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    Il ragazzo dei cinque pani


    Ti racconto Gesù /4

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2012-06-56)


    La gratuità è parola bella, di cui possiamo anche riempirci la bocca… ma è lontanissima dai nostri modi di fare quotidiani. Quando faccio qualcosa, ho diritto alla ricompensa o almeno la devo cercare e aspettare, perché queste sono le regole normali del mercato della nostra vita. Il vecchio proverbio «neppure il cane muove la coda gratis» fa parte ormai della nostra cultura. Rappresenta un modo di pensare che giustifica abbondantemente la prassi diffusa.
    Questo modello l’abbiamo applicato anche al mistero di Dio, per dire a noi stessi chi è lui e per definire il nostro rapporto con lui.
    Basta pensare, con un poco di calma, a tanti modi di dire e a mille raccomandazioni su cui la tradizione educativa religiosa ha insistito abbondantemente. Sono in gioco due atteggiamenti apparentemente contrari: pretendere tutto da Dio o conquistarne i favori con qualche rinuncia. A prima vista sono modi di fare opposti. Ma hanno alla radice la stessa logica: Dio viene pensato come un padrone di cui conquistare i favori o da rappacificare con qualche donazione.

    Qualche momento tranquillo per verificare

    Ho l’impressione che questo modo di vivere la presenza di Dio ce l’abbiamo ormai nella struttura della nostra esperienza religiosa. Potrebbe documentare una specie di inculturazione riuscita.
    Sento l’urgenza di pensarci con un poco di calma, per districare l’intreccio tra teologia e modelli educativi che danno origine ad una esperienza consolidata di spiritualità. Solo, liberati da questi modelli, riusciamo a riscoprire il volto di Dio che è Gesù e lasciarci afferrare da lui, in libertà e responsabilità.
    Da questi modi di fare vorrei liberarmene per vivere intensamente l’incontro personale con lui.
    Il primo è quello più consolidato.
    Quando vogliamo ottenere un favore da una persona potente, gli facciamo cento inchini e gli presentiamo i segni della nostra dipendenza. Magari le nostre offerte sono povere, perché non abbiamo i mezzi per aumentare il budget. Suppliamo con l’entusiasmo, la devozione, l’insistenza.
    Facciamo così con Dio. Gli proponiamo le piccole scelte della nostra vita, come segno della nostra dipendenza e ci attendiamo i suoi favori. Persino la morte in croce di Gesu una certa teologia è riuscita a descriverla in questa logica mercantilistica: il prezzo alto da pagare – a nome nostro… troppi deboli per possedere un capitale adeguato – per ottenere il perdono.
    Mi fa paura.
    Gesù ci regala un volto di Dio che fa scendere la rugiada sui buoni e sui cattivi, senza chiedere prima una tessera di appartenenza. Ci assicura di essere stati amati gratuitamente e per primi. Il padre che butta le braccia al collo al figlio che torna a casa dopo il tradimento e la fuga sconsiderata, lo fa su totale decisione d’amore. Per questo, interrompe la cena di festa per accogliere anche il fratello bravo e casalingo. L’abbraccio non è in rapporto alla fedeltà dell’interlocutore, ma all’amore del Padre.
    A questa figura di Dio, tutta giocata in una tabella a doppia entrata tra dare e avere, fa da corrispettivo l’altra, egualmente strana, molto lontana dal volto di Dio che Gesù ci consegna.
    Chi si accorge di non essere in grado di pagare nulla, perché ha le tasche vuote e la coscienza incerta, si aspetta tutto da Dio. Resta immobile, rassegnato, come un terreno arido che aspetta tutto dalla prima pioggia. L’affidamento si fa totale. Quella collaborazione che, nel modello precedente, assicurava il diritto al dono, ora si svuota e si annulla.
    Affidiamo a Dio la soluzione di quei problemi che potrebbero essere affrontati adeguatamente, mettendo a frutto scienza, sapienza e competenza, come quando preghiamo per i problemi della fame nel mondo, con lo zaino pieno di nostri interessi.
    Anche questo modo di fare mi fa paura.
    Mi consegna un volto di Dio tanto diverso da quello che Gesù ci ha permesso di incontrare.
    Gli operai della vigna, quelli della prima ora e quelli dell’ultima, sono stati sollecitati a rendere disponibile la loro competenza operativa. Sono stati ripagati non sulla percentuale del lavoro svolto, ma sulla gratuità di un amore che cerca collaboratori e chiede a ciascuno di riconquistare la certezza di essere «soltanto servi».

