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    Dalle sfide all'educazione

    alla sfida dell'educazione

    Italo Fiorin



    LE SFIDE DELL'EDUCAZIONE

    Che cosa significa "educare"?

    Quale è lo scopo dell'educazione? Secondo Maritain, compito dell'educazione è aiutare la persona umana a rispondere al suo principale dovere, che è quello di "divenire uomo" [1]. È una prospettiva che profondamente condivido, ma questa risposta non chiude la questione, anzi la apre.
    Tutto sarebbe semplice se il compito educativo potesse risolversi nell'utilizzare dei buoni metodi e nell'applicare delle tecniche efficaci da garantire la formazione della persona, ma le cose non stanno così. Al massimo potremmo ottenere, quando abbiamo a che fare con i bambini, che imparino a leggere e a scrivere e, perfino, a comportarsi in modo socialmente appropriato o, quando parliamo di giovani, la formazione di un buon professionista, di un valido artigiano, cioè di qualcuno competente in un determinato specialistico settore.
    Ma questo è sufficiente alla persona umana? La domanda avvicina ad un'altra domanda, quella cruciale: "Che cosa è l'uomo?" [2]
    Ora, a questa domanda la pedagogia non può rispondere da sola, ma deve farsi guidare, ha bisogno di ascoltare altri saperi.
    Il contributo che le scienze possono offrire è prezioso, ma non può essere considerato sufficiente, infatti si rimane pur sempre a livello descrittivo, un insieme di dati misurabili, di conoscenze settoriali (sul funzionamento biologico, neurologico, psichico) basate su risultanze empiriche e sperimentali. A questo livello la domanda "che cosa è l'uomo?" resta inevasa. E se ci si ferma qui diventa impossibile rispondere al compito dell'educazione che è, come abbiamo ricordato, quello di aiutare la persona umana a diventare pienamente se stessa, ad "umanarsi", secondo l'espressione cara ad E. Ducci.
    Dobbiamo perciò attingere all'altra area di confine, quella che comprende i saperi filosofici e teologici, quella, cioè nella quale si pongono le domande di senso (filosofia) e si offrono risposte a tali domande (il piano della fede e della teologia come suo sapere critico e orientante).
    La pedagogia propone criteri e indirizzi all'azione educativa, alla luce di una antropologia che non è elaborata al suo interno, ma alla quale si riferisce, compiendo una opzione fondamentale.
    Naturalmente può esistere un pensiero pedagogico che non si nutre del dialogo con l'area dei significati filosofici o teologici, ma che si fonda su una concezione basata su saperi scientifici, ma questo avviene sempre a prezzo di una grave riduzione. Tale è, ad esempio, una concezione esclusivamente materialistica o psicologistica della natura umana. In questo caso il compito dell'educazione si riduce a quello della formazione, e della formazione di tipo settoriale, che è operazione violenta perché non rispondente al bisogno più profondo della persona umana che è, come ricorda B. Bettelheim, quello di trovare "il significato della propria vita". Il termine formazione non è privo di ambiguità. Richiama, etimologicamente, il "dare forma" e non vi è dubbio che nel rapporto educativo la persona che cresce prende via via una forma sempre più definitiva; il punto è se questa forma sia frutto dello sviluppo delle sue disposizioni e potenzialità e quindi esito di un diventare se stesso in un movimento dialogico e dialettico o non, invece, determinata dall'esterno, modellata secondo un progetto che non le appartiene.
    «Forse la situazione più ambigua per il senso di formazione fu offerta dal Socrate platonico e dall'esemplarità del suo processo. Una stessa formazione, quella donata, per anni, da Socrate ai giovani ateniesi, viene valutata da una parte come render migliore l'uomo e il cittadino, e dall'altra come corrompere l'uomo e il cittadino. E su di una contrapposizione così netta viene posta in gioco una vita» [3].
    Se abbiamo individuato il compito educativo come aiuto a diventare pienamente "persona umana", persona, cioè, pienamente realizzata, va però detto che questo compito non si esercita in astratto: «Senza dubbio il compito dell'educazione non consiste nel formare quell'astrazione platonica che è l'uomo in sé, ma nel formare un dato fanciullo, appartenente ad una data nazione, ad un dato ambiente sociale, ad un dato momento storico» [4]. I bisogni educativi non sono cambiati nel tempo, la ricerca di significato è ancora la più grande esigenza dell'uomo, ma quello che è cambiato è il contesto sociale e culturale e, se ci fermiamo a considerarlo ci appaiono con evidenza non pochi aspetti problematici, anzi vediamo emergere vere e proprie sfide all'educazione.
    In un breve arco di tempo si è compiuto il passaggio da una società caratterizzata da una economia impostata sul modello industriale ad una di tipo post-industriale.
    All'interno del modello industriale l'economia era rivolta alla produzione di beni materiali, permeata da una concezione quantitativa della crescita e basata su modelli organizzativi di tipo lineare, atomistico, disumanizzante, che ha nella "catena di montaggio" la sua metafora e la sua icona è nel Charlie Chaplin di "Tempi moderni". La cultura della modernità è stata dominata da una concezione economica centrata sul capitale materiale.
    Con la modernità si afferma l'egemonia del paradigma economico (la nascita del capitalismo e quella, contrapposta, del marxismo, due ideologie tra loro irriducibili eppure con lo stesso denominatore comune: il materialismo).
    I rischi per la persona sono quelli dello sfruttamento, della riduzione a numero, della concezione materialistica della vita. La ricca tradizione educativa dell'otto-novecento è costellata da figure di educatori che si dedicano a fronteggiare una duplice piaga: della povertà materiale e della povertà spirituale. La difesa della persona, motivata dalla fede, è affidata all'educazione e, in molti casi, si fondano scuole.
    Oggi, con il passaggio a quella che viene chiamata la post-modernità, l'economia resta il paradigma culturale dominante, ancora più forte dopo la tragica esperienza dell'ultimo conflitto mondiale ed il crollo dei totalitarismi. La sconfitta delle ideologie della modernità sembra aver lasciato il campo ad una economia di mercato che non conosce limiti né spaziali (globalizzazione) né etici (il mercato ha sue leggi autonome). All'economia basata sulla produzione di beni materiali è subentrato un altro tipo di economia, immateriale, fondato sulla finanza. Il mercato da locale è diventato globale. I rischi per la persona sono quelli della riduzione ad individuo, un individuo frammentato, senza consistenza (precarizzazione), senza appartenenza (delocalizzazione), sollecitato a competere per sopravvivere ed affermarsi.
    Nel trasformato quadro sociale ed economico, ritroviamo le stesse povertà del passato, materiali e spirituali, che però si ripropongono in termini nuovi.
    La subordinazione dei mezzi all'indiscutibile fine del profitto, la prevalenza del criterio dell'utile come misura di tutte le scelte, l'esaltazione della competizione e l'allentamento dei vincoli solidaristici, l'esaltazione dell'efficienza e dell'efficacia, dell'ottimizzazione, e, infine, del successo come criterio valutativo ultimo, sono tutti tratti che connotano la logica forte del pensiero dominante e vincente. Anche le categorie pedagogiche vengono travolte, sostituite da una nuova concezione del compito formativo, estremamente riduttiva, funzionalistica.

