Attesi dal suo amore
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     Etty Hillesum

    Tzvetan Todorov

     


    L'amore per il mondo

    La prima persona di cui vorrei ripercorrere la biografia occupa una posizione estrema nello spettro delle scelte possibili di fronte alla violenza e all'aggressione. Le sue vicende si svolgono nei Paesi Bassi, durante la seconda guerra mondiale, in particolare quando ha inizio la persecuzione degli ebrei. La sua posizione è estrema perché ella rinuncia deliberatamente a ogni risposta politica, addirittura a ogni eventuale azione nel mondo esterno, per aspirare soltanto a una reazione di natura morale, che si declina in un cambiamento interiore o, in un secondo tempo, in un aiuto individuale ai perseguitati. La sua figura è eccezionale anche sotto un altro aspetto: incarna contemporaneamente una profonda spiritualità, che richiama le categorie della santità o dell'estasi mistica in contatto diretto con il divino, e una calorosa presenza carnale. Il suo nome è Etty Hillesum. Leggendo i diari e le lettere, che costituiscono la totalità della sua produzione, [1] provo – e non sono il solo – una sensazione così intensa di essere stato introdotto nella sua intimità che mi prendo fin d'ora la libertà di riferirmi a lei con il suo nome proprio, una scelta che in altre circostanze non farei. Mi propongo di accompagnarla negli ultimi due anni e mezzo (1941-1943) della sua breve vita, tenendo conto sia degli avvenimenti o delle traversie che deve affrontare, sia delle sue riflessioni, attraverso le quali cerca di affermare la propria visione del mondo e di dare un senso alla propria esistenza.
    Etty nasce nel 1914 in una famiglia ebrea che, dal lato paterno, si è stabilita da lungo tempo nei Paesi Bassi. Compie studi di diritto, ma all'università apprende anche la lingua e la letteratura russe (il russo è la lingua natale di sua madre). Vive ad Amsterdam presso l'abitazione di un contabile, Han, che le ha chiesto di occuparsi della gestione domestica ed è poi divenuto il suo amante (ha trentacinque anni più di lei). Si guadagna da vivere insegnando russo.
    Nel maggio 1940 l'esercito tedesco invade i Paesi Bassi: il conflitto dura soltanto una decina di giorni. Inizialmente, i nuovi padroni del paese ritengono che dal punto di vista della razza la popolazione olandese sia simile a quella tedesca, perciò è relativamente risparmiata; gli ebrei, invece, sono subito colpiti da discriminazioni e persecuzioni. Dal mese di giugno sono radiati dagli organi della difesa civile; nel novembre di quello stesso anno sono sollevati dagli incarichi pubblici – provvedimento che colpisce il padre di Etty, professore di lingue classiche. Nel febbraio dell'anno successivo il numerus clausus limita l'accesso degli ebrei all'università.
    È proprio in questo frangente che Etty avrà un incontro destinato a cambiare profondamente il corso della sua vita. La giovane si reca a una seduta guidata da Julius Spier, ebreo tedesco emigrato ad Amsterdam, che pratica una forma di analisi ispirata sostanzialmente a Jung e chiamata chirologia: inizia con una lettura delle linee della mano e prosegue, in particolare quando i pazienti sono giovani donne, con una lotta corpo a corpo. Etty s'innamora di lui (lei ha ventisette anni, lui cinquantacinque) e ciò la spinge a tenere un diario, che inizialmente ha la funzione di accogliere, come un confidente discreto, i sentimenti che la travolgono: un luogo in cui l'autore può «mostrare le cose lasciandole fluire liberamente fuori» (9.3.1941): Spier, indubbiamente, ne è il personaggio principale. Etty continuerà a scrivere per un anno e mezzo, ma molti quaderni sono andati perduti; l'ultimo annodella sua vita è descritto soltanto nelle lettere (ce ne sono giunte circa settanta).
