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    Esseri liberi

    per aprirci

    all'Infinito

    Giorgio Chiosso

     

    Libertà e ricerca del senso

    Si può pensare all'uomo in tanti modi: la storia ce lo consegna, secondo i tempi, come il creatore del linguaggio, della tecnica, dell'arte, della cultura, come il costruttore della socialità umana. Oggi è tuttavia alquanto diffusa, piuttosto, un'altra immagine.
    Gilles Lipovetsky, nel saggio dall'emblematico titolo L'era del vuoto, descrive l'uomo connotato dall'apatia e indifferenza sociale che esaltano la sfera psicologica (privata) senza con questo renderne più solida la personalità. Alla «dissoluzione dell'io» corrispondono la perdita dell'impegno e lo svaporarsi, conseguentemente, dell'educazione: «Lo sforzo non è più di moda, ciò che è costrizione o disciplina severa è svalutato [...]. La nostra cultura dell'immagine e del benessere stimola la dispersione contro la concentrazione». Conclude Lipovetsky, riprendendo l'immagine di Christopher Lasch: «Il narcisismo socializza desocializzando e la scena del presente è affollata da zombi». [1]
    Se vogliamo sfuggire a un mondo futuro popolato solo da zombi la questione va affrontata nel suo punto nodale. Va cioè ripensato l'apporto dell'educazione a partire da ciò che più di ogni altra caratteristica segna l'identità dell'uomo: il suo essere destinato a cercare il senso ultimo della vita, «ultimo» in quanto il più radicale in grado di condizionare tutti gli altri possibili interrogativi. [2] In quanto protagonista di questa radicale domanda/risposta l'uomo si svela destinatario dell'educazione alla libertà.
    Ma come educare alla libertà e attraverso di essa esplorare le vie del senso? Sta nella risposta a questo interrogativo il focus della riflessione pedagogica quando non si ferma alla descrizione delle pratiche dell'istruzione o rinuncia, per un malinteso rispetto dell'autonomia personale, all'intervento educativo, ma accetta la sfida della libertà.
    Non mancano fraintendimenti e riduzionismi su chi sia veramente l'uomo libero. Molti oggi guardano, ad esempio, alla libertà come alla possibilità di oltrepassare l'umano così come ci è stato consegnato dalla tradizione biblica e classica e cioè come possibilità di immaginare un mondo «trans-umano» o «oltre-umano» o «post-umano» (ormai le definizioni si moltiplicano) – così, per citare un caso, nelle teorie cosiddette del paradise engineering – nel quale si costruisce il superuomo grazie ai risultati della biogenetica, della neurochimica e delle nano-tecnologie. All'uomo della libertà e delle passioni si oppone l'uomo libero da ogni sofferenza, adatto ai bisogni del mercato, sicuro di sé e appagato dal benessere. Ma fatalmente questo uomo, posto che un nuovo dottor Frankenstein riesca a «costruirlo», sarà anche ridotto nel suo desiderio e sarà «deperibile quanto un bene di consumo, la sua perennità sarà in funzione del progresso tecnico e sarà dunque fragile e fugace come un telefono cellulare di ultima generazione». [3]
    All'opposto troviamo le tesi di quanti sono convinti dell'ineluttabile declino dell'umano fino al punto estremo di pensare che la riproduzione umana sarebbe un errore morale e sarebbe meglio astenersi dal generare figli. Non possiamo essere certi – questo l'argomento principe di chi sostiene questa tesi – che l'essere chiamato alla vita godrà di una felicità tale da poter controbilanciare le pene che la vita necessariamente comporta, a cominciare, o piuttosto a finire, dalla morte. Tanto varrebbe evitare la perpetuazione del genere umano. [4]
    La mondanità del pensiero moderno è a corto di argomenti per giustificare l'esistenza stessa degli uomini e finisce per deragliare o verso la prospettiva della massima efficienza o verso la disperazione esistenziale. Escludendo tutto ciò che trascende l'umano, natura o Dio, l'esperienza umana è priva di ogni appoggio. Senza la percezione e il riconoscimento del mistero che si cela in noi e negli altri non c'è infatti esperienza dell'umano e non sono neppure dati i presupposti della libertà.
    La libertà è infatti proprio la disposizione a indagare oltre la realtà, a misurarci con ciò che «non è ancora» o «non è subito», ad accettare la sfida (e il rischio) dell'imprevisto e del nuovo che ci interpella. È questa disposizione a usare la libertà che ci apre all'Infinito.

