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    Le trasformazioni

    del post-moderno

    e la sfida educativa

    Bruno Forte

    Scopo delle riflessioni che seguono è, in primo luogo, quello di offrire una lettura - ovviamente appena evocativa - del contesto socio-culturale della post-modernità occidentale, in cui si situano oggi le giovani generazioni e l'azione educativa ad esse rivolta, e quindi quello di delineare le condizioni, le sfide e le priorità che ne conseguono per le principali agenzie operanti nel campo dell'educazione (famiglia, scuola, comunità civile ed ecclesiale).

    Gli scenari del post-moderno

    Per tratteggiare gli scenari del post-moderno bisogna richiamare la vicenda di cui tutti siamo eredi, quella parabola dell'epoca moderna che può essere riassunta in tre tappe essenziali: la nascita e lo sviluppo del progetto emancipatorio della ragione illuministica; la crisi delle ideologie e delle presunzioni totalizzanti della modernità; l'emergere del postmoderno.

    Emancipazione è una parola chiave, che contraddistingue l'intera epoca che sta sotto il segno dell'Illuminismo: essa esprime il progetto della ragione moderna di rendere l'uomo finalmente adulto, libero da ipoteche ultraterrene, capace di volersi ed essere soggetto della propria storia. Come scrive il giovane Marx, "emancipazione è ricondurre il mondo e tutti i rapporti umani all'uomo stesso [1]: in quanto tale, essa dice il processo di autoaffermazione dell'uomo, preso sia singolarmente che collettivamente, nei dinamismi storici di cambiamento rivoluzionario. È in tal senso significativo che la più alta celebrazione dell'atto della ragione, che è la filosofia hegeliana, possa essere colta come la lettura riflessa della rivoluzione francese, una sorta di commento e di chiarificazione della trasformazione emancipatoria in atto [2]. Da Hegel a Marx, e prima ancora dagli albori dell'Illuminismo fino ai suoi epigoni borghesi o rivoluzionari, l'emancipazione resta il progetto di fondo, l'ansia e la meta agognata della modernità. Non senza orgoglio Hegel afferma: «Da quando c'è stato il sole nel firmamento e i pianeti gli hanno girato intorno, mai si era visto che l'uomo si mettesse dritto sulla testa, ossia sul pensiero, e costruisse la realtà secondo quest'ultimo. Anassagora aveva detto per primo che il noús regge il mondo, ma soltanto ora l'uomo è giunto a capire che il pensiero deve reggere la realtà dello spirito. E questa è un'alba preziosa» [3].
    Sta qui il fascino e la grandezza della sfida illuministica: mettere il mondo e la vita nelle mani e nella mente dell'uomo, responsabilizzare il soggetto personale e collettivo, provocandolo a farsi libero e creativo della propria storia, per respirare a pieni polmoni il gusto della veracità e della critica, di una libertà adulta ed emancipata. Sul versante teologico una simile impresa si è tradotta tanto nel rifiuto dell'immagine di un Dio concorrente dell'uomo, quanto nella riduzione di ogni Assoluto al divenire imprigionato nell'orizzonte mondano. Nessun altro, forse, ha saputo rendere la grandezza e la tragicità di questa impresa come Friedrich Nietzsche nell'aforisma intitolato L'uomo folle: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!" E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "È forse perduto?" disse uno. "Si è perduto come un bambino?" fece un altro. "Oppure sta bene nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n'è andato Dio? gridò ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia?... Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte?» [4].
    La notte di cui parla Nietzsche, che segue al sole dell'avvenire celebrato dalle ambizioni della ragione illuministica, è quella degli esiti totalitari e violenti delle ideologie. Osserva in proposito Franz Rosenzweig: «La ragione ha vinto... l'irrazionale stesso è soltanto il suo limite non un aldilà. Vittoria dunque su tutta la linea, ma a quale prezzo! Il grande edificio della realtà è distrutto: Dio e uomo sono volatilizzati nel concetto limite di un soggetto della conoscenza; mondo e uomo, d'altro lato, nel concetto limite di un puro e semplice oggetto di questo soggetto; ed il mondo... è divenuto un semplice ponte fra questi concetti limite» [5]. Assorbendo tutto, anche il divino, l'"ordre de la raison" (Descartes) ha affogato in sé ogni alterità possibile: l'ideologia, in tutte le sue forme teoriche, come nelle sue realizzazioni pratiche, è l'espressione di questa fame e sete di totalità. L'emancipazione si converte in totalitarismo; il sogno dell'avvenire resta incompiuto e frustrato, proprio quando sembrava di poterne celebrare il compimento; l'Illuminismo, maestro del sospetto, diventa sospetto a se stesso...