    Il diario non è solo il confidente di questi sentimenti amorosi, ma gioca anche un duplice ruolo: diventa il luogo di analisi del suo essere e della sua visione del mondo, oltre che il banco di prova della sua esperienza letteraria. Per la maggior parte del tempo Etty ne parla con ironia, si prende gioco delle proprie aspirazioni a divenire una grande romanziera, dei sogni di essere una celebre donna di lettere, della vita interiore di cui conserverà traccia nei futuri «capolavori che ancora penso di dover scrivere» (22.10.1941). Ciò non le impedisce di prendere sul serio questa vocazione, di scrivere nel diario più volte al giorno, di pensarsi in primo luogo come una mano che scrive e di affermare con sicurezza: «Un giorno scriverò» (26.5.1942). Non ha torto: il suo talento è innegabile, alcune delle sue pagine non hanno nulla da invidiare ai più grandi capolavori letterari. La materia dei suoi scritti è costituita dal suo personale destino, ma non merita il rimprovero di egocentrismo che lei stessa si rivolge: in Etty si riflette il mondo che la circonda e che lei si è data il compito di comprendere e rappresentare. Rimane il fatto che, inizialmente, non si sofferma sul mondo esterno, al punto che nel primo anno di diario sono rari i cenni all'occupazione tedesca e alle sue conseguenze.
    Ciò che soprattutto cattura la sua attenzione è dunque la relazione con Spier e l'immagine che ella concepisce di sé. Unisce una certa libertà sessuale (non interrompe la convivenza con Han) e ciò che lei stessa definisce un amore illimitato per Spier. Non soltanto quest'uomo l'attrae, ma su di lei esercita anche una profonda influenza, tanto che, per ricordare il primo anniversario della loro relazione, Etty annota nel diario: «Il 3 febbraio ho compiuto un anno» (20.2.1942). Quando le voci sulla deportazione si fanno insistenti ed Etty immagina quel destino per Spier, si dichiara pronta a sposarlo per poterlo seguire nei campi in Polonia. E quando egli si ammala, si riferisce a lui come all'uomo la cui assenza rischia di causarle la morte.
    Sempre influenzata da lui, decide di dedicare tempo e impegno all'autoanalisi. Ispirandosi all'insegnamento di Spier, che a sua volta deriva da una tradizione individualista moderna, declinata in modi differenti da autori come Ibsen, Nietzsche od Oscar Wilde, decide d'immergersi nel proprio intimo, di mettersi all'ascolto di sé stessa, di osservarsi con attenzione – almeno per mezz'ora al giorno! Sogna di abitare un mondo che le sia proprio e di cui ella sarebbe il centro. È ancora Spier ad averle insegnato che deve sempre restare fedele al proprio essere più profondo. Aspira a diventare autosufficiente, a trovare in sé il metro con cui valutare le proprie azioni. Il suo mondo interiore è per lei la cosa più cara.
    Nello stesso tempo, e sempre influenzata da Spier, Etty non vuole limitarsi all'autoanalisi e all'amore per un solo uomo. L'amore per un individuo deve trasformarsi in quello che i cristiani definiscono l' «amore verso il prossimo», ossia verso le persone che non necessariamente conosciamo o per le quali non proviamo alcuna simpatia; addirittura, ispirandosi a Nietzsche, e non tanto a Cristo o a san Paolo, in un amore per la vita che trascende la categoria dell'umano: l'amore più bello è quello che s'irradia al mondo intero. Da qui la conclusione: «Non bisogna mai rendere una persona, anche se molto cara, lo scopo della propria vita. [...] Il fine è la vita stessa, in tutte le sue forme, e ogni uomo sta lì come mediatore tra noi e la vita» (15.6.1942).
