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    Il Dio della fede cristiana (cap. 2 di: Il Dio di Gesù)


    Luis A. Gallo, IL DIO DI GESÙ. Un Dio per l'uomo e in cerca dell'uomo, Elledici 1991



    1. La Parola definitiva sul volto di Dio

    Gesù di Nazaret è, secondo la fede cristiana, colui che ha svelato in forma definitiva all'umanità il volto di Dio. Ciò che gli uomini antichi hanno cercato per secoli a tastoni, intravedendo più o meno oscuramente i suoi tratti, ciò che molti uomini d'oggi non cercano più o addirittura rifiutano, in lui si è fatto conoscere apertamente.
    Quindi, se vogliamo continuare a dire questo Dio a noi stessi e al mondo d'oggi, dobbiamo rifarci necessariamente a quell'immagine di Dio che Gesù stesso ha vissuto e proclamato, e che la sua intera vicenda ha svelato.
    Abbiamo aggiunto il riferimento all'intera vicenda di Gesù perché, in realtà, il processo di svelamento del volto di Dio non ebbe il suo compimento pieno con quanto egli stesso visse e proclamò durante la sua attività, ma solo con la Pasqua.
    Così lo ha riaffermato recentemente il Vaticano II nella sua Costituzione sulla divina rivelazione: Gesù Cristo "con il fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione" (DV 4).
    Perciò cercheremo di esplorare ambedue le cose (il Dio di Gesù di Nazaret e il Dio della Pasqua) in vista del nostro scopo.

    2. Il Dio vissuto e proclamato da Gesù di Nazaret

    A prima vista sembrerebbe molto facile arrivare a identificare quale sia stata l'immagine di Dio vissuta e proclamata da Gesù.
    I testi evangelici che forniscono dei dati al riguardo sono troppo numerosi e troppo evidenti. Sono infatti molti i discorsi di Gesù riportati da essi che hanno direttamente o indirettamente Dio come soggetto. Ci sono poi anche molti fatti in cui il suo concetto di Dio è indubbiamente in gioco. Basta aprire qualunque pagina dei vangeli per averne la conferma.

    2.1. Difficoltà iniziali

    Le difficoltà sorgono, tuttavia, non appena si tiene conto del carattere peculiare degli scritti neotestamentari. Concretamente, del modo in cui sono nati e in cui sono stati scritti.
    Essi sono stati prodotti dalla fede di coloro che avevano fatto l'esperienza di vivere accanto a Gesù durante la sua vicenda storica, i quali, una volta passata la Pasqua, tramandarono, già illuminata da tale avvenimento, questa stessa loro esperienza. Lo fecero prima oralmente, e poi, a poco a poco, anche mediante i diversi scritti.
    Ci si può chiedere, quindi, fino a che punto ciò che viene presentato in tali scritti come discorso o azione di Gesù di Nazaret sia realmente suo, e non una proiezione all'indietro della fede delle comunità postpasquali.
    Si sa, per esempio, che gli esegeti sono in genere molto severi nel decidere su quelle che sarebbero le "stessissime parole di Gesù". Essi avanzano molti dubbi sull'autenticità "storica" di molti detti di Gesù riportati dai vangeli. E ciò senza mettere in dubbio il loro valore ispirato, che resta intatto.
    Senza misconoscere queste difficoltà e queste discussioni, non per altro prive di fondamento, si è oggi d'accordo nell'affermare che, all'interno degli scritti neotestamentari e specialmente dei vangeli, è possibile cogliere alcuni dati mediante i quali arrivare ad identificare i tratti fondamentali dell'immagine di Dio che Gesù di Nazaret viveva e annunciava. Sono quelli che ora esporremo.

    2.2. Principali dati evangelici

    Un primo e fondamentale dato è questo: Gesù di Nazaret appare, nei vangeli che ne narrano la vicenda, come un uomo profondamente unificato attorno a un nucleo centrale.
    Non lo si vede, infatti, come un uomo disperso o distratto in mille cose, ma viceversa come intensamente concentrato attorno a "una sola cosa necessaria" (Lc 10,42).
    È come se dentro di lui ci fosse una calamita che attirasse tutto a sé. Oppure un asse attorno al quale tutto si ordinasse: energie fisiche, psichiche, intellettuali, volitive, spirituali.
    Una bella immagine di questa sua condizione interiore la dà egli stesso nella parabola dell'uomo che trova un tesoro nascosto in un campo, e per la gioia del ritrovamento, "va, vende tutto ciò che ha e compra quel campo" (Mt 13,44).
    Un altro modo di dire lo stesso è quello di rilevare che in mezzo a tutta la sua intensa attività egli dimostra di avere sempre una profonda intenzione unificante.
    È, per dirla con una parola pregnante, un uomo intensamente appasionato per una "causa" che polarizza tutte le sue energie, tutto il suo essere.

