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    Il futuro della fede tra esperienze salvifiche e “nuove narrazioni” di Dio e della vita



    Carlo Molari

    (NPG 1982-7-23)


    Chi voglia dare una valutazione degli attuali processi di socializzazione nella fede cristiana deve prima di tutto esaminarne i risultati immediati nei comportamenti dei giovani. Allo stesso modo chi voglia programmare una più efficace catechesi deve esaminare la situazione e le caratteristiche della fede giovanile.
    Il teologo perciò ed il catecheta devono partire da un'analisi della condizione giovanile che essi, d'altra parte, non possono compiere con gli strumenti delle loro scienze rispettive. Devono perciò affidarsi ad altri. Per fortuna sono state numerose, in questi ultimi anni, le ricerche sulla religiosità giovanile per cui non mancano stimoli di riflessione.[1]

    CARATTERISTICHE FONDAMENTALI

    Un dato comune che sembra ritrovarsi in molte ricerche deve essere attentamente valutato. È quello che G. Milanesi chiama frammentarietà” e Th. Luckmann e G. Quaranta chiamano “sincretismo culturale”.
    Restando nel campo dell'esperienza religiosa cattolica “frammentarietà” significa varietà e differenze notevoli nelle domande religiose, ma anche incongruenze tra le componenti religiose di uno stesso soggetto, per cui “il vissuto religioso non sembra definibile in termini di opzione organica e integrata, dotata di coerenza e di continuità, ma piuttosto come disarticolato coacervo di domande non ben gerarchizzate e finalizzate”.[2]
    Nella stessa linea, mi sembra, Quaranta conclude la ricerca da lui diretta sui gruppi italiani asserendo che “praticano e sperimentano più forme di religione”.[3] Più dettagliatamente Th. Luckmann riferendosi ai risultati della stessa ricerca afferma che “all'interno dei gruppi giovanili, si è sviluppato qualcosa di simile a un sincretismo semipermanente fra elementi eterogenei, provenienti sia dalla cultura cattolica, che da quella della modernizzazione... In superficie, a ogni modo, gli elementi in gioco nel processo sincretico appaiono tra loro incompatibili. Questa, tuttavia, è esattamente la definizione di sincretismo, vale a dire il far coesistere elementi che sembrano incompatibili”.[4]
    Questa eterogeneità sfocia necessariamente nella “frammentazione del movimento cattolico in una costellazione di gruppi, ognuno dei quali, ha assunto un campo di percezione particolaristico”.[5]
    Frammentarietà ed eterogeneità si traducono quindi in molteplicità e pluralismo, ma rivelano anche una omogeneità di fondo ed una struttura relativamente stabile.[6]

    INGRESSO DELLA SOGGETTIVITÀ

    Per una valutazione teologica e pastorale è necessario seguire il sociologo anche nella individuazione delle cause immediate del processo religioso così caratterizzato. Una delle cause più facilmente individuabili è quella che Milanesi chiama “un generale fenomeno di soggettivazione della religiosità giovanile”[7] e Luckmann “mentalità soggettivistica moderna”,[8] incompatibile con “la tradizionale cultura cattolica ultramondana”,[9] mentre Quaranta parla della “definitiva assunzione di un altissimo tasso di mentalità informale e relativizzante, di una mentalità, cioè, che è tipica della modernità e che è l'effetto più rilevante sul piano personale dei processi di modernizzazione”.[10]
    La soggettività si esprime nella “tendenza a subordinare la domanda di religione ai bisogni di identità individuale, di autorealizzazione, di autovalutazione” ma anche nella esigenza di “protagonismo, cioè una disponibilità attiva e creativa per una riappropriazione del religioso in chiave soggettiva... e con una evidente richiesta di esperienze religiose entro aggregazioni vitali e vivaci”.[11]
    L'informalità, d'altra parte, è quel “mito moderno... che non ammette norme, valori stabiliti, conoscenze precostituite, e soprattutto rifiuta l'autorità manifesta”,[12] appunto perché si richiama all'ambito della soggettività e della verifica esperenziale.
    Questi elementi culturali si potrebbero forse ricondurre a quella che H. Gadamer considera “verosimilmente la più importante fra le rivoluzioni da noi subite dopo l'avvento dell'epoca moderna”:[13] la coscienza storica. Essa non consiste in una più dettagliata conoscenza della storia e neppure nel senso storico, cioè nella capacità di integrare i singoli fenomeni nel quadro più generale degli avvenimenti di una società o dell'umanità intera. Coscienza storica è “l'arte di grande levatura... dell'assumere un atteggiamento critico rispetto a se stessi quando si accolgono le testimonianze della vita passata”[14] oppure, con altra formula, coscienza storica è “la consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività di tutte le opinioni”.[15] La coscienza storica è stata la conseguenza immediata dell'irruzione del soggetto nella cultura moderna; è quindi una caratteristica inequivocabile del nostro tempo. Essa condiziona anche la vita di fede e deve perciò guidare anche le scelte pastorali.

