divine "processioni" e delle relazioni esistenti tra di esse, quell'Intimità ultima e suprema fosse come afferrata e posta a disposizione dell'uomo.
    L'attacco più radicale, perfino elementare, lanciato al discorso su Dio dall'ateismo semantico, del quale abbiamo parlato precedentemente, ha obbligato la fede cristiana a ridimensionare il suo parlare di Dio, in tutte le sue forme, costringendola soprattutto ad un atteggiamento di maggiore modestia.
    È vero, questa forma di ateismo era segnato da un difetto di fondo: quello di ridurre arbitrariamente il linguaggio sensato a un solo tipo di discorso, quello scientificamente verificabile. In questo senso esso è inammissibile.
    Già il suo stesso ispiratore, L.Wittgenstein, lo aveva superato mediante la teoria dei "giochi linguistici".
    Egli si era accorto, infatti, che non esiste un solo tipo di linguaggio sensato, quello empiricamente verificabile, ma che la realtà linguistica è molto più ricca. Che esistono diversi modi di parlare tra gli uomini, ognuno regolato dalle sue proprie norme. E che, in definitiva, tutto ciò di cui non si può parlare scientificamente è in realtà ciò che è più importante nella vita dell'uomo.
    Ma, intanto, l'ateismo semantico mise in crisi la pretesa di un discorso di Dio troppo sicuro di sé, che finiva per ridurre Dio ad un oggetto del quale si può disporre a piacimento.
    Senza pretenderlo e anche magari contro il suo volere, esso aiutò la fede cristiana a ricuperare quella dose di apofatismo o di forma negativa di parlare di Dio che non le può marcare mai, dato l'"oggetto" di cui si occupa.

    1.2. Il discorso "apofatico" su Dio

    A dire il vero, se si esamina la storia si vede che la coscienza apofatica non è stata mai assente nei grandi credenti.
    È innegabile, essi si sforzarono per trovare il modo più adeguato di parlare di Dio e del suo mistero, soffrendo anche lunghi travagli in ordine alla creazione delle categorie di pensiero e di linguaggio che potessero dire il meno inadeguatamente le realtà che anelavano vedere nella patria definitiva.
    Ma allo stesso tempo mantennero viva la coscienza della distanza che esiste tra tali categorie e la realtà espressa.
    È il caso, per esempio, già agli inizi del cristianesimo, di quel grande ricercatore della verità che fu il filosofo-martire S.Giustino. Parlando egli dell'invocazione del nome di Dio nel battesimo egli dichiarava: "Se qualcuno crede di poter dare un nome al Dio ineffabile, è perdutamente pazzo" (Prima apologia c.61).
    Più avanti nei secoli, quell'altro appassionato ricercatore della verità che fu S.Agostino affermava, parlando del mistero trinitario: "Noi diciamo che in Dio ci sono tre persone tanto per non stare in silenzio" (De Trinitate 5,9,10).
    Ma anche S.Tommaso, l'iniziatore della teologia vera e propria, sosteneva: "Di Dio possiamo dire quello che non è, piuttosto che quello che è" (S.Teologica I, q.3, prol.).
    E ancora: "Il grado supremo della conoscenza umana di Dio è di sapere di non sapere che cosa sia Dio, in quanto appunto ci si rende conto che 'ciò che Dio è' supera tutto ciò che comprendiamo di lui" (De Potentia q.7, a.5).
    Un tale atteggiamento di modestia non dovrebbe mancare mai in chi, come noi, vuole parlare di Dio. La coscienza della sproporzione tra ciò che noi possiamo dire di Lui e ciò che Egli è, dovrebbe portarci a parlarne con grande ponderatezza e parsimonia.