    Compiti

    I compiti propri di ogni sistema educativo rispondono a tre fondamentali esigenze, scandite dai tre riferimenti temporali del passato, del futuro e del presente.
    Rispetto al passato il compito riguarda la trasmissione di un patrimonio culturale ritenuto degno di essere consegnato, e indispensabile per la persona. Questo compito è bene espresso dalla parola latina traditio. La consegna di ciò che è stato ed è considerato importante fonda il senso dell'appartenenza ad una comunità, favorisce lo sviluppo dell'identità, pone le premesse per l'impegno a non dissipare il passato e a farne vivere i valori nei nuovi contesti di vita, alimenta la dimensione della cittadinanza. In una società multiculturale e pluralista come la attuale questo impegno non viene meno, ma si arricchisce, i confini della cittadinanza si espandono, alla persona è richiesto di diventare non solo cittadino della propria comunità o del proprio Stato, ma cittadino del mondo.
    Il secondo compito riguarda la dimensione del futuro. L'educazione prepara il giovane a inserirsi nella vita sociale e si preoccupa di fornirgli le competenze indispensabili per un inserimento lavorativo. Ma anche questo dovere deve essere ripensato, perché i cambiamenti velocissimi e profondi che ad ogni livello si verificano (sociale, scientifico, tecnologico, economico ...) rendono rapidamente obsoleto quanto viene insegnato. A partire da questa consapevolezza ormai da tempo gli Stati europei hanno definito orientamenti scolastici finalizzati all'insegnare ad apprendere, focalizzati su competenze di carattere molto generale, flessibili e facilmente trasferibili. Inoltre l'orizzonte dell'apprendimento si è dilatato a tal punto da coincidere con l'intero arco della vita, andando quindi ben al di là del tempo della scolarizzazione. Bisogna però che ci sia un legame molto forte tra il riferimento al passato e l'apertura al futuro, altrimenti il rischio è quello di una educazione definita soltanto dalle esigenze funzionali di un mercato in evoluzione. Il sistema educativo non può avere come riferimento esclusivamente il mercato e piegare tutto il percorso formativo alle richieste del mondo economico. Concordo pienamente con il Card. Scola, quando pone in relazione la traditio (il passato) con l'ad-ventura (il futuro): "Una traditio aperta all'ad-ventura (al futuro), poggiata sulla testimonianza, tesa a che la libertà dell'educando vada incontro al reale con umile curiositas, ne assapori la pienezza, non si blocchi di fronte alla contraddizione e al male suo e degli altri: a questo deve tendere con il contributo di ogni comunità di appartenenza ogni comunicazione del sapere" [5].
    Il compito educativo non si limita alla trasmissione di un patrimonio culturale e valoriale né alla preparazione dei giovani all'inserimento nel mondo delle professioni e della vita lavorativa; collocata tra il passato e il futuro l'educazione si svolge nel presente, ed è al presente di ogni persona che apprende, ora e qui, che va garantita cura e accompagnamento. In questo senso l'educazione si configura come incontro e si sviluppa nella relazione.
    Se i compiti non sono nuovi, nuovo è però il contesto entro il quale si colloca l'azione educativa. È evidente che si tratta di essere capaci di interpretare le tradizionali e basilari missioni non in astratto, ma misurandosi con le nuove sfide che l'attuale contesto fa emergere.
    La riflessione pedagogica non è decontestualizzata, ma si colloca nell'orizzonte storico e si misura con le sfide che di volta in volta vengono poste all'educazione. Oggi queste sfide sono particolarmente acute, al punto che si parla di "emergenza educativa".