    La preoccupazione centrale di Gesù di Nazaret

    Un secondo dato è questo: il centro unificante dell'esistenza e dell'attività di Gesù di Nazaret, la "causa" alla quale dedica con passione tutta la sua vita, si ritrova in ciò che, con una categoria propria dell'epoca, viene da lui chiamato "il regno di Dio".
    È ciò che esprime concisamente il vangelo di Marco presentando l'inizio dell'attività di Gesù in Galilea: "Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù andò in Galilea predicando il Vangelo di Dio e dicendo: 'Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al Vangelo'" (Mc 1,14-15).
    È all'interno di questo centro unificante e di quest'intenzione di fondo che egli vive e propone l'immagine di Dio. Per lui, Dio è il Dio del regno.
    La categoria "regno di Dio" non è d'altronde nuova per la gente che lo ascolta, non l'ha inventata Gesù: essa ebbe una lunga storia nell'esperienza di fede del suo popolo. Sin dall'Antico Testamento il popolo d'Israele aveva dato il titolo regale al suo Dio, e si riferiva alla sua presenza di salvezza nella storia in termini regali.
    Non solo, ma all'epoca di Gesù il regno definitivo di Dio, annunziato dai Profeti d'Israele per i tempi del compimento pieno della Promessa fattagli da Dio, costituiva l'oggetto di una frenetica attesa da parte del popolo e dei diversi gruppi religiosi in esso esistenti.
    Ognuno di questi ultimi lo aspettava tuttavia in modo diverso. E questa diversità era causata principalmente dall'immagine del Dio-re la cui venuta attendeva.

    Le attese del regno nel popolo d'Israele

    Lo aspettava il gruppo dei farisei. Sperava di farlo arrivare mediante la fedelissima e addirittura scrupolosa osservanza della Legge di Mosè.
    Lo aspettava, nel deserto vicino al Mar Morto, il gruppo degli esseni, più ferventi ancora dei farisei. Essi si ritiravano di tra gli "impuri", ossia si separavano da tutto il resto del popolo d'Israele, per dedicarsi pienamente alla purificazione in vista del grande evento aspettato e desiderato.
    C'erano poi gli zeloti, i quali fremevano dal desiderio che Dio, il Dio dei loro padri, venisse a scacciare gli intrusi romani dalla Palestina per istaurarvi definitivamente il suo regno.
    I sadducei, invece, si sentivano a loro agio sotto la dominazione romana. Per essi, si può dire, il regno di Dio s'identificava con quello dell'imperatore.
    Poco prima dell'apparizione di Gesù in pubblico si presentò al popolo come profeta Giovanni il Battista. Egli diede origine ad un vasto movimento di conversione, al quale si incorporarono molti giudei. E questo movimento si rifaceva anche alla venuta imminente del regno di Dio. Un Dio, tuttavia, dai tratti di giudice adirato. Egli sarebbe venuto a regnare annientando gli ingiusti e dando la dovuta ricompensa a coloro che si sarebbero pentiti dei loro peccati.
    Il popolo della gente comune aspettava a sua volta ansiosamente, a modo suo, questo avvento. La situazione di povertà e insicurezza in cui viveva la maggioranza di esso, schiacciata dalle penurie materiali, dal peso dei precetti dalla legge maneggiata da scribi e farisei, e dal senso di colpa che seguiva alla sua non osservanza, li faceva gridare a Dio, come gli ebrei in Egitto, e li spingeva a sperare un suo intervento che venisse a cambiare radicalmente le cose. Essi ardevano nel desiderio che Egli stesso venisse a regnare.
    È probabilmente questa la ragione per cui ogni tanto aderivano a sommosse provocate dagli zeloti, e per cui accorsero in massa a farsi battezzare da Giovanni Battista.
    Ognuno dei gruppi accennati sottolineava con speciale intensità alcuno dei tratti del volto del Dio che Israele venerava sin dai tempi più remoti, assumendo di conseguenza dei comportamenti in sintonia con esso.
    In questo contesto si colloca un terzo dato che raccogliamo ancora dai vangeli: Gesù di Nazaret, nel fare sua la causa del regno di Dio, si dissocia dalla concezione che ne hanno i diversi gruppi religiosi del suo popolo, e ne propone una sua, in parte comune con le altre, in parte invece originale. E in ciò gioca un ruolo decisivo l'immagine di Dio che egli stesso si porta dentro e proclama agli altri.
    Conseguenza di questi tre dati è che, se si vuole cogliere il suo modo di pensare, vivere e proporre Dio, risulta indispensabile sapere cosa intenda egli per regno di Dio.

    2.3. Il regno di Dio secondo Gesù di Nazaret

    Com'era naturale, data la sua mentalità semita, Gesù non diede probabilmente mai una definizione concettuale del regno di Dio. Egli la espresse invece prevalentemente attraverso la sua azione e, quando ne parlò, lo fece con un linguaggio metaforico e narrativo.
    Perciò è indispensabile rivisitare soprattutto la sua attività in ordine al regno per sapere quale sia stata la sua concezione del regno stesso.
    Che egli sia stato un uomo eminentemente attivo lo si percepisce subito leggendo i vangeli. Era così intensa la sua attività tra la gente che, come fa notare Marco, in alcuni momenti non aveva nemmeno il tempo di mangiare (Mc 3,20).