    La dialettica dell'Illuminismo consiste esattamente nella denuncia dei limiti e delle presunzioni della ragione emancipante [6]: essa smaschera le cadute e le incompiutezze causate dalle sete di totalità, che l'"homo emancipator" ha finito col produrre. La critica che si è venuta sviluppando potrebbe raccogliersi intorno alle categorie della colpa, della morte e dell'ulteriorità. Se ogni soggetto metastorico è eliminato, di chi sarà la colpa dei fallimenti storici? La difesa dei diritti sovrani della ragione emancipatrice determina in essa il bisogno di crearsi dei meccanismi di autogiustificazione: si individuano altri soggetti su cui scaricare la responsabilità del fallimento, soggetti trascendentali la natura, lo Spirito, come è nell'ideologia borghese o soggetti storicamente determinabili i nemici del proletariato, i detentori del capitale, come è nel marxismo. Se per gli uni la storia dei vinti e il male che devasta la terra sono il prezzo inevitabile dello sviluppo, l'altra faccia del processo dello Spirito, per gli altri tutto ricade sulle colpe storiche della borghesia. L'ideologia liberale del progresso, come quella marxista della rivoluzione, finiscono col rivelarsi incapaci di un'autocritica liberatrice: cercando altri soggetti cui imputare la storia della colpa, per riservare a se stesse la storia del successo, esse evidenziano i limiti della ragione emancipante, la sua radicale incapacità a conciliare le contraddizioni del reale. «Restano il dolore, il lutto, la melanconia; resta soprattutto la sofferenza spesso muta per l'inconsolato dolore del passato, per il dolore dei morti, giacché anche la maggiore libertà delle generazioni venture non ripara né cancella il dolore passato [7].
    Finché non ci si assumerà coraggiosamente il peso della colpa, nessuna storia di emancipazione sarà vera storia di libertà: ma fare questo passo significa confessare che la ragione non è tutto, e quindi aprirsi al riconoscimento di un'alterità irriducibile. La sofferenza dei vinti denuncia come la storia dell'emancipazione possa risolversi, e si sia di fatto troppo volte risolta, in trionfo dei vincitori. Se di fronte al fallimento la ragione moderna reagisce scaricando su altri il peso del passato doloroso, di fronte al presente essa tende ad una lettura solare, senza ombre né assenze. C'è una sorta di diffidenza illuministica verso la notte, in cui "tutte le vacche sembrano nere" (Hegel). Rispetto ad essa si profila l'esigenza di restituire all'uomo la morte: l'Illuminismo, non meno che un certo pensiero metafisico del passato, sembra essere una "filosofia senza la morte [8]. Il male e la morte costituiscono certo una difficoltà che però viene fatta rientrare nell'ordine come un momento negativo necessario del processo o un prezzo pagato alla causa della rivoluzione per il futuro di tutti. Nella lucidità del pensiero emancipato, si profila così un'incrinatura: se la storia della colpa denuncia gli alibi della ragione emancipante nei confronti della responsabilità storica e il ritorno della morte ne mostra l'infedeltà a ciò che è il dramma del reale, il senso dell'ulteriorità ne rivela la chiusura rispetto a ciò che è nuovo, veniente e sorprendente per noi. All'Illuminismo nella sua versione borghese manca la speranza, nella sua versione rivoluzionaria manca la fantasia: la necessità della sofferenza del divenire o la dittatura del proletariato lasciano aperte le domande sul senso della vita e sulla responsabilità di ciascuno. La ragione emancipante non libera veramente gli uomini dalle loro catene e finisce con l'assaporare essa stessa le cipolle d'Egitto: «L'esilio vero d'Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo» [9].