    MODELLI CULTURALI INADEGUATI

    L'ingresso della soggettività ha avuto una particolare incidenza anche a causa di alcune modalità tipiche dell'evangelizzazione e della catechesi degli ultimi secoli. In primo luogo la educazione alla fede avveniva con moduli prevalentemente dottrinali, senza dare spazio sufficiente alla verifica esperenziale.
    In secondo luogo l'insegnamento della dottrina cristiana avveniva con modelli culturali sorti in altri tempi e quindi corrispondenti ad interpretazioni del mondo e della storia ormai in gran parte desueti. Di fatto però la fede si diffondeva e si alimentava con meccanismi indipendenti dall'insegnamento dottrinale e dai modelli culturali utilizzati. Dove perciò la fede si è diffusa ed è stata vissuta in modo autentico essa ha saputo utilizzare modelli culturali diversi e si è formulata con modalità nuove.
    La medesima fede in Cristo salvatore, infatti, veniva vissuta con interpretazioni così disparate e veniva spiegata con dottrine così diverse, da dare l'impressione di profonde divisioni e di incongruenza rispetto alla fede del passato.
    Ma generalmente (a parte in qualche teologo) formule e spiegazioni sono rimaste settoriali: hanno riguardato cioè questo o quell'ambito della fede, ma non hanno abbracciato tutti gli aspetti della dottrina. Si è parlato in modo nuovo di Cristo o dei sacramenti, ma si è continuato ad utilizzare lo stesso linguaggio per Dio e per la sua azione nel mondo. Si è parlato in modo diverso del peccato, ma ci si è serviti dello stesso modello per spiegare la redenzione dell'uomo. Questo ha portato necessariamente ad una frammentazione teologica e dottrinale, ad incongruenze culturali e pratiche.
    Ma ciò non ha impedito una fondamentale omogeneità nella vita di fede e quindi una coscienza tranquilla di “appartenenza” al popolo dei credenti nonostante diversità anche notevoli con altri credenti. L'oggetto infatti della fede cristiana è una serie di eventi considerati come rivelatori e salvifici. La fede perciò consiste nell'accogliere la verità di un evento e non di una dottrina. Credere è inserirsi in una tradizione vitale sorta da Gesù di Nazaret e continuarne nel tempo l'efficacia salvifica. È costituire comunità che facciano crescere persone autentiche nel nome di Gesù. È rispondere alle sollecitazioni della storia con una creatività che appaia fedele allo Spirito di Gesù risorto attraverso le invenzioni salvifiche.
    Il criterio della fedeltà sta solo nella salvezza in atto: dove sorgono santi, lo Spirito è in azione; dove si impara ad amare in forme inedite, dove si realizza la giustizia, dove il regno di Dio viene, nel nome di Cristo, esiste la fede. La fede vissuta stabilisce un orizzonte di sufficiente omogeneità e coerenza. Ma essa è necessariamente instabile se non riesce a costruirsi un corrispondente orizzonte culturale omogeneo e unitario.
    Una delle ragioni di incongruenza e di frammentarietà che si registrano nella religiosità giovanile sta appunto nel fatto che modelli tradizionali nell'ambito religioso non possono più essere utilizzati con convinzione, eppure sono ancora frequenti nelle prediche, nelle giustificazioni della fede, nelle espressioni religiose.
    Non sempre, d'altra parte, chi avverte questa incongruenza è in grado di introdurre modelli nuovi. È portato perciò a valorizzare i dati esperenziali della fede, che lo introducono nel cuore delle sue scelte vitali, e a trascurare gli aspetti linguistici e culturali della fede. Il che rende molto meno significativa la sua testimonianza e a lungo andare rende anche precaria e instabile la stessa esperienza di fede.
    È forse opportuno prendere in esame alcuni modelli di pensiero che a mio giudizio, offrono particolari resistenze all'uso attuale.

