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    La morte in croce, momento culminante dell'esistenza di Gesù per la causa del Regno (cap. 6 di: Gesù di Nazaret)


    Luis A. Gallo, GESÙ DI NAZARET. La sua storia e la sua grande causa per la vita dell'uomo. Elledici 1991

     

    1. Un dato incontrovertibile

    Come abbiamo ripetuto più di una volta precedentemente, molti dati delle narrazioni evangeliche sono difficili da controllare storicamente. La fede pasquale degli scrittori si è impadronita di essi e li ha in qualche modo trasfigurati.
    Il dato della morte di Gesù sul patibolo della giustizia romana è invece fuori controversia. Nessuno oserebbe metterlo ragionevolmente in dubbio.
    A dire il vero, c'è stato in passato qualcuno che ha voluto negarlo, sostenendo che egli non era veramente morto sulla croce, ma solo in apparenza; ciò che poi i suoi seguaci fecero passare come risurrezione non era altro che la sua riapparizione in pubblico dopo essersi rimesso dalle torture inflittegli.
    Ma oggi nessuno avrebbe il coraggio di sostenere una tale ipotesi. È troppo grossolana.
    Gli evangelisti parlano lungamente di questo momento tragico della vicenda di Gesù. Gli dedicano molto spazio (Mt 26-27; Mc 14-15; Lc 22-23; Gv 18-19). Anzi, ci sono degli studiosi che dicono che questi racconti appartengono ai brani più antichi dei vangeli stessi, al loro nucleo iniziale.
    Anche in queste narrazioni si coglie, ancora una volta, l'influsso della fede sull'oggettività storica. Ognuna di esse presenta infatti delle sfumature differenti. Vanno dalla figura di Gesù quale martire schiacciato come un verme e abbandonato da tutti, perfino da Dio (nel vangelo di Marco), a quella di Gesù quale Signore sovrano che affronta la passione e la morte con una solennità e con una lucidità che solo il Figlio eterno di Dio può avere (nel vangelo di Giovanni).

    2. Un dato molesto

    Che i vangeli ne parlino tanto a lungo non è indifferente. Anzi, riflette probabilmente una situazione imbarazzante delle prime comunità cristiane.
    Esse credevano in Gesù come il Messia e Salvatore lungamente atteso e finalmente arrivato, e ciò le metteva nella necessità di giustificare davanti agli altri giudei e a se stessi la sua morte.
    Israele infatti aveva sperato per secoli la venuta di un Messia, un consacrato da Dio, potente e glorioso, che avrebbe portato a compimento le antiche promesse di salvezza con la forza del suo braccio. Egli avrebbe realizzato le grandi aspettative del popolo sul regno di Dio schiacciando i nemici ed eliminando tutti i suoi oppositori. Sarebbe stato come una grande e gloriosa manifestazione definitiva della potenza di Dio nella storia e nel mondo.
    Gesù di Nazaret invece, colui che i cristiani proclamavano appunto quale Messia, aveva concluso la sua vicenda nella più estrema debolezza. Anzi, morendo di una morte veramente ignominiosa.
    La croce era a quei tempi il più umiliante dei tormenti inflitti dagli odiati dominatori romani. Un supplizio che veniva riservato solo agli schiavi, e che produceva tale ribrezzo nei cittadini romani da essere diventato un vero tabù: il suo nome non veniva neppure pronunciato.
    La fine di colui che i cristiani confessavano con fede ed entusiasmo come Messia era, quindi, uno scandalo. Scandalo certamente per gli altri giudei, come ricorda ancora Paolo (1Cor 1,23), e scandalo in qualche modo anche per loro stessi. Si dovettero perciò dare da fare per trovarle un senso. E lo fecero ricorrendo soprattutto alle riserve che la loro fede trovava nell'Antico Testamento.
    Sostennero così che Gesù era morto perché in fondo i profeti, secondo l'esperienza attestata dall'Antico Testamento, avevano quasi sempre pagato con la loro vita la propria testimonianza ed egli, il Profeta per eccellenza degli ultimi tempi, non poteva non soffrire identica sorte.
    Oppure perché così era previsto nei piani provvidenziali di Dio: il Giusto per eccellenza degli ultimi giorni doveva soffrire, e in forma molto più intensa, le sofferenze e le persecuzioni che dovettero soffrire tutti i giusti che precedentemente avevano voluto mantenersi fedeli a Dio.
    O ancora, perché egli aveva voluto offrire la sua vita sulla croce per salvare gli uomini dai loro peccati mediante i suoi patimenti. Egli si era offerto come vittima "per noi", "per i nostri peccati".
    Probabilmente con tali ragionamenti non convinsero molti che non volevano credere in lui. Alcuni sì, tuttavia. Per esempio quel ministro della regina etiopica Candace che, secondo il racconto degli Atti, tornando da Gerusalemme verso Gaza si fece spiegare da Filippo le profezie di Isaia sul futuro Servo sofferente (Is 53), e finì credendo in Gesù come Messia salvatore (At 8,26-39).
    L'importante è che, in questo modo, i primi cristiani riuscirono a darsi ragione nella fede della terribile morte del loro amato Messia, che veneravano come Signore e Salvatore. Così essa non apparve più ai loro occhi come uno scandalo, o un assurdo, ma come qualcosa che aveva la sua logica divina.