    Etty aderisce pienamente a questa esigenza e, per metterla in pratica, inizia un lavoro su di sé che, sotto certi aspetti, risulta in contraddizione con il programma, perché ella condanna il proprio essere in nome di un dover essere che deriva da una moralità superiore. In particolare, vuole prendere le distanze rispetto al suo retaggio in quanto donna, perché le donne tradizionalmente hanno cercato l'attaccamento agli individui – compagni di vita, figli o genitori – invece che a concetti astratti come l'Arte, la Scienza, l'Umanità o la Vita. Secondo Etty, se le donne vogliono veramente emanciparsi, trasformare la propria femminilità in puro essere umano, devono superare questa forma d'amore. Al suo posto occorre coltivare un amore cosmico, che abbia per oggetto tutto ciò che Dio ha creato. Questo suo desiderio talvolta la induce a pensare che dovrebbe entrare in convento; ma l'attrazione che prova per gli esseri umani e per il contatto sensuale rimane al tempo stesso forte, perciò sceglie di vivere «tra gli uomini e in questo mondo» (25.11.1941). Pur credendo in questo ideale, ella sa comunque di essere lontana dall'incarnarlo, perché si è innamorata di un uomo in particolare, per quanto promotore dell'idea di un amore universale. Nel diario si rivolge frequenti rimproveri, intimandosi di compiere uno sforzo di volontà e di seguire più da vicino i precetti che ha adottato.
    Un ideale di questo tipo le deriva dunque dall'esterno, da Spier; prima d'incontrarlo, la sua visione del mondo era molto più negativa. «Considero la vita un lungo calvario e gli uomini esseri assai disgraziati», scrive e ne trae le conseguenze per il proprio comportamento: rifiuta l'idea di avere figli o di scrivere libri. Da questo stato di depressione e di condanna del mondo passa, un po' come il poeta Rilke per il quale nutre una profonda ammirazione, a una visione estatica del mondo. A dispetto di tutto ciò che accade, di tutte le sofferenze che osserva attorno a sé, di tutte le cattiverie che le tocca subire, vuole proclamare che la vita è buona, bella e ricca di significato. Per il fatto stesso che una cosa esiste, suscita ammirazione e piacere; come Spinoza, Etty potrebbe dire: realtà e perfezione sono la stessa cosa. «La vita è buona, in ogni caso» (7.8.1941).
    L'amore che Etty vuole praticare oltrepassa, dunque, i soli esseri umani e si estende a tutto ciò che esiste. Una sera, rientrando in casa, si ferma lungo la riva di un canale. «Ho guardato oltre il canale: mi sono sciolta nel paesaggio e ho offerto tutta la mia tenerezza a quella notte, al cielo con le sue stelle e all'acqua e al ponticello» (25.4.1942).
    Allo stesso modo ama i fiori e le piante. La società con le sue norme è abbandonata a vantaggio dell'armonia cosmica e questo la rende infinitamente ricca. Si assegna anche questo incarico, sempre sotto forma d'imperativo: «Si deve diventare un'altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere» (9.7.1942).
    Se l'amore è universale, non deve rivolgersi esclusivamente agli uomini o alle esperienze piacevoli: bisogna accettare e perfino approvare le sofferenze e le gioie, la morte e la vita. Questo amore è un consenso alla totalità dell'esistenza ed è messo alla prova nelle circostanze specifiche che costituiscono il quadro di vita di Etty, ossia la politica dei nazisti verso gli ebrei nei paesi occupati. Su questo punto lancia un messaggio che la distingue dalla maggior parte dei suoi compagni di sventura – ma ancora una volta si mantiene fedele all'insegnamento di Spier il quale, nonostante sia direttamente colpito dalle nuove leggi razziali, rifiuta di chiamare in causa il popolo tedesco nel suo complesso per provvedimenti decisi da pochi nazisti. Anche di fronte all'ufficiale della Gestapo che lo ha convocato, egli auspica di testimoniare solo della propria bontà. Mostrandosi ben disposto perfino con coloro che gli vogliono male – è questa la sua idea – potrà rendersi utile politicamente.