    Gli scenari del postmoderno. Di fronte alla crisi dell'Illuminismo si avverte con nuova serietà il peso della domanda di Hölderlin: «A che servono i poeti nel tempo della povertà?» [10]. Lì dove la ragione totalizzante ha fallito, nel tempo di una nuova povertà rispetto alla presunzione del possesso, serve una parola che evochi e non catturi, che spezzi il cerchio della presenza e apra al gusto e al valore dell'assenza. La totalità cede il posto al frammento; la divisione e la separazione sembrano regnare dove prima era ordine e unità; tutto diventa fluido, discontinuo, interrotto. Si dà un addio alle certezze per navigare verso l'ignoto. Questo addio, questo lungo addio è l'insorgere del tempo postmoderno: tempo di "pensiero debole", di "avventure della differenza", di "crisi dell'ideologia [11]. Nel suo rifiuto critico dell'Illuminismo, esso non è che la sua forma rovesciata, pensiero di negazione e di rottura, lì dove quello era pensiero di affermazione e di conciliazione: alla conoscenza solare viene opposto l'amore delle tenebre; al senso del possesso e della consistenza "l'insostenibile leggerezza dell'essere" (M. Kundera). Ed è proprio in questo suo essere "antipensiero" che risiede il grande rischio del postmoderno, di divenire cioè nient'altro che una continuazione nel segno del contrario di ciò che intende abbandonare: ideologia dell'anti-ideologia. La sete di totalità della ragione emancipante può convertirsi in una nuova totalità, quella del negativo, che abbraccia tutte le cose. Non nasconde lo stesso nome di postmoderno questo rischio sottile, descritto mirabilmente dalla frase di Kundera: «La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina?» [12]. L'addio può essere tanto carico di nostalgia, quanto vuoto di speranza: l'abbandono porta con sé sovente la dipendenza del ricordo...
    È così che viene delineandosi nella ricerca del postmoderno la figura di un orizzonte altro, che riconosca i limiti della ragione e spezzi il dominio onnicomprensivo del soggetto, aprendosi al Totalmente Altro, non deducibile da quanto è disponibile e non risolvibile in quanto è noto. Questa alterità fondatrice si lascia percepire, anche se non afferrare, nei racconti della memoria originaria e nella relazione con gli altri. Figura significativa di essa è l'"Angelo necessario", di cui scrive Massimo Cacciari [13]: «L'Angelo testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l'invisibile, non lo 'trascende' per i sensi» [14]. «Ciò a cui propriamente educa l'Angelo è questa nostalgia per la visione che 'nessuno ha visto né vedrà mai'» [15]. Con l'Angelo è necessario lottare, perché la terra e le cose si confidino a noi nella loro verità più profonda: e questo lottare con l'Indicibile è già invocazione [16]. Dove essa manca, dove il rifiuto o la presunzione sono grandi, non c'è alcun esodo, alcun avvento: «"Autoaffermazione inospitale" chiamò Florenskij il peccato: amare la propria luce creaturale così assolutamente da non poterla in alcun modo donare, da non potervi accogliere alcun Presupposto» [17].
    Nel mezzo di questo villaggio, che è il mondo post-moderno uscito dalle avventure dell'emancipazione ed incerto fra il fascino di un puro negativo, eredità dialettica dell'Illuminismo, ed il riconoscimento di un'incatturabile alterità, viene a porsi in modo cruciale la domanda della sfida educativa: come ed a che educare quanti si affacciano oggi al protagonismo della storia? Rispetto alle certezze presuntuose dell'ideologia è sufficiente affidarsi ad un pensiero debole, che rinunci in partenza alla totalità onnicomprensiva del sistema, prodotto dalla ragione emancipante? Rispetto alle insicurezze del postmoderno basta la rinuncia a dire tutto o a spiegare tutto o, all'opposto, la consegna alla necessità di tacere, cadendo nell'insignificanza? Certamente, a chi educa va chiesto di inquietare il presente, denunciandone gli idoli totalizzanti, ma anche le cadute nel negativo senza speranza. In questo senso, agli educatori nell'epoca postmoderna si domanda di porsi in ascolto, senza seduzioni di compimento e di possesso, per aprire sentieri di libertà e accendere la passione per la verità. Proprio per questo si chiede loro di mettersi in gioco senza mai far violenza alla libertà con prove di forza: «Una leggenda rabbinica - afferma Rosenzweig - favoleggia di un fiume in terre lontane, un fiume così pio che durante il sabato cessava di scorrere. Se in luogo del Meno attraverso Francoforte scorresse quel fiume, senza dubbio tutti quanti gli ebrei di Francoforte osserverebbero scrupolosamente il sabato. Ma Dio non opera tali segni. Egli ha palesemente orrore della inevitabile conseguenza: che in tal caso proprio i meno liberi, i timorosi e i meschini diverrebbero i 'più pii'. E, si sa, Dio vuole per sé soltanto uomini liberi» [18].