    2. Un modo adeguato per parlare di Dio

    L'ateismo semantico ha sfidato quindi salutarmente il discorso di Dio della fede cristiana. L'ha obbligato a ricuperare il suo intralasciabile senso del limite. A riconoscere che Dio è luce oscura, è realtà che ci sovrasta, che Dio è "il totalmente Altro" (Horhkeimer). Che è, come dicevano molti medievali, "semper major" di quanto noi possiamo pensare e dire.
    Ma detto ateismo ha spinto la sua affermazione fino all'esasperazione. Se dovessimo stare alle sue conclusioni saremmo costretti ad un atteggiamento radicale: di Dio e del suo Mistero non potremmo dire niente, nemmeno che esistono.
    La fede cristiana crede, invece, che può anche "dire Dio". E lo crede perché è convinta, come abbiamo visto, che Dio stesso ha voluto dire Se stesso agli uomini. Che Dio ha voluto dischiudere il suo Mistero più intimo e comunicarsi all'umanità. E che l'ha fatto -non poteva essere altrimenti- utilizzando un linguaggio umano. Ha calato la sua rivelazione nelle parole degli uomini per poter parlare con essi in ordine alla loro salvezza.
    Il discorso umano può, quindi, "contenere" in qualche modo il Mistero divino, può essere come un grembo fecondato dalla sua presenza. Deve essere consapevole, tuttavia, che esso lo sovrasta sempre.
    Ciò equivale a dire che ogni discorso veramente religioso, e quindi anche quello della fede cristiana, comporta sempre un carattere necessariamente metaforico.
    Già S.Tommaso, ai suoi tempi, aveva affermato qualcosa del genere, ma ciò è diventato più attuale in tempi recenti.
    Infatti, portando avanti i tentativi di superamento dell'ateismo semantico, iniziati già dalla Scuola di Oxford, il filosofo del linguaggio P.Ricoeur ha collaborato a prendere coscienza di questa condizione imprescindile del discorso su Dio: di Lui si può parlare solo metaforicamente.
    Prendiamo qui la metafora non come mero ornamento stilistico del discorso, come processo semantico, ossia di creazione di senso. Presa così, infatti, essa esercita una specie di azione maieutica molto peculiare nei confronti del discorso umano: ci lavora dentro per smontare il senso ovvio, scontato, delle frasi e per farne nascere un altro, insospettato, nuovo.
    Essa trasgredisce, come lo indica la sua stessa etimologia (meta-ferein = tras-gredire), il senso consueto delle parole usate in un discorso, per andare verso uno nuovo.
    Ha sempre, per così dire, un piede sulla staffa della realtà empirica, verificabile, e un altro su quella della realtà inverificabile.
    A dire il vero, già di ogni realtà non empiricamente verificabile del mondo "dell'al di qua" l'unico modo di parlare adeguatamente è quello metaforico. Si pensi per esempio al linguaggio dell'amore tra un uomo e una donna, o tra una madre e il suo figlio. Esso è spesso pieno di poesia.
    Ma ciò vale doppiamente della Realtà "dell'al di là" per eccellenza, dell'Inverificabile per definizione, che è Dio.
    Di Lui non si può parlare che metaforicamente. E ogni altro modo di parlarne costituisce ciò che già al suo tempo Aristotele aveva qualificato come una "caduta di qualità". Una forma di violenza semantica.
    Quanto veniamo dicendo fa come da cerniera tra le due tendenze sopra ricordate, il linguaggio affermativo o "catafatico" e quello negativo o "apofatico" su Dio e il suo Mistero.
    Il primo mette in evidenza la continuità tra il discorso corrente e quello su Dio, con il conseguente rischio di banalizzarlo. Sottolinea la capacità innata delle parole umane di dire il Mistero, ma col pericolo di dimenticare la novità di senso che esse comportano quando vengono adoperate all'interno del discorso religioso.
    Può arrivare a trattare l'Inverificabile come disponibile, a credere di poter impadronirsi di Lui e di manipolarlo. Una specie di magia, in fondo.
    Il discorso negativo, invece, sottolinea la discontinuità tra linguaggio religioso e linguaggio empirico. Esso è affascinato dall'apertura infinita dell'Inafferrabile.
    Rischia però di svuotare il discorso religioso di contenuto, e di privarlo di ogni consistenza vera di senso.
    Tutto sommato, tuttavia, la bilancia deve pendere verso l'apofatismo. Contrariamente a quanto è avvenuto spesso in Occidente.
    E ciò, appunto, per l'asimmetria che c'è tra Mistero e mondo. Dio è sempre Dio, e perciò è sempre infinitamente più grande del mondo.
    Le nostre parole, quindi, anche le più "sapienti", non bastano e non basteranno mai per dirlo adeguatamente.