    Il punto di partenza: riconoscere il mistero della vita

    Ed è precisamente anche questo l'obiettivo dell'educazione: esercitare la libertà per esplorare il perché – e non solo il come – della vita. C'è da chiedersi se il mondo degli adulti, nascondendo l'Infinito attraverso la distorsione sul senso dell'educazione – funzionalità al lavoro, esaltazione di ricchezza, avvenenza, atletismo – non finisca per tradire i giovani, privandoli del loro diritto alla felicità.
    Ma ancor più ci si può interrogare se l'eclisse dell'Infinito nella vita pubblica non sia una delle ragioni della crisi del nostro tempo che non è solo economica, ma è una crisi di speranza e di desiderio del futuro.
    L'Infinito non si scopre all'improvviso come se si trattasse di una folgorazione improvvisa. Il rapporto con l'Infinito si costruisce nel tempo, permea abitudini quotidiane, matura con l'accettazione del rischio di misurarsi con le proprie responsabilità, riconosce nelle regole della vita non dei vincoli oppressivi, ma utili segnavia che, proprio come accade con i sentieri di montagna, ci indicano itinerari che l'esperienza di chi ha già provato suggerisce come affidabili.
    L'educazione inizia con il riconoscimento del mistero della vita. La vita ci è stata donata da chi ci ha amati e voluti prima ancora della nostra nascita. La logica della «filiazione» non può essere compresa al di fuori della logica del dono. Introdurre i bambini all'idea che la nostra esistenza non è un «diritto», ma un «dono», è il primo passo per la comprensione non solo che non tutto è dovuto, ma che c'è qualcosa/qualcuno che va oltre noi stessi, verso cui abbiamo sentimenti di gratitudine. [5]
    Questa parola, che sembra scomparsa dal vocabolario pedagogico del nostro tempo, costituisce la prima e fondamentale esperienza attraverso cui matura il senso del limite proprio della condizione umana (l'infinitamente piccolo/infinitamente grande di cui parla Pascal). La cartina di tornasole di quest'esperienza è la capacità di produrre e mantenere relazioni di qualità con il mondo, con le altre persone, con se stessi. Ogni volta che ci si sorprende chiusi, rancorosi, oppressi, incapaci di esprimere gratitudine, è possibile affermare con sufficiente sicurezza che qualcosa ha intaccato il nostro rapporto con la vita.
    Insegnare a dire «grazie» non è solo segno di buona educazione, ma costituisce il passo necessario per dare vita a un'esperienza che ci proietta «fuori di noi». In questo «uscire da noi stessi» (Guardini) si oltrepassa il narcisismo di chi ritiene (o è stato abituato a pensare) che tutto è nelle sue mani e che tutto gli è dovuto, quel narcisismo che Lasch ha descritto come un vero e proprio cancro che attenta alle categorie antropologiche più fondamentali. [6]
    Sfuggire ai limiti del narcisismo – secondo cui tutto inizia e finisce con me stesso – significa aprirsi agli altri, fare esperienza degli altri e riconoscere negli altri noi stessi. Questi sentimenti sono alla base delle esperienze gratuite che danno senso alla nostra esistenza: l'esperienza dell'amore, la coltivazione della bellezza, il sentimento del perdono.