    Etty aderisce pienamente a questo punto di vista. Impegnata in un lavoro interiore di natura morale, rivolge le sue esigenze in primo luogo a sé stessa. A metà della descrizione del suo nuovo amore, si scoprono improvvisamente due pagine brillanti, che rappresentano una severa condanna dell'odio. Le aggressioni subite non giustificano l'animosità che si prova nei confronti degli aggressori. Vorremmo opprimerli, ma in realtà distruggiamo noi stessi. «Il grande odio per i tedeschi ci avvelena l'animo» (15.3.1941). E lecito condannare le ideologie, indignarsi davanti a questo o quel fatto, ma bisogna rifiutare di sottomettersi alle pulsioni distruttive, odiare gli individui, ancor meno i popoli. «Èsolo il sistema usato da questo tipo di persone a essere criminale» (27.2.1942). E aggiunge: «Quell'odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. E una malattia dell'anima» (15.3.1941). «La cosa peggiore»: perfino degli atti persecutori che hanno provocato l'odio. Una tale gerarchia di valori presuppone che i nazisti, artefici della politica antisemita, non siano animati da un odio indistinto per gli ebrei e nello stesso tempo che, sul piano morale, i sentimenti provati, anche se non hanno conseguenze, pesino altrettanto, se non maggiormente, degli atti compiuti. La condanna che Etty pronuncia sui tedeschi persecutori è meno severa di quella indirizzata ai compatrioti, colpevoli di detestare i tedeschi. Anche quando la reazione non è peggiore dell'azione, occorre sospenderla, altrimenti si rischia di assomigliare a coloro che si condanna. «La barbarie nazista fa sorgere in noi un'identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo» (15.3.1941). Il male che causiamo adducendo il pretesto che si tratti della risposta a un male ricevuto non è accettabile. Ma viene voglia di chiedersi: le due barbarie sono davvero identiche?
    Di conseguenza, Etty sarà in disaccordo con coloro che proclamano la necessità di sterminare tutti i tedeschi, o almeno di combatterli spietatamente, correndo il rischio di apparire una cattiva patriota o una tiepida antifascista. Durante una di queste discussioni con i suoi compagni, ella ricorda loro la somiglianza delle due azioni, quella subita e quella compiuta: il nemico è lo specchio in cui vediamo noi stessi. «Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi. E non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi» (19.2.1942). L'opposizione non è tra occupanti e popolazione sottomessa, fra tedeschi e olandesi, ma fra quanti vivono nell'odio e quanti ne sono liberi. Etty descrive così un membro dell'amministrazione ebrea del campo: «Odia i suoi persecutori con un odio che suppongo sia giustificato. Ma anche lui è un uomo crudele. Sarebbe un perfetto capo di un campo di concentramento» (23.9.1942).
    Il lavoro morale su di sé deve precedere e orientare l'azione politica che ha come obiettivo gli altri, altrimenti rischiamo di rafforzare il male che combattiamo invece di distruggerlo. «Abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici» (23.9.1942). La vendetta non elimina il male, piuttosto lo riproduce, lo perpetua. Bisogna astenersi dall'imitare l'odio subìto o, meglio ancora, trasformarlo in amore – sentimento di cui Etty dispone in quantità inesauribile. L'azione che eserciterà sul mondo si prepara in lei attraverso una purificazione interiore.
    In tutti i casi, se l'amore non è possibile, può essere sostituito dalla compassione: sono questi i due sentimenti che, di fronte alle avversità, Etty sente crescere dentro di sé. È così che immagina la scena iniziale in cui un ss infuriato la prende a calci; in quel caso si limiterebbe a chiedergli quali avvenimenti nella sua vita l'abbiano reso così ostile all'umanità. Quando, più tardi, si trova di fronte a un agente della Gestapo, costui non la colpisce, ma la maltratta continuamente; come reazione, le viene voglia di rivolgergli questa domanda: «Hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza?» (27.2.1942). Piuttosto che imitare il suo atteggiamento, ella cerca di comprenderlo.