    Sfide

    a) La sfida del funzionalismo
    Oggi l'educazione è minacciata da un grande modello, che si presenta come capace di rispondere ai problemi che la società del cambiamento pone, quello funzionalista.
    La prospettiva "funzionalista" intende l'educazione al servizio del progresso economico. Questo si vede molto bene quando si considera la scuola dove sta guadagnando un grandissimo consenso Idea che sia "il mercato" a dettare gli indirizzi che devono guidare i curricoli scolastici, fissando le "competenze" ritenute indispensabili. Le competenze da sviluppare riguardano i saperi ritenuti utili, cioè funzionali alla domanda del mercato. La sopravvalutazione dei saperi "utili" non comporta, di per sé, la scomparsa di altri insegnamenti meno immediatamente spendibili, ma certamente impone la loro marginalizzazione.
    La ricerca dell'efficienza e dell'efficacia è sentita come modalità indispensabile, e si apprezza la capacità di definire con chiarezza gli obiettivi e di organizzare, coerentemente, i mezzi necessari al loro raggiungimento. La razionalità intesa come efficacia/efficienza delle azioni è un valore pervasivo, riguarda tutti gli ambiti della nostra vita. I valori dell'efficienza e dell'efficacia sono visti come i principali indicatori di quella "qualità" di cui tanto sentiamo parlare. Anzi, oggi come non mai la scuola è messa alla frusta, sollecitata con insistenza affinché la sua organizzazione si faccia più razionale ed aumenti la sua produttività.
    L'opinione pubblica è molto sensibile al richiamo della razionalità funzionale. Certamente non senza buone ragioni, genitori e amministratori, gente comune e professionisti dei mezzi di comunicazione si attendono un cambiamento.
    Del resto come non convenire sul fatto che un innalzamento qualitativo del sistema di istruzione sia desiderabile? Accade frequentemente che il sistema scolastico venga paragonato ad altri sistemi, nei quali sembra di ravvisare più chiaramente i valori della razionalità funzionale. Quando si fa questo tipo di comparazione, diventa inevitabile assumere come elemento di confronto quel "sistema" che, più di tutti, sembra essere caratterizzato dalla logica dell'efficienza e dell'efficacia. La metafora di questi valori, alla quale la scuola è invitata a guardare è, oggi, nel nostro Paese I '" i mpresa".
    Migliorare la scuola non può portare ad altra soluzione che non sia quella di introdurre nel sistema scolastico dosi massicce di "cultura dell'impresa".
    Ancora maggiore è il rischio dell'impoverimento delle relazioni tra persone (e tra culture) dovuto alle conseguenze della crisi che si è aperta con la post-modernità. La fine delle grandi illusioni del Novecento ha lasciato spazio all'unica ideologia vincente, quella di un mercato che non conosce altri limiti se non il profitto. Una volta tolto Dio dall'orizzonte del secolo (secolarizzazione) l'esito per le relazioni tra gli uomini è destrutturate. La relazione mercantile prende il posto della relazione tra persone, tutto si fa funzionale. Tale impoverimento è oggi reso ancora più grave dalla eccezionale crisi economica che sta sconvolgendo l'economia mondiale. Oggi assistiamo a fenomeni di chiusura da parte dei poveri di ieri nei confronti dei nuovi poveri, visti come una minaccia al piccolo benessere recentemente conquistato. L'antica solidarietà viene soppiantata dalla difesa egoistica del proprio orticello e, invece dello stato sociale si invoca lo stato gendarme.

    b) La sfida della società multiculturale
    La globalizzazione non è un fenomeno assolutamente nuovo, ma mai come oggi si presenta caratterizzato da complessità e attraversato da un inesauribile movimento di rapidissima, imprevedibile trasformazione. Se un tempo si poteva affermare che ogni villaggio era un mondo (all'interno del quale molte persone trascorrevano l'arco della loro intera esistenza) oggi è evidente a tutti come è il mondo ad essere diventato un villaggio. È in questo mondo-villaggio che la sfida si presenta con i contorni dell'ambivalenza, come rischio e come opportunità.
    La dimensione multiculturale dell'esperienza quotidiana è spesso percepita come una minaccia: convivere con persone che hanno non solo origini culturali diverse, diversi valori di riferimento, diverse abitudini ed esigenze sembra un'impresa non sostenibile se non a prezzo della perdita di qualcosa che si sente proprio, sia in termini materiali, spaziali, che simbolici. Si è poco disposti a fare spazio e ad aprirsi alle possibilità dell'incontro, si teme che la propria stessa identità venga radicalmente minacciata. Da qui il rinchiudersi nel localismo sempre più esacerbato, l'edificazione di nuovi muri, più o meno simbolici.
    Ci siamo lasciate alle spalle le macerie materiali e mondiali della grandi guerre "mondiali", abbiamo conosciuto la lunga ricostruzione e poi l'accelerato sviluppo economico e i grandi miglioramenti del nostro tenore di vita, ma non per questo viviamo in un mondo pacificato. Le crescenti disuguaglianze alimentano il conflitto sociale, l'irruzione dei poveri del mondo nelle nostre città sembra un attentato al nostro incerto benessere, quindi crescono i conflitti etnici (e quelli religiosi, perché lo straniero non solo viene osteggiato e contemporaneamente, ma la sua cultura e la sua religione sono negate).
    Senza negare fondamento alla paura generata dall'incertezza e dalla precarietà, può bastare questo per dimenticare basilari principi di umanità, prima ancora che di diritto? Come scrive Enzo Bianchi, sono proprio le emergenze che fanno emergere le vere radici da cui ci alimentiamo e aiutano a discernere le parole dai fatti. E questo è particolarmente vero per quanti si richiamano ai valori cristiani: «Anche per quanti si richiamano ai valori del cristianesimo la situazione drammatica di queste ultime settimane dovrebbe costituire un campanello di allarme: che cultura, che etica della vita si vuole comunicare e si riesce a trasmettere? Che ne è dell'attenzione al povero, allo straniero, alla vedova e all'orfano - cioè alle categorie che non avevano diritti ed erano indifesi alla mercè dei più forti? Che ne è dell'esempio delle prime comunità cristiane in cui si tendeva a che non ci fosse "nessun bisognoso" grazie alla condivisione, né si ammettevano discriminazioni nell'appartenenza tra giudeo o greco, uomo o donna, schiavo o libero? Che ne è delle parole di Gesù sull'amore per i nemici, sul perdono, sulla misericordia; o delle esortazioni dell'apostolo Paolo a "non rendere a nessuno male per male", a "vincere il male con il bene", a "cercare sempre il bene tra voi e con tutti"? E, per calarci direttamente nelle problematiche odierne, che ne è delle parole che Paolo VI pronunciò nel 1965 a rom e sinti: "Voi siete nel cuore della chiesa"? A quale conversione hanno spronato le richieste di perdono fortemente volute da Giovanni Paolo II come momento penitenziale del Giubileo del 2000? Utopie irrealizzabili, verrebbe da dire di fronte alla vastità dei problemi che il fenomeno mondiale delle migrazioni pone alle nostre società occidentali più ricche, ma la differenza cristiana che queste istanze evangeliche pongono come ineludibili si misura anche e soprattutto nelle circostanze più difficili» [6]. E conclude: «Se quella in cui siamo scivolati è un'emergenza, essa non ha il nome di un'etnia, ma quello della nostra civiltà» [7].