    Il post-moderno e la sfida educativa

    Alle luce degli scenari evocati appare quanto mai importante raccogliere la sfida educativa avendo ben chiare le condizioni da accettare per corrispondervi e realizzare le scelte necessarie a coniugare la memoria dell'identità e la profezia del nuovo, cui ogni educazione autentica è chiamata ad aprire le menti e i cuori.

    L'urgenza della sfida educativa. L'importanza di riflettere sulla sfida educativa nel postmoderno appare chiara se solo si consideri quanto la trasmissione ai nostri ragazzi e giovani di ciò che veramente conta nella vita risulti più che mai ardua in quest'epoca di insicurezza e di crisi, seguita alla crisi delle ideologie. È come se la distanza fra le generazioni si fosse improvvisamente accresciuta, sia per l'accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo della rete va imponendo. I "nativi digitali" - coloro cioè che sono nati nell'era di "internet" e che vi accedono con strabiliante naturalezza - fanno fatica a intendersi con gli abitanti del vecchio pianeta terra, solcato da confini e lontananze, che risultavano spesso difficilmente valicabili. Quanto viene proposto dall'opera di genitori ed educatori desiderosi di far bene, rischia di essere volatilizzato dal mondo della "rete" in cui i nostri ragazzi navigano alla grande, spesso senza adeguata cautela e discernimento. Mentre il "villaggio globale" dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere d'interesse ai loro occhi. Anche nell'azione pastorale ci sembra a volte di rispondere a domande che nessuno pone o di porre domande che non interessano più nessuno! La realtà di un mondo senza Dio, in cui non di rado ci pare di trovarci, è forse solo il frutto di questo "Dio senza mondo", che tale risulta a molti cui vorremmo proporlo, che parlano ormai linguaggi totalmente diversi dai nostri. L'amore per i nostri ragazzi, che ci motiva a trasmettere loro quanto di più bello abbiamo in cuore, sembra ferito dalla difficoltà di trovare la via giusta perché ciò avvenga.
    Come affrontare, dunque, la sfida educativa nel tempo post-moderno? Come dire alle nuove generazioni - segnate dalla fine delle certezze ideologiche e dalle solitudini create dalle relazioni virtuali - ciò che veramente ci sta a cuore, il senso delle nostre fatiche e la speranza dei nostri giorni? È a domande come queste che più volte ha invitato a rispondere il magistero dei Papi e quello dei Vescovi italiani, che hanno scelto di prestare la loro attenzione prioritaria all'educazione in questi "anni dieci" del terzo millennio. Per proporre una risposta affidabile alla sfida educativa, oggi così urgente, muovo da un'icona biblica, quella dei discepoli di Emmaus, cui si affianca sulla via un viandante dapprima non riconosciuto, che li introduce progressivamente alla realtà del suo mistero (Lc 24, 13-35): il Risorto, Gesù. Mi sembra che il modello del Figlio di Dio, che si fa educatore dei due discepoli tanto simili a noi e ai nostri ragazzi, come noi "stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti", possa aiutarci a capire come rispondere alla sfida dell'educazione in questo tempo al tempo stesso fragile e meraviglioso che ci è dato di vivere dopo il tramonto delle presunzioni ideologiche e delle avventure totalitarie del Novecento [19]. Ciò che il racconto di Emmaus ci fa anzitutto capire è che l'educazione è un cammino: essa non avviene nel chiuso di una relazione esclusiva e rassicurante, decisa una volta per sempre, ma si pone nel rischio e nella complessità del divenire della persona, teso fra nostalgie e speranze, di cui è appunto figura il cammino da Gerusalemme a Emmaus percorso dai due discepoli e dal misterioso Viandante.
    Siamo tutti usciti dalla città di Dio, in quanto opera delle Sue mani, e andiamo pellegrini verso il domani nell'avanzare della sera, bisognosi di qualcuno che ci stia vicino, sulla cui presenza affidabile poter contare: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto" (v. 29). Tutti siamo incamminati verso l'ultimo silenzio dell'esistenza che muore! Proprio nel confronto con l'enigma della morte, però, si affacciano alla mente e al cuore due radicali e opposte possibilità: ritenersi "gettati verso la morte" (come pensa Martin Heidegger riflettendo sulla condizione umana) o considerarsi "mendicanti del cielo" (come sostiene ad esempio Jacques Maritain), destinati alla vita vittoriosa sulla morte della Gerusalemme celeste. Fra le due opzioni la scelta è decisiva e va fatta ogni giorno: ecco perché siamo tutti in cammino sulla via dell'educazione, per scegliere sempre di nuovo ciò su cui sta o cade il senso ultimo della nostra vita. Ed ecco perché l'annuncio della vita vittoriosa sulla morte deve risuonare ogni giorno, in un'incessante testimonianza vissuta nella condivisione del cammino e nella proposta umile e coraggiosa della buona novella dell'amore, fatta nella più ampia varietà di forme, di linguaggi, di esperienze: non va mai dato per scontato l'annuncio del senso e della bellezza della vita, vista nell'orizzonte di Dio e del Suo eterno amore. C'è bisogno di educatori, che siano persone dal cuore nuovo, capaci di cantare il cantico nuovo della speranza e della fede lungo le vie, talvolta tortuose, che gli abitatori del tempo sono chiamati a percorrere. Educare vorrà dire, allora, introdurre la persona al senso della realtà totale, attraverso un processo che la aiuti a riconoscere e ad accogliere nella libertà le ragioni di vita e di speranza che le vengono proposte.