    Come parlare dell'azione di Dio nel mondo?

    Spesso per parlare dell'azione di Dio si utilizzano modelli antropomorfici. Essi esprimono l'operare di Dio come se fosse di una creatura tra altre creature; come se cioè Dio agisse “intervenendo” tra un'azione ed un'altra delle cose create.
    Questo modo di pensare non sembra adeguato alla attuale visione del mondo. La scienza ha messo a punto modelli interpretativi della realtà nei quali non vi è alcun spazio per azioni non rilevabili in se stesse.
    La stessa teologia, d'altra parte, ha sempre cercato di considerare l'agire di Dio come “trascendente” e non “predicamentale”. In altre parole, Dio opera creando, fondando alla radice la realtà creata, alimentando come vita ogni esistenza, come verità ogni ricerca, come Bene ogni amore, come Giustizia ogni esigenza di uguaglianza, ecc. Ma non si sostituisce alle creature né sembra possa farlo; se Egli è Dio non può agire che in modo divino. Una madre non può, ad es., mettere al mondo un figlio e ritenersi esente dall'amarlo, convinta che l'amore di Dio possa supplire. L'amore di Dio non può pervenire ad un infante se non si traduce in amore umano.
    Questo modo di intendere l'azione di Dio corrisponde esattamente alla legge dell'incarnazione, che è legge fondamentale della storia salvifica. È chiaro che questo modello interpretativo ha incidenze notevoli nel modo di vivere la preghiera, di interpretare i miracoli, di formulare la propria fede nella Provvidenza. Non si prega per convincere Dio ad intervenire negli eventi umani, ma per aprirsi alla sua azione già presente in modo sovrabbondante. Il miracolo non è tanto risultato di un agente non creato, quanto l'espressione di una energia creata che in particolari circostanze, quali quelle create dalla fede o dalla preghiera, produce risultati diversi.
    La Provvidenza non è il complesso delle supplenze divine che darebbe cibo a chi non lo ha, o salverebbe dalla morte chi è minacciato da pericolo grave, o fornirebbe energie a chi deve superare un ostacolo. Se fosse così ogni volta che un uomo muore, o che un innocente soccombe a circostanze crudeli, o che un bambino subisce le conseguenze dell'egoismo che lo circonda, si dovrebbe dire che l'amore di Dio non è intervenuto. La Provvidenza è l'azione con cui Dio guida l'uomo alla sua pienezza di vita, alimentando costantemente la sua tensione vitale, offrendogli la possibilità di vivere ogni situazione, favorevole o meno, in modo da crescerne come persona umana. Dio non si sostituisce alle cause concrete, le suscita; non supplisce l'amore umano, lo alimenta.
    Questo modo di pensare è implicitamente diffuso dalla visione scientifica del mondo ed anche dal modo cristiano di intendere la storia salvifica retta dalla legge dell'incarnazione. Ma di fatto molte formule di fede tradizionale, come anche molte formule bibliche, sorte quando il modo di pensare all'azione di Dio era diverso, continuano ad essere usate incongruentemente.
    Chi ha coscienza di questa inadeguatezza ricorre alla metafora o alla analogia, e può continuare ad esprimersi allo stesso modo senza cadere in contraddizioni interne. Ma chi non è consapevole di questa possibilità o rinuncia ad ogni espressione religiosa o vive la propria fede con moduli frammentari e incongruenti.

    A quale concezione di uomo fare riferimento?