    L'educazione tra realismo e speranza

    Chi è impegnato in campo educativo è chiamato a un bagno di realismo e all'esercizio della speranza: realismo perché occorre saper fare i conti con la realtà degli uomini e dei loro bisogni, distinguendola da quella virtuale e da quella del mercato; speranza perché attraverso di essa tessiamo il filo del futuro possibile e desiderabile e non cediamo alle lusinghe dell'assurdo o della disperazione.
    Nella lettera alla diocesi di Roma del gennaio 2008 Benedetto XVI, riprendendo alcune riflessioni proposte nella lettera enciclica Spe salvi, indica proprio in «una speranza affidabile l'anima dell'educazione, come dell'intera vita», in modo da scongiurare «di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini "senza speranza e senza Dio in questo mondo", come scriveva l'apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui – prosegue il papa – nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita». [7]
    Per cogliere nella sua sostanza il senso della frase, occorre collocarla nel quadro complessivo disegnato dall'enciclica sulla speranza.
    Nella prima parte di questo testo viene illustrato in che modo la speranza cristiana anima le prime comunità di cristiani e le rende così diverse dalla mentalità pagana. Nella Lettera agli Efesini già sopra ricordata e in quella ai Tessalonicesi l'apostolo Paolo individua come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi possano sfuggire allo scetticismo perché dispongono di un futuro. Non che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto ed è dotata di senso. [8]
    Detto in altro modo: il cristianesimo non è soltanto una «buona notizia» perché comunica contenuti fino a quel momento sconosciuti, ma è una comunicazione che produce fatti e può cambiare la vita. Chi ha speranza – e la speranza ci è donata con la fede in Gesù Cristo –non ha paura del futuro e vive in modo diverso dai pagani la propria esistenza umana.
    Questa semplice ma rivoluzionaria conquista si è però pervertita nel corso dei secoli: alla speranza si è sostituita, gradualmente ma sostanzialmente, l'idea di progresso umano. «Così – scrive ancora Benedetto XVI – la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza nel regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero "regno di Dio"». [9] Per qualche tempo la speranza nel progresso mondano ha mobilitato tutte le energie dell'uomo. Poi ci si è resi drammaticamente conto che la sola ragione e la sola scienza non sono in grado di assicurare il miglioramento del mondo: le grandi conquiste scientifiche e i grandi sistemi filosofici possono essere piegati a vantaggio dell'uomo o contro l'uomo.
    L'umanità, smarrita la speranza cristiana o in modo più sconvolgente la speranza tout court, è sprofondata nell'abisso dello scetticismo, dell'individualismo, del prevalere dell'avere contro l'essere. Uno smarrimento che ha fatto parlare di un mondo neo-pagano non tanto e non solo nei suoi stili di vita, ma nella sostanza stessa della sua identità connotata da un'immanenza totale ovvero da un presente assolutizzato e, di conseguenza, da una crisi, per l'appunto, nella fiducia del futuro della vita.
    Una crisi che segna soprattutto il mondo occidentale e in modo tutto particolare l'Europa del benessere e del superfluo, che appare come esausta dopo una lunga corsa. Tentato di rinnegare o, per lo meno, dimenticare le sue radici cristiane, con la conseguenza di scordare il suo passato e quasi incapace di pensarsi nel futuro come una comunità dotata di una propria identità, il vecchio continente appare oggi diviso tra tentazioni individualistiche ed egemonia delle regole economiche.
    Se non abbiamo fiducia nella vita, se ci identifichiamo nelle cose che possediamo e non in ciò che siamo, se dimentichiamo il significato della parabola dei talenti o la riduciamo alla sola dimensione della ricerca del successo immediato, allora il passaggio alla crisi dell'educazione e alla sua semplificazione/riduzione alla nozione di formazione come è stata poco fa descritta è ineluttabile.
    Del tutto diverso è lo scenario dominato dalla speranza. Educare nella speranza significa aiutare i giovani ad andare «oltre le cose», a esercitare la capacità di cogliere il mistero che ci sta di fronte, a crescere in un tessuto di relazioni umane attraverso le quali l'amore di Dio si manifesta in noi. Significa accompagnare i giovani a inoltrarsi a scoprire lo stupore, a contemplare la bellezza, a vivere i sentimenti come un dono e non come un possesso.
    Un'esperienza possibile solo se gli adulti sono capaci di testimoniare una speranza «generativa» proposta attraverso relazioni inter-soggettive ricche di «senso», intendendo quest'ultimo come la disposizione di dare un nome alle proprie convinzioni ed esigenze, azioni e relazioni «entro un ordine più vasto che orienta il progetto del vivere e aiuta la valutazione dell'agire, [...] una realtà più grande di sé entrocui si formulano ipotesi, con cui si instaurano confronti e anche conflitti, ma con cui si ha comunque riferimento e si è in comunione») [10]

