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    Valori e antivalori del Regno (cap. 4 di: Gesù di Nazaret)


    Luis A. Gallo, GESÙ DI NAZARET. La sua storia e la sua grande causa per la vita dell'uomo. Elledici 1991


    1. Il regno e la conversione

    La proposta di Gesù di Nazaret è incalzante: "Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete a questa buona novella" (Mc 1,15).
    La conversione da lui prospettata implica un ribaltamento radicale: ribaltamento di tutto ciò che non può coesistere con il regno di Dio.
    L'abbiamo già visto darsi da fare per eliminare ciò che riteneva incompatibile con questo regno: malattie, squilibri, peccati, falsi rapporti tra le persone e tra i gruppi, strutture in cui questi rapporti si cristallizzano.
    Il suo progetto di convivenza umana implica necessariamente anche l'eliminazione di ciò che potremmo chiamare gli antivalori del regno, e la loro sostituzione con i suoi valori. Gesù, infatti, fa la sua proposta in maniera alternativa: perché Dio possa regnare nelle persone e nella loro convivenza, occorre sgomberare tutti gli antivalori che a tale regno si oppongono.
    In ciò dimostra di essere mosso dallo stesso zelo che muoveva i Profeti dell'Antico Testamento nella difesa dell'unicità del Dio-Jahvé. Essi lottavano perché il popolo non si lasciasse sedurre dagli idoli falsi. Solo che ora i "rivali" di Dio, del Dio del regno, non sono più gli dèi cananei o degli altri popoli confinanti, ma altre realtà che gli uomini hanno eretto a divinità.
    Le prendiamo ora in considerazione.

    2. Il denaro

    "Nessuno può servire a due padroni: perché, o amerà l'uno e odierà l'altro, oppure preferirà il primo e disprezzerà il secondo. Non potete servire Dio e i soldi" (Mt 6,24).
    Questa frase riportata da Matteo e attribuita a Gesù, permette di capire quale sia stato il suo pensiero nei confronti del denaro.
    Non ci sono dati nei vangeli che ci portino a dire che egli lo disprezzasse. Anzi, alcuni di essi permettono di intravedere che se ne serviva per i suoi bisogni e per quelli del gruppo.
    In Lc 8,2-3 si dice infatti - e non ci sono elementi che facciano dubitare della sua verità storica - che quel gruppetto di donne che seguiva Gesù e i suoi discepoli, "li assistevano con i loro beni". Alcune di esse dovevano essere delle persone benestanti e potevano permettersi di mettere a disposizione di Gesù e dei suoi discepoli la quantità di denaro di cui avevano bisogno per le loro attività, dal momento che essi avevano abbandonato il lavoro con cui prima si sostentavano. Una delle donne nominate nel testo, Susanna, era moglie di Cusa, amministratore del re Erode.
    E Gv 13,29 ci informa, per inciso, che il gruppo aveva un amministratore dei beni: era Giuda, l'Iscariota, colui che tradì il Maestro.
    Se Gesù usa il denaro, dimostra tuttavia di essere convinto che l'attaccamento ad esso costituisca uno dei più grossi ostacoli alla venuta del regno di Dio tra gli uomini.
    Lo si intravede con chiarezza nella narrazione della chiamata dell'uomo ricco (Mc 10,17-22; Mt 19,16-26; Lc 18,18-23).
    Gesù, dopo averlo guardato con grande simpatia (Mc 10,21), lo invita a seguirlo, a dare tutti i suoi averi ai poveri e convertirsi in suo discepolo, a fare sua la proposta del regno. Ma quegli "si trovó a disagio e se ne andò triste". La ragione viene messa in evidenza dai vangeli: "era molto ricco".
    Questo rifiuto strappa dalla bocca di Gesù quelle parole, misto di amarezza e di denuncia, in cui si rende trasparente il suo modo di pensare sulle ricchezze: "Com'è difficile per quelli che sono ricchi entrarel regno di Dio... Se è difficile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, è ancor piú difficle che un ricco possa entrare nel regno di Dio".