    Un altro esempio semplice concerne il modo di interpretare l'uomo e la sua esistenza. I modelli supposti da molte formule di fede sono di tipo dualistico e statico: dualistico perché parlano di due componenti della realtà umana (anima-corpo; materia-spirito) ed anche di quella religiosa (natura-soprannatura; natura-grazia); statico perché si pensa all'uomo costituito tale fin dall'inizio.
    I modelli invece in uso corrente nelle formule culturali moderne sono prevalentemente di tipo unitario e dinamico. Suppongono l'uomo in divenire costante non solo in superficie ma nella identità personale. Per questo motivo non hanno bisogno di ricorrere a schemi dualistici. Le novità che emergono nello sviluppo della persona non sono semplicemente delle potenzialità attuate, sono offerte nuove, doni che gli altri fanno. Anche le forme definitive di esistenza, che con antichi modelli venivano collegati all'immortalità dell'anima, in questa prospettiva risultano essere “grazia”, offerta gratuita di chi amandoci ci fa crescere fino alla soglia della vita eterna.
    Non vi è alcuna necessità di ricorrere a una duplice struttura vitale e operativa (naturale-soprannaturale) o ad una duplice chiamata, la prima per essere uomini e l'altra per divenire figli di Dio: “la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina” (GS 22).
    Tale modo di concepire l'uomo e il suo divenire ha notevoli incidenze nelle formule relative alle scelte operative, al suo rapporto con Dio, alla descrizione della vita eterna, al valore dei sacramenti, ecc...

    ESPERIENZE SALVIFICHE E NARRAZIONI EFFICACI

    In tempi di frammentarietà e di facili incongruenze è necessario richiamarsi più frequentemente possibile all'essenziale.
    Il dato fondamentale della fede cristiana è la morte e risurrezione di Cristo come evento salvifico, evento, cioè, attraverso il quale Gesù è stato costituito da Dio Messia e Signore (cf At 2,36). Due aspetti, perciò strutturano la fede: uno passato, pervenutoci attraverso le esperienze salvifiche degli Apostoli, ed uno presente, che riguarda la nostra salvezza. Quando S. Paolo voleva riassumere con un semplice tratto la fede scriveva: “se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9). Confessare Gesù Signore implica riconoscere un fatto presente: egli salva.
    Ma per asserire la salvezza che viene da Cristo è necessario verificare in sé o negli altri che, anche oggi, nel suo nome è offerta salvezza agli uomini. Che è possibile, cioè, crescere come persone umane, amare in modo oblativo, realizzare la giustizia, scoprire il senso della sofferenza e della morte. Finché non avviene qualcosa nel presente, Gesù non può essere proclamato come Cristo e la fede in lui non è possibile. Non è sufficiente, perciò, esporre una dottrina relativa a Gesù, anche perfetta, per essere riconosciuti credenti, è necessario “mostrare la forza dello Spirito”, quella che può essere vista e udita (cf At 2,33: “come voi stessi potete vedere e udire”), quella che si traduce in esperienze che non possono essere fatte invano (Gal 3,4).
    Annunciare perciò la fede è ripetere racconti di salvezza, narrare di un Dio “che dona lo Spirito ed opera meraviglie” (Gal 3,45). L'efficacia della proposta di fede non poggia “su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (cf 1 Cor 2,4). Anche le narrazioni sono momenti manifestativi dell'azione salvifica di Dio.
    Educare alla fede, perciò, è creare le condizioni nelle quali possano fiorire racconti salvifici. Ci sono momenti nei quali non è possibile fare altro che raccontare la storia delle meraviglie di Dio. Ma la narrazione deve essere tale da suscitare la fede ed alimentare la speranza, cioè da cambiare la vita.
    “Quando il grande Rabbino Israel Baal Shem Tov vedeva che la sfortuna minacciava gli ebrei, si recava d'abitudine in una certa parte della foresta a meditare. Lì accendeva un fuoco, pronunciava una preghiera speciale e il miracolo avveniva e la sfortuna veniva evitata.
    Più tardi quando il suo discepolo, il celebre Magid di Mezritch, dovette intercedere, per la stessa ragione, presso il Signore, andò nello stesso posto della foresta e disse: "Maestro dell'universo, ascolta! Non so come accendere il fuoco, ma sono ancora in grado di pronunciare la preghiera". E di nuovo il miracolo avvenne.
    Ancor più tardi il Rabbino Moshe Leib di Sasov, per salvare di nuovo il suo popolo, si recò nella foresta e disse: "Non so come accendere il fuoco, non conosco la preghiera, ma conosco il luogo e ciò deve essere sufficiente". Infine toccò al Rabbino Israel di Rizhyn di vincere la sventura. Seduto sulla sua poltrona, la testa affondata nelle mani, egli parlò a Dio dicendo "sono incapace di accendere il fuoco e non conosco la preghiera; non posso nemmeno trovare il posto nella foresta. Tutto ciò che posso fare è raccontare la storia e ciò deve essere sufficiente". Ed era sufficiente”.[16]
    Ciò che rende significativo un racconto salvifico è appunto il fatto che è sufficiente a suscitare fede perché modifica la situazione e permette di percepire l'azione di Dio.