    Itinerari educativi

    La libertà, la gratitudine e la speranza sono i tre grandi pilastri pedagogici su cui poggia l'azione educativa che non è addestramento, adattamento, istruzione, assistenza, ma accompagnamento gratuito dell'altro verso la pienezza del suo essere.
    Il pedagogista è sfidato a indicare, oltre ai principi, anche gli itinerari praticabili. Mediante quali vie, dunque, il processo educativo – unendo intelligenza e volontà – può assicurare alla persona umana il massimo sviluppo delle sue potenzialità intellettive, sociali, morali e religiose e dunque introdurre al pieno esercizio della libertà e della responsabilità e, per i credenti, alla fede?
    Propongo quattro suggestioni per comporre un possibile quadro di azione educativa. Esse costituiscono anche la trama intorno a cui è possibile comunicare la fede. Per parlare di Dio con efficacia occorre non solo una chiara identità cristiana, ma altresì la capacità di trasmettere la bellezza della fede e del grande tesoro di cui disponiamo. Oggi non basta enunciare i «valori», bisogna saperli vivere insieme ai nostri figli e allievi.
    Il primo tassello riguarda proprio la vicinanza e la partecipazione dell'adulto all'impresa educativa. Non «fai come ti dico», ma «fai con me»: stare vicini vuol dire condividere la fatica di crescere, sapendo trovare il modo di «parlare al cuore». Questa è un'espressione che ricorre in tutta la tradizione educativa cristiana: significa saper entrare nell'interiorità dell'altro con la gioia di Filippo Neri, l'amorevolezza di cui ha parlato don Bosco, la sapienza di Antonio Rosmini.
    Non è vero che i ragazzi e i giovani non vogliono più saperne di adulti: è che spesso gli adulti non si occupano dei ragazzi e dei giovani, presi come sono da se stessi e dunque annebbiati dal loro smisurato ego, sempre pronti a parcheggiare i figli da qualche parte: con le tate, con i nonni, presso gli istruttori di danza e nuoto, soprattutto davanti alla televisione. Ma ancor più, molti adulti anagrafici non lo sono dal punto di vista esistenziale perché rincorrono una giovinezza perenne, non si assumono le responsabilità che spetterebbero loro, preferiscono il compromesso di bassa qualità alla leale e coraggiosa difesa delle proprie convinzioni, essi stessi spesso desiderosi di annegarsi nella virtualità piuttosto che accettare la quotidianità.
    Vi sono poi persone che hanno una forte identità cristiana e, malgrado ciò, non riescono a convincere nessuno. Spesso si rifiutano i «grandi racconti» e anche i «portatori della somma verità», perché sono proposti da persone che non sanno «parlare al cuore» e cioè non sanno entrare in rapporto con gli altri.
    Cosa significa saper parlare al cuore ce lo dice Daniel Pennac nel suo Diario di scuola. [11] Nella prima parte del racconto, Pennac narra la sua esperienza di «studente somaro» con l'interminabile serie di fallimenti, importanti però per fargli capire, una volta passata la barricata e diventato professore e genitore, come porsi verso gli studenti, e soprattutto verso gli immancabili somari. Pennac sottolinea come è arrivata la redenzione del suo status di «ultimo della classe», a un tratto trasformatosi in «affamato di conoscenze»: per lui, come per molti altri nella storia della scuola, a cambiare le carte in tavola è l'incontro con alcuni insegnanti innamorati del proprio lavoro e della propria materia a tal punto da spingere gli alunni ad amare lo studio e attraverso questo a riconquistare fiducia in se stessi.
    La sincerità è molto più attraente della sicurezza: è importante raccontare agli altri le ragioni che mi convincono a credere, ma anche parlare dei dubbi e delle perplessità. Si tratta cioè di mettersi accanto all'altro e di cercare insieme la verità. Certamente, io posso dare molto se ho fede; ma anche gli altri possono insegnarmi molto.
    Il secondo punto riguarda l'attenzione verso la formazione del carattere degli allievi. Fino a qualche decennio fa questo tema costituiva un motivo pedagogico centrale, ora è un argomento su cui poco si riflette. C'è da chiedersi se non sia il caso di riportarlo al centro non solo della riflessione educativa, ma anche delle prassi correnti. Siamo di fronte a una generazione di bambini e adolescenti molto più fragili e smarriti rispetto al passato, una generazione che è stata appellata da Galimberti «del nulla», definizione allarmante per chiunque si occupi di educazione.