    La prassi del regno nell'ambito individuale

    Egli agisce, anzitutto, sul piano individuale. E fra le azioni più rilevanti in questo contesto vanno annoverati le guarigioni, gli esorcismi e il perdono dei peccati.
    Le narrazioni di guarigioni, anche straordinarie, operate da lui specialmente a beneficio di gente povera del popolo, riempiono le pagine dei vangeli: ciechi che cominciano o riprendono a vedere (per es. Mt 9,27-31), muti che acquistano la parola (per es. Mt 9,32-34), paralitici a cui viene restituita la possibilità di camminare (per es. Mt 8,1-8), lebbrosi che vengono liberati dalla loro terribile malattia (per es. Mt 1-4), ecc.
    Ogniqualvolta egli guarisce qualcuno è come se effettuare una piccola risurrezione, parziale e provvisoria, anticipatrice di quella vittoria sulla morte più radicale che riporterà nei casi della figlia di Giairo (Mc 5,21-24.35-43), del figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17), e del suo amico Lazzaro (Gv 11,1-4).
    Ci sono anche, nei vangeli, numerose narrazioni evangeliche dell'attività esorcistica svolta di Gesù.
    Tale attività va capita all'interno del modo di pensare dell'epoca secondo il quale molte malattie erano attribuite alla presenza negli uomini di "spiriti immondi" o "cattivi".
    Espellendo questi spiriti Gesù appare come "il più forte" che vince "il forte" (Lc 11,21-22). Con "il dito di Dio" egli caccia i demoni e in questo modo fa avvenire il regno di Dio.
    Le narrazioni che parlano del perdono dei peccati hanno molti punti di somiglianza con le precedenti.
    Al tempo di Gesù era molto diffuso nella coscienza del popolo la concezione del peccato come un debito. Peccando, non osservando la Legge, i peccatori sapevano di contrarre un debito con Dio, un debito che occorreva saldare. Questo debito pesava come una lapide di marmo sulla loro coscienza e li teneva in condizioni miserevoli, anche psicologicamente parlando. È molto probabile che alcune delle malattie funzionali di cui pativa la povera gente del popolo, ignorante della Legge e quindi anche inosservante di essa, fossero dovute a questa coscienza di colpa.
    Gesù perdona a più di uno i peccati: a gente semplice del popolo, a pubblicani, a prostitute (per es. Mc 2,5; Lc 7,48; Gv 8,11). In questo modo li libera da quel peso terribile che li soffocava.
    Questi diversi interventi di Gesù nei confronti degli individui vengono a dire, in poche parole, ciò che implica per lui il regno di Dio: la malattia e ogni forma di menomazione umana deve venire espulsa dal corpo e dalla psiche degli uomini perché essi possano essere veramente e pienamente uomini. Il che equivale a dire che Dio non può regnare dove regna la morte.

    La prassi del regno nell'ambito sociale

    Ma oltre ad agire direttamente nei confronti degli individui, Gesù di Nazaret dimostra di avere una chiara coscienza del fatto che gli individui non vivono isolati, ma all'interno di una convivenza collettiva che condiziona anche positivamente o negativamente, e in forma notevole, la loro stessa esistenza.
    Agli scopi di cogliere più pienamente quale sia il suo modo peculiare di intendere il regno di Dio, è importante vedere anche come egli agisca in questo ambito.
    Concretamente, egli interviene proclamando i giusti modi di rapportarsi tra le persone e i gruppi umani, denunciando i rapporti inadeguati e soffocanti esistenti all'iterno del suo popolo e, soprattutto, facendo capire quale sia il suo modo di pensare una convivenza vivificante nell'affrontare di diversi conflitti esistenti allora in esso.
    La società d'Israele di quel tempo era infatti attraversata da profondi conflitti. C'erano dei gruppi contrapposti che convertivano la convivenza collettiva in fonte di dolorose tensioni ed emarginazioni. I più deboli ne facevano più pesantemente le spese.
    Un primo conflitto si verificava tra due categorie, in origine di indole religiosa, ma con ripercussioni fortemente sociali: i giusti e i peccatori.
    I primi erano quelli che osservavano strettamente la Legge di Mosè e gli innumerevoli precetti elaborati a poco a poco attorno ad essa.
    Come peccatori venivano considerati invece molti uomini e donne del popolo. In concreto, tutti quelli che non osservavano la Legge nella sua integrità. Tra questi, anzitutto, i pubblicani e le prostitute. Ma anche la povera gente che, ignorando il complicato bosco di precetti, non poteva neanche osservarli. Inoltre, altre persone che di per sé potevano aver non peccato personalmente: i pastori, i ciechi, i paralitici, i figli illegittimi fino alla nona o decima generazione.
    Come abbiamo visto precedentemente, i peccatori vivevano spesso in condizioni psichiche miserevoli: sentivano sopra la loro esistenza il peso del debito contratto con Dio, quasi sempre insolvibile. I sedicenti giusti li disprezzavano (Lc 18,9) e li consideravano come impuri, esclusi dalla benedizione di Dio (Gv 7,49) e quindi anche dall'eredità del regno.
    Gesù reagisce davanti a questo conflitto in un modo che sconcerta e scandalizza i giusti: accoglie i peccatori, li perdona, dona loro speranza (Lc 7,47-50; Gv 8,10-11) e mangia perfino con essi (Mc 2,15; Lc 15,1-2; 19,1-10). "Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori", afferma rispondendo alle mormorazioni dei giusti (Mc 2,17).
    Un secondo conflitto che attraversava la società d'Israele era quello esistente tra i ricchi e potenti e i poveri del paese.
    Il gruppo dei ricchi era costituito da una categoria relativamente ridotta di persone: Erode e la sua corte; le famiglie dei sommi sacerdoti, che vivevano lautamente a spese del Tempio; gli "anziani" del Sinedrio, in genere padroni delle terre coltivabili del paese.
    Questi tre gruppi di persone, oltre ad avere in mano le ricchezze materiali, avevano anche il monopolio del potere di decisione sulle cose pubbliche. E decidevano certamente secondo i loro interessi. Ne è un esempio il modo in cui agirono nel processo a Gesù.
    Tranne i gruppi elencati, e una piccola fascia di gente che oggi potremmo qualificare come di classe media bassa, il resto del popolo era invece molto povero. Povero di beni materiali e povero di potere decisionale. Non contava.
    Si trattava di contadini che lavoravano una terra che non apparteneva loro, o di manovali contrattati a giornata, soprattutto durante il periodo della raccolta o della vendemmia (Mt 20,1-16). Spesso essi soffrivano l'insicurezza e la precarietà che comportava la loro condizione. Ed erano vittime della cupidigia e dell'insensibilità dei ricchi (Mc 12,40; Lc 20,47).
    La presa di posizione di Gesù nei confronti di questo secondo conflitto è chiara. Molti dati portano di asserire che egli si dedicò con privilegiata sollecitudine ai poveri e ai senza potere.
    Testi come quello delle beatitudini, specialmente nella loro versione lucana (Lc 6,20-23), o quello della conversione di Zaccheo, capo dei pubblicani e molto ricco (Lc 19,1-10), o ancora quello dell'invito di Gesù agli affaticati e stanchi (Mt 11,28-30), ne sono una chiara conferma.
    E non solo si dedica particolarmente ai poveri e li convoca a sé, ma toglie anche la sua solidarietà ai ricchi che li emarginano e sfruttano.
    La seconda parte delle beatitudini lucane (Lc 6,24-26), le sue invettive contro "i farisei che amavano le ricchezze" (Lc 16,14-15) e la sua sentenza sulla quasi insormontabile incapacità dei ricchi di entrare nel regno (Mt 19,23; Mc 10,23), non lasciano spazio a dubbi al riguardo.
    Un terzo conflitto generalizzato tra i giudei al tempo di Gesù era quello esistente tra uomini e donne. Si tratta di un conflitto forse meno appariscente, ma non meno carico di conseguenze degli altri.
    La società d'Israele era accentuatamente patriarcale e maschilista. Come lo erano d'altronde in maggior o minore misura tutte le società del tempo.
    In essa il vero soggetto, colui che contava realmente, era l'uomo-maschio adulto. La donna era senz'altro meglio trattata che in altri popoli, ma ciò non toglieva che fosse ridotta alla condizione di oggetto. Soprattutto di oggetto-strumento di sopravvivenza dell'uomo-maschio: gli serviva specialmente per fare dei figli in cui perpetuarsi.
    Anche nei confronti di questo conflitto Gesù prende posizione. E, nuovamente, in favore di chi ne fa più pesantemente le spese. Prende posizione soprattutto con il suo modo costante di comportarsi.
    Infatti, contrariamente a ciò che erano le usanze del tempo, egli assume sempre un atteggiamento eminentemente rispettoso e liberante verso le donne. Le ammette nel cerchio dei suoi discepoli (Lc 8,1-3; 10, 28-42), ne difende l'uguaglianza con l'uomo (Mt 19,1-10; ecc.) e, passando anche sopra gli steccati creati dai radicati pregiudizi culturali, promuove il riconoscimento della loro dignità (Gv 4,1-42).