    3. Cosa dire oggi di Dio alla luce della fede cristiana

    Come esprimere condensatamente e in maniera comprensibile ciò che su Dio hanno manifestato Gesù di Nazaret nella sua vicenda storica e le comunità che da lui hanno avuto origine inizialmente?

    3.1. Il punto di innesto del discorso su Dio

    La prima cosa da fare per dare risposta a questa domanda è quella di trovare il punto d'innesto di questo discorso. Solo dopo possiamo passare al tentativo di dire il Dio della fede cristiana nel mondo d'oggi, così pieno di diffidenze, di contestazioni e di interpellanze nei suoi confronti.
    Come si vede infatti in tutta la storia della fede, tanto dell'Antico quanto del N.Testamento, il credere in Dio e il parlare di Lui non sono qualcosa di "posticcio" nella vita dei credenti, qualcosa di sovrapposto quasi per forza alla loro esistenza, ma viceversa come qualcosa di profondamente radicato in essa. I veri credenti appaiono sempre come delle persone nelle quali Dio è "come a casa sua".
    Il più grande di essi, Gesù di Nazaret, "autore e perfezionatore della nostra fede" (Eb 12,2), parlò di Dio nel modo in cui abbiamo visto precedentemente perché era totalmente preso da Lui dal di dentro. Basta leggere con un po' di attenzione i vangeli per accorgersene.
    Ciò significa che, in essi, la fede in Dio aveva trovato il suo giusto punto d'innesto. Era venuta a dare risposta ad una invocazione profonda del loro essere, a saziare un loro intimo anelito.
    Quale sarà questa profonda invocazione per gli uomini e le donne di oggi? In realtà, è quella di sempre, quella che sta alla radice di ogni essere umano, pur con le sfumature proprie del momento storico presente.
    Si tratta di un'esperienza che comporta due facce complementari, ma di una complementarità peculiare, come avremo occasione di far vedere.

    Le componenti di una esperienza

    La prima faccia di quest'esperienza è quella del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, radicalmente e attivamente presente in ogni essere umano.
    È facile constatare che l'uomo è una matassa di desideri. Essi lo sollecitano in continuità e lo rendono sempre irrequieto.
    Tra tutti, quello di vivere in pienezza è il più profondo e radicale. Infatti, se lo si considera attentamente, si scopre che ogni desiderio umano, individuale o collettivo, è espressione dell'anelito di vivere in pienezza. In pienezza di qualità e di durata. Ad appagarlo vanno indirizzati, in ultima istanza, tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Ed è pure quest'anelito a muovere ogni dinamismo umano.
    Ma accanto a questa prima faccia ce n'è un altra, di portata non meno universale né meno radicale: esiste la Morte.
    Per Morte, con la maiuscola, intendiamo tutto ciò che in qualunque modo contraddice o ostacola la realizzazione di quel desiderio più profondo di cui si è parlato prima.
    Questo secondo aspetto trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte corporale o biologica, nella quale l'uomo vede venir meno ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri.
    Ma oltre a questo fatto-limite della morte corporale, ci sono nell'esperienza umana innumerevoli altre manifestazioni della non realizzazione del desiderio della vita in pienezza: la fame non saziata, la malattia fisiologica o psichica, l'insicurezza psicologica o anche economica, l'angoscia, la solitudine forzata, l'incapacità di avere rapporti interpersonali, l'emarginazione imposta, la schiavitù sociologica o psicologica, la perdita del senso della vita, lo sfruttamento subìto singolarmente o collettivamente, ecc. In una parola, ogni forma di menomazione umana.
    Possiamo designare questa duplice esperienza umana universale con un'espressione molto significativa, come l'esperienza della dialettica o antitesi Vita-Morte, l'esperienza cioè del coesistere di queste due realtà nell'uomo contrapponendosi ed eliminandosi a vicenda. Dove c'è l'una, infatti, non c'è l'altra e viceversa.
    Tale dialettica costituisce veramente come lo sfondo ultimo di ogni esistenza umana. Essa si esprime e si concretizza poi in innumerevoli altre esperienze dialettiche che la riproducono nel mondo reale: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, angoscia-serenità, solitudine-comunione, emarginazione-partecipazione, schiavitù-libertà, ecc.
    In ognuno di questi binomi il primo termine significa Vita, mentre il secondo significa Morte.