    Naturalmente le ragioni di questa fragilità patologica (la fragilità tout court è una condizione connaturata con l'esperienza umana) [12] sono tante. I bambini e i ragazzi sono sottoposti a una pressione psicologica fortissima dietro le spinte e le aspettative degli adulti, spesso smisurate. E poi ci sono i messaggi veicolati dai grandi media, i modelli proposti dal consumismo, la confusione tra ciò che conta realmente e ciò che è effimero, la precoce introduzione alla vita sessuale.
    Occuparsi della formazione del carattere significa aiutare i bambini e i ragazzi a orientarsi nella babele post-moderna e ad accompagnarli verso la maturazione della responsabilità personale, ovvero a saper gestire la loro libertà. In altre parole significa aiutarli a dare un senso alle loro azioni.
    Diventare responsabili è frutto di una conquista graduale che comincia dalla scuola dell'infanzia. È proprio attraverso l'interiorizzazione della norma morale che si definisce la libertà dell'uomo consapevole di sé che si svolge nel continuo confronto con la realtà nella quale si trova e non con un mondo che non esiste se non nel desiderio o nel sogno. [13]
    Il terzo passaggio riguarda il valore educativo del lavoro ben fatto. Non basta insegnare a fare, occorre fare bene e cioè con precisione, ordine mentale e senso della disciplina. Nella società dell'immagine e della comunicazione totale la restituzione in termini personali del lavoro ben fatto costituisce davvero un aspetto che rischia di apparire un po' rétro. Le cose che oggi contano sono altri parametri: l'apparenza esteriore, il successo acchiappato a qualunque costo, la visibilità mediatica, l'esibizione dei vestiti griffati.
    Nel concetto del lavoro ben fatto stanno, invece, grandi virtù pedagogiche: l'individuazione di un preciso scopo da raggiungere, la mobilitazione delle capacità personali, la messa alla prova del soggetto che apprende, l'accompagnamento dell'insegnante o dell'educatore attraverso il sostegno e l'incoraggiamento e, infine, la correzione e la valutazione.
    Attraverso la correzione e la valutazione passano messaggi espliciti e impliciti di profondo peso educativo: il confronto con il maestro e cioè con una persona esperta (contrastando il rischio dell'autoreferenzialità personale), la perfettibilità dell'agire umano (e dunque la consapevolezza della possibilità di migliorare) e il senso di responsabilità verso il proprio lavoro (evitare la persistenza nell'errore).
    Come quarta suggestione individuo la condivisione solidale. Di fronte all'individualismo soggettivistico e al relativismo del nostro tempo è difficile veicolare il senso della tradizione nel significato proprio di questa espressione e cioè di un patrimonio che ci è donato gratuitamente, di cui noi facciamo uso e che siamo chiamati a reinventare per renderne il nucleo portante sempre attuale e vivo. Spesso la nozione di tradizione è confusa con quella di tradizionalismo, che consiste nella tentazione di imbalsamare il passato e nella rinuncia a reinterpretare nell'oggi i valori propri della tradizione.
    Senza la memoria del passato non andiamo lontano, perché perdiamo la consapevolezza delle nostre radici e diventiamo cittadini apolidi di un mondo sconosciuto.
    Un primo significato che possiamo attribuire alla nozione di condivisione solidale sta dunque nella consapevolezza di essere parte di una storia che, nell'evolversi nel tempo, si presenta a noi con una proposta che dà senso alla nostra vita. Noi non siamo che un piccola porzione di una staffetta che corre lungo i secoli e a cui compete di consegnare il testimone a chi viene dopo di noi. Sapere «chi siamo» significa semplicemente avere un'identità piena, capace di dialogare e confrontarsi senza reticenze con quanti si riconoscono in tradizioni diverse dalla nostra, senza rinunciare a ciò che siamo stati e che siamo.
    Ma c'è un secondo significato di condivisione non meno importante. Esso riguarda la partecipazione alla vita comune, il superamento dell'individualismo egocentrico, la valorizzazione della dimensione sociale dell'essere umano, il superamento della virtualità per accostare la realtà.
    Sono perciò da incoraggiare e sostenere tutte quelle pratiche educative che, accanto al lavoro e all'impegno personale, prospettano la partecipazione a progetti comunitari, che attivano mentalità cooperative, favoriscono il superamento delle logiche esasperatamente competitive e aiutano a stabilire un rapporto reale tra le persone e non solo, o principalmente, mediato dalla rete telematica. Nessun social network è in grado di sostituire la ricchezza dell'incontro umano.