    Condividere per assicurare l’abbondanza

    Ho pensato tante volte a questi temi. Mi sembravano decisivi per incontrare il volto di Dio nell’incontro con Gesù. E mi trovavo in difficoltà a concludere. Troppo seria era la questione e troppo dissonanti modelli e raccomandazioni diffuse, per arrivare ad una decisione da condividere in modo responsabile.
    In ultima analisi, la questione non è incontrare o non incontrare Dio, ma quale volto di Dio incontrare.
    Vogliamo affidarci a Gesù, cerchiamo le vie per consolidare questa ricerca e per orientare la nostra vita nell’incontro con lui. Ma Gesù è Dio tra noi, la sua prassi e le sue parole sono la manifestazione definitiva del volto di Dio. Per questo è decisivo sperimentare l’incontro con Dio nell’affidamento a Gesù e scoprire il suo vero volto nell’esperienza di Gesù. Sarebbe triste ritornare, con l’entusiasmo della nostra fede, a quel volto di Dio che Gesù contestava e per cui è stato processato e ucciso.
    Con questa inquietudine ho riletto il Vangelo. E ho sperimentato la gioia, puntuale pertinente, di una pagina che mi fatto pregare e pensare. La racconto dal vangelo di Luca (9,12-17), con l’invito a meditarla proprio dalla prospettiva del tema su cui stiamo riflettendo.

    Ci pensa Dio...

    Quel pomeriggio, sulla riva del lago di Genezareth, si era radunata una gran folla, per ascoltare Gesù. Erano arrivati in massa dai villaggi vicini, come capitava solo nelle grandi occasioni. Ormai il sole era al tramonto e una leggera brezza rinfrescava l’aria. Nessuno però se ne accorgeva. Avevano ben altro cui farsi attenti. Non si erano neppure accorti che il tempo stava volando via, inesorabile.
    Gesù diceva delle cose bellissime. Non le avevano mai sentite, così chiare e confortanti. Gesù, poi, le diceva con un’autorevolezza che dava conforto e sicurezza. Ci si accorgeva subito che le sue parole venivano da un’esperienza specialissima.
    Diceva: «Date un’occhiata ai bellissimi fiori che rendono allegri i prati qui attorno. Sono vestiti in un modo splendido. Re e regine chissà cosa darebbero per fare un giro agghindati in questo modo. Ma non ci riescono: non ci sono sarti capaci di progettare qualcosa di simile. I fiori li veste Dio, con un gesto d’amore gratuito. Pensate a quanto si preoccuperà di ciascuno di noi, se ha tanta cura di cose che domani saranno bruciate dal sole e spariranno nel nulla».
    Strano... non ci avevano mai pensato. Eppure è proprio così. Ma non è finito. Gesù aggiunge subito: «Guardate gli uccelli che volteggiano nel cielo. Nessuno muore di fame, anche se non hanno né granai né organizzazioni di soccorso. Ci pensa Dio a regalare a ciascuno ciò di cui hanno bisogno. Se si preoccupa tanto di qualche passerotto... provate ad immaginare l’amore che porta a ciascuno di noi. Siamo importanti per Dio. Tutti lo sono; soprattutto per Dio sono importanti quelli che contano quasi come un passerotto che vola nel cielo».
    Lo si ascoltava con gioia. Il tempo passava e nessuno ci faceva caso. Ogni parola che usciva dalla bocca di Gesù, era come un lungo abbraccio accogliente.
    Solo Gesù si è accorto del tempo che passava. L’amore arriva, per forza, a queste sensibilità. Si ferma. Si guarda d’attorno. Cerca di verificare lo stato delle cose. Poi, deciso, si rivolge a Filippo, che gli stava accanto. «Filippo... interrompiamo per qualche momento. Questa gente ha diritto a un po’ di riposo. Tu approfitta della pausa per distribuire qualcosa da mettere sotto i denti. Chissà la fame che ha questa povera gente... Hanno fatto un lungo viaggio per arrivare fin qua e poi si sono assorbiti quattro ore di conversazione».
    Filippo ha un attimo di smarrimento. «Gesù, nessun problema per l’intervallo. Il problema è l’altro: i panini per sfamare tutta questa gente». Aggiunge un altro discepolo: «Gesù, li ho contati, mentre tu parlavi. Sono quasi diecimila. Un record. Pensa quanto pane ci vorrebbe, per riempire almeno un buco nello stomaco di tutta questa gente...».
    «Che si può fare?», insiste Gesù con Filippo. La risposta non si fa aspettare, di una logica che non fa una piega: «La soluzione migliore è questa: arriviamo subito alla conclusione e poi manda ciascuno a casa propria. Non abbiamo pane. Non abbiamo soldi. Siamo in un luogo deserto. Non c’è proprio nulla da fare. Rimanda la gente a casa prima che diventi notte e...». Non dice «s’arrangeranno»... ma lo si capisce al volo.
    Gesù non ci sta davvero. Filippo l’ha proprio deluso. Sono anni che sta con lui... e guarda i frutti.
    «Filippo, la tua soluzione è assurda. Ho parlato del Padre che nutre gli uccelli e veste i gigli del campo... e tu mi consigli di finire dicendo a questa gente di tornarsene a casa a pancia vuota». Di Dio Gesù parla prima di tutto con i fatti. Assicura che è un Padre, buono e accogliente, perché restituisce la libertà alla povera peccatrice, la vita al ragazzo morto prematuramente, la salute alla donna piegata in due dalla malattia.
    Filippo va in crisi. Non sa davvero che pesci pigliare. Anche i suoi colleghi aspettano, ansiosi e incerti.
    Gesù prende l’iniziativa. Dice a Filippo: «Verifica se qualcuno si è portato con sé qualche panino». «Qualcuno si è portato dietro un po’ di provviste?», grida Filippo.