    L'uomo tra la Vita e la Morte

    In seno a questa concreta esperienza, una e molteplice, l'uomo è sempre alla ricerca, conscia o inconscia, di una Vita-senza-Morte.
    Se poi si vuole dire in che cosa consista concretamente quella Vita-senza-Morte così universalmente e radicalmente ricercata, si deve confessare che non lo si sa con precisione. Appunto perché immerso nella dialettica Vita-Morte, l'uomo non può averne l'esperienza.
    Vita-senza-Morte è una espressione-limite, senza riferimento nel reale empirico. Se ne hanno soltanto dei sospetti in quei momenti in cui si esperisce in qualche misura una situazione di pienezza, di realizzazione, di felicità. Momenti d'altronde sempre minacciati di instabilità e di fugacità: essi non sono la Vita-senza-limiti alla quale aspira instancabilmente l'uomo.
    È questa la ragione per cui la ricerca della Vita si manifesta anche in forme negative, sbagliate, che in realtà conducono alla Morte. Questa è in parte la tragedia dell'uomo, che può cercar di saziare la sua brama di Vita con delle realtà che Vita non sono, anzi che sono in realtà Morte.
    Dobbiamo far notare ancora questo: la ricerca della Vita-senza-Morte non è solo presente e attiva nei singoli esseri umani, ma anche nelle collettività, piccole o grandi che esse siano. Anch'esse sono alla ricerca della Vita e del superamento della Morte.
    Ora, quando tale ricerca è vista nei suoi risvolti collettivi, allora si ha a che fare con la storia. La storia umana, infatti, non è altro che l'avvicendarsi della Vita e della Morte tra gli uomini e tra i diversi gruppi umani. Nella misura in cui trionfa la Vita, la storia cammina e va avanti; nella misura invece in cui trionfa la Morte, essa si ferma e addirittura indietreggia.
    La ricerca della Vita-senza-Morte in questi risvolti collettivi è una delle caratteristiche proprie del momento storico attuale, in cui l'umanità sta acquistando sempre più intensamente coscienza della sua condizione planetaria.
    L'esperienza della dialettica Vita-Morte costituisce, quindi, come una grande invocazione, molte volte solo implicita e sommessa, degli uomini: essi mirano a una Vita-senza-Morte. Ed è precisamente tale invocazione il punto d'innesto dell'annuncio di Dio. Fintanto che Dio non viene colto dagli uomini come risposta ad essa, resta sempre come qualcosa di "posticcio", di artificialmente attaccato alla loro fede; quando invece Egli viene percepito, sia pur solo implicitamente, come risposta ad essa, allora Egli può "porre la sua dimora" nei loro cuori.