    Le condizioni del processo educativo: il dono del tempo e la relazione personale. Se educare è introdurre alla realtà totale, colta nel suo senso e nella sua bellezza ultima, si comprende quali possano essere le resistenze e gli ostacoli principali che si frappongono oggi all'impegno educativo. La fine dei "grandi racconti" ideologici, caratteristici dell'epoca moderna, ha lasciato il campo all'esperienza della frammentazione e della solitudine, tipiche della cosiddetta post-modernità. La cultura del frammento ha modificato profondamente gli scenari tradizionali dell'educare, anzitutto nella concezione del tempo. Questa risulta profondamente segnata dai processi culturali avviatisi a partire dall'Illuminismo: la ragione, che vuole tutto dominare, imprime ai percorsi storici di adeguamento del reale all'ideale un'incalzante accelerazione. Questa "fretta della ragione" si esprime tanto nella rapidità dello sviluppo tecnico e scientifico, quanto nell'urgenza e nella passione rivoluzionarie, connesse all'ideologia. Il mito del progresso non è che una forma della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave ispiratrice dell'impegno di trasformazione del presente, anticipazione militante di un avvenire dato per certo. L'emancipazione porta con sé un'indiscutibile carica di urgenza, un'indifferibile accelerazione sui tempi: il divario fra "tempo storico" e "tempo biologico" è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica della religione emancipata del progresso.
    Le conseguenze di questa sfasatura di tempi di cui l'esempio forse più vistoso è il possibile impiego distruttivo dell'energia nucleare sono riscontrabili non solo negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale, ma anche nelle prospettive che si disegnano per i soggetti storici. Occorre ritrovare il predominio umano sul tempo, per tornare a dare tempo alla persona e alle esigenze del suo sviluppo integrale. Di fronte a questa urgenza si comprende come la prima e decisiva condizione del processo educativo riguardi proprio l'uso del tempo: occorre aver tempo per l'altro e dargli tempo, accompagnandolo nella durata con fedeltà, vivendo con perseveranza la gratuità del dono del proprio tempo. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore. Gesù sulla via di Emmaus avrebbe potuto svelare subito il suo mistero: se non lo ha fatto, è perché sapeva che i due discepoli avevano bisogno di tempo per capire quanto avrebbe loro rivelato. Come in ogni rapporto basato sull'amore, anche nel rapporto educativo il dono del tempo è il segno più credibile del proprio coinvolgimento al servizio del bene dell'altro. Come osservava Karl Barth, caratteristica del Dio biblico è quella di essere "un Dio che ha tempo per gli uomini", semplicemente perché li ama!
    L'altra, decisiva condizione per realizzare un efficace processo educativo è la relazione interpersonale: se è vero quanto affermava Romano Guardini che "solo la vita accende la vita", è solo nell'arco di fiamma del rapporto fra le persone in gioco che il cammino dell'educazione può realizzarsi. Ora, nel tempo postmoderno la relazione interpersonale è spesso divenuta debole: la "cultura forte" dell'ideologia si è frantumata nella "folla delle solitudini", in cui è rilevante la mancanza di orizzonti comuni, una penuria di speranze "in grande", che piega ciascuno nel mondo chiuso del suo privato. Comprendiamo così la rilevanza per il processo educativo del camminare insieme. Prima che essere per l'altro, chi educa deve stare con l'altro. L'educazione avviene attraverso la relazione di ascolto, di condivisione e di dialogo: il fallimento di un'educazione solo autoritaria, che neghi il valore del dialogo e dell'ascolto dell'altro, si dimostra da sé. Sarebbe parimenti sbagliato, però, pensare che l'educazione possa realizzarsi solo fra pari: l'egualitarismo educativo ha prodotto disastri. Il dialogo non significa appiattimento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche l'inevitabile diversità da loro. Anche in campo educativo è, dunque, urgente realizzare quella "convivialità delle differenze" (don Tonino Bello), di cui è esempio eloquente il comportamento del misterioso Viandante sulla via di Emmaus: si fa prossimo, accompagna il cammino dei due, ascolta, trasforma il loro modo di vedere.
    Non si tratta, insomma, di insegnare dall'alto di una cattedra, quanto di trasmettere il senso e la bellezza della vita con l'eloquenza della vita stessa: "Il mondo di oggi - diceva Paolo VI - ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; e, quando ascolta i maestri, lo fa perché sono anche testimoni" (cf. Evangelii Nuntiandi, n. 41). Chi educa deve farsi prossimo: la luce della vita si trasmette nella reciprocità fra i due, nella pazienza di accettare i tempi dell'altro e di stimolarne le scelte. Come amava ripetere John Henry Newman, "cor ad cor loquitur", è il cuore che parla al cuore. Accompagnare vuol dire prevenire e accogliere l'altro nell'amore: "Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando", scrive Sant'Agostino all'amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi (De catechizandis rudibus, 4) - "Non c'è invito più grande all'amore che prevenire amando". Chi educa deve amare per primo e senza stancarsi, o non educherà affatto. Per accompagnare l'altro, l'educatore deve dimostrargli di apprezzarlo, deve valorizzarlo, perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia, di quel sentirsi amato che gli consentirà anche di lasciarsi correggere e ammonire. Solo l'amore, testimoniato credibilmente nell'attenzione e nell'impegno per l'altro, è vita che genera vita...

