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    Integrismo e radicalità cristiana


    Giannino Piana

    (NPG 1977-01-7)


    L'integrismo non è, in primo luogo, un'ideologia o un sistema dottrinale, e neppure un progetto di vita e di azione dai contorni chiaramente delineati. È un atteggiamento inconscio, una mentalità, un modo di essere-al-mondo, che nasce dall'insicurezza e dalla paura (sarebbe interessante in proposito - ma non è questo il nostro compito - un'analisi dei meccanismi psicologici che lo determinano) e si esprime nella ricerca di un approdo sicuro, di un punto di appoggio preciso e definitivo. Esso è, in ultima analisi, l'espressione dell'incapacità di accettare la realtà nella sua complessità e nel suo mistero; è la negazione della conflittualità dell'esistenza umana nel mondo, che è un dato permanente ed irrisolvibile; è il rifugiarsi in un'utopia consolatoria che finisce per essere alienante e sterile, e per determinare, di conseguenza, pericolosi stati di frustrazione; è il rifiuto di riconciliarsi con la storia, accettandone le permanenti contraddizioni e operando all'interno di essa con coraggio e pazienza, per il loro, sia pure parziale, superamento.
    Come tale esso si esprime nei modi più impensati, e talora addirittura opposti sotto il profilo ideologico. C'è, infatti, un integrismo «cattolico» e un integrismo «laicista», un integrismo «marxista» e un integrismo «borghese», un integrismo di destra ed un integrismo di sinistra, per stare al vocabolario oggi in uso. Non possiamo prendere in considerazione tutte queste forme, come peraltro sarebbe interessante fare. Ci limiteremo qui ad offrire alcuni spunti di riflessione circa le cause e le modalità concrete con le quali si manifesta l'integrismo allo interno del mondo cattolico nell'attuale contingenza storica.

    LE RAGIONI E I LIMITI DELL'INTEGRISMO

    Le motivazioni di fondo dell'integrismo nell'ambito del cristianesimo vanno ricercate, in definitiva, nel rifiuto, conscio o inconscio, del processo di secolarizzazione come fatto storico, anche nei suoi esiti positivi, e, ancora più a monte, nella non accettazione della mondanità del mondo come dato culturale e come fatto voluto dallo stesso messaggio evangelico. Da ciò deriva la tentazione di una «sacralizzazione» radicale della realtà e il non riconoscimento dell'autonomia della cultura e della politica, che hanno leggi intrinseche e significati specifici. Un'analisi più dettagliata ed approfondita delle ragioni e dei contenuti della mentalità integrista deve, tuttavia, fare riferimento ad un insieme di fattori, che vanno accuratamente esaminati e criticamente vagliati.

    La fede deve fare i conti con le mediazioni storiche

    Sembra intanto innegabile che l'assunto fondamentale dal quale si parte è quello di una concreta mediazione tra fede e storia. La necessità di una tale mediazione è indubbia, soprattutto se si vuole far uscire la fede dalla concezione «privatizzata» ed «intimistica» alla quale ancor oggi molti cristiani la riducono, e che costituisce l'eredità plurisecolare del cattolicesimo, divenuto, per questo, schizofrenico ed inefficace. La riscoperta dell'impegno nel mondo del cristiano come momento essenziale del vivere la fede, e cioè l'attenzione all'essenziale dimensione politica della fede stessa, è, oltre che un dato teologico irrinunciabile, un'esigenza storica impellente. Come è impellente la necessità di prendere coscienza del processo di «politicizzazione» della realtà, in quanto esso è il luogo nel quale occorre realisticamente operare la mediazione tra fede e vita. Ma il pericolo è quello di una mediazione troppo diretta, che non lascia spazio alle necessarie distinzioni, e finisce per condurre ad una contaminazione ideologica della fede. Certo la fede, se non vuole diventare astrazione, deve potersi esprimere in linguaggio umano, e perciò deve concretamente fare i conti con le ideologie e le strutture storiche. Ma la fede non può essere ridotta a nessuna ideologia e a nessuna struttura: il suo rapporto con le ideologie del tempo va mantenuto sul terreno di una corretta dialettica. Una fede che si trasforma in ideologia è una non-fede.
    La mentalità integrista trova la sua radicazione nell'esigenza di una fede che si trasformi in ideologia sociale totalizzante, nettamente distinta dalle altre ideologie storiche, e perciò tendente ad espandersi e a manifestarsi in un insieme di strutture e di istituzioni socio-politiche qualificate in senso confessionale (partito, sindacato, scuola, enti assistenziali, ecc.). Dietro di essa sembrano, in fondo, riflettersi le accentuazioni moralistiche, che hanno per tanto tempo avuto il sopravvento nell'annuncio del messaggio cristiano, e, in modo particolare, sembra far capolino la tentazione apologetica, che è il risultato di un atteggiamento di insicurezza e di paura, e, di conseguenza, di incapacità di accettare fino in fondo il rischio dell'avventura cristiana. Una fede che ha bisogno di troppi appoggi esterni e strutturali, è una fede non libera, e perciò non liberante.
    Alla base di tutto ciò sta l'equivoco di un'identificazione totale (o quasi) tra fede e religione. È vero che la fede, se non vuole ridursi ad astrazione, deve incarnarsi in una struttura religiosa, e che la fede cristiana si misura anche (ma non soltanto) dalla capacità che essa ha di promuovere sul terreno istituzionale i valori che annuncia. Ma non bisogna mai dimenticare che la religione, nella molteplicità delle forme che assume e delle strutture cui fa riferimento, non è che il precipitato storico, e perciò parziale e provvisorio, della fede. Come tale sempre imperfetto e da convertire. Confondere la fede con le istituzioni che storicamente essa ha generato e che sono la risultante dell'impatto che essa ha avuto ed ha con il contesto socio-culturale, significa sottrarsi alla possibilità di comprendere il senso più genuino ed autentico del messaggio di Cristo.