    Sotto certi aspetti, le scelte di Etty possono essere paragonate a quelle che Gandhi difendeva – ormai da diversi decenni – in India (ella non vi fa riferimento, ma apprezza Tolstoj, una delle fonti ispiratrici del militante indiano). Gandhi rifiutava d'incitare all'odio nei confronti del popolo inglese, considerato peraltro responsabile della deplorevole situazione in cui versavano gli indiani: «Non potrei mai sottoscrivere l'affermazione che tutti gli inglesi sono cattivi». Gandhi ne ha dedotto un nuovo tipo di resistenza, passiva e pacifica, contrapposta alla lotta annata: «Chi non
    ha odio nel cuore non brandisce la spada». L'individuo non-violento rifiuta d'infliggere il male in vista di ottenere il bene: «Non deve, per salvare l'uno, commettere violenza nei confronti dell'altro». [2] Ciò non significa accettare la repressione cui si è sottoposti: il resistente protesta, ma accetta la punizione prevista dalla legge. E la forza d'animo di cui dà prova può, per attrazione, per imitazione, condurre l'avversario a mutare atteggiamento.
    Tuttavia, tra questi due sostenitori della non-violenza le differenze sono molto più numerose dei punti di contatto. Bisogna dire innanzitutto che non perseguono il medesimo obiettivo: Gandhi è impegnato in una strategia che mira a rovesciare il potere coloniale; Etty si limita a un progetto puramente individuale e non condivide affatto il rifiuto gandhiano per tutte le scoperte della civiltà occidentale, per ogni tipo di macchina (compresi i treni e gli autobus), per la medicina e l'educazione. D'altro canto, in Gandhi non si trova questo amore per il mondo che è il punto di partenza di Etty; egli parla piuttosto il linguaggio del dovere. Lei è nell'acquiescenza, lui nell'esclusione. Etty apprezza la propria sensualità, per Gandhi invece il buon resistente deve restare casto e povero, il corpo deve vivere nella contrizione. Lui impone agli altri le proprie scelte morali, lei si accontenta di perfezionare sé stessa.

    Rifiuto della politica

    La situazione politica degli ebrei ad Amsterdam non è oggetto di una descrizione continua nel diario di Etty, ma se ne trovano comunque alcuni riflessi espliciti. Nel giugno 1941 la città è colpita da un primo grande rastrellamento; Etty annota: «arresti, terrore, campi di concentramento» (14.6.1941). Nell'autunno gli ebrei non sono più autorizzati a iscriversi all'università, né a esercitare determinati mestieri non commerciali o ad assumere manodopera non ebrea: Etty registra l'aumento degli stati di depressione e di angoscia. Dà conto anche delle morti sopraggiunte nei campi allestiti nel paese, le sofferenze che vi subiscono i detenuti, i divieti che si moltiplicano: gli ebrei non possono più entrare nei negozi, utilizzare i mezzi pubblici, sedersi in un caffè all'aperto. Nel complesso le prospettive sono cupe: ciò che attende gli ebrei è «fame, uccisione o esilio» (23.5.1942). Eppure, tutte queste vessazioni non suscitano indignazione da parte di Etty e meritano solo brevi cenni nel diario; il suo atteggiamento generale rimane quello di un'estranea acquiescenza di fronte agli eventi. Ella stessa è consapevole della singolarità della propria reazione e cerca di trovare una spiegazione, di fondarla su motivi razionali.
    Una prima linea di ragionamento consiste nello stabilire una netta opposizione tra vita interiore e vita esteriore, valorizzando la prima a discapito della seconda. Ha deciso che deve «non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che s'innalza dentro» (31.12.1941). Tutta la sua vita sarà regolata da questo centro interiore, all'ascolto del quale si pone da mattina a sera. Il disequilibrio tra le due fonti possibili di un'azione o di un giudizio è tale che Etty riporta questa frase sconvolgente: «Se tu vivi interiormente, forse non c'è neanche tanta differenza tra essere dentro o fuori di un campo» (12.3.1942). In un momento in cui milioni di sovietici sono costretti a una forma di schiavitù nei gulag dei loro paesi e altri milioni, provenienti da ogni nazione europea, affollano i lager tedeschi, si può scommettere che siano davvero pochi coloro ai quali è realmente indifferente trovarsi all'interno o all'esterno di uno spazio circondato dal filo spinato. Prendendo coscienza delle misure sempre più restrittive che colpiscono la vita degli ebrei, Etty annota nello stesso tempo lo scarso effetto che esercitano su di lei. Le sue convinzioni personali costituiscono una specie di muro, o di armatura, capace di respingere le aggressioni portate dal mondo esterno. «Ho la mia forza in-teriore e questo basta, il resto è irrilevante» (4.7.1942). Il di dentro risulta sempre vincente sul di fuori.