    3.2. Un Dio che ama appassionatamente la Vita dell'uomo

    Come tracciare l'immagine di Dio, di quel Dio che si è manifestato definitivamente in Gesù Cristo, in modo tale che venga a dar risposta all'invocazione radicale degli uomini e delle donne d'oggi?
    Ci sembra che si possa formulare in forma adeguata dicendo che il Dio di Gesù Cristo è un Dio di Vita per gli uomini, a cominciare da quello che sono più poveri e piccoli.
    È un enunciato molto denso che va prima spiegato nei suoi termini e poi esplicitato nelle sue implicanze. Le spiegazioni le diamo adesso, le esplicitazioni nei capitoli seguenti.
    Nella sua prima parte -"un Dio di Vita per gli uomini"- questo enunciato delinea in forma ancora generica l'immagine di Dio.
    Essa viene a dire che, nei confronti della dialettica Vita-Morte in cui è costantemente e in mille forme diverse immerso l'uomo, singolo e collettivo, il Dio che si è fatto conoscere nella vicenda di Gesù di Nazaret e nella sua risurrezione si comporta in un modo molto definito: mettendosi assolutamente, incondizionatamente, dalla parte della Vita.
    Questo modo di confessare Dio, proprio della fede cristiana, è, come si può vedere, agli antipodi di quello di tante mitologie antiche, nelle quali gli dèi appaiono spesso come gelosi accaparratori della Vita per se stessi, riservando invece la Morte per l'uomo.
    In contrapposizione ad esse tanto l'esodo dell'Antico Testamento quanto e ancor più chiaramente l'agire storico di Gesù di Nazaret e l'avvenimento pasquale, rivelano un Dio totalmente intento ad un preciso scopo: quello di far possibile all'uomo la pienezza di Vita, di renderlo partecipe alla sua condizione divina di Vivente.
    In questo senso si può dire con ragione, come fa uno scritto neotestamentario (Tit 3,4), che Dio è un Dio incondizionatamente "filantropo", ossia un Dio che vuole la Vita dell'uomo, di ogni uomo, antecedentemente e indipendentemente da ciò che esso sia o faccia.
    Si radica anche qui il carattere di "vangelo" che caratterizza l'annuncio di questo Dio. Esso è portatore della gioiosa notizia che caratterizzò in modo del tutto particolare l'annuncio fatto dallo stesso Gesù di Nazaret, un annuncio che colpì profondamente coloro che si decisero a seguirlo accettando la sua proposta.

    3.3. Un Dio che privilegia i più poveri e piccoli

    La seconda parte dell'enunciato proposto - "a cominciare da quello che sono più poveri e piccoli" - viene a dar maggior specificità e concretezza a quanto è stato detto nella prima.
    Sulla base ancora di quanto racconta la Bibbia, sia nell'Antico sia soprattutto nel Nuovo Testamento, questa seconda parte tiene conto del fatto che, nella sua appassionata volontà di Vita per gli uomini, il Dio della Vita non si rivolge semplicemente a degli uomini che portano in sé l'insaziabile desiderio di vivere in pienezza, bensì a degli uomini che esperiscono tale desiderio in seno alle mille forme della concreta dialettica Vita-Morte.
    Perciò, questa sua volontà di Vita per gli uomini diventa, di fatto, volontà di risurrezione, ossia di trionfo della Vita sulla Morte, in tutte le sue forme e manifestazioni. Egli vuole che gli uomini superino la Morte e arrivino alla pienezza della Vita.
    Ciò significa diverse cose.

    Il Dio che risuscita i morti

    Significa, in primo luogo, che davanti alla realtà della dialettica o antitesi Vita-Morte, sia nelle sue concretizzazioni individuali sia in quelle collettive, questo Dio si schiera sempre contro la Morte in quanto tale, ossia in quanto essa implica menomazione dell'uomo e ostacolo alla sua pienezza di Vita.
    Questo primo aspetto costringe a sottoporre a critica un certo modo, molto diffuso anche tra i cristiani, di capire "la volontà di Dio".
    Spesso questa espressione fa da copertura religioso-ideologica a delle realtà, naturali o causate della libertà umana, che non hanno niente a che fare con ciò che una genuina comprensione dei dati rivelati lascia intendere.
    Se è vero quanto abbiamo detto sopra, nulla di ciò che si oppone alla Vita degli uomini può essere considerato volontà di Dio.
    La stessa morte di Gesù in croce potrebbe svolgere un ruolo ideologizzante e giustificatore della Morte se non si coglie il suo vero senso. Essa non può essere volontà di Dio in quanto Morte, ma solo in quanto Vita e fonte di Vita per lui e per gli altri.