    Per la ricostruzione di una comunità cristiana

    Da questa concezione «ideologica» della fede discende la necessità di ricostruire (o di rifondare, come si dice in gergo) la comunità cristiana. L'atomizzazione della comunità cristiana è un dato di fatto evidente. La parrocchia è sempre più ridotta ad una «stazione di servizio», dei cui favori si fruisce più per tradizione che per convinzione (si veda, per esempio, il grosso problema dei matrimoni religiosi, ridotti spesso ad un fatto di costume o di convenienza sociale). Nonostante la buona volontà e l'impegno serio di molti sacerdoti e laici la partecipazione è una meta lontana, e non si sa per quanto tempo ancora. L'associazionismo cattolico, e specialmente quello giovanile, dopo il Concilio e il terremoto del '68, è in grave crisi, e quasi ovunque in fase di declino. Ma, soprattutto, l'incidenza della comunità cristiana nella realtà socio-culturale e politica, in un momento travagliato e difficile come l'attuale, è quanto mai scarsa. Il bisogno di una comunità più autentica, nella quale si faccia davvero esperienza di fede nella preghiera, nella lettura della parola di Dio, in una celebrazione eucaristica che sia segno espressivo di partecipazione e insieme stimolo ad un impegno rinnovato nella storia è un bisogno reale ed ineludibile. Come è ineludibile l'esigenza di una Chiesa profeticamente presente nel mondo a promuovere la liberazione umana, denunciando le alienazioni presenti e annunciando il futuro di Dio. Il rischio sotteso alla coscienza integrista è, tuttavia, quello di concepire, in un modo ben preciso, la ricostruzione della comunità cristiana. Si finisce, infatti, per accentuare, in modo esasperato ed esorbitante, la dimensione istituzionale e storica della Chiesa, a scapito di quella carismatica e spirituale. Evidentemente le due dimensioni non possono essere nettamente distinte e tanto meno contrapposte. Il «mistero» della Chiesa è unitario. La Chiesa non è il regno, ma il farsi dell'evento di Cristo nel tempo, secondo la logica dell'incarnazione. Dietro la mentalità integrista sembrano, tuttavia, prevalere le motivazioni sociologiche, e persino psicologiche, del fare chiesa, cioè la tentazione del ghetto ovattato ed impermeabile, del gruppo caldo ed accogliente: motivazioni che denunciano in radice un bisogno, conscio o inconscio, di sicurezza che nulla ha a che vedere con il significato più profondo e teologale della comunità cristiana, che nasce dalla forza dello Spirito. Tali motivazioni rivelano, in definitiva, l'incapacità di vivere sotto la tenda, nella condizione della provvisorietà e della diaspora, che è la condizione preferenziale del cristiano e della Chiesa. Una Chiesa che punta sulla potenza umana e non sulla povertà, che non ha il coraggio di «scomparire» o di «morire» - per usare un'espressione di Bonhoeffer - per la salvezza del mondo e la liberazione dell'uomo, non è più il fermento o il grano di senapa di cui parla il vangelo. Una Chiesa troppo comunità e troppo poco comunione, al suo interno e nel suo rapporto con il mondo. finisce per badare totalmente a se stessa, per auto conservarsi, rendendosi così indisponibile all'annuncio e all'edificazione del regno che viene.
    In radice c'è qui la tentazione di un'identificazione totale (o quasi) della Chiesa con il regno. Certo la Chiesa vive il «già» del regno di Dio che si fa nel tempo. Ma essa non è il regno nel suo compimento definitivo. È una realtà in cammino, in divenire, bisognosa perciò di costante purificazione. È il campo evangelico nel quale convivono insieme il buon grano e la zizzania, perché è fatta di uomini, che sperimentano dentro di loro, in termini laceranti, la compresenza del bene e del male. Il che non significa rinuncia ad operare nella direzione della denuncia e del rinnovamento. Ma soltanto accettazione di quella parte di peccato che sarà sempre inevitabilmente presente, e perciò della parzialità e provvisorietà di tutte le realizzazioni storiche del cristianesimo. Significa attenzione alla liberazione umana, che viene attuata anche al di fuori di essa, rispetto della diversità dei compiti, rinuncia a qualsiasi forma di perfettismo manicheo onninglobante e umile offerta del proprio contributo, storicamente limitato, alla promozione dell'umanizzazione del mondo e della liberazione umana.