    3. La cause storiche della morte

    Tutto ciò resta valido. Comporta però anche un rischio. Quello di ricoprire le ragioni storiche della morte di Gesù di Nazaret. E anche, di rimbalzo, di far scomparire il collegamento tra questa sua morte e l'intera sua vicenda.
    Specialmente la seconda delle interpretazioni ricordate, quella che spiega la morte di Gesù come un'esigenza del piano divino di salvezza, offre il fianco a questo rischio.
    Ancora oggi, infatti, molti cristiani vedono quella morte quasi come una fatalità divina.
    Pensano che Dio, conoscendo sin dall'eternità il futuro peccato dell'uomo, avrebbe stabilito che il Salvatore dovesse morire sulla croce per espiarlo, e cioè per riparare l'offesa inferta all'infinita sua maestà.
    Era quindi inevitabile che egli morisse in questo modo. Così, con il suo sangue, diede soddisfazione alla giustizia divina e riaprì le porte del cielo.
    Come si vede, in questo modo di concepire le cose non c'è nessun collegamento reale tra la morte di Gesù e la sua vicenda precedente. Si lasciano tra parentesi in realtà tanto la sua intenzione fondamentale quanto l'intera sua prassi in consonanza con essa.
    È indispensabile pertanto ricuperare lo spessore storico di questa conclusione dolorosa della vicenda di Gesù, per cogliere il suo senso genuino.
    In poche parole, si deve affermare, in forza dei dati evangelici, che egli morì perché la sua proposta cozzò contro le posizioni di coloro che non vollero accoglierla.
    Come abbiamo visto, il suo modo di concepire il regno di Dio era diverso da quello di tutti gli altri gruppi religiosi di Israele.
    Egli proponeva un ribaltamento radicale di tutto ciò che si opponeva alla possibilità di vita vera e completa per tutti, a cominciare dai più spogliati di essa, e ciò coinvolgeva necessariamente un nuovo assetto della convivenza umana anche a livello strutturale.
    Non poteva regnare il Dio che, quale Padre tenero e premuroso, voleva la vita per tutti, se la convivenza produceva morte, specialmente morte tra i più deboli e piccoli.
    Per questo Gesù denunciò e combattè tenacemente e coraggiosamente atteggiamenti, rapporti e strutture che si opponevano al regno di Dio.
    Combattè anzitutto quel modo legalista di rapportarsi con Dio che faceva dell'uomo uno schiavo e non un essere che cammina a testa alta.
    Alcuni farisei seppero qualcosa di questa denuncia e di quest'opposizione, stando a quanto raccontano i vangeli. Più di una volta dovettero infatti sentirsi dire che erano dei "sepolcri imbiancati", "ciechi", "razza di vipere" (Mt 23).
    È probabile che queste dure frasi siano espressioni che riflettono le esperienze posteriori dei cristiani venuti del giudaismo in contrasto con i farisei, più che parole stesse di Gesù. Ad ogni modo, sullo sfondo c'è un dato storico innegabile: Gesù si oppose alla religiosità di tipo farisaico. Egli dimostra di non poter sopportare che il rapporto con il Dio che pensa e vive come "Abbà" possa essere vissuto nel timore e nella legalità.
    E soprattutto che una tale religiosità venga imposta ad altri, riducendoli a schiavi che vivono nella paura, stanchi e oppressi dal giogo della legge (cf Mt 11,28-30).
    C'è un episodio molto illuminante al riguardo. È quello della guarigione dell'uomo della mano paralizzata (Mc 3,1-6).
    Era un giorno di sabato, e secondo i farisei non era lecito guarire di sabato, giorno dedicato per legge al riposo (cf Lc 13,14). Ma a Gesù stava più a cuore la salute e la vita di quell'uomo che la legge del sabato. E lo guarì.