    Il suo modo di capire il regno di Dio

    Attraverso l'agire di Gesù sia nei confronti degli individui sia nei confronti della società, si può quindi cogliere cosa egli pensi del regno di Dio.
    Si può cogliere, anzitutto che per lui il regno di Dio non è una realtà che si riferisce solo a Dio. L'espressione utilizzata può oscurarne la comprensione se non si tiene conto di quanto egli stesso ha fatto.
    Il regno "di Dio" riguarda anche, e molto strettamente, gli uomini e le donne concreti con cui egli è a contatto, e soprattutto quelli che sono i più poveri, emarginati, oppressi, esclusi e sfruttati dagli altri. Si potrebbe dire: è il regno "di" Dio "in favore" degli uomini.
    Questo regno non è neppure una realtà puramente spirituale, interiore, ma è anche corporale.
    Per Gesù, come si è visto, sono gli uomini e le donne nella loro integralità i destinatari di questa nuova situazione di vita che egli vuole instaurare.
    Il regno di Dio non è neanche una realtà puramente individuale, ma anche sociale.
    Come abbiamo già visto Gesù, appassionatamente interessato alla vita e alla morte degli uomini, prende in seria considerazione la loro convivenza collettiva.
    Oltre a coinvolgere gli individui e la convivenza ad ogni livello tra di essi e tra i diversi gruppi sociali, il regno di Dio proclamato da Gesù interessa anche le strutture in cui tali rapporti si cristallizzano. Esse danno solidità a modi di convivenza, sia negativi che positivi, e in tale modo favoriscono o ostacolano l'integrità vitale degli uomini.
    Gesù non si dimostra insensibile neppure a questo aspetto della realtà nella sua ricerca del regno.
    Il regno di Dio da lui proclamato consiste, quindi, in poche parole, in una convivenza tra le persone e tra i gruppi che non provochi ingiustizie ed emarginazioni, che non riduca le persone a oggetti, che non sia, in definitiva, fonte di infelicità e di morte ma che, viceversa, offra loro la possibilità di condividere fraternamente con gli altri, di essere veramente rispettati nella propria dignità, di essere soggetti delle proprie decisioni.
    Una convivenza, in sintesi, che sia per tutti e per ognuno fonte di vita e felicità, a cominciare da coloro che di vita e di felicità ne hanno di meno.
    Questi ultimi appaiono, in tutta l'attività di Gesù, come i destinatari primi e privilegiati del regno.