    Il nodo dell'impegno politico

    Ma dove, in modo più esplicito, si rende evidente l'equivoco della mentalità integrista, in seno al mondo cattolico, è sul terreno dell'impegno politico.
    La concezione «ideologica» della fede e l'identificazione eccessiva della Chiesa con il regno creano le premesse per una proiezione della comunità cristiana in quanto tale nella storia e nella vicenda socio-politica. C'è, anzitutto, chi pensa di poter ridurre la fede all'accettazione di un'ideologia o di un progetto politico. L'annuncio che Cristo ha fatto agli uomini viene identificato del tutto (o quasi) con una proposta politica, che trova la sua concretizzazione operativa nell'assunzione di una determinata metodologia di lettura della realtà sociale e di un conseguente progetto di cambiamento. Sull'altro fronte, c'è, invece, chi ritiene - e questo è ancor più pericoloso - che il cristianesimo abbia un suo progetto politico autonomo, una sua visione globale del mondo e dell'uomo, che, come tale, deve essere proposta in termini precisi a tutti gli uomini, utilizzando una serie di strumenti efficaci anche sul piano operativo, e talora persino tecnico.
    In ambedue i casi si tratta di una semplificazione del problema. Nel primo caso c'è una dissoluzione della fede nella politica, che finisce per svuotare di fatto il messaggio cristiano di ciò che ha di più autentico, vanificandone l'identità; nel secondo c'è una dissoluzione della politica nella fede, che è rifiuto dell'autonomia del politico, e perciò non accettazione della grande ed irrinunciabile lezione della secolarizzazione. Alla radice delle due posizioni, diverse nei loro presupposti di partenza e nel loro stesso esito storico, sta un denominatore comune: l'incapacità cioè di accettare la tensione, di mantenere dialetticamente aperti i due poli del problema. L'affermazione dell'autonomia del politico, in un contesto di pluralismo ideologico e di movimenti sociali come l'attuale, comporta l'accettazione del pluralismo delle opzioni storiche dei credenti. Pretendere che la comunità cristiana possa ritrovarsi unitariamente attorno ad un progetto politico è, oltre che pericoloso per la riduzione «ideologica» della fede, anche anacronistico e utopistico. Certo la fede deve ispirare una visione dell'uomo e del mondo, che il credente non può non tenere presente nel suo impegno storico. Ma questo non significa che dalla fede e dalla rivelazione si possano dedurre soluzioni univoche ai problemi umani e politici.
    Senza dubbio «pluralismo di opzioni dei credenti» non significa neutralità radicale nei confronti di qualsiasi ideologia politica o di qualsiasi metodologia di intervento. Fede e politica non corrono su due binari paralleli senza possibilità di incontro. E ciò per molte ragioni. L'adesione al progetto di Dio da parte del credente coinvolge, in modo radicale, la sua esistenza. Il credente è un essere storico: non può perciò vivere in modo schizofrenico, contrapponendo o sovrapponendo, come due realtà nettamente distinte, fede e impegno mondano. D'altra parte, la liberazione cristiana è salvezza integrale dell'uomo, che assume e trasforma anche la dimensione umana e storica della vita. Le scelte politiche del credente sono profondamente segnate dalla sua fede. Il dualismo tra fede e impegno politico finirebbe per mortificare il messaggio cristiano, facendoci ricadere nello spiritualismo, e favorendo in tal modo il disimpegno dei credenti nei confronti della politica.
    Il problema è allora di trovare la strada per realizzare un impatto serio e fecondo tra fede ed impegno politico, che eviti il duplice rischio dell'integrismo e dell'evasione. Ciò suppone attenzione realistica alla situazione storica e insieme tensione creativa verso i valori che l'azione politica deve perseguire. In questo contesto si comprende la non-neutralità del messaggio evangelico verso qualsiasi ideologia o sistema politico. Esistono nella rivelazione cristiana alcuni dati fondamentali circa la natura dell'uomo e il senso della sua esistenza, che diventano elemento di giudizio e di discriminazione. Si pensi alle grandi tematiche dell'uomo immagine di Dio e redento in Cristo, della vita secondo lo Spirito, dell'inabitazione trinitaria, della carità come principio informatore dell'esistenza, ecc. Evidentemente la logica ad esse soggiacente comporta il rifiuto di concezioni ideologiche o politiche fondate sul totalitarismo, sul razzismo, sull'autoritarismo e sullo sciovinismo nazionalista Su questi punti qualificanti ed irrinunciabili non c'è posto per il compromesso qualunquistico o per una posizione accomodante. Ne va della natura stessa del messaggio cristiano. Ma da questo non si può dedurre che la fede possegga un suo progetto politico totalizzante La radice ultima della coscienza integrista sta nella mancanza dell'accettazione di una corretta mediazione storica, nella quale entrano in gioco i contributi delle scienze umane e delle ideologie del tempo; e l'esito al quale tale coscienza conduce è l'accentuazione delle tensioni e dei conflitti, sia all'interno della Chiesa che nei confronti del mondo.