    c) La sfida dell'artificializzazione
    Chi è l'uomo che siamo chiamati ad educare?, ci siamo chiesti all'inizio di questa riflessione. e ancora un uomo "umano"?
    Siamo ormai in presenza della possibilità di individuare una nuova forma di soggettività tecnoumana, fondata su una sintesi di uomo e di macchina, la cui estensione non viene racchiusa entro i limiti del corpo, ma si allarga fino ai confini dello spazio elettronico disponibile (l'uomo bionico). Con preoccupazione avvertiamo il diffondersi dei caratteri dell'ipermentalismo e della virtualizzazione, cioè la dominanza dell'esperienza sostitutiva e rappresentativa sull'esperienza reale e la perdita del senso del limite. Il rischio è quello del ripiegamento in uno sterile soggettivismo auto-referenziale, mentre la persona costruisce se stessa quando è aperta alla relazione, all'accoglienza dell'altro, alla solidarietà.
    La possibilità di ricorrere all'artificialità di "protesi" facilmente a portata di mano è ormai estremamente diffusa e sono solo pochi a poter avere un rapporto non protesico con le tecnologie, quelli che le sanno programmare o utilizzare in maniera esperta, mentre si va sempre più diffondendo una posizione di tipo passivo-dipendente. Le nuove tecnologie offrono opportunità che non vanno sottovalutate, ma il loro corretto utilizzo richiede una seria "alfabetizzazione", che faccia da antidoto nei confronti delle deviazioni verso la "protesizzazione" esasperata.
    Lo sviluppo delle nuove tecnologie dell'informazione ha anche un'altro effetto: quello di accelerare tutti i tempi del nostro vivere quotidiano: i tempi di lavoro, i tempi di comunicazione, i tempi di riposo, eliminando così quei rallentamenti, quelle pause, quei "tempi morti" che facevano da "tampone" tra le nostre diverse attività, e che ci consentivano delle pause salutari, permettendoci di prendere un po' di distanza dall'immediatezza e di riflettere.
    Con le nuove tecnologie ogni evento, anche il più lontano, ci viene subito comunicato "in diretta", col risultato che nella nostra percezione degli eventi del mondo, tutto ci appare contemporaneamente, qui e adesso: tutto diventa il presente.
    Ma c'è di più. Dal momento che i media contemporanei sono sempre più assoggettati alle regole del commercio, accade che un evento non venga soltanto comunicato immediatamente, ma anche spettacolarizzato. Tutto si fa spettacolo, tutti gli eventi si appiattiscono in uno show omogeneizzante, dove la tortura o l'assassinio in diretta ci appare alla stessa stregua della vittoria sportiva o dell'evento mondano, tutto al presente senza pause e senza marcatori temporali che ne sottolineino la transizione.
    Inoltre un evento non viene mai soltanto comunicato, ma sempre incorniciato in un commento che ne amplifica la spettacolarizzazione e, sostituendosi alla riflessione, rende ancora più difficile una personale considerazione critica. Facendo così di tutti i tempi un unico presente omogeneo, si espropria l'individuo dei suoi tempi, e in particolare dei tempi personali che gli sono indispensabili per l'elaborazione di un pensiero critico autonomo.
    Le nuove tecnologie finiscono per enfatizzare la confusione tra realtà e finzione, tra mondo "vero" e mondo "virtuale".

    d) La sfida del ripiegamento narcisistico
    Uno dei principali problemi che il preadolescente e l'adolescente incontrano, ma che si origina già nelle età precedenti dell'infanzia e della fanciullezza, è quello di "nascere socialmente", cioè di uscire dal guscio iperprotettivo di una famiglia che vive con disagio il compito educativo, specie quando questo compito richiede il superamento di modalità relazionali tutte vissute nella fusionalità di una dimensione affettiva avvolgente, per assumersi la responsabilità e la fatica di insegnare delle "regole", di porre dei confini di contenimento, di incoraggiare all'assunzione di iniziative e di sperimentare l'esercizio della responsabilità personale. In una famiglia nella quale il padre è per lo più assente, la madre che lavora ha bisogno di sapere che il figlio sta bene, e che anche a scuola è nutrito affettivamente come avviene in casa, è "felice".
    In questo tipo di contesto il periodo adolescenziale è particolarmente delicato perché il distacco dalla famiglia non è né incoraggiato né desiderato, il ragazzo non è sostenuto nella difficile impresa del commiato dall'infanzia e nei suoi confronti si sviluppa una comunicazione contraddittoria: da un lato viene irretito in una affettività che frena il distacco, dall'altra viene rimproverato perché non si accettano più certi tratti "infantili" che ancora lo caratterizzano e gli si rinfaccia di non essere ancora "grande".
    Il rapporto con il presente e con il futuro degli adolescenti è oggi molto diverso rispetto al passato. Il presente è meno conflittuale, la famiglia "affettiva" è uno spazio accogliente nel quale le tensioni sono molto più blande. Un tempo i ragazzi sognavano di andarsene da casa, di conquistare la propria indipendenza. Oggi, anche perché non sostenuti nella loro avventura di crescita, gli adolescenti provano una grande paura di non farcela, temono il futuro e vivono con disagio il presente. Spesso è per sopportare l'angoscia dello stallo evolutivo che sperimentano diverse vie di fuga dalla realtà, dai diversi tipi di trasgressione, all'uso delle sostanze e, nei casi più estremi, al commettere reati.
    La paura di non farcela è accresciuta da una diffusa situazione di incertezza riguardo al futuro presente nella nostra attuale cultura. La costruzione di sé richiede un buon rapporto con il passato (tradizione) e una prospettiva positiva per il futuro (progetto di vita); vivere nella società dell'incertezza, in un contesto nel quale si respira apprensione per il futuro, in una cultura segnata dal tramonto dei grandi sogni delle ideologie, aggrava il disagio esistenziale. I ragazzi hanno bisogno di adulti che sappiano aiutarli a connettere passato-presente-futuro, che sappiano prospettare il futuro come una meta affascinante e per loro un compito di realizzazione, ma si trovano troppo spesso, anche nella scuola, di fronte ad adulti scettici, feriti dalla caduta dei loro sogni giovanili, deludenti.
    Crescere comporta uscire dal ripiegamento narcisistico, dalla situazione protetta, accettare un ruolo sociale, assumere delle responsabilità i confronti degli altri. Oltre alle difficoltà che oggi i giovani incontrano alle quali già si è accennato, si aggiunge la grande familiarità nei riguardi della dimensione virtuale che rende ancora più difficile il rapporto con la realtà. Il disagio nei confronti del proprio corpo, le svariate forme di manipolazione anche violenta alle quali viene sottoposto, sono sintomi di questa più profonda difficoltà e si tratta di una questione delicatissima, dal momento che, dal punto di vista psicologico, il sentimento di realtà è fondato sull'io corporeo. Quando c'è incapacità di accettarsi come corpo, percependone realisticamente i confini, viene preclusa la capacità di percepire correttamente la realtà più vasta.
    Se il tema della corporeità è centrale nel processo di apertura alla realtà, va aggiunto che il periodo adolescenziale è caratterizzato da altre "fughe", oltre a quella dell'accettazione della propria dimensione corporea, che sono altrettanti ostacoli: fuga dagli altri (anche quando l'adolescente si traveste all'interno di un gruppo nel quale le identità si annullano); fuga dal tempo (del passato si rifiuta la tradizione, sentita estranea e dalla quale si prendono le distanze; del presente si rifiutano i disagi e l'assunzione di un ruolo sociale; nel futuro non ci si proietta in termini realistici); fuga da Dio, di cui al massimo viene coltivata una dimensione intimistica, affettiva, oggetto di sfoghi personali, senza che ci sia interesse e impegno a far evolvere la propria religiosità in termini più maturi.