    2.4. Il Dio del regno proclamato da Gesù

    Se tale è per Gesù il regno di Dio, non è difficile scoprire quale sia il Dio del regno, il Dio che presiede tutta la sua vita e attività: è un Dio di vita per tutti e ognuno degli uomini, a cominciare da quelli che ne sono più privi.
    La parabola del buon Samaritano (Lc 10,25-37), letta in chiave teologica -rivelatrice del volto di Dio- e non soltanto etica -proposta di un comportamento-, offre una simbologia molto eloquente al riguardo: il Samaritano che, "commosso fino alle viscere" davanti alla situazione dell'uomo semimorto lasciato dai ladri lungo la strada, si prende sollecita cura di lui, è l'immagine di questo Dio del regno che si china commosso verso l'uomo a cui la morte strappa in mille forme la vita.
    Se si chiede donde abbia avuta Gesù di Nazaret questo modo di pensare Dio, si deve rispondere accennando a due fonti: la fede ereditata dal suo popolo e la sua propria esperienza personale.

    Il retroterra veterotestamentario

    Non si può dimenticare, in partenza, che Gesù era un giudeo e che, in quanto tale, era cresciuto sull'humus della lunga storia di fede del suo popolo. Quella fede era fondata appunto su una determinata immagine di Dio.
    Radicalmente, quindi, come lo lasciano intravedere i testi del N.Testamento (per es. Lc 20,37 e par.), Gesù era un devoto del "Dio dei padri". Non proclamò perciò un nuovo Dio, ma si inserì nella scia della fede del suo popolo.
    Una conferma di ciò, si ha nel fatto che anche la prima comunità cristiana, sorta attorno a lui, continuò dopo la Pasqua a credere in questo "Dio dei padri" (cf per es. At 3,13).
    Ma, qual'era l'immagine di Dio della fede del popolo d'Israele?
    L'immagine peculiare di Dio è uno dei punti fondamentali che evidenziano l'originalità di questo popolo nei confronti degli altri: quest'immagine non viene dal basso, ossia dall'esperienza dei fenomeni della natura, ma dall'alto, ossia mediante una rivelazione dello stesso Dio.
    Dire le cose in questo modo può tuttavia portare a far pensare che detta immagine sia qualcosa di "prefabbricato", di caduto direttamente dal cielo, senza mediazioni umane.
    Può portare a pensare, per esempio, che gli ebrei abbiano avuto sin dall'inizio, già al tempo dei loro primi antenati (Gen 12-50), un'idea monoteistica chiara di Dio, e che abbiano venerato sin dalle origini il loro Dio quale Dio unico, creatore e salvatore di tutto il mondo.
    La realtà invece, da quel che possiamo cogliere nella Bibbia stessa, è un'altra.
    Bisogna infatti tener presente che, pur essendo frutto di una rivelazione, tale immagine è germogliata e si è sviluppata nell'esperienza storica del popolo e mediante tale esperienza (DV 14).
    Fu infatti in un avvenimento storico che cambiò per sempre la sua sorte che Israele scoprì il suo Dio-Jahvé. E fu ancora in successivi avvenimenti storici, quali la conquista della terra di Canaan, la monarchia, l'esilio, il ritorno, ecc., che continuò ad approfondire tale sua scoperta.
    All'interno di tali avvenimenti alcuni uomini, e con il loro aiuto poi l'intero popolo, vissero un fenomeno di "apertura di senso", che permise loro di cogliere in essi la presenza e l'azione del loro Dio.

    L'avvenimento dell'esodo

    Secondo la testimonianza della Bibbia, Israele mantenne la sua fedeltà a tale immagine di Dio in mezzo a innumerevole difficoltà. L'avvento di nuove situazioni quali la sedentarizzazione, la monarchia, la perdita dell'indipendenza nazionale, ecc., costituirono autentiche prove per la sua fede.
    Ma, d'altra parte, tali situazioni furono altrettante occasioni di ripensamento della loro fede.
    In questo contesto l'opera dei profeti, e specialmente di alcuni di essi come, per esempio, di Elia (cf 1 Re 18,16-40), acquista il suo vero senso e la sua reale portata.
    Ora ci chiediamo: come fare per cogliere i tratti fondamentali di questo Dio dell'A.Testamento, che sarà poi anche il Dio di Gesù di Nazaret? quale strada seguire?
    In realtà, di questo Dio parlano tutte e ognuna delle pagine dell'A.Testamento. Sarebbe certamente molto arricchente seguire l'evoluzione della sua immagine attraverso la storia, scoprendo la continuità e la novità presenti in essa.
    Un lavoro del genere risulta tuttavia molto difficile, tra l'altro per via delle incertezze che gli studiosi della Bibbia hanno al riguardo.
    Si può perciò tentare una via più semplice che, pur nella sua concisione, raggiunge l'obiettivo cercato: focalizzare l'immagine del Dio d'Israele nel momento germinale della sua rivelazione al popolo, l'esodo dall'Egitto.
    L'esodo, ridotto all'essenziale, appare nelle narrazioni bibliche come un avvenimento di salvezza, anzi come l'avvenimento di salvezza per eccellenza dell'A.Testamento.
    Tale salvezza consiste nel fatto che il gruppo dei discendenti di Abramo che era andato a finire in Egitto (cf Gen 50,22-24), e che si trovava in una condizione umanamente negativa e addirittura disperata per un insieme convergente di motivi (Es 1,8-22; 5,15-19), è fatto oggetto di un intervento straordinario del Dio-Jahvé, il quale prende l'iniziativa di strapparli da tale situazione, cambiando radicalmente la condizione in cui si trovano (Es 3,1-10).