    MODELLI CULTURALI ARMONICI IN CUI DIRE DIO E LA VITA

    Ma anche le narrazioni e le spiegazioni che le accompagnano possono essere inefficaci. Ciò avviene quando il presente vitale non è espresso e il narratore non è coinvolto nel racconto. Quando non c'è comunicazione di energia, quando chi racconta non è "testimone". Oppure quando la testimonianza è offerta con modelli culturali che confondono il messaggio e lo rendono inaccettabile.
    Queste due condizioni debbono ritrovarsi senza eccezione nei processi di socializzazione della fede se si desidera ottenere effetti duraturi. L'impegno perciò di una comunità ecclesiale che voglia garantire la sua continuità dovrebbe essere quello di creare spazi di esperienza salvifica, moltiplicare cioè le occasioni di scambi di energia vitale, e nello stesso tempo quello di offrire modelli culturali accettabili così da suscitare racconti efficaci.
    Spazi di esperienze salvifiche sono tradizionalmente aperti dai momenti sacramentali. La vittoria sul male, l'approfondimento della comunione, la possibilità di amare in modo nuovo, la solidarietà con i sofferenti e i bisognosi, la gioia del perdono e dell'accoglienza sono modalità concrete della salvezza in atto.
    Ma perché i sacramenti diventino espressioni reali di queste esperienze è necessario che utilizzino moduli simbolici in sintonia culturale con il linguaggio quotidiano.
    Allo stesso modo i racconti salvifici sono accettabili ed efficaci se formulati in termini non solo comprensibili ma armonici con le narrazioni degli eventi quotidiani. Tale armonia si realizza solo quando i modelli interpretativi dell'uomo, della sua esistenza, dell'azione di Dio, del cosmo sono i medesimi sia per le esperienze religiose che per quelle profane.

    CONCLUSIONE: ALCUNE SCELTE PASTORALI

    Si potrebbero moltiplicare gli esempi di questa incongruenza culturale. Essi riguardano tutti gli aspetti della formulazione della fede come pure della pratica sacramentale.
    Ma questi accenni sono già sufficienti per individuare quali scelte pastorali compiere in vista di una corretta educazione alla fede.

    Moltiplicare i luoghi di esperienze salvifiche

    In primo luogo occorre moltiplicare momenti e luoghi di esperienze salvifiche. La chiesa italiana sembra privilegiare ancora eccessivamente l'indottrinamento come aspetto primario nella socializzazione religiosa. Ed anche le offerte sacramentali sono spesso ancora presentate in modo quasi magico, legate cioè ad una straordinaria o miracolosa azione di Dio. I sacramenti sono simboli della vita e dei suoi valori accolti nella fede o in riferimento a Cristo. Valgono solamente se esprimono la vita e se ne stimolano lo sviluppo.
    È necessario perciò programmare momenti di perdono esercitato, di amicizia ristabilita, di giustizia realizzata in forme nuove, di sofferenza portata insieme, di preghiera ristoratrice.
    Per la crescita della comunità ecclesiale sono forse stati più utili le iniziative di solidarietà con i terremotati dell'Irpinia o con gli operai di Solidarnosc; gli incontri con cristiani del terzo mondo programmati dalle diverse diocesi, o le forme di volontariato attivo; le iniziative di comunione nella gestione delle parrocchie o della pastorale diocesana, più di tutti i documenti dottrinali e le spiegazioni teologiche. Ma ciò non perché il "fare" sia più importante del pensare, ma solo perché solo nell'esercizio della fede è possibile cogliere il valore delle formule che ci sono state trasmesse ed inventare le nuove espressioni della salvezza.