    e) La sfida della competitività esasperata
    Le tecnologie dell'informazione, informatiche e telematiche, hanno provocato nell'ultimo decennio uno scenario di radicale transizione sociale verso nuove forme di vita e di organizzazione sociale che ha fatto parlare dell'avvento di una nuova società, la "società della conoscenza". L'economia in trasformazione richiede competenze, più che capacità esecutive, flessibilità e capacità di continuo apprendimento, più che ripetitività e rispetto di rigidi mansionari. Da questo punto di vista, la capacità di apprendere è considerata risorsa centrale, e la prospettiva inevitabile è quella di un apprendimento non ristretto ai banchi di scuola, ma dilatato secondo la logica delle tre ELLE: long life learning. È emblematico come, tra gli obiettivi del "protocollo di Lisbona" del 2000, si punti a fare dell'Europa, investendo sulla formazione, "l'economia più competitiva al mondo".
    Ma il passaggio all'economia post-industriale si accompagna ad un aumento dei fenomeni di precarizzazione e di de-regolazione del lavoro che mettono in crisi il tradizionale sistema di relazioni sociali. Nel contempo la globalizzazione e la informatizzazione contribuiscono ad aumentare la disoccupazione o sotto-occupazione che, a differenza della prima e della seconda rivoluzione industriale, non riesce più ad essere interamente assorbita dai settori emergenti. Di conseguenza i nostri sistemi sociali non riescono ad assicurare a tutti un accesso equo alla prosperità, a modalità decisionali democratiche e allo sviluppo socio-culturale personale.
    Il giovane di oggi vive una situazione caratterizzata da una scarsità ignota alle epoche precedenti: quella della speranza, e quindi della possibilità di elaborare un significativo e realistico progetto di vita.

    LA SFIDA DELL'EDUCAZIONE

    Come fare allora perché le nostre azioni educative sappiano fronteggiare le tante sfide alle quali la persona e la società sono oggi sottoposte? Come agire per restituire all'individuo il tempo della riflessione personale? Come promuovere il rispetto dei ritmi lenti, specifici del pensiero critico autonomo, la ricostruzione dei nessi concettuali che collegano i tempi del passato con i tempi del prossimo futuro? Come conciliare i tempi corti dell'efficienza economica e dei risultati immediati, con i tempi lunghi dell'elaborazione del giudizio etico? Come promuovere le relazioni personali nella cultura delle connessioni virtuali? ...
    L'educazione non si limita mai alla presa d'atto, alla rilevazione sociologica, alla crudezza dei dati e delle statistiche. L'educazione è trasformativa, si nutre di speranza, guarda al futuro in termini non di inesorabilità, ma di responsabilità.
    Scrive Bruner: «L'educazione è pericolosa perché alimenta il senso della possibilità». Ci sono quattro parole chiave che ci possono fornire una bussola:
    persona;
    comunità;
    autorevolezza; pensiero.

    Persona

    La pedagogia orienta l'educazione, ma essa stessa ha bisogno di una direzione di senso. Il rapporto con i saperi di senso è indispensabile. Il riferimento all'antropologia cristiana offre un contributo indispensabile al compito educativo, aiutando a dare significato ad alcune parole chiave del discorso pedagogico. La principale è, certamente, la persona.
    La "Gaudium et Spes" ci ricorda che la cultura umanizza l'uomo e, attraverso la cultura, l'uomo umanizza la natura, la società, le relazioni con gli altri. Il fondamentale contributo che il cattolicesimo apporta all'educazione è il suo riferimento alla centralità della persona umana, per la quale propone come paradigma interpretativo la Trinità (ad immagine di Dio non è l'uomo o la donna, ma la coppia), la dimensione relazionale è costitutiva della persona e il dialogo ne è il cuore.
    In questo modo alla asimmetria mercantile, funzionale, della relazione ormai meramente utilitaristica tra individui si contrappone una relazione fondata su una diversa asimmetria, quella della differenza solidale, nella quale l'altro non è sfruttato o sfruttatore, ma un dono che mi fa più ricco. Il fondamentale criterio di verità è dato dall'ultimo, dal marginale, dall'altro che, da straniero, è diventato prossimo: quanto più l'educazione cattolica non dimenticherà i piccoli, i poveri, i disperati, tanto più saprà trovare il cammino dell'annuncio e della "buona novella" e, al tempo stesso, il senso della trasmissione della cultura in un contesto in via di secolarizzazione.
    Se si prende come riferimento centrale la persona, la prima domanda che ci dobbiamo fare non è "che cosa è utile oggi insegnare?", ma "chi educhiamo?". La parola e-ducere, lo sappiamo bene, ha a che fare con il promuovere ciò che è, nella persona, la grande potenzialità di bellezza, di ricerca, di realizzazione, di responsabilità, di solidarietà, di impresa ed è collegata all'intro-ducere, cioè all'accompagnamento a scoprire la realtà, fatta di persone, di fatti, di eventi. L'arte, la storia, la letteratura, le scienze non sono che strade tracciate da uomini per scoprire e conoscere questa realtà che ci precede e ci circonda, e la nostra stessa realtà umana.