    L'educazione fra memoria e profezia. Un'altra sfida importante che viene all'impegno educativo dalla parabola della modernità e dall'avvento del post-moderno è la cosiddetta "crisi delle identità", radicata in una sorta di perdita della memoria collettiva e personale, frutto di una malintesa emancipazione dal passato e dalle proprie radici. Siamo in un'epoca di "identità deboli": da quella della persona, a quella del genere, all'identità comune della nazione, della cultura, della spiritualità, della lingua. Lo sradicamento dal passato compromette la stessa possibilità di affrontare le sfide del presente e dell'avvenire. Senza memoria non c'è identità, né profezia! Nel racconto dei discepoli di Emmaus è significativo che Gesù non si limiti ad accompagnare i due discepoli: egli fa memoria delle cose avvenute e del grande quadro della storia della salvezza che le illumina, e così stimola i due, schiudendo loro il senso della vicenda collettiva, per introdurvi il loro cuore inquieto e aprirlo allo stupore davanti al dono dell'amore divino: "Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (v. 27). Si comprende qui come il linguaggio della memoria ravvivi l'identità dell'interlocutore se sa coniugare oggettività e passione, dati ed emozioni: non basta ricordare il passato; occorre coglierne il senso per noi, compiendo una sorta di interpretazione esistenziale di esso che si faccia carico delle domande più vere e profonde del presente. È necessario perciò che la memoria sia come quella messa in atto da Gesù, viva, trasformante, non asettica e inerte: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (v. 32). Solo la parola convinta e la testimonianza credibile di ciò di cui abbiamo fatto esperienza sono in grado di accendere la vita.
    Un'altra sfida al processo educativo viene dalla penuria di speranze in grande che sembra caratterizzare la cultura post-moderna: tramontato il sole dell'ideologia, il futuro non appare più certo e affidabile, come volevano rappresentarlo i "grandi racconti" ideologici delle più diverse matrici. Anche su questo punto il racconto di Emmaus svela ricchezze sorprendenti: Gesù schiude ai due discepoli un nuovo futuro, aprendo il loro cuore a una speranza affidabile; egli accende la profezia, contagiando il coraggio e la gioia. Scopo dell'educazione è schiudere orizzonti e accendere la passione per la causa della verità, della giustizia e dell'amore, che danno senso alla vita. Gesù procede così: si fa vicino, spiega le Scritture, alimenta il desiderio, si fa riconoscere e offre ai due l'annuncio di sé, della sua vittoria sulla morte, rendendoli liberi dalla paura e provocandoli alla libertà della missione: "Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro... E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (vv. 15 e 27). "Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista" (vv. 30-31). Si accende nei cuori dei due una "grande gioia" (v. 41). È da questa gioia che scaturisce l'urgenza di partire subito per portare agli altri la buona novella di cui sono ormai testimoni.