    Il volto del Dio dell'esodo

    Da questi brevi cenni emerge già con sufficiente chiarezza l'immagine del Dio dell'A.Testamento. La si ritrova espressa condensatamente nell'autopresentazione che, nella narrazione del libro dell'Esodo, fa Egli di Se stesso prima di enunciare il codice dell'alleanza stipulata con il popolo: "Io sono Jahvé, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20,2).
    È implicita anche nello stesso nome "Jahvé", mediante il quale gli israeliti esprimevano non tanto ciò che avevano capito della natura di Dio in sé, quanto piuttosto ciò che questo Dio voleva essere per loro.
    Si potrebbe descrivere in poche parole così: Jahvé, il Dio del popolo dell'A.Testamento, è un Dio che si manifesta nella storia del popolo come tenacemente impegnato, con tutta la sua potenza, nel tentativo di strappare il popolo dalla situazione di perdizione in cui si trova, per aiutarlo a passare a una nuova situazione di maggior pienezza, in vista del raggiungimento di una pienezza definitiva.
    Riguardo a tale immagine, occorre fare succintamente alcuni rilievi, che aiuteranno a capire anche il modo in cui Gesù di Nazaret visse e proclamò Dio.
    Il primo è che la memoria culturale del popolo d'Israele, discendente da antenati seminomadi (Dt 26,5), rafforzata dall'esperienza dell'esodo e della traversata del deserto, fece che questo popolo pensasse sempre il suo Dio come un Dio-da-tenda, e non come un Dio-da-tempio, al modo dei popoli a civiltà sedentaria.
    Così si spiega per esempio la sua riluttanza iniziale alla costruzione di un tempio in suo onore, di cui troviamo tracce nella Bibbia (cf 2 Sam 7,1-7).
    Questo modo di pensare il suo Dio contribuì a tenere sempre viva nella coscienza del popolo la tensione verso il futuro e il nuovo, verso un compimento pieno della sua storia.
    Il secondo rilievo è che, alla luce della sua immagine di Jahvé quale salvatore dalla schiavitù dell'Egitto, Israele ripensò anche il tema del Dio creatore del mondo, già presente precedentemente nella sua coscienza.
    Venne così a concepire la creazione del mondo come il primo atto della storia della salvezza da Lui realizzata germinalmente nell'esodo ma destinata a una realizzazione piena nel futuro.
    Benché Israele - è il terzo rilievo - abbia considerato in un primo momento questo Dio Jahvé come un Dio esclusivamente suo, analogamente a come facevano gli altri popoli con i loro dèi, a poco a poco andò imparando a pensarlo sempre più come il Dio di tutte le genti, impegnato nel realizzare con tutti i popoli ciò che aveva cominciato a fare emblematicamente con lui.
    Alcuni profeti, come il cosiddetto Deuteroisaisa, ebbero un grande influsso in questo processo di apertura verso l'universalismo.
    Come quarto rilievo bisogna notare che il popolo dell'A.Testamento restò segnato per sempre, anche nella sua fede, dal carattere conflittuale della sua esperienza iniziale.
    Il Dio da loro sperimentato nell'esodo fu un Dio-che-prende-partito, un Dio-che-lotta, appunto perché si fa alleato di un gruppo umano in situazione di conflitto e non in situazione pacifica.
    Questo suo farsi alleato del gruppo debole, oppresso e sfruttato per la sua salvezza, comporta di rimbalzo un suo dissociarsi dall'altro gruppo in quanto responsabile di tale situazione.
    Infine, chi legge l'A.Testamento con certa attenzione scopre facilmente che, insieme all'immagine di Dio sopra delineata nei suoi tratti essenziali, appaiono qua e là più di una volta dei tratti delle immagini delle divinità dei popoli vicini, quelle divinità che riflettono una religiosità a sfondo naturale, segnata soprattutto dalla paura.
    Di essi Israele se ne andrà purificando lentamente lungo la sua storia.