    Comunità

    L'ambiente educativo nel quale la persona è realmente al centro ha i tratti della comunità, non quelli dell'organizzazione burocratica o efficientistica. L nella comunità educante che si coltiva una diffusa convivialità relazionale, viene valorizzata la diversità, ci si prende cura di tutti e di ciascuno, si promuove la condivisione dei valori, si favorisce il confronto e si insegna il rispetto, si sollecita la partecipazione e l'assunzione personale di responsabilità.
    La comunità è, dunque, luogo di libertà e, in quanto tale, di educazione alla libertà.
    Nell'e-ducere, nel tirar fuori ciò che si è nella relazione con gli altri, si impara autenticamente ad apprendere. Obiettivo dell'educazione è di far nascere il "tarlo" della curiosità, lo stupore della conoscenza, la voglia di declinare il sapere con la fantasia, la creatività, l'ingegno, la pluralità delle applicazioni delle proprie capacità, abilità e competenze, ma anche la responsabilità dell'uso delle proprie conoscenze e competenze per il bene comune, per l'edificazione della città dell'uomo.
    L'identità personale si costruisce soltanto nella relazione, anzi in una ricca trama di relazioni significative. Il rischio è quello del ripiegamento in uno sterile soggettivismo autoreferenziale, mentre la persona costruisce se stessa quando è aperta alle dimensioni della alterità, della relazionalità, dell'altruismo, della solidarietà.
    Oggi si riconosce nei giovani un significativo orientamento verso i valori della pace e della solidarietà ed una diffusa disponibilità a svariate forme di volontariato. Sono punti di forza dai quali muovere, con la consapevolezza, però, che non è scontato passare dall'orientamento emotivo ed anche da generose azioni episodiche ad una apertura autentica alla dimensione comunitaria.
    L'educazione all'incontro, al dialogo, alla riflessività critica nei confronti di se stessi e della comunità di appartenenza rappresenta un itinerario da frequentare con sempre maggiore consapevolezza e intensità. Perché i giovani possano essere dialoganti e solidali è però necessario il sostegno di una comunità che testimoni tali valori. Oggi questo è particolarmente difficile, sempre più, infatti, i contesti di vita sono neutri, asettici, oppure improntati ai valori dell'individualismo e della competizione esacerbata.
    Ancora peggio, i valori vengono proposti secondo modalità comunicative contraddittorie, affermati a livello di principio con dichiarazioni solenni, da parte di persone che ricoprono posti di massima autorevolezza anche istituzionale (la politica italiana in questo caso credo vanti un tristissimo primato); negati a livello di comportamento personale, ispirato a modelli di vita che ne sono la negazione.
    Così, mentre si parla del valore della famiglia, si pratica una vita personale che ne è la negazione; si parla del valore del rispetto reciproco e dell'amore come dimensione indispensabile della sessualità nella vita di coppia, e si esibisce una vita dissoluta della quale non ci si pente, caso mai la si maschera o nega; si parla del valore dell'accoglienza e del dialogo tra le culture e si nutrono i sentimenti di intolleranza e di xenofobia
    Gli esempi potrebbero continuare, sono tanti e tali che non ci vuole un grande sforzo per riconoscerli. Forse ci vuole maggiore coraggio per denunciarli.
    Si tratta di lavorare affinché le comunità educative, famiglia e scuola in particolare, ma non solo, sappiano essere luoghi di sostegno alla crescita personale proponendo (testimoniando) modelli dialogici, conviviali, rispettosi delle persone e delle loro diverse identità. Il deterioramento del senso della comunità è oggi uno dei principali fattori della difficoltà della crescita dei giovani, ai quali viene a mancare un essenziale supporto al loro sviluppo. Bisogna predisporre, nei vari spazi di vita e nei diversi tempi dello sviluppo personale, itinerari educativi che guidino il singolo ad avvertire ed accogliere la presenza dell'altro, ed a percepirsi come alterità per l'altro, dal momento che la conquista dell'identità è sempre conquista della propria diversità, nella ricchezza dello scambio interpersonale.
    La centralità della persona comporta, inevitabilmente, la centralità della preoccupazione pedagogica. Solo quando gli ambienti di vita dei ragazzi e dei giovani sono ispirati al valore della comunità siamo in presenza di un habitat culturale veramente ospitale per la crescita e lo sviluppo della persona umana, antidoto alle pressioni consumistiche, alle suggestioni utilitaristiche, alle sirene di un dilagante materialismo, edonistico, egoistico, intollerante, sterile.
    Tale habitat è sufficientemente accogliente, perché il bisogno di riconoscimento del giovane sia soddisfatto, e sufficientemente incoraggiante, perché ci si possa mettere alla prova; è un luogo significativo, perché chi ha la responsabilità educativa sa costruire l'indispensabile nesso tra le cose che propone e la vita dei ragazzi.
    All'educazione spetta il compito di formulare non una "offerta" consumisticamente allettante, ma una ipotesi educativamente esigente, che non semplicemente accontenta gli istinti individuali o i bisogni immediati, coinvolgendo gli adulti che hanno responsabilità educative in un compito impegnativo di co-educazione (non si è estranei al processo educativo, ma chi educa gli altri è coinvolto personalmente, senza scampo, messo con le spalle al muro, perché la credibilità di ciò che propone risulta tale solo se è testimoniata, altrimenti fa scandalo).