    Sappiamo già chi erano i ricchi in Israele. E anche quale ingiustizia supponeva generalmente la loro ricchezza: l'avevano o a spese degli altri, sfruttandoli e anche alle volte strozzandoli, o godendola nella totale indifferenza verso i poveri (Lc 16,19-21).
    Luca, che sembra essere l'evangelista più sensibile a quest'orientamento di Gesù, gli attribuisce un detto degno di attenzione: "Io vi dico: ogni ricchezza puzza d'ingiustizia: voi usatela per farvi degli amici; così, quando non avrete più ricchezze, i vostri amici vi accoglieranno preso Dio" (16,9).
    Secondo queste parole, per lui le ricchezze sono sempre ingiuste. Esse sono indizio di una convivenza umana dove alcuni accaparrano e altri restano esclusi. Una società, pertanto, che non è regno di Dio. Perché in essa è presente la morte provocata nei ricchi dalla loro avarizia, e nei poveri dalla condizione in cui la cupidigia dei primi li riduce.
    Chi è ricco, poi, stando materialmente bene e non dovendo soffrire le penurie che patiscono i poveri, non è normalmente disposto a lasciare la sua situazione. Preferisce che le cose restino fondamentalmente come stanno, per poter avere assicurato il suo benessere. Non può quindi accogliere la proposta di Gesù che, al posto dell'accaparramento, propone la condivisione. Non ci può essere posto per lui nel regno (Lc 6,24-26).
    Perché in definitiva quello che Gesù propone in ordine al regno di Dio è una reale condivisione dei beni, che porti ad una situazione in cui tutti possano avere il necessario per vivere degnamente.
    Un luminoso segno in questo senso lo si trova nella narrazione della moltiplicazione dei pani (Mt 14,13-21; Mc 6,35-44; Lc 9,10-17). Si tratta di un racconto carico di significati. Tra essi si può rilevare anche il seguente: con un po' di pane e di pesce che qualcuno tra la folla rinuncia ad accaparrare esclusivamente per sé, mediante la condivisione, vengono saziate migliaia di persone. E ne avanza ancora.
    Gesù fa vedere, in questo modo, che quando le cose, anziché accaparrate vengono condivise, si moltiplicano.
    Si coglie in ciò un motivo in più della scelta dei poveri fatta da Gesù in ordine al regno. Questi sono ordinariamente molto più disposti a condividere il poco che hanno. Sono capaci di rinunciare a godersi da soli il poco che possiedono, per spartirlo con chi ne ha più bisogno di loro. E in ciò dimostrano di possedere una naturale saggezza che manca invece al ricco.
    Questi infatti è stolto, secondo il giudizio del vangelo. Lo mette bene in evidenza la parabola di Lc 12,16-21. L'uomo ricco che ha avuto una straordinaria raccolta, pensa solo a se stesso, "a riposare, mangiare, bere e divertirsi". Ma in mezzo alla notte sente una voce che gli dice: "Stolto! Proprio questa dovrai morire, e a chi andranno le ricchezze che hai accumulato?" E Gesù conclude: "Questa è la situazione di quelli che accumulano riccheze solo per se stessi e non si preoccupano di arricchire davanti a Dio".
    Il pensiero sembra dunque chiaro: i beni materiali sono un valore nei confronti del regno solo se condivisi. Chi li possiede deve rinunciare ad averli esclusivamente per sé, ed essere disposto a condividerli con coloro che non li hanno, con i poveri. Altrimenti, non può entrare nel regno di Dio. È un idolatra, che serve l'idolo del denaro.

    3. Il potere

    "Come voi sapete, i capi dei popoli comandano come duri padroni; le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere così" (Mt 20,25-26; Mc 9,42-43; Lc 22,25-26).