    Nella realtà, aperti all'Infinito

    Quella che ho sopra indicato come la speranza educativa si traduce, in ultima istanza, nel consegnare qualcosa della nostra speranza ai nostri allievi e ai nostri figli. Chi non sa nutrire ed esprimere la propria speranza, difficilmente è un buon educatore.
    Se i criteri di trasmissione da una generazione all'altra sono quelli dell'utilità e della relatività etica, la nozione di speranza perde il suo significato, sovrastata dalle regole dell'economia, del mercato, del compromesso politico, dell'inutilità della ricerca della verità.
    Lo scenario cambia se invece ci proponiamo di introdurre ragazzi e giovani a vivere nella libertà, a compiere bene il lavoro loro assegnato, a vivere accettando i costi della convivenza e godendo della convivialità. Questo è possibile se stiamo vicini ai figli e agli allievi, veicoliamo credibilità e non solo chiacchiere, se – in una parola – trasmettiamo l'autenticità della nostra vita ricca di speranza. Se manca la speranza, «la libertà si espone a un vento contraddittorio di motivi e le diverse tendenze della vita si fanno più facilmente violente perché impossibilitate a convergere nella direzione di una forma unitaria». [14]
    La maturazione dell'esperienza religiosa è facilitata dalla vicinanza dei genitori e predilige un metodo narrativo e autobiografico. Le metafore bibliche del credente descrivono la fede come un cammino, come una crescita verso una statura mai raggiunta. Lo stile narrativo, centrato sulla parola di Dio e sul racconto della vita, capace di confrontarsi con le difficoltà quotidiane, include «sia la profezia come interpretazione ispirata del senso degli eventi sia la mistica come rimando al Mistero». [15] L'educatore è davvero tale quando riesce a fare esperienza di entrambe.
    La figura dell'adulto che incarna l'autorità – non esiste libertà autentica se non si confronta con la realtà delle cose e con l'autorevolezza di chi lo accompagna nell'avventura della crescita umana –garantisce che la libertà si configuri come «filiale». La particolarità di questo specifico esercizio di libertà è rappresentata dal fatto che essa può certo decidere in maniera autonoma, «ma che lo può fare solo in grazia dei legami che la costituiscono e che la fanno crescere, che la "autorizzano" a decidere in quanto concrete mediazioni di un senso intenzionato alla verità» e non soltanto ipotesi transitorie e provvisorie di senso. [16]
    Soltanto se l'educatore è «uomo di speranza» e promotore di libertà diventa testimone credibile e desta l'interesse degli altri. L'educazione perde la fisionomia della semplice spiegazione del reale e si configura piuttosto come un aiuto a entrare in esso, a comprenderlo e a vivificarlo con una presenza attiva.
    In questo senso, ad esempio, Giussani ha parlato di educazione come «introduzione alla realtà totale». [17] Proprio l'aggettivo «totale» garantisce che non si tratti di semplice adattamento e sottolinea l'esigenza, invece, di uno stretto intreccio tra la crescita della persona e il suo protagonismo storico. [18]
    Occorre insomma ripristinare anche nell'educazione quel misterioso nesso che, come ha scritto Maria Zambrano, «unisce il nostro essere alla realtà, un nesso talmente profondo e fondamentale da essere il nostro intimo convincimento», [19] un nesso messo in crisi dalla cultura scettica e virtualistica del nostro tempo secondo cui non ci sarebbe ormai più alcuna certezza cui fare riferimento.
    Il problema dell'educazione si configura, in una parola, come la necessità di dare una risposta all'urgenza di vivere nella pienezza della realtà: solo se gli adulti sono capaci di rispondervi, sono poi capaci di comunicarla agli altri attraverso la loro vita.
    Nell'avviarmi alla conclusione, mi affido a una breve, ma succosa, riflessione di Romano Guardini. Dice, dunque, Guardini che l'uomo è creato in modo tale da essere una «forma di inizio» e cioè predisposto a porsi in relazione con quanto gli verrà incontro. Ma questa apertura e l'incontro non sono un fenomeno automatico. Se la persona resta chiusa in se stessa perché non incontra nessuno che la aiuta ad aprirsi, resterà un essere, così lo definisce, «rigido e misero».
    Ma se la sua vita si apre all'altro e all'Infinito – perché qualcuno lo accompagna nei sentieri della vita e oltre e glieli fa conoscere –allora diventa un orizzonte spalancato nel quale egli sprigiona tutta la sua vitalità interiore, l'amore per la sua terra, la dedizione verso quanti gli stanno vicino, la gratitudine per i doni che ci sono quotidianamente regalati dagli altri. [20]
    Il momento qualificante del compito educativo diventa quello finalizzato a rendere evidente «la trascendenza della coscienza morale e spirituale rispetto ai comportamenti accettati o sanzionati dal consenso sociale».21 L'educazione, a queste condizioni, non è solo «formazione», ma «trasformazione»: è ricerca ed esperienza delle ragioni profonde del nostro esistere e non solo delle tecniche e delle pratiche della sopravvivenza.
    Pensare l'educazione nell'ottica dell'Infinito anziché in quella del nulla – che è poi quella della disperazione – significa dare forza a chi ancora è una «forma di inizio» e aiutarlo a sperimentare la ricchezza e la bellezza della pienezza umana.