    E la sofferenza?

    D'altra parte però, la presenza della Morte in mezzo agli uomini sembra smentire le affermazioni fatte: se Dio è dalla parte della Vita, come possono esistere situazioni in cui il trionfo della Morte è così evidente?
    È il problema del dolore, e soprattutto del dolore ingiusto a chiamare qui in causa l'immagine di un Dio che è per la Vita.
    Si tratta di un problema antico come l'uomo stesso. Se ne hanno tracce in diversi libri dell'Antico Testamento Giobbe, Tobia, Salmi, ecc.), e non è assente nel Nuovo, specialmente per via della morte ingiusta di Gesù in croce.
    È un problema che ha continuato a porsi acutamente lungo la storia in termini perentori, come lo ha fatto uno scrittore dei primi secoli del cristianesimo: "O Dio può evitare il male, e non lo vuole, e allora è cattivo; o lo vuole, ma non lo può, e allora non è onnipotente".
    Il tentativo di risposta non può essere cercato, nella logica di quanto stiamo dicendo finora, al di fuori di quanto questo Dio ha voluto rivelare di sé nella vicenda Gesù di Nazaret.
    In essa appaiono inseparabilmente presenti le due cose: da una parte la volontà assoluta di Dio per la Vita, e dall'altra il suo non intervenire per strappare Gesù dalla Morte alla quale la cattiveria degli uomini lo condanna.
    La risurrezione però, ossia la sua vittoria piena e definitiva sulla Morte in Cristo, è l'espressione suprema del suo modo di rapportarsi con gli uomini. Solo che questa risurrezione non è una realtà empirica, ma oggetto di fede e di speranza.
    Il problema, come si vede, non può avere risposta al di fuori del discorso religioso.
    Una cosa si può, quindi, ricavare da quanto abbiamo detto: se l'uomo soffre la presenza molteplice della Morte, Dio soffre con lui.
    È questa un'affermazione non molto frequente nell'ambito religioso, e neanche in quello cristiano, ma che sembra saldamente fondata nella rivelazione di Dio in Gesù di Nazaret.
    Uno dei motivi principali della difficoltà che incontra questa maniera di pensare le cose deriva dal fatto di identificare perfezione con "in-sofferenza". Una tale identificazione porta a ragionare in questi termini: se Dio è l'essere perfetto, non può soffrire; se soffre, non è più Dio.
    Se invece si fa dell'amore, e non della apatia come volevano gli antichi stoici, la caratteristica decisiva di questo Dio, allora tutto cambia. Il soffrire, infatti, lungi dall'essere una imperfezione, è segno di perfezione nell'amore, che è tutto concentrato sulla pienezza di Vita del suo destinatario.

    Il Dio "parziale"

    Che il Dio della Vita abbia una volontà di risurrezione per l'uomo significa, in secondo luogo, che appunto in ragione di questa sua volontà Egli si rivolge di preferenza a quelli che sono più colpiti dalla Morte, ai più "moribondi". A quelli, cioè, che la libertà individuale o collettiva degli altri uomini lascia "lungo la strada semivivi" (Lc 10,30).
    Ciò vuol dire che i piccoli di questo mondo, i poveri, i deboli, gli esclusi, gli oppressi, gli sfruttati, quelli che al mondo non contano, gli ultimi, sono i primi e privilegiati destinatari della sua preoccupazione.
    È quanto appare da un'analisi dell'avvenimento centrale dell'esodo e da quello di Gesù Cristo.
    Infatti, nel conflitto che fa da inquadramento all'esodo Dio si schiera dalla parte del piccolo e oppresso gruppo degli ebrei. E Gesù, come abbiamo visto, durante il tempo della sua attività privilegia i più piccoli e deboli della società del suo tempo e, dopo la sua morte, viene lui stesso strappato da Dio dalla situazione di estrema esclusione e di totale povertà e impotenza in cui lo avevano ridotto i potenti del suo popolo.
    In questo senso si può parlare di una autentica parzialità di Dio, parzialità che non annulla l'universalità della sua volontà di Vita, ma la specifica segnalando l'angolatura a partire dalla quale essa viene realizzata.