    INTEGRISMO E RADICALITÀ CRISTIANA

    Non si deve confondere la coscienza integrista con la radicalità - cristiana. C'è senza dubbio nel cristianesimo un'istanza di totalità e di perfezione che non può essere sottaciuta. La vita cristiana, nella sua essenza più profonda e più vera, è imitazione della perfezione del Padre: «Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). L'ideale cristiano rimane, tuttavia, una proposta sublime, umanamente «impossibile», che fa appello alla libera scelta di ogni uomo e al dono misterioso dell'amore di Dio nello Spirito. Non può dunque essere imposto. Dio, che ha creato l'uomo nella libertà, vuole che nella libertà egli risponda al suo invito, e per questo rispetta profondamente i tempi di maturazione e di crescita di ciascuna persona. D'altra parte, l'esigenza illimitata di perfezione, contenuta nel messaggio cristiano, non può non fare i conti realisticamente con la situazione umana, personale e collettiva, impastata di peccato e con la vocazione che ciascuno ha ricevuto dal Padre. È la verità della parabola dei talenti: a ciascuno verrà richiesto in misura corrispondente a quello che gli è stato donato. Quello che Dio vuole - e in questo senso il Dio biblico è estremamente esigente - è che ogni uomo si impegni con tutto se stesso, che non sia mai pago dei risultati conseguiti, che non si chiuda nell'autosufficienza e nella sicurezza, ma viva fino in fondo, con onestà, il travaglio della ricerca.