    È molto probabile che queste parole -o altre ad esse simili- siano parole testuali di Gesù, como è probabile anche che, quando le disse, avesse in mente ciò di cui tanto egli quanto molti altri facevano esperienza ogni giorno: la tracotanza con cui esercitavano la loro autorità sia il procuratore romano che governava la Palestina a nome dell'imperatore, sia i suoi subalterni; e, all'interno dello stesso popolo, coloro che erano i capi politico-religiosi: il re Erode, i sommi sacerdoti del Tempio, il Sinedrio.
    Tutti questi avevano fatto del loro potere uno strumento di dominio sugli altri: spadroneggiavano su di loro, facendo sentire pesantemente il loro giogo. Nessuna partecipazione alle decisioni collettive era permessa alla povera gente, che si vedeva così ridotta a semplice oggetto delle decisioni altrui. Le cose che la toccavano più da vicino e che regolavano la sua vita economica, culturale e addirittura religiosa, erano decise da altri, senza consultazione alcuna, e per di più quasi sempre contro i suoi reali interessi.
    Questo schema si riproduceva poi, in misure più ridotte, nei rapporti tra uomini e donne, e tra genitori e figli. Il potere dei maschi adulti era illimitato in questo senso. Donne e bambini dovevano sottostare alle loro decisioni, non raramente capricciose ed egoistiche.
    Così, nella convivenza collettiva del popolo, si creava a diversi gradi una società che oggi chiameremmo asimmetrica, nella quale alcuni avevano in mano il potere di decisione e gli altri ne erano totalmente spogli.
    Gesù stesso fu vittima di questa situazione quando venne portato in tribunale davanti alle due massime autorità del popolo, quella romana e quella giudaica. Abusando del loro potere, tutte e due decisero ingiustamente la sua morte. Pur di ottenere ciò che volevano, manipolarono le cose anche contro la più elementare giustizia.
    Si sa che il potere, quando si sente in pericolo, si aggrappa a qualunque mezzo pur di uscirne illeso.
    Ed è proprio davanti al massimo potere del mondo allora conosciuto, quello imperiale romano che, secondo le narrazioni evangeliche, egli dichiarò in forma solenne il suo pensiero sul potere nei confronti del regno di Dio.
    Nel vangelo di Giovanni, che racconta il processo di Gesù secondo determinati suoi scopi teologici, alla domanda del procuratore Pilato se egli era re, Gesù rispose affermativamente, ma precisando subito: "Il mio regno non appartiene a questo mondo" (Gv 18,36). Naturalmente, come abbiamo già rilevato più di una volta, non possiamo essere sicuri che queste parole siano uscite così dalla sua bocca in quei momenti; ad ogni modo, esse permettono di capire ciò i suoi discepoli avevano capito sul suo modo di vedere le cose.
    La frase riportata non va intesa come se egli volesse negare la "terrenità" del regno di Dio, poiché fino ad allora non ha fatto altro che cercare di renderlo presente su questa terra. Essa va invece capita come negazione, da parte sua, di una somiglianza del regno da lui proclamato con i regni di cui ha esperienza. In questi il potere è esercitato in forma tale che schiaccia coloro che vi sottostanno, li umilia e toglie loro dignità: li riduce a oggetti.
    "Ma tra voi non deve essere così", dice egli tassativamente, secondo i tre primi vangeli ai discepoli che, seguendo l'andazzo di un tale modo di concepire la convivenza collettiva, discutono su chi di loro avrà più potere nel regno.
    E dicendo ciò, contrappone al loro pensiero il vero valore del regno: "Se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servo di tutti" (Mc 10,43).
    Il potere, quindi, nel progetto del regno, va vissuto quale servizio.
    Il fatto che i tre vangeli sinottici abbiano narrato questo episodio, e quasi con le stesse parole, può essere un indice della situazione che si stava creando nelle prime comunità dei discepoli dopo la dipartita di Gesù. Anche in esse, quindi, era presente la tentazione, così frequente tra gli uomini, di convertire l'autorità in potere dispotico.