    I farisei, invece, avevano spesso il cuore indurito, sclerotizzato dalla loro ottusa adesione alla legge. Era gente che si era creata delle catene nel nome di Dio, e ci teneva a portarle. E, quel che è peggio, a farle portare dagli altri. Non potevano sopportare quell'uomo libero che veniva a sconvolgere tutto con i suoi comportamenti.
    Gesù si rattristò per la loro condizione. Essi invece, "uscirono dalla sinagoga e subito fecero una riunione con quelli del partito di Erode per decidere come far morire Gesù" (Mc 3,6).
    Ecco una delle cause storiche della morte di Gesù. Coloro ai quali dava fastidio e perfino paura il suo modo di concepire il rapporto con Dio, e la critica a tutto il sistema religioso che su di esso poggiava, decisero di eliminarlo.
    Capirono che o lo lasciavano andare avanti, e allora avrebbero dovuto cambiare radicalmente tante cose, o lo bloccavano perché ciò non avvenisse. E optarono per questa seconda alternativa.
    Gesù contestò inoltre quel sistema di purità legale che tra gli ebrei spaccava il mondo in due: ciò che era puro, e ciò che erano impuro. Un'impurità a sfondo religioso, ma che aveva poi dei risvolti sociali molto notevoli.
    Ne abbiamo un cenno molto esplicito nella narrazione di Mc 7,1-23. Si tratta di una delle tante dispute che, secondo Marco, affronta Gesù con i farisei. La causa scatenante questa volta è la condotta di alcuni dei suoi discepoli: "mangiavano i loro pani con le mani impure".
    Come spiega lo stesso vangelo, i farisei facevano delle frequenti purificazioni. Dovevano essere legalmente puri per poter praticare gli atti cultuali. Mangiare era uno di questi. Gesù, invece, e i suoi discepoli, non sembrano essere stati particolarmente attenti a queste prescrizioni.
    Anzi, Gesù non solo non si sottopone ad esse, ma le trasgredisce consapevolmente quando c'è di mezzo il bene, la felicità, la vita di qualcuno. Lo vediamo in molteplici episodi.
    Per esempio, in quello della guarigione del lebbroso di Mc 1,40-42. Un lebbroso era un uomo impuro, secondo la legge. Doveva vivere nell'isolamento e stare attento a non toccare e a non farsi toccare da nessuno, perché ciò rendeva impuro anche l'altro. Davanti a lui, invece, Gesù, si commuove profondamente, "lo tocca", ed egli guarisce.
    Ma anche nel caso della donna emorroisa (Mc 5,25-34) succede qualcosa del genere. Questa volta non è lui che tocca un essere impuro (cf Lv 25,15), ma viene toccato dalla donna nell'orlo del suo vestito e quindi contagiato automaticamente d'impurità. Non per questo si sente condizionato. Dice alla donna, che trema nel vedersi scoperta: "Va in pace, la tua fede ti ha salvata".
    Si può dedurre, tanto da questi come da tanti altri racconti simili, che a lui non interessa la legge della purità legale, che è disposto a passarci sopra quando c'è di mezzo la vita e la felicità della gente.
    E ciò non poteva non scatenare le ire di coloro che a questa legge ci tenevano con grande zelo.
    Anche da questo punto di vista, se la condotta di Gesù arrivava a diffondersi, tante cose si sarebbero dovute cambiare nella convivenza d'Israele.
    E non solo nella convivenza interna, ma anche in quella dei membri del popolo d'Israele con coloro che non vi appartenevano. Perché lo schema della purità legale si applicava anche globalmente al rapporto tra il popolo giudeo e il resto degli umini e donne. I "pagani", infatti, venivano considerati globalmente e con disprezzo come "goyim" dagli ebrei, e cioè come impuri.