    Verso un ideale che è nel futuro

    Sta qui la fondamentale differenza tra integrismo ideologico e radicalità cristiana. L'integrismo ideologico è assolutizzazione di certe letture della realtà e di scelte che per il cristiano non possono che essere parziali e provvisorie; è soprattutto imposizione di tali scelte agli altri, senza rispetto della maturazione della coscienza, e perciò del valore essenziale della libertà. La radicalità cristiana è, invece, indicazione di un ideale mai del tutto realizzabile, ma da perseguire ogni giorno, con pazienza e coraggio, senza alcuna indulgenza alla logica del compromesso qualunquistico, ma, nello stesso tempo, con la piena coscienza dello stato di peccato, dal quale l'uomo non potrà mai totalmente liberarsi. Essa è l'opposto della presunzione farisaica o piccolo borghese e della pretesa integrista di realizzare tutto e subito: pretesa che finisce per provocare stati di frustrazione e di scoraggiamento. Ma soprattutto è la negazione della logica dell'imposizione e della coartazione del consenso, tipica della mentalità ideologica.
    Il cristianesimo è dunque essenzialmente pluralista, perché esige il rispetto della vocazione di ciascuno e chiede un'adesione personale, responsabile all'evangelo, nella più assoluta libertà. Certo la proposta cristiana è dura ed esigente: impone all'uomo di fare scelte precise, di prendere posizione, di non cullarsi dentro a situazioni di comodo. Ma tutto ciò in modo responsabile, libero, creativo. È questo il senso del messaggio che Cristo ci ha portato. L'amore, di cui parla il vangelo, è un modo di essere-al-mondo in atteggiamento di totale dedizione. Comporta il rispetto dell'altro e la non presunzione della verità. L'amore vero - quello che Dio ci chiede come risposta al suo dono - non è un dare qualcosa; è dare noi stessi nella totalità della nostra persona.
    La radicalità fa dunque autentica e credibile la scelta cristiana. Ma essa non va confusa con l'integriamo, che è rinnegamento del valore fondamentale della libertà», e perciò della stessa dignità della persona «immagine» di Dio.

    L'identità del cristiano

    Tutto ciò non toglie evidentemente il credente dallo stato di lacerazione interiore e di conflitto. Di qui l'esigenza di mettere in luce alcune condizioni irrinunciabili per affrontarlo con serietà e serenità. È anzitutto necessario partire da una corretta impostazione del discorso della fede, e cioè da una seria presentazione del messaggio cristiano nella sua globalità. Dire corretta impostazione del discorso della fede significa, in primo luogo, affermare l'esigenza di una distinzione tra fede e impegno nel mondo. E cioè non presentare la fede come un'ideologia o un progetto politico, ma come una storia di salvezza orientata all'edificazione del regno di Dio. Solo così è possibile salvaguardare l'autonomia del politico e non incorrere in confusioni deteriori, che finiscono per risuscitare il pericolo dell'integrismo. Ma distinzione non vuol dire separazione. Il progetto cristiano è un progetto globale, assume l'uomo in tutte le sue dimensioni, pur rispettando l'autonomia degli ambiti entro i quali l'umano si edifica. L'impegno nel mondo, volto alla promozione della liberazione umana, non è per il cristiano qualcosa di accidentale o di accessorio; è parte integrante e necessaria della sua prassi storica. La salvezza cristiana si attua nella e mediante la liberazione storica, anche se non si esaurisce in essa. Il cristiano dovrà allora assumere, in concreto e sempre criticamente, le ideologie e gli strumenti operativi del suo tempo per realizzare nella prassi l'impegno di liberazione.
    Tutto ciò suppone - ed è questo un secondo elemento da tenere presente - la riproposta, attraverso una catechesi aggiornata, dei contenuti specifici del messaggio cristiano che fanno la sua irrinunciabile originalità. La crisi odierna è una crisi di identità. L'impatto con le ideologie del tempo la ripropone ogni giorno in termini più drammatici. Ma soprattutto suppone un'autentica esperienza di comunità cristiana all'interno di gruppi che non si sclerotizzino in posizioni intimistiche, ma neppure abbiano la presunzione di risolvere da soli, in senso integrista, il discorso dell'impegno politico. Gruppi entro i quali si faccia esperienza di preghiera, di confronto con la parola di Dio, di catechesi, e insieme si venga educati alla presa di coscienza dei problemi del mondo e dell'uomo; gruppi che stimolino all'apertura e al confronto, ad un dialogo costruttivo e critico con le ideologie politiche del tempo e aiutino pertanto i credenti a fare scelte concrete, senza complessi di inferiorità o senso di smarrimento; gruppi nei quali il confronto con il messaggio cristiano alimenti il senso critico nei confronti delle scelte fatte e aiuti a ricuperare lo specifico cristiano. Se queste condizioni si verificheranno sarà possibile ai credenti superare la tentazione dell'integrismo e vivere l'autentica radicalità cristiana.


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