    Potere vuole dire facoltà di decidere, di decidere le cose che riguardano tutti, e di deciderle in modo che gli altri debbano accogliere la decisione presa.
    Perché la convivenza tra le persone e i gruppi umani diventi luogo del regno di Dio, è necessario anzitutto, se si vuole stare al pensiero di Gesù, che questa possibilità di decidere non venga monopolizzata da alcuni con esclusione di altri. Esso va condiviso il più possibile.
    Ciò che interessa tutti dovrebbe venir deciso il più possibile da tutti, potremo dire oggi traducendo quest'orientamento. Una società, grande o piccola che sia, dove le cose sono decise solo da alcuni mentre gli altri, essendo capaci di farlo, non sono coinvolti, è la negazione del regno di Dio.
    E inoltre, lì dove le circostanze esigono che qualcuno debba esercitare in forma autoritativa il potere, avendone più degli altri, egli dovrà farlo sempre quale servizio del bene degli altri, e non quale espressione del proprio interesse o capriccio.
    L'esempio l'ha dato lo stesso Gesù nel suo modo di comportarsi. Lo ricorda ancora il testo sopra citato, continuando il pensiero già enunciato sul bisogno di diventare servi degli altri: "Anche il Figlio dell'uomo - aggiunge - è venuto non per farsi servire, ma è venuto per servire e per dare la propria vita come riscatto per la liberazione degli uomini" (Mc 10,45).

    4. Il prestigio

    Come fanno rilevare alcuni studiosi, nella società d'Israele ai tempi di Gesù, come d'altronde in genere nelle società orientali di allora, il prestigio costituiva uno dei valori fondamentali. La gente ci teneva molto all'apprezzamento degli altri. Più ancora che alle ricchezze.
    Ciò dava origine ad una autentica scala sociale, nella quale ognuno occupava il proprio posto, aveva il proprio "status", sulla base della stirpe, del denaro, dell'autorità, della scienza. E a tale scala ci si atteneva strettamente. Ognuno doveva osservarla attentamente, anche mediante il rispetto del modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi. E occupando il proprio posto nelle assemblee, banchetti e incontri di diverso ordine.
    In questa gerarchia di prestigio, poi, c'erano degli uomini e delle donne che "non contavano", perché non avevano nessuno "status". Non vantavano né stirpe, né ricchezze, né scienza, né virtù. Erano i piccoli, i poveri, i peccatori, i pubblicani, le prostitute, il popolino ignorante.
    Nei testi evangelici l'atteggiamento di Gesù appare molto netto anche davanti a questa situazione, come davanti a quelle che abbiamo preso in considerazione precedentemente. Egli la ritiene una negazione e un ostacolo alla venuta del regno di Dio.
    Anzitutto, egli la sconfessa con il suo stesso modo di agire. Si comporta come uno che non si cura affatto del prestigio.
    Leggendo i vangeli si ricava infatti la innegabile sensazione che non gli interessa ciò che di lui e del suo modo di essere e di agire pensano o dicono gli altri, specialmente coloro che sono schiavi della ricerca dalla propria gloria.
    Se si tratta, per esempio, di frequentare la compagnia di coloro che non godono di buona riputazione in Israele, egli non si sente impacciato nel farlo. E non si trattiene dal farlo perché gli altri mormorano criticando il suo operato. Tutt'al più, offre loro un'occasione di riflessione, evidenziando i motivi profondi del suo operare.
    Ciò si vede, per esempio, nel caso della chiamata di Levi, il pubblicano che egli invita a seguirlo (Mc 2,16-17), in quello del suo autoinvito a pranzo a casa di Zaccheo (Lc 19,7-10), o della donna peccatrice che gli lava i piedi con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi cappelli al banchetto in casa di Simone il fariseo (Lc 7,39-47). E, in forma più generale quando, come abbiamo rilevato precedentemente, gli scribi e i farisei mormorano perché egli riceve a casa sua dei pubblicani e dei peccatori e mangia con essi (Lc 15,1-2).