    NOTE

    1 G. LIPOVETSKY, L'era del vuoto. Saggi sull'individualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995, 62s.
    2 Su questo tema rinvio per ulteriori approfondimenti a F. NUVOLI, Affermazione e ricerca di senso, Edizioni CUSL, Cagliari 2008, 186-204. Altre significative riflessioni in prospettiva pedagogica in C. NANNI, L'educazione tra crisi e ricerca di senso, LAS, Roma 1990; G. MOLLO, La via del senso, La Scuola, Brescia 1996.
    3 F. HADJADJ, «Un incontro è la vittoria sulla riduzione del desiderio», in E. BELLONI –A. SAVORANA (a cura di), Il cuore desidera cose grandi, Rizzoli, Milano 2010, 64.
    4 Cf. R. BRAGUE, «L'umanesimo (e l'umanità) in via di estinzione?», in Vita e Pensiero 2(2012), 34-40. Per questa tesi, cf. D. BENATAR, Better Never to Have Been. The Harm of Coming tinto Existence, Oxford University Press, Oxford 2006.
    5 Cf. A. MENEGHETTI - M. SPÒLNIK, Gratitudine ed educazione. Un approccio interdisciplinare, LAS, Roma 2012.
    6 Cf. C. LASCH, La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1981.
    7 BENEDETTO XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'educazione (21 gennaio 2008).
    8 Cf. BENEDETTO XVI, lettera enciclica Spe salvi (30 novembre 2007), n. 2.
    9 Ivi, n. 30.
    10 COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI, La sfida educativa. Rapporto-proposta sull'educazione, Laterza, Roma-Bari 2009, 5.
    11 Cf. D. PENNAC, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008.12 Su questo tema rinvio al bel libro, con più contributi, di A.M. MARIANI (a cura di), Fragilità, Unicopli, Milano 2009.
    13 Sul tema dell'educazione morale e della formazione del carattere, cf. M. PELLEREY, L'agire educativo. La pratica pedagogica tra modernità e postmodernità, LAS, Roma 1998; C. XODO, L'occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, La Scuola, Brescia 2001; ID., Capitani di se stessi. L'educazione come costruzione di identità personale, La Scuola, Brescia 2003; S. NATOLI, Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2006; Il cammino della vita. L'educazione, una sfida per la morale, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007.
    14 Sul rapporto tra speranza e libertà rinvio alle numerose e belle riflessioni di F. NUVOLI, L'autorità della libertà, SEI, Torino 2010, in particolare 232-234.
    15 D. CRAVERO, Organizzare la speranza. La passione educativa e il futuro delle giovani generazioni, Elledici, Torino 2011, 51.
    16 Cf. A. BOZZOLO – R. CARELLI (a cura di), Evangelizzazione e educazione, LAS, Roma 2011, 391.
    17 L. GIUSSANI, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, SEI, Torino 1995, 19.
    18 Cf. ivi, 19-43.
    19 M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell'anima, Raffaello Cortina, Milano 1996.
    20 Rinvio, più ampiamente, alle profonde osservazioni di R. GUARDINI, Persona e libertà, a cura di C. FEDELI, La Scuola, Brescia 1987, in particolare il saggio sulla «libertà vivente». CRAVERO, Organizzare la speranza, 48.

    (Da: Fede, cultura, educazione. Nodi e prospettive per la missione della Chiesa nella cultura contemporanea, EDB 2014, pp. 75-87)


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