    Questa precedenza della vita interiore su quella che si svolge nel mondo è tale che Etty non fa differenza tra le azioni causate da un fattore umano e quelle provenienti dagli elementi del cosmo: per lei gli avvenimenti che costituiscono la storia umana e quelli che sono il risultato delle leggi di natura appartengono al medesimo ordine. Ormai, tutte le forme di azione umana sono poste sul medesimo piano, perché conta solamente la reazione interiore che esse suscitano: «E fa poi gran differenza se in un secolo è l'Inquisizione a far soffrire gli uomini, o la guerra e i pogrom in un altro? [...] Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta» (2.7.1942). Si potrebbe obiettare che distinguere tra questi diversi motivi di disgrazia è rilevante, nella misura in cui ciascuno di essi può essere combattuto con una reazione appropriata. L'indifferenziazione assunta da Etty si accentua ulteriormente quando alla serie delle forze del male aggiunge i disastri naturali, dietro ai quali non si trova alcuna intenzione umana. «Una volta è un Hitler, un'altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un secolo è l'Inquisizione e in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima» (10.7.1942). Le sofferenze forse sono simili, ma nell'avvento di Hitler si può vedere una peripezia che l'uomo è impotente a combattere quanto le epidemie di peste o i terremoti? Non è possibile eliminare tutte le malattie dalla faccia della terra, tuttavia ciò non impedisce di lottare efficacemente contro le diverse infezioni. La vita e la morte, le gioie e le sofferenze sono costitutive di ogni esistenza umana, ma in questo elenco possiamo includere l'odio razziale o i progetti di sterminio? Il posto preponderante che occupa la vita interiore di Etty rende insignificanti queste distinzioni tra natura e storia, tra convenzioni sociali e prese di posizione personali.
    Lo scarso interesse attribuito alla «vita esteriore» trova anche un'altra spiegazione: Etty non crede che sia possibile mutare il corso degli eventi. Gli individui sono costretti a un ruolo puramente passivo. «Non siamo nient'altro che botti vuote in cui si sciacqua la storia del mondo» (15.6.1941). Se non lo siamo, dovremmo cercare di diventare tali. Infatti, di fronte alla forza degli avvenimenti in corso, la volontà individuale è irrisoria. Etty è tentata di vedere nella Storia un destino voluto dalla Provvidenza piuttosto che un succedersi di eventi che gli uomini possono cercare di modificare. Ma l'immagine della «botte vuota» rende giustizia della ricchezza della sua vita interiore?
    Questa duplice giustificazione dell'acquiescenza – la vita interiore trionfa facilmente sui peggiori orrori esterni e, comunque, il corso degli eventi è immutabile – fa sì che Etty nutra diffidenza verso ogni tentativo di risolvere una criticità con un'azione pubblica e politica. L'azione sul mondo che avanza, ammesso che abbia una qualche utilità, deve avvenire solo in un secondo tempo, dopo un lavoro su di sé. Etty sospetta sempre che l'azione contro gli altri derivi da un sentimento di odio nei loro confronti, che appartenga dunque alla vendetta, o alla difesa dei propri interessi. Non vede un combattimento che non sia animato dall'odio verso il nemico (piuttosto che, per esempio, dall'indignazione di fronte all'ingiustizia). Alle azioni politiche di resistenza preferisce le reazioni personali di cambiamento interiore: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M'innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo. [...] La concentrazione interna costruisce alti muri» (18.5.1942). Ma è possibile combattere i campi di concentramento con la preghiera o con uno sforzo di concentrazione interiore? A quanti scrutano il cielo sperando in un prossimo arrivo degli inglesi, Etty replica che bisogna rinunciare a ogni speranza politica: «Non credo molto in un aiuto dall'esterno, né ci conto – su inglesi o americani o una rivoluzione o Dio sa cosa. Non ci si può attaccare a queste cose» (23.7.1942).