    Altrettando succede quando si tratta di compiere delle azioni che lo rendono "impuro" dal punto di vista legale. Il caso già citato del lebbroso di Mc 1,40-42 ne è una vistosa conferma.
    Ma anche quando, come pare trasparire da certi testi, lo accusano maliziosamente di essere "mangione e beone" (Mt 11,19), non è che se la prenda perché il suo onore venga offeso; piuttosto si lamenta dell'insensibilità di "quella generazione" davanti a ciò che Dio sta operando attraverso i suoi interventi, specialmente in favore degli esclusi.
    Qualcosa di simile accade quando, in presenza dei suoi esorcismi, alcuni scribi venuti da Gerusalemme lo accusano di essere lui stesso "posseduto da uno spirito maligno" (Mc 3,30).
    Con una distaccata serenità egli li invita a ragionare, e a non rimanere in quello stato di chiusura che impedisce loro di percepire l'azione dello Spirito Santo che sta avvenendo sotto i loro sguardi.
    Ma oltre a comportarsi in maniera sovranamente libera nei confronti del prestigio e dello "status", egli sembra aver denunciato aspramente la condotta di coloro che invece vivono per il prestigio e l'ammirazione degli altri. Il vangelo di Matteo gli attribuisci frasi molto forti al riguardo: "Tutto quel che fanno è per farsi vedere dalla gente. Sulla fronte portano le parole della legge in astucci più grandi del solito; le frange dei loro mantelli sono più lunghe di quelle degli altri. Desiderano avere i posti d'onore nlle sinagoghe, i primi posti nei banchetti, essere salutati in piazza e essere chiamati 'maestro'" (Mt 23,5-7).
    Si può cogliere attraverso tali frasi che, in questo atteggiamento di ricerca della propria gloria, generatore poi di un modo di convivenza ingiusto e antifraterno, Gesù vede uno dei fondamentali antivalori alla luce del regno di Dio.
    Egli dimostra di sapere che ciò significa vivere da schiavi: schiavi di ciò che più di una volta nella Bibbia viene chiamato "preferenza di persone" (Rom 2,11; Ef 6,9; ecc.).
    Avere "preferenza di persone" significa prendere in considerazione la "maschera" che la gente si porta sopra, ma che è "di più" della loro genuinità personale.
    Da quel che si coglie nel suo modo di agire, per Gesù ogni persona è importante per se stessa, e non per i titoli o i meriti che possiede. È così che egli tratta la gente.
    Si occupa infatti con una tenerezza e una sollecitudine speciale dei piccoli, cioè di coloro che non hanno nessuno "status" in Israele, perché vede in essi degli esseri umani bisognosi di aiuto e di sostegno.
    Ma non esclude i "grandi", coloro che godono di prestigio e onore, perché anch'essi sono bisognosi di aiuto. E li accoglie anche in quanto sono tali, non perché abbiano prestigio e onore.
    Ad essi, poi, dice una parola programmatica: "Vi assicuro che se non cambiate e non diventate come bambini non entrerete nel regno di Dio. Chi si fa piccolo come questo bambino, quello è il più importante nel regno di Dio" (Mt 18,2-4).
    Diventare come bambini non vuol dire avere l'innocenza dei bambini, come a volte è stato inteso, o acquistare la loro dolcezza o la loro semplicità, di cui più di una volta mancano.
    Né significa coltivare semplicemente in sé la fiducia radicale che i bimbi hanno di solito verso i loro genitori, cosa anche assolutamente necessaria in chi si mette in rapporto con il Dio del regno.
    Significa invece spogliarsi dalla maschera che la brama di onore e di prestigio, di "status" in una parola, crea negli uomini.
    Solo così si può entrare con Gesù e come lui nella causa del regno di Dio, perché allora si è disposti a costruire una convivenza fondata su ciò che è veramente essenziale nell'uomo.