    L'incontro vissuto esige di essere testimoniato: non puoi fermarti a ciò che hai avuto in dono. Devi a tua volta donarlo, camminando sulle tue gambe e facendo le scelte della tua libertà. L'educazione o genera testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono, o fallisce il suo scopo. Chi educa non deve creare dipendenze, ma suscitare cammini di vita, in cui ciascuno giochi la propria avventura al servizio della luce che gli ha illuminato il cuore. "Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane" (v. 35). L'educazione ha raggiunto il suo fine quando chi l'ha ricevuta è capace di irradiare il dono che lo ha raggiunto e cambiato: "Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia - affermava il Card. Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione a Successore di Pietro, parlando a Subiaco il 1 Aprile 2005 - sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo... Uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando di lì la vera umanità, uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore... Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini". Educare, insomma, non è donare, ma accendere la vita col dono della vita, suscitando i cammini di libertà di un'esistenza significativa e piena, spesa al servizio della verità che sola rende e renderà liberi. L'educatore o è testimone di una speranza affidabile, contagiosa di verità e trasformante nell'amore, o non è.
    Conclusione. L'icona biblica di Emmaus ci consente così una descrizione dell'azione educativa: educare è accompagnare l'altro dalla tristezza del non senso alla gioia della vita piena di significato, introducendolo nel tesoro del proprio cuore e del cuore della Chiesa, rendendolo partecipe di esso per la forza diffusiva dell'amore. Chi vuol essere educatore deve poter ripetere con l'apostolo Paolo queste parole, che sono un autentico progetto educativo: "Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia" (2 Cor 1,24). Sullo stile educativo di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo esaminarci tutti, chiedendoci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell'educazione sia fatto analogamente di compagnia, memoria e profezia. Facilmente il bilancio ci sembrerà perdente: ci conforta tuttavia il fatto di non essere soli. Dio - che ha educato il suo popolo nella storia della salvezza - continua a educarci e a educare anche in questo tempo postmoderno: "Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Gv 14,26). Non rinunciamo dunque a raccogliere la sfida educativa, qualunque sia il livello di responsabilità che ci è dato di vivere. E confidiamo nel divino Maestro.
    A Lui vorrei rivolgermi concludendo queste riflessioni, per dirgli con semplicità e fiducia a nome di tutti coloro che vogliano accettare e vivere la sfida educativa: Signore Gesù, Tu ti sei fatto compagno di strada dei discepoli dal cuore triste, incamminati dalla città di Dio verso il buio della sera. Hai fatto ardere il loro cuore, aprendolo alla realtà totale del Tuo mistero. Hai accettato di fermarti con loro alla locanda, per spezzare il pane alla loro tavola e permettere ai loro occhi di aprirsi e di riconoscerti. Poi sei scomparso, perché essi - toccati da te - andassero per le vie del mondo a portare a tutti l'annuncio liberante della gioia che avevi loro dato. Concedi anche a noi di riconoscerti presente al nostro fianco, viandante con noi sui nostri cammini. Illuminaci e donaci di illuminare a nostra volta gli altri, a cominciare da quelli che specialmente ci affidi, per farci anche noi compagni della loro strada, come tu hai fatto con noi, per far memoria con loro delle meraviglie della salvezza e far ardere il loro cuore, come tu hai fatto ardere il nostro, per seguirti nella libertà e nella gioia e portare a tutti l'annuncio della tua bellezza, col dono del tuo amore che vince e vincerà la morte. Amen. Alleluia.