    Gesù sembra aver passato al di sopra anche di questa discriminazione. Nei racconti evangelici egli non solo entra in contatto con alcuni pagani, come nel caso della donna cananea a cui guarisce la figlia (Mt 15,21-28), ma più di una volta loda la fermezza della loro fede contrapponendola perfino alla debolezza o scarsità di quella del suo popolo (Mt 15,28; 8,10; 13,58).
    C'erano poi i conflitti globali che attraversavano l'intera società d'Israele, già ricordati precedentemente. Quelli esistenti tra i sedicenti giusti e i così considerati peccatori, tra i ricchi e potenti e i poveri, tra gli uomini e le donne.
    Sappiamo già che Gesù contestò, tanto con le parole quanto soprattutto con la sua condotta e i suoi atti, tutte le forme di emarginazione da essi create.
    Le sue opzioni davanti a questi conflitti lasciavano chiaramente intravedere, a chi le guardava con un minimo d'intelligenza, che egli proponeva una società organizzata esattamente al rovescio di come era allora organizzata. Non quindi i deboli e piccoli fatti oggetto di esclusione e di emarginazione, trascurati e schiacciati dai forti e potenti ma, viceversa, destinatari di attenzione preferenziale.
    Ora ciò comportava necessariamente una perdita della situazione di privilegio da parte dei vincenti in questi conflitti. Essi, se volevano stare alle proposte di Gesù, dovevano fare come Zaccheo (Lc 19,1-11): rinunciare ai loro ingiusti vantaggi e convertirsi alla vera e reale fraternità.
    Ma, da quel che si può vedere nei vangeli, pochi di essi erano disposti a farlo. Piuttosto si indurirono nella difesa dei loro interessi, e decisero di eliminare colui che "sovverteva la gente" (Lc 23,2). Di sovversione, infatti, lo accusarono davanti al tribunale, esigendo la sua morte.
    Un'ultima situazione contraria al progetto del regno di Dio che Gesù denunciò e contestò fu quella del Tempio.
    Prolungamento della tenda nella quale aveva voluto abitare Dio uscendo dall'Egitto, esso era stato per secoli il cuore pulsante della vita del popolo. Distrutto più di una volta lungo la sua storia, era stato ricostruito con tenacia dallo zelo dei credenti. In esso c'era la "shekinah", cioè la dimora di Jahvé, il Dio che li aveva strappati dalla schiavitù d'Egitto, e li aveva portati ad abitare nella terra della promessa.
    Ai tempi di Gesù era il Tempio ricostruito ed abbellito da Erode il Grande a costituire il centro religioso d'Israele. Ad esso affluivano tre volte all'anno i fedeli giudei da tutte le regioni, e anche dalla dispersione, se potevano, a celebrare i grandi riti comandati dalla Legge (Es 23,14).
    Anche Gesù vi andò sin da piccolo, stando alle testimonianze di Lc 2,21-50. E in Gv 7,14.28 e 10,23 si dice che egli vi insegnava, approfittando certamente degli ampi spazi e portici dove si radunava la gente. Cosa non improbabile.
    Il Tempio era gestito dalle famiglie dei sommi sacerdoti. Ed essi lo avevano convertito in uno strumento di sfruttamento della gente, esigendo inesorabilmente le decime e le altre tasse.
    Inoltre, secondo molte testimonianze, anche esterne ai vangeli, esisteva un rumoroso commercio di animali sacrificali nel cortile grande del Tempio.
    Così, la casa del Dio Jahvé, il Dio che si era manifestato inizialmente al popolo in una straordinaria azione di liberazione dalla schiavitù e dallo sfruttamento, si era convertita in un "covo di briganti" (Mc 11,17). Il luogo dove si andava ad adorare il Dio della libertà si era convertito in uno strumento di asservimento, soprattutto dei più poveri e deboli, come quella vedova ricordata in Lc 21,1-4.