    Il regno di Dio è, in questo senso, un regno di bambini, cioè di uomini e donne che non ci tengono al prestigio nè si rapportano con gli altri "avendo preferenze di persone".

    5. La solidarietà chiusa

    L'abbiamo visto più di una volta: Gesù, annunziando il regno di Dio, propone una maniera di vivere all'insegna non dell'egoismo accaparratore delle cose o delle persone o addirittura di Dio stesso, ma all'insegna della solidarietà che cerca la condivisione. Per lui questa solidarietà e questa condivisione sono uno dei principali valori da coltivare.
    Ora, nel suo popolo esisteva questa solidarietà. Solo che molto spesso era una solidarietà chiusa.
    Chiusa, anzitutto, nell'ambito del popolo stesso. Il fatto che i non giudei venissero considerati spregiativamente quali "goyim", e ritenuti impuri e da non frequentare, ne è un chiaro indizio.
    Stando al racconto di Luca negli Atti, ancora dopo la risurrezione di Gesù, quando Pietro sarà chiamato dal centurione romano Cornelio -un "impuro", quindi- a casa sua per ascoltare l'annuncio del vangelo, egli avvertirà sulla soglia della casa: "Voi sapete che non è lecito a un Ebreo stare con un pagano o entrare in casa sua" (At 10,28). E se si deciderà ad entrarvi, malgrado le sue ripugnanze, sarà perché, come egli stesso dichiara, "Dio mi ha mostrato che non si deve evitare nessun uomo come impuro".
    Ma all'interno di questa solidarietà racchiusa nei limiti del popolo "eletto", ne esistevano altre.
    La prima era quella della famiglia, nel senso ampio della parola. I vincoli di sangue avevano un peso molto grande tra quei popoli. Un membro della famiglia andava difeso come se stesso. L'offesa fatta a lui era da considerare come fatta a tutti e ad ognuno degli altri suoi membri.
    Per questo era così incalzante la legge della vendetta. "Occhio per occhio, dente per dente" (Mt 5,39), diceva questa legge. La solidarietà nell'onore familiare richiedeva il risarcimento adeguato.
    C'era poi la solidarietà che vigeva tra i membri dei diversi gruppi sociali e religiosi. Anch'essi si appoggiavano e si difendevano a vicenda, considerando gli altri membri del gruppo in qualche modo come altrettanti se stessi.
    Ciò li contrapponeva, necessariamente, ai membri degli altri gruppi. Era una specie di identificazione corporativa per contrapposizione ad altre identificazioni corporative.
    E gli atteggiamenti che ne derivavano erano molto simili a quelli della famiglia.
    Da quel che ci dicono i vangeli possiamo capire che Gesù, che dà tanta importanza al valore della solidarietà in ordine al regno dei Dio, prende invece delle posizioni molto critiche nei confronti di quelle menzionate. Egli lascia intravedere che questo tipo di solidarietà chiusa è un vero antivalore per il regno.
    Lo ricaviamo in primo luogo dall'atteggiamento che lui assume personalmente nei confronti della sua stessa famiglia.
    La piccola narrazione di Mc 3,31-35 è molto significativa al riguardo: "La madre e i fratelli di Gesù erano venuti dove egli si trovava, ma erano rimasti fuori e lo avevano fatto chiamare. In quel momento molta gente stava seduta attorno a Gesù. Gli dissero: 'Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e ti cercano'. Gesù rispose: 'Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?' Poi si guardò attorno, e osservando la gente seduta in cerchio vicino a lui disse: 'Guardate: sono questi mia madre e i miei fratelli. Perché, se uno fa la volontà di Dio, è mio fratello, mia sorella e mia madre'".
    Non si deve interpretare questo brano come un rinnegamento dei parenti da parte di Gesù. È molto verosimile che egli amasse teneramente i suoi, e soprattutto sua madre che, stando al racconto di Giovanni, morendo si preoccupò di affidare "al discepolo che egli amava" (Gv 19,26-27).