    Etty è consapevole che il suo atteggiamento non è per tutti, che la via da lei scelta è straordinaria. «Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei propri demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere» (14.7.1942). Al tempo stesso è convinta che la sua reazione morale sia di gran lunga preferibile a ogni azione politica: combattere i suoi demoni è il solo fine degno di rispetto. Il mondo circostante è certamente spietato, ma questa non è una giustificazione per coltivare in sé un sentimento diverso dalla misericordia. Ritrovando un vecchio amico marxista che invita alla resistenza armata, Etty replica: «È proprio l'unica possibilità che abbiamo, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri» (23.9.1942).
    Questa scelta radicale di uno dei termini a detrimento dell'altro, che richiede a sé stessa ma non agli altri, centrata sulla sola esperienza interiore preferibile al mondo esterno, privilegiando l'azione morale ed escludendo ogni intervento politico, sembra perfino a Etty così estrema che talvolta si ammonisce: «Dobbiamo tenerci in contatto col mondo attuale e dobbiamo trovarci un posto in questa realtà; non si può vivere solo con le verità eterne: così rischieremmo di fare la politica degli struzzi. Vivere pienamente, verso l'esterno come verso l'interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna, e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa» (25.3.1941). Questa è la teoria, ma il temperamento della giovane donna l'attrae verso il polo interiore.
    Tuttavia, verso la fine della sua vita, Etty troverà una nuova forma per realizzare questo equilibrio.

    Un balsamo per molte ferite

    Durante l'estate del 1942, la vita di Etty subisce una svolta e la sua visione del mondo va incontro a un deciso cambiamento. La causa è da individuare negli avvenimenti esterni. Alla fine di giugno di quello stesso anno gli ebrei olandesi sono raggiunti, per lo più attraverso Radio Londra, da nuove notizie inquietanti. Etty scrive nel diario: «Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall'Olanda in Polonia [...]. E secondo la radio inglese, dall'aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati» (29.6.1942). Due giorni dopo aggiunge: «In Polonia sembra che la strage sia al colmo» (1.7.1942). Per reagire a questa nuova situazione, e spinta dai parenti (in particolare dal fratello maggiore), fa domanda per un impiego al Consiglio ebraico, un'istituzione fondata dai tedeschi nei paesi occupati, per facilitare l'inquadramento della popolazione ebrea; corre voce che i suoi impiegati riescano a eludere le misure repressive che colpiscono gli ebrei. Etty è assunta immediatamente e viene incaricata di diversi compiti amministrativi; chiede di essere assegnata al settore Westerbork, il nome del campo di transito in cui sono radunati gli ebrei olandesi e da cui partono i convogli per i campi in Polonia e in Germania. Anche questa richiesta è accolta ed Etty, in un primo tempo, trascorre a Westerbork tre periodi di due settimane ciascuno nel 1942 (dal 30 luglio al 13 agosto, dal 21 agosto al 4 settembre e dal 20 novembre al 5 dicembre). In seguito una malattia la trattiene per alcuni mesi ad Amsterdam; il suo quarto e ultimo periodo inizia il 5 giugno 1943 e prosegue fino alla sua definitiva partenza. Infine, va ricordato un ultimo avvenimento di rilievo: l'oggetto del suo amore, Julius Spier, si ammala e muore il 15 settembre 1942 ad Amsterdam. E venuto a mancare colui che costituiva l'asse centrale della sua vita.