    Tutto è la misura giusta

    Si fa avanti un ragazzino con una piccola sporta. «Io ho cinque pani e qualche pesce. Me li ha dati mia mamma, prima di partire di casa. Stavo per mangiarli, quando ho sentito il richiamo di Filippo. Eccomi qua. Che c’è?».
    Gesù lo guarda con uno sguardo che incanta.
    «Senti – gli dice – voglio fare una scommessa con te. Tu mi dai tutte le tue provviste. Le dividiamo tra questa folla. Questa è la scommessa: dividendo il tuo pane, ci togliamo la fame tutti: tu, io, Filippo, i miei amici... tutta questa gente. Ci stai?».
    Il ragazzo è incerto. Pensa ai suoi panini, alla sua fame, al lungo viaggio per tornare a casa... Guarda la folla: tantissimi. Come possono essere sufficienti i suoi cinque pani?
    Tenta il colpo: generoso... ma non troppo. «Gesù, facciamo metà per uno: qualche panino per te e il resto per me. Non è una proposta da buttar via. Ti va?».
    Gesù non ci sta davvero. La sua richiesta è esigente: «Tutto». Solo così si possono togliere la fame tutti. «Se non vuoi, nessun problema. Ti tieni i tuoi panini e te li mangi. Non sarà facile. Avrai cento occhi puntati addosso. Qualcuno cercherà di portarteli via. Dovrai difenderti con i denti. Ma sono tuoi e hai diritto di fare quello che vuoi».
    Insiste Gesù: «La scommessa è questa: se me li dai e li dividiamo tutti, la vita cresce per tutti».
    Il ragazzo ci sta. Consegna a Gesù i suoi pochi pani e i quattro pesci. Incominciano a dividere e a mangiare. Più dividono e più il pane e i pesci aumentano. Ce n’è davvero per tutti: non un boccone alla svelta, ma una spanciata.
    Alla fine, raccolgono i pezzi avanzati. Si sono tolti la fame e ne restano ancora sette sporte piene.
    Gesù conclude: «È vero: il Padre nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo. Lo fa da solo. Per nutrire la fame degli uomini (quella di pane e quella di speranza), ha bisogno, invece, di collaborazione. Possiamo crescere nella vita solo se qualcuno rinuncia a quello che possiede, lo divide, lo regala per amore. L’abbiamo sperimentato questa sera. Tornate a casa e fate anche voi la stessa cosa. Arrivederci».
    La folla se ne va, preoccupata e pensosa.
    Erano abituati a sentirsi dire: «Rinunciate a quello che possedete. Sacrificatevi. Pensate a chi soffre e imparate a cercare anche voi un po’ di sofferenza, almeno per solidarietà».
    Gesù capovolge le raccomandazioni: «Sono venuto perché tutti abbiano la vita e la felicità. Il Padre vuole che ne abbiamo tanta da non sapere più dove metterla. Dio è fatto così: nutre gli uccelli del cielo e veste i fiori del campo, senza cercare nessun compenso. Gli piace e basta. Fa così perché ama follemente i figli suoi».
    Ma... c’è un «però», duro ed esigente.
    La vita cresce solo se qualcuno la sa regalare per amore. Se ce la teniamo stretta, la perdiamo noi e la facciamo perdere a tutti. Se sappiamo condividere tutto, davvero tutto, avremo vita e felicità in abbondanza.
    Se avesse ragione Gesù? Tutto diventa più impegnativo. Non basta rinunciare a qualcosa e non è sufficiente regalare ai poveri quello che avanza e non abbiamo il coraggio di buttare via. Va condiviso tutto, per possedere tutto. Invece di dividere tra quello che è mio e quello che regalo agli altri, tutto diventa mio, se lo condivido con gli altri. Così propone Gesù per la vita e la felicità...