    Ciò che invece egli rifiuta è l'atteggiamento chiuso che essi dimostrano di avere in quella circostanza. La citata narrazione permette di capire che essi hanno tentato, in qualche momento della sua attività, di distoglierlo da essa perché pensavano che egli "era diventato pazzo" (Mc 3,21).
    È probabile che a Nazaret avessero sentito le voci che correvano su di lui, e si fossero sentiti nell'obbligo di intervenire per porre fine a ciò che poteva coprire di vergogna tutta la parentela.
    In presenza di una tale compatta chiusura, egli afferma decisamente che non sono i vincoli del sangue quelli che devono avere prevalenza nei rapporti tra le persone. C'è un vincolo molto più profondo e universale, quello che li unisce nella causa della realizzazione della volontà del Padre comune.
    "Se uno fa la volontà Dio", ribadisce con fermezza nel testo, diventa "mio fratello, mia sorella e mia madre".
    Un'idea simile la si trova in altri testi che di per sé suonano molto duri, ma che vanno intesi nel loro giusto senso.
    Quello per esempio in cui, secondo vangelo di Luca, egli enuncia a chi vuol seguirlo alcune condizioni: "Se qualcuno viene con me e non ama me più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e delle sorelle [...], non può essere mio discepolo" (Lc 14,26; cf Mt 10,37).
    Oppure quell'altro in cui si rivolge ad uno che ha invitato a seguirlo e che gli chiede di permettergli prima di andare a seppellire il suo padre che è morto: "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti: tu invece va' ad annunziare il regno di Dio" (Lc 9,59-60).
    Prendere questi testi alla lettera e fuori dal contesto sarebbe fare di Gesù esattamente il contrario di ciò che dicono tutte le pagine del vangelo. Essi acquistano senso invece come testimonianze di ciò che egli propone nei confronti della solidarietà: gli uomini e le donne vanno amati in ultima istanza non perché sono legati a noi da vincoli di parentela, ma perché sono figli di Dio. Questo è il vincolo fondamentale che unisce tutti come figli dello stesso Padre.
    Lo stesso orientamento Gesù propone per gli altri tipi di solidarietà esistenti in Israele.
    "Se amate quelli che vi amano, che merito avete? ... Se salutate solamente i vostri amici, fate qualcosa di meglio degli altri?" (Mt 5,46-47).
    Tipico dei gruppi sociali e religiosi era il corrispondere all'amore degli altri membri del gruppo. Ma questo atteggiamento non si estendeva al di là di essi.
    Non così si deve procedere, stando alle esigenze del regno di fraternità, ma aprendosi a tutti.
    Anche a quelli che non ci amano, o addirittura ci odiano. È il massimo della coerenza con la causa del regno: "Amate anche i vostri nemici ... Facendo così diventerete figli di Dio, vostro Padre che è nel cielo" (Mt 5,44).
    Ecco la ragione ultima di questo comportamento radicale: il Dio del regno è così; Egli non ama gli uomini perché sono buoni, ma li ama gratuitamente, senza condizioni. Li ama affinché possano essere felici.
    Possiamo esprimere sinteticamente ciò dicendo che la solidarietà richiesta dal regno è una solidarietà aperta a tutti, senza eccezione. L'unico titolo che deve avere un uomo perché sia fatto oggetto di questa solidarietà è quello di essere uomo. Non ci sono steccati né di razza né di religione né di nessun altro genere che devono erigersi come impedimento ad essa. Solo così Dio, il Padre di tutti, può regnare.
    Anzi, se c'è qualcuno che deve essere oggetto di speciale solidarietà è, come l'abbiamo visto più di una volta, il più piccolo, il più debole, l'ultimo, colui che non conta. È la linea tradizionale dell'Antico Testamento. In esso "la vedova, l'orfano e lo straniero", persone tutte in condizioni di estrema precarietà, sono i primi e privilegiati destinatari della sollecitudine di Dio, e devono esserlo anche del suo popolo.


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