    L'esperienza di Dio in Gesù di Nazaret

    Gesù nacque, come uomo e come credente, nel grembo del popolo d'Israele. Da esso, attraverso la sua famiglia indubbiamente, ebbe inizialmente la fede. Abbiamo il diritto di pensare che l'ha per così dire bevuta con il latte materno. E, con la fede, gli venne anche l'immagine di Dio.
    Eppure, se il suo modo di concepire il regno di Dio è diverso da quello dei farisei, degli esseni, degli zeloti, dei sadducei e dello stesso Giovanni il Battista, è perché il suo modo di concepire Dio è diverso.
    La ragione sta nel fatto che, come si è detto precedentemente, ognuno di questi gruppi e lo stesso Giovanni focalizzava con speciale enfasi certi tratti del volto del Dio dell'esodo a preferenza di altri. Focalizzazioni che finivano per deformarlo, producendo degli effetti deleteri nella vita della gente.
    Perciò Gesù agisce in primo luogo per liberare Dio dalle contraffazioni che lo oscurano o lo travisano.
    I vangeli attestano, infatti, il suo tenace impegno per liberare il popolo da un'immagine oppressiva e soffocante di Dio che gli scribi e i farisei avevano creato e si ostinavano a mantenere. Lo fa soprattutto spogliando la Legge di Dio del suo carattere di pesante imposizione, e restituendole il suo senso originale di luce che illumina la strada che porta alla vita. Per lui la Legge è sempre e solo strumento al servizio della vita (cf Mc 3,1-6).
    Inoltre, gli stessi vangeli attestano la sua lotta instancabile per far scomparire le barriere emarginatrici create in base a determinate maniere di concepire il rapporto con Dio. Egli manifesta così che non è Dio che separa automaticamente alcune persone da altre (i peccatori dai giusti, i poveri dai ricchi e potenti, le donne dagli uomini), ma che tutto ciò viene dal cuore cattivo degli uomini.
    Infine, nei vangeli ci sono chiare tracce del suo darsi da fare per smascherare e denunciare il ruolo contraddittorio che i gruppi dirigenti facevano svolgere a Dio in mezzo al popolo: essi convertivano il Dio della vita e della liberazione in un Dio di morte e di schiavitù.
    Ma, oltre a cercar di liberare la gente dalle false immagini di Dio che circolavano nel popolo, egli propone la sua propria immagine, che è frutto della sua profonda esperienza personale del Dio dell'esodo. Qual'è quest'esperienza?
    Per rispondere a questa domanda bisogna rifarsi anzitutto ad un dato che hanno conservato alcuni scritti neotestamentari: Gesù si rivolgeva a Dio invocandolo come "Abbà" (cf Mc 14,36; Rom 8,15; Gal 4,6).
    Studi fatti da specialisti in materia hanno portato a riconoscere in questo appellativo una delle "stessissime parole di Gesù", cioè una delle espressioni sulla cui autenticità storiche non ci sono dubbi.
    Essa proviene dalla lingua parlata sin dall'infanzia da Gesù, ed è l'appellativo con il quale principalmente i piccoli, ma anche i figli adulti nell'intimità famigliare, si rivolgevano al loro genitore. Va tradotta non come "padre", ma come "babbo" o "papà".
    Con questo appellativo egli esprime, appunto, il suo modo di esperire e di concepire il Dio del suo popolo come "l'anti-male benevolo, sollecito, che non vuole ammettere la supremazia del male sugli uomini e si rifiuta di dare a questo male l'ultima parola; come il Padre sollecito che dona avvenire ai suoi figli, un Padre che dà avvenire soprattutto a chi, visto da questo mondo, non può più sperare in nessun avvenire" (J.BLANK, Gesù di Nazaret).
    A differenza del suo precursore, Giovanni il Battista, egli annuncia perciò gioiosamente che questo Dio è tutto intento alla salvezza, al bene definitivo di ogni uomo, senza distinzione alcuna, ma specialmente di coloro che sono poveri, deboli o esclusi; che il suo regno coincide con la pienezza di vita e di felicità degli uomini; che questo Dio è in pienezza ciò che era stato intravisto nell'avvenimento originante dell'esodo, ossia Colui che è con l'uomo contro tutto ciò che non lo lascia essere se stesso, e a favore della sua integrità.
    Quello che egli dice su Dio costituisce pertanto veramente un "vangelo", una buona e lieta novella per gli uomini, specialmente per i più bisognosi e piccoli.
    Con questo Dio egli dà segni di vivere in un rapporto di strettissima figliolanza, in una comunione singolarissima che esprime, umanamente, mediante l'invocazione inusitata già sopra ricordata.
    Come sia umanamente arrivato a quest'esperienza personale d peculiare di Dio, quale sia stato il processo psicologico attraverso il quale essa si aprì strada nella sua coscienza di uomo, quali siano stati i fattori immediati che la provocarono, quale il momento preciso in cui sia avvenuta, tutto ciò rimane a noi inaccessibile perché i vangeli, scritti con altre intenzioni e con altra mentalità, non forniscono dei dati al riguardo.
    Ciò che risulta certo è che egli visse ancorato a quest'esperienza fondante, e da essa trasse per se stesso e per gli altri luce, energie e vita.

    3. Il Dio della Pasqua

    Come si è detto, Gesù svelò il volto di Dio soprattutto nella sua attività in ordine alla causa del regno. Agendo in un determinato modo piuttosto che in un altro, egli fece sapere chi era questo Dio del regno: un Dio che, ad ogni costo e malgrado tutto, vuole la vita degli uomini, a cominciare da quelli che di vita ne hanno di meno.
    I suoi discepoli lo andarono imparando a poco a poco da lui, dai suoi comportamenti, dal suo agire, dalle su parole. A contatto con lui a poco a poco si sono anche andati liberando dalle deformazioni che nel correre dei secoli gli uomini avevano creato sul volto del Dio del loro popolo.
    Ma fu soprattutto dopo sua la morte e la sua risurrezione che essi riuscirono a capire con definitiva chiarezza chi era questo Dio. Essi cominciarono da allora a parlare del "Padre del signore nostro Gesù Cristo" (Ef 1,3), del "Dio che risuscita i morti" (Rom 4,17) e, con un'espressione che condensa tutto, del Dio "Amore" (1 Gv 4,8.16).
    Per capirne il significato bisogna esaminare, sia pur brevemente, cosa fu l'avvenimento pasquale.