    Autorevolezza

    Quello che appare sempre più importante come fattore indispensabile di crescita è la presenza dell'adulto. Crescere comporta uscire dal ripiegamento narcisistico, dalla situazione protetta, accettare un ruolo sociale, assumere delle responsabilità i confronti degli altri. Questo vale sempre, anche per i bambini, ma, in maniera più esplicita, e diretta l'adolescenza pone i giovani di fronte alla dimensione del futuro, che, nella sua indeterminatezza, è fonte di ansia. Non si sa "dove" andare, perché è mancato un orientamento; non si hanno le forze, perché non ci si è messi alla prova, e diventa difficile abbandonare le sicurezze di una posizione privilegiata. Charmet fa notare come il disagio che gli adolescenti hanno nei confronti del loro corpo sia segnale di un ben più grave disagio, quello di percepire adeguatamente la "realtà", di elaborarne una rappresentazione adeguata e di misurarsi con essa.
    Rispetto a questo bisogno il confronto con figure di adulti diversi dai genitori, che siano percepiti come competenti, autorevoli, costituisce per gli adolescenti un riferimento significativo, una grande risorsa alla quale attingere per la ricomposizione di una identità frammentata, compromessa, indefinita.
    Potremmo dire che, oggi non diversamente da ieri, il giovane ha bisogno di incontrare "maestri". Non è facile che un tale incontro accada.
    Facciamo ancora l'esempio della scuola. Troppo spesso le aule sono frequentate da personaggi sbiaditi, che hanno perso le loro illusioni giovanili, che si lamentano per la scarsa considerazione sociale ed economica di cui godono, che si percepiscono prigionieri di un'organizzazione burocratica, nella quale le carte da compilare aumentano, il tempo disponibile diminuisce, la fatica dello stare in aula si fa sempre più sentire.
    Sono ormai numerose le indagini che ci informano del grado di malessere, di stanchezza, di disaffezione che caratterizza un rilevante quota di docenti in servizio.
    Del resto non solo nell'attuale generazione dei docenti, ma in generale nella realtà degli adulti che i giovani incontrano è diffuso un sentimento di sfiducia o di apprensione per il futuro. Sono crollate le grandi visioni ottimistiche e l'incertezza e la precarietà caratterizzano la concezione della vita e vengono abbondantemente comunicate ai giovani. La crisi delle ideologie e la precarietà del presente rende ancora più difficile motivarli e sostenerli nell'elaborazione di progetti per il futuro.
    La preparazione professionale, la competenza tecnica, sono requisiti necessari, ma non sufficienti a rispondere alla domanda di significato che i giovani pongono. I giovani non ricercano negli adulti degli amiconi, dei compagni di gioco, dei semplificatori della complessità della vita, dei banalizzatori dei problemi; sono molto più esigenti nelle loro richieste.
    Non c'è nostalgia per forme di autorità di tipo formale, prive di plausibilità, false o violente. C'è però la consapevolezza dell'urgenza che, tanto in famiglia, quanto nella scuola e nei diversi contesti della crescita, sia possibile il riferimento ad un adulto responsabile, capace non di pretendere il rispetto formalistico di regole non giustificate, ma di offrire un riferimento alla crescita, un'ipotesi convincente e affascinante, una interlocuzione leale, il coraggio del contenimento e dell'indicazione del percorso. L'autorità così intesa è l'"altro" che consente di riflettere e di ri-orientare il cammino, di far guardare nella stessa direzione che cattura anche il suo sguardo. L'educatore è autorevole perché è credibile, perché l'ipotesi che propone è l'ipotesi che egli stesso sperimenta e testimonia. È stato detto che i giovani cercano adulti "competenti", competenti in ascolto, competenti in accompagnamento, competenti nel prospettare un senso per l'avventura della crescita e capaci non di "trattenere", ma indirizzare.
    La funzione degli educatori è quella di raccogliere la sfida che ogni bambino o adolescente pone all'adulto di cui ha bisogno, di accompagnare il suo percorso di elaborazione, di favorire l'assunzione di responsabilità, l'autonomia e quindi il distacco.
    E nella relazione educativa l'adulto, di cui l'adolescente ha bisogno, sperimenta quanto mirabilmente scrive Paul Claudel: «Colui che tu pensi di guidare, di fatto guiderà te».

    Pensiero

    Omologazione, istintività, deresponsabilità, tecnicismo, virtualizzazione: la società della conoscenza non è la società della ragione, e c'è la necessità della educazione al pensiero, come espressione di carità e di cura per l'uomo, con un duplice scopo: quello di aiutarlo ad allargare lo spazio della propria conoscenza del mondo per meglio abitarlo; quella, più profonda, di allargare lo spazio della conoscenza di sé, dell'approfondimento del proprio esserci nel mondo e quindi della propria umana vocazione: "per seguir virtute e conoscenza", come di Ulisse dice Dante. Educare alla ricerca è educare al pensiero, "allargare gli orizzonti della razionalità".
    Il pensare, secondo H. Arendt, è condizione indispensabile per poter distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ed esiste una relazione stretta tra il pensare analitico-critico e il pensare eticamente orientato: "La mancanza di pensiero - l'incurante superficialità o la confusione senza speranza o la ripetizione incessante di verità diventate vuote e trite - mi sembra tra le principali caratteristiche del nostro tempo. Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che pensare ciò che facciamo" (H. Arendt).
    Bisogna passare dalla società della conoscenza alla società della saggezza. «La conoscenza è un uso accorto dell'informazione. La saggezza implica invece di agire seguendo la conoscenza e i valori condivisi, così da rafforzare il benessere di ciascuno nella consapevolezza che le azioni del singolo hanno ripercussioni sull'intera società» [8]. Non si tratta di decidere se arrestare o meno lo sviluppo tecnologico o scientifico, ma quale direzione vogliamo dare a questo sviluppo?
    Compito dell'educazione è quello di contribuire al delinearsi di un "nuovo umanesimo", misurandosi con la dimensione della complessità (comprendere le implicazioni per la condizione umana degli impressionanti e imprevedibili sviluppi della scienza e della tecnologia; misurarsi con i limiti della conoscenza e le nuove possibilità che si aprono, valorizzando la collaborazione tra le varie discipline per fronteggiare i grandi problemi dell'attuale condizione umana: ambientali, climatici, energetici, bioetici ...), facendo dialogare i saperi scientifici e quelli umanistici, avvicinano discipline divenute distanti. L'allargamento delle conoscenze non è sufficiente, anzi, se non è accompagnato da una visione di ricomposizione sintetica, se si esprime in maniera centrifuga e frammentata è pericoloso.
    Se il mondo della tecnologia e della scienza si sottraessero all'interrogazione di senso del pensiero, "allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercè di ogni dispositivo tecnicamente possibile per quanto micidiale" (H. A.).
    Pensare è diverso da conoscere (thinking is not knowing); mentre conoscere ha a che fare con la ricerca dell'allargamento del sapere, pensare ha a che fare con la ricerca del significato.
    La scuola, e, ancora di più, l'università sono, certamente, luoghi privilegiati di ampliamento della conoscenza (il sapere), ma dovrebbero ancora di più essere luoghi di educazione alla ricerca del significato (delle "irrispondibili domande di significato", sempre per citare H. Arendt).