    Stimolare nuovi modelli interpretativi della fede

    In secondo luogo occorre stimolare maggiormente l'adeguamento dei modelli interpretativi della fede. Le forme di sincretismo religioso e di frammentarietà non possono durare a lungo. La loro relativa stabilità viene dal fondamento esperenziale che è ancora abbastanza profondo nel piccolo resto dei credenti, ma le forme espressive della fede (siano essere narrazioni, simboli o gesti rituali) non possono a lungo restare inadeguate ai modelli culturali correnti.
    Se fino ad ora la chiesa italiana ha retto con sufficiente stabilità il confronto con il mondo moderno è stato perché di fatto essa istintivamente, per merito soprattutto di operatori pastorali illuminati anche se spesso lasciati in ombra, ha messo in opera meccanismi di evangelizzazione adatti alla situazione. Quaranta ne elenca alcuni: “occultamento dell'autorità,... ricorso a strumenti di formazione del consenso in alternativa ai precedenti canali di organizzazione della disciplina,... disarticolazione delle associazioni,... ricorso ai mass-media, riforma liturgica e riforma della catechesi, intensa diffusione di testi e documenti di teorizzazione esplicita di questa tendenza”.[17]
    Ma se questa azione non ha ancora condotto a forme omogenee di religiosità è perché manca un impegno sufficiente di adeguazione culturale.
    I modelli utilizzati sono ancora di compromesso. Tipico a questo proposito è il catechismo degli adulti che in alcuni punti fa notevoli passi avanti, scarta modelli interpretativi fino ad oggi ufficiali (come, ad esempio, lo schema della soddisfazione per interpretare la redenzione operata da Cristo), ma con molta attenzione a non farlo vedere.
    Evidentemente non si può fare tutto in una sola volta. Ma molti hanno l'impressione che in questo ambito siamo già in ritardo: numerosi uomini di cultura media sentono nel linguaggio ecclesiale, nei suoi modelli, nelle narrazioni delle sue esperienze un che di stantìo e di vecchio che non favorisce certo la comunicazione della fede ma spesso la impedisce.
    Ci sono forze numerose, ci sono movimenti molto dinamici; forse è sufficiente lasciare spazio a queste presenze, ascoltarle più attentamente e non temere eccessivamente i modelli nuovi nell'interpretazione della fede. Forse non è escluso che i santi del nostro tempo abbiano già a disposizione poeti nuovi e teologi capaci di offrire rime e formule per narrare le meraviglie di Dio nel nostro tempo, per cantare con gioia la fede.


    NOTE

    [1] Cf la bibliografia raccolta in G. Milanesi e varii, Oggi credono così, LDC, Torino 1981, soprattutto 1, pp. 55-56, 71-87. Ed inoltre G. Quaranta, L'associozione invisibile. Giovani cattolici tra secolarizzazione e risveglio religioso, Sansoni, Firenze 1982. Per gli studi precedenti il 1968 cf Aa. Vv., Giovani e futuro della fede, Studium, Roma 1977, pp. 127-169, 183-187.
    [2] G. Milanesi, Conclusioni. Una religiosità soggettivizzata e frammentata, in o.c., 364 (361-374).
    [3] “Quando parliamo, dunque, di sincretismo religioso, parliamo della cultura dei gruppi o di quello che i gruppi sono, come fenomeni sociali o fatti sociali in senso stretto, fermandoci sulla soglia o molto prima della soglia che è costituita dalle realtà di fede. Gruppi in conclusione, questi dell'aggregazione di base, che praticano e sperimentano probabilmente più forme di religione” (o.c., p. 327).
    [4] Th. Luckmann, Introduzione ad o.c., pp. VII-VIII.
    [5] G. Quaranta, o.c., p. 329.
    [6] Luckmann parla di “una cultura sincretica emergente che è già caratterizzata da una considerevole omogeneità” (o.c., p. X) e Quaranta di “omogeneità imprevedibile” (o.c., p. 335).
    [7] G. Milanesi, o.c., p. 365.
    [8] Th. Luckmann, o.c., p. XI.
    [9] Id., ib.
    [10] G. Quaranta, o.c., p. 329.
    [11] G. Milanesi, o.c., 1, pp. 365-366.
    [12] G. Quaranta, o.c., p. 329.
    [13] H. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1969, p. 27.
    [14] H. Gadamer, L'universalità del problema ermeneutico, in Filosofi tedeschi d'oggi, il Mulino, Bologna 1967, p. 107.
    [15] H. Gadamer, Il problema della coscienza storica, o.c., p. 27.
    [16] Eli Wiesel, The gates of the forest, cit. in Sheldon B. Kopp, Se incontri un Budda per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma 1975, pp. 25-26.
    [17] G. Quaranta, o.c., p. 338.


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