    Un Dio che è contro ciò che produce Morte

    Questa volontà concreta di risurrezione di Dio per gli uomini significa ancora una terza cosa: il suo desolidarizzarsi da tutto ciò e da tutti coloro che provocano la Morte, e specialmente la Morte dei più piccoli e poveri.
    Tornando ancora una volta all'esodo si può facilmente cogliere quanto sia palese ciò che stiamo affermando, se si considera il modo in cui si rivela l'intervento di questo Dio: il Faraone e i suoi non hanno il suo appoggio; anzi, finiscono in un totale fallimento storico.
    Altrettanto si vede nel caso Gesù: come si è visto precedentemente, in ogni situazione conflittuale che gli tocca affrontare egli si mette decisamente dalla parte dei perdenti. Sia che si tratti del conflitto tra "giusti" e "peccatori" o degli altri conflitti esistenti nella società in cui agisce, è facile cogliere per chi prenda partito e da chi si desolidarizza.
    La sua risurrezione poi è, tra l'altro, il modo in cui Dio manifesta la sua solidarietà con lui e il suo togliere la solidarietà a coloro che lo hanno messo in croce.

    L'invito pressante alla conversione

    Una quarta e ultima implicanza di quanto è stato enunciato di questo Dio dalla volontà di Vita e di risurrezione, è che Egli invita e sollecita gli stessi uomini ad un ribaltamento di tutto ciò che produce la Morte tra loro, e specialmente tra quelli che di questa Morte soffrono più acutamente le conseguenze.
    L'alleanza che Dio fa con il suo popolo nell'A.Testamento (per es. Dt 21-23) e specialmente nella tradizione profetica (per es. Is 1,10-17) richiede da esso l'impegno di difesa "dello straniero, dell'orfano e della vedova", trinomio emblematico della situazione di povertà e ultimità.
    E la conversione alla quale Gesù sollecita nel Nuovo Testamento, quale programma dell'intera sua proposta del regno (Mc 1,14-15), mira appunto al ribaltamento in ordine alla Vita a cui abbiamo fatto cenno.
    Così, il Dio di Gesù Cristo appare come il grande convocatore degli uomini in ordine a una sola grande impresa: quella di far trionfare concretamente la Vita.

    3.4. La denuncia del Dio della Vita

    Concludendo queste spiegazioni, facciamo rilevare che la concezione di un Dio che vuole assolutamente la Vita degli uomini, costituisce una critica radicale non soltanto nei confronti di una sua concezione cosmico-paganeggiante nei suoi risvolti negativi, ma anche di certe sue concezioni pseudo-cristiane, secondo le quali Dio diventa una specie di anestesia nei riguardi della Morte nelle sue concrete manifestazioni.
    Tali concezioni, invece di un Dio che suscita una decisa ribellione contro la Morte in quanto negatività e menomazione per l'uomo, come lo ha fatto vedere in Gesù, annunciano un dio che ne giustifica la presenza nel mondo.
    Davanti al Dio rivelato in Gesù Cristo esse restano totalmente sconfessate.
    Inoltre, la concezione di un Dio che si rivolge specialmente ai più piccoli, poveri ed esclusi diventa una critica pure radicale di tutte le manipolazioni di Dio che pretendono convertirlo in strumento di dominio e di sfruttamento o emarginazione.
    Essa fa sapere che chi si appella a Dio per creare, imporre o riaffermare le situazioni -anche strutturali- che li fanno morire, si appella e rende culto a un feticcio.


    T e r z a
    p a g i n A


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