    3.1. La Pasqua e Gesù

    È chiaro negli scritti neotestamentari che tale avvenimento riguarda, in primo luogo, Gesù di Nazaret in persona, ossia che è qualcosa che successe a e in lui stesso.
    Ridotto all'essenziale, questo "qualcosa" ripropone, con le caratteristiche che gli sono proprie, lo schema veterotestamentario dell'esodo.
    Si configura, infatti, come un processo dinamico attraverso il quale, ad opera di Dio, quel Gesù con il quale hanno convissuto e che hanno imparato a conoscere stando a suo fianco, esce da una situazione estremamente negativa per entrare in una nuova situazione totalmente positiva.
    Il punto di partenza di questo processo è la situazione di morte in cui, a un certo momento della sua attività per la causa del regno e a motivo del suo modo di comportarsi e di agire, venne a trovarsi Gesù.
    Gli uomini del suo popolo -più in concreto i suoi capi politici e religiosi- lo estromisero violentemente dalla società d'Israele (At 2,23; 3,13b-15, ecc.).
    Egli dava loro fastidio tra altre cose per la sua maniera di pensare Dio e di parlare di Lui, tanto che lo accusarono di bestemmia (Mt 26,65). Intuivano che, se egli continuava a parlare così di Dio e ha farlo "funzionare" in quel modo tra il popolo, avrebbero dovuto acconsentire a cambiare tutto l'assetto della convivenza collettiva, rinunciando tra l'altro alla loro situazione di privilegio.
    Decisero quindi di eliminarlo. La sua fu una morte corporale certamente, e molto violenta dal momento che lo appesero ad una croce come uno schiavo, ma anche psichica, sociale, e perfino religiosa: intendevano espellerlo dal popolo di Dio.
    Dio invece, il "Dio dei padri", intervenne in favore di Gesù: con la sua straordinaria potenza (Ef 1,19-20), mediante la forza vivificante del suo Spirito (Rom 1,4), lo strappò dai lacci dell'Abisso (At 2,24), esaltandolo alla sua destra (At 2,33) e costituendolo quale Cristo e Signore (At 2,36,ecc.).
    Lo sbocco finale di questo intervento di Dio fu la nuova situazione i cui il crocifisso venne a trovarsi: egli è "vivo" (At 1,3), anzi "il Vivente per i secoli dei secoli" (Ap 1,17), è "spirito vivificante" (1 Cor 15,45), e su di lui la morte non ha più nessun potere (Rom 6,20).

    3.2. La Pasqua e le comunità credenti

    Occorre ancora aggiungere che, se questo avvenimento è visto dai credenti come avvenimento di salvezza, anzi come l'avvenimento di salvezza per eccellenza da parte di Dio, è perché esso non concerne solo Gesù di Nazaret, ma anche loro stessi e, più in là ancora, tutti gli uomini, l'umanità intera.
    Ciò viene espresso dalla comunità neotestamentaria in diverse maniere: con la proclamazione gioiosa dell'avveramento della Promessa di benedizione fatta da Dio all'inizio (Gen 12,3 e Gen 3,15), e portata in grembo nella speranza da Israele per secoli (At 3,25-26); con la confessione di Gesù come "primizia" (1 Cor 15,22-23) e "primogenito tra i morti" (Col 1,18b); mediante la molteplice esperienza dell'effusione escatologica dello Spirito di Dio (At 2,1-4, ecc.); attraverso un nuovo modo di vivere cercando, grazie a questo Spirito, di avere "un cuor solo e un'anima sola" e "mettendo tutto in comune" affinché tra di loro "non ci fosse nessun bisognoso" (At 4,32-35); con la gioia propria dei tempi escatologici, frutto e pegno anch'essa della presenza dello Spirito (At passim); e, finalmente, mediante l'impegno attivo, provocato e sostenuto dallo Spirito, per salvare (risuscitare) gli uomini, guarendo gli ammalati, liberando gli oppressi dagli spiriti, ecc. (At 3,1-9; 5,15-16, ecc.).

    3.3. Il volto del Dio della Pasqua

    È da questo denso insieme di cose riguardanti Gesù stesso e l'umanità tutta che si coglie l'immagine di Dio della Pasqua, immagine che, in poche frasi, potrebbe esprimersi così: il "Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo" (Ef 1,2) è un Dio che si manifesta come tenacemente impegnato nello strappare Gesù di Nazaret, suo Figlio, con la Potenza del suo Spirito vivificante dalla Morte, e in lui l'intera umanità, per portarli verso la pienezza definitiva della Vita.
    Come si può vedere, quindi, tra il Dio vissuto e proclamato da Gesù di Nazaret e quello vissuto e proclamato dalle prime comunità cristiane c'è allo stesso tempo una sostanziale continuità e una certa novità. La continuità è chiaramente percettibile. In realtà, il Dio della Pasqua è il Dio del regno annunciato da Gesù. I tratti fondamentali del suo volto sono gli stessi.
    La novità viene invece data, in primo luogo, dalla realizzazione, per la prima volta nella storia, della salvezza sognata da Dio per l'uomo.
    Infatti, prima della Pasqua, Dio si rivelava per mezzo di Gesù in azioni salvifiche soltanto parziali. Poneva, attraverso il suo agire, in cui si manifestava una forza vivificante straordinaria, dei segni salvifici veri, ma non ancora pieni e definitivi: i risorti da lui tornarono al sepolcro.
    Nella Pasqua invece Dio rivela la salvezza totale e definitiva. Come realtà e, allo stesso tempo, come segno di ciò che la sua radicale volontà di Vita per l'uomo, individuale e collettivo, ha progettato. È in definitiva nel suo risuscitare Gesù di Nazaret dalla Morte che egli svela ciò che vuole dire di Se stesso agli uomini.
    Ma c'è una seconda novità: le prime comunità cristiane parlano sempre di Dio raccontando la storia della salvezza in cui si sentono coinvolti, e facendo riferimento, in tale storia, al protagonismo di tre "figure" strettamente collegate tra di loro: Dio, il Padre; Gesù, il Figlio; e lo Spirito.
    In questo senso essi esprimono, in qualche modo, l'esperienza che aveva fatto Gesù stesso durante la sua vicenda: egli, come abbiamo visto sopra, si sentiva intimamente e profondamente figlio del Dio vivente, fino al punto di chiamarlo suo "abbà", e allo stesso tempo "sentiva forza uscire da sé" (Lc 8,48), una forza vivificante che guariva gli ammalati, metteva in fuga gli spiriti cattivi e risuscitava i morti.


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