    In sintesi

    Si tratta di sviluppare, nel campo delle attività educative, la capacità di proposte alternative, che coinvolgono la famiglia, la scuola, il mondo economico, politico, i soggetti culturali, quanti operano nella dimensione del sociale. È urgente un recupero della fantasia e della capacità di gioco degli adulti, ad una diversa impostazione dei caratteri dell'alfabetizzazione scolastica, ad una profonda revisione degli schemi e delle strutture del tempo libero, alla formazione di educatori "alternativi" come capacità di proposta e di invenzione rispetto ai grandi canali dello spettacolo e del divertimento commercializzato, ad una riconsiderazione dei mondi dello sport e del turismo.
    Per quanto attiene al rapporto interpersonale, ad esempio, è chiaro l'imperativo di porsi come "realtà" di persona di fronte ad un'altra realtà altrettanto personale senza negarsi e senza rinunciare alla propria proposta impegnativa di valori e di significati: l'identità, infatti, cammina nella libertà ma non può sostenersi nel vuoto.
    Senza "racconti di vita" non si costruiscono né l'appartenenza né l'identità, poiché «la competenza nella costruzione e nella comprensione di racconti è essenziale per la costruzione della nostra vita e per crearci un "posto" nel mondo possibile che incontreremo» (J. S. Bruner). Ne possiamo ricavare una rappresentazione dell'educaziOne come luogo di "narrazioni", cioè di storie che si inscrivono con forza di richiamo e potenzialità di ricordo nella mente dei bambini, dei ragazzi e dei giovani. Va però precisato che c'è racconto e racconto; quello che ci vuole non è l'evasione ma la costruzione di un mondo immaginario "più grande" (ricco di tutte le possibilità compiute e mature) che possa aiutare a far crescere (progettare, perfezionare) il mondo "più piccolo" ma concreto nel quale dobbiamo comunque continuare ad esistere. Non abbiamo bisogno, pertanto, di racconti qualsiasi ma di narrazioni il cui senso rimane il sostegno a stare nel mondo, per migliorarlo.
    Possiamo così riassumere, in termini estremamente sintetici, il rovesciamento auspicato: dalle sfide che oggi vengono poste all'educazione alla capacità dell'educazione stessa di essere sfidante:

    dalla cultura del funzionalismo... alla cultura della comunità
    dalla cultura dell'individualismo... alla cultura della responsabilità
    dalla cultura dell'inospitalità... alla cultura del dialogo e dell'incontro 
    dalla cultura della competizione... alla cultura della solidarietà 
    dalla cultura del narcisismo... alla cultura dell'autorevolezza 
    dalla cultura della doppia morale... alla cultura della testimonianza 
    dalla cultura della massificazione... alla cultura del pensiero.

    Questa sfida che l'educazione pone, rovesciando le sfide alle quali è sottoposta, è un compito possibile, oggi, o ci siamo spinti troppo in là? Forse la logica economicistica, del profitto a tutti i costi, della competizione senza regole, forse la legge della sopravvivenza di chi è forte, più spregiudicato e più furbo hanno reso definitivamente inattuali i nostri ideali?

    O c'è qualcosa che ciascuno di noi - non un altro - può fare?
    «A chi gli domandava in che modo si potesse sconfiggere la violenza del male, Francesco d'Assisi un giorno rispose: "Perché aggredire le tenebre? Basta accendere una luce e le tenebre fuggono spaventate"».

    NOTE

    1. «Se è vero, inoltre, che il nostro principale dovere consiste, secondo la profonda massima di Pindaro (e non di Nietzsche), nel diventare ciò che siamo, niente è più importante per ciascuno di noi e niente è più difficile che divenire un uomo. Così il compito principale dell'educazione è soprattutto quello di formare l'uomo, o piuttosto di guidare lo sviluppo dinamico per mezzo del quale l'uomo forma se stesso ad essere un uomo». MARITAIN J., L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia, 1987, p. 13-14.
    2. «Che cosa è l'uomo, che di lui ti ricordi, e il figlio d'uomo che di lui ti prendi cura?» (Salmo 8,4).
    3. Ducci E., "Quale formazione se importa l'uomo", in: Ducci E. (a cura), Il margine ineffabile della Paideia, Anicia, Roma, p. 20.
    4. MARITAIN J., L'educazione ..., cit., p. 13.
    5. Cfr: Card. A. SCOLA, Educare nella società in transizione, Omelia in occasione della Festa del Santissimo Redentore, Venezia, 16 luglio 2006.
    6. BIANCHI E., Stranieri come noi, Aliberti editore - Grafica Veneta - Padova, p.17-19
    7. !vi, p.20.
    8. P. BLASI, "I valori dell'università europea", in Seminarium, cit., p. 487.


    CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI ROSMINIANI
    SIMPOSI ROSMINIANI
    DECIMO CORSO DEI "SIMPOSI ROSMINIANI" STRESA, COLLE ROSMINI, 26-29 AGOSTO 2009
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