    Le provviste per il viaggio

    La nostra esistenza quotidiana è un lungo viaggio. Ci capita ogni tanto la gioia di una piccola sosta, all’ombra di un palmeto e con lo zampillio gioioso di una sorgente. Ma poi si riparte, parcheggiando la nostalgia per sognare coraggiosamente la meta lontana.
    Ci portiamo provviste adeguate o speriamo nel corvo che nutre il povero Elia, affamato nel deserto?
    La risposta non c’è perché la domanda è sbagliata. Percorre proprio l’alternativa che la meditazione del Vangelo mi ha sollecitato a superare.
    Il Dio di Gesù, come Gesù ce lo consegna e l’esperienza dei suoi discepoli ci propone con decisione e coraggio, è molto diverso. Ci chiede un affidamento totale a lui, con la fiducia del bimbo che si sente sicuro nell’abbraccio della mamma, e nello stesso tempo ci sollecita ad una responsabilità continua, attenta e competente, per rendere disponibile quello che siamo al mistero della sua presenza.
    L’ha detto anche Gesù, in un modo un poco strano, quel giorno in cui i discepoli volevano liberarlo dal frastuono di un gruppo di ragazzini che gli stava d’attorno: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Non è certo un invito all’infantilizzazione di ritorno. È, al contrario, la raccomandazione a superare sicurezze e presunzione (la conversione), per vivere nell’affidamento (come bambini).
    Questa è infatti la vita cristiana: un abbandono nelle braccia di Dio, con l’atteggiamento del bambino che si affida all’amore della madre. Sembra strano: per diventare adulti, scopriamo la necessità di diventare «bambini». Dell’adulto vogliamo conservare la lucidità, la responsabilità e la libertà, proprio mentre ci immergiamo in una speranza che sa «credere senza vedere». Del bambino, invece, cerchiamo il coraggio di rischiare, la libertà di guardare in avanti, la fiducia incondizionata in qualcuno di cui abbiamo sperimentato l’amore, la disponibilità esagerata a condividere… in fondo, la voglia di giocare anche con le cose più serie.
    La gente sicura, che non ha bisogno di nessuno, che si fida solo di sé stessa e che pensa di aver risolto tutti i problemi giocando la carta dell’impegno e della responsabilità… questa gente a Gesù non va giù. La considera presuntuosa, come se gli buttasse in faccia quell’amore che è la ragione della sua presenza accanto a noi. E, soprattutto, la valuta falsa. Non possiamo bastare a noi stessi. Non possiamo presupporre di risolvere tutti i problemi, soprattutto quelli che riguardano la vita e il suo senso, l’amore e la sua consistenza coraggiosa, con le nostre sole forze. Non siamo autosufficienti sulle cose che contano, anche se ce la mettessimo tutta fino allo spasimo.
    Al contrario, ci fa capire quanto gli vada simpatico l’atteggiamento dell’esattore delle tasse in quella storia che i suoi discepoli ci raccontano per dirci da che parte sta Gesù. Gesù considera l’esattore delle tasse un tipo serio, coraggioso, pieno di voglia di vivere e autentico nei suoi progetti. S’impegna, gioca al rialzo nella sfera dei suoi sogni di vita… e poi accetta di fare i conti con la propria debolezza. Ce la mette tutta e constata di non bastare a sé stesso. Ha la necessità di alzare continuamente le braccia verso l’alto, per invocare due mani robuste capaci di afferrarlo e sostenerlo. Fa, in una parola, il gesto più autentico di umanità: si affida al mistero di Dio che avvolge la sua quotidiana esistenza.
    Grida e invoca dal profondo di sé stesso, continuamente e sempre. Non vuole dividere gli ambiti di esistenza: quelli in cui si sente sicuro e competente, senza dover chiedere nulla; e quelli in cui è scarso di competenza e riconosce di conseguenza di aver bisogno di aiuto.
    La competenza non è il contrario dell’affidamento, né viceversa. I discepoli di Gesù, nelle loro scelte e nei gesti concreti, cercano di assicurare il massimo della competenza possibile e, con la stessa intensità, si affidano al mistero di Dio che sostiene tutta l’esistenza.
    A me piace affidarmi ad un Dio così. Ho raccontato la storia di Gesù e dei suoi discepoli… per consolarmi un poco e per sollecitare, me e chi è d’accordo con questa esperienza, ad affidarsi come un bambino all’abbraccio accogliente del Dio di Gesù.


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