    Si può spiegare così la reazione di sdegno che gli evangelisti attribuiscono a Gesù. Tutti e quattro, benché ognuno in modo diverso, raccontano l'episodio del suo intervento nel Tempio (Mt 21,12-16; Mc 11,15-18; Lc 19,45-46; Gv 2,13-16).
    Secondo queste narrazioni, in quell'occasione egli contestò apertamente quel sistema che costituiva una reale bestemmia contro il Dio del regno. Lo strumetalizzava infatti facendogli svolgere una funzione esattamente contraria a quella che Egli voleva svolgere: anziché un Dio di libertà e di vita, un dio di oppressione e di morte.
    Gesù, dice Giovanni, "fece una frusta di cordicelle, scacciò tutti dal tempio" (Gv 2,15). Lo zelo per la casa di suo Padre, quella materiale ma anche e soprattutto quella viva, che erano i suoi figli, lo spinse a una tale azione.
    Questo suo intervento gli attirò le ire dei capi religiosi del popolo: "Quando i capi dei sacerdoti e i maestri della legge vennero a conoscenza di questi fatti cercavano un modo per far morire Gesù. Però avevano paura di lui perché tutta la gente era molto impressionata del suo insegnamento" (Mc 11,18).
    Un uomo pericoloso, dunque, che con le sue critiche al sistema religioso istaurato nel Tempio poteva produrre un ribaltamento della situazione. Tanto più che la folla lo ammirava. Si rendeva necessaria la sua eliminazione. E fu decisa.
    Sono questi i principali motivi storici che portarono Gesù al patibolo della croce. Stando sempre a quanto dicono i vangeli, il primo capo d'accusa che gli venne imputato durante il processo giudiziale davanti al Sinedrio fu infatti quello di aver parlato contro il Tempio (Mt 26,60-61; Mc 14,58); il secondo, invece, davanti al tribunale romano, quello poco sopra ricordato di "sovvertire il popolo" (Lc 23,2). L'informazione è plausibile, se si tiene conto di quanto è stato detto precedentemente.
    Sono motivi strettamente legati alla sua prassi per la causa del regno di Dio. Egli ha portato tanto avanti la sua dedizione a quella causa, che non ha dubitato di affrontare anche la morte per essa. Il suo amore per la vita degli uomini era tale e tanto, che non poteva retrocedere davanti a nulla.
    Non è detto che egli, uomo come era, non abbia avuto paura della morte. È interessante che gli evangelisti sinottici, a differenza di Giovanni che preferisce rilevare la sovrana serenità di Gesù anche davanti alla morte, abbiano evidenziato che egli sentì tristezza e paura per ciò che prevedeva stesse per accadere (Mt 26,38; Mc 14,33-34; Lc 22,44). Tuttavia, spinto sempre da quel desiderio di "fare la volontà del Padre", e cioè di realizzare il suo regno di vita per gli uomini, decise di andare fino in fondo nella sua decisione.
    La croce di Gesù non è quindi espressione di quella fatalità divina che erroneamente pensano alcuni cristiani. Non è neppure un qualcosa che non ha un legame con tutto ciò che precede nella sua vicenda. È invece l'apice di una esistenza vissuta per la causa del regno di Dio.
    Per ciò stesso, è la massima espressione del suo amore per la vita in pienezza degli uomini, e anche la massima espressione del suo amore verso il Padre.
    Gv 15,13 attribuisce a Gesù queste parole dette durante l'ultima cena con i discepoli: "Nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici". Egli le realizzò alla lettera. La croce dell'infamia ne è la testimonianza.


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