    NOTE

    1 K. Marx, Zur Judenfrage, in Die Frühschriften, (hrsg. Landshurt), p. 199.
    2 Su Hegel e la rivoluzione francese cfr. tra l'altro J. Ritter, Hegel und die französische Revolution, KölnOpladen 1957 e J. Habermas, Hegels Kritik an der Französischen Revolution, in Theorie und Praxis, NeuwiedBerlin 1967, pp. 89-107.
    3 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, (tr. G. Calogero e C. Fatta), IV, Firenze 1966, p. 204.
    4 F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano 1978, Aforisma 125. Cfr. la lettura di M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche "Dio è morto", in ID., Sentieri interrotti, Firenze 1968, pp. 191-246.
    5 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Casale Monferrato 1985, pp. 153 ss.
    6 Cf. M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Torino 1974.
    7 B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Brescia 1978, p. 128.
    8 Cfr. C. Lafont, Dieu, le temps et l'étre, Paris 1986, pp. 88ss.
    9 I racconti dei Chassidim, (a cura di M. Buber), Milano p. 647.
    10 Cfr. M. Heidegger, Perché i poeti! in Sentieri interrotti, cit., pp. 246-297.
    11 Cfr. ad esempio il volume in collaborazione Il pensiero debole, Milano 1983, nonché M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia 1978 e C. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1979.
    12 M. Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Milano 1985, p. 12.
    13 Cfr. M. Cacciari, L'Angelo necessario, Milano 1986.
    14 Ivi, p. 15.
    15 Ivi, p. 23.
    16 Cfr. Ivi, pp. 22 ss.
    17 Ivi, p. 103.
    18 T. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 286.
    l 9 Cf. nell'ambito della bibliografia abbastanza vasta il volume La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Prefazione di Camillo Ruini, Laterza, Roma-Bari 2009.

    (Vasto, Ai docenti delle Scuole Superiori, 4 Maggio 2017)


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