    Sensibile al cambiamento che avviene all'esterno, ma anche all'interno, Etty cerca uno stile diverso per esprimere le sue nuove reazioni. Appena arrivata al campo di Westerbork, annota: «Dovrò aver trovato una lingua completamente nuova, per parlare di tutto ciò che ha toccato il mio cuore in questi ultimi giorni» (19.7.1942). Finisce per trovarla, questa nuova lingua, in particolare nella corrispondenza; ciò tuttavia non comporta una rinuncia ai principi ai quali aderiva prima. Come in passato, dichiara: «Mi sento così stranamente felice, non in modo artificioso o altro, ma in tutta semplicità, perché mi sento crescere dentro dolcezza e fiducia, di giorno in giorno» (6.7.1942). La sua filosofia le permette di accettare la vita che la circonda: non cerca più di distinguere l'essere dal dover essere (enunciato sconvolgente, se si pensa che questo «essere» ora è il campo di concentramento, luogo di sofferenze indicibili). «Mi sono così affezionata a quel Westerbork», aggiunge (17.9.1942) e s'interroga lei stessa sull'origine di questo sentimento. «Com'è possibile che quel pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato, dove si riversava e scorreva tanto dolore umano, sia diventato un ricordo quasi dolce?» (22.9.1942). Ha deciso una volta per tutte che le sofferenze alle quali è sottoposta sono state stabilite da Dio – che sono buone, perché suscitano la bontà.
    Eppure, accanto a questa continuità appaiono numerosi segni di cambiamento. Il primo, e il più significativo, è che il centro d'interesse della sua vita non sarà più il suo intimo, ma le persone che la circondano. Fin dai primi periodi vissuti a Westerbork si è trasformata profondamente: si è immersa nella «vita della comunità del campo – in precedenza avevo vissuto piuttosto appartata» (2.10.1942). La sua preoccupazione di autoanalisi passa in secondo piano: l'unicità del suo io si annulla. «Non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro» (11.7.1942). «L'attenzione si concentra a tal punto sul prossimo che ci si dimentica di sé stessi, e in realtà è meglio così» (lettera 42). Etty non aspira più, come in passato, a diventare ciò che è, come se l'essere interiore precedesse l'esistenza e, in particolare, il contatto con gli altri, ma piuttosto desidera essere ciò che è diventata, come lei stessa si definisce: «un centro di tranquillità in quel manicomio» (16.7.1942) o «il cuore pensante della baracca» (15.9.1942) o ancora «un balsamo per molte ferite» (13.10.1942), un'identità che non esisteva prima dell'esperienza in cui si è trovata immersa.
    Non scrive più un diario personale, ma la cronaca delle tribolazioni che patisce insieme con i suoi compagni. L'interesse che nutriva per sé stessa è vinto dall'amore per gli altri, che non dipende dalla loro qualità eccezionale. Già Cartesio scriveva: «Non esiste uomo così imperfetto che non si possa avere per lui un'amicizia molto perfetta». [3] Etty ha adottato il medesimo punto di vista: «Non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l'amore che si prova per loro. [...] Il prossimo in sé ha ben poco a che farci» (lettera 56). L'amore universale cui aspirava in passato trova qui un'applicazione immediata.
    Se prima rifiutava di riconoscersi nel ruolo della rivoluzionaria e in quello dell'assistente sociale, la sua attuale attività a Westerbork è molto simile a quest'ultimo: interviene per alleviare le sofferenze altrui. Se aspirava a conoscere un solo cuore, il proprio, la sola propria «piccola vita interiore», ora si china su quella di tutti gli esseri umani che incontra e tocca il cuore dell'umanità sofferente. Se prima si esprimeva così: «Non potrei mai prendermi la responsabilità per la vita di un'altra persona» (21.10.1941), ora si sente responsabile di tutti coloro che si trovano al campo di Westerbork. La sua accettazione generale della vita ormai si concentra su un certo tipo di rapporti umani. «Vivere è un bene ovunque, anche dietro il filo spinato e dentro baracche tutte spifferi, purché si viva con l'amore necessario nei confronti degli altri e della vita» (lettera 10a). Portare caffè a chi lo chiede, ascoltare le sofferenze delle persone, appianare i conflitti sono tutte azioni che appartengono a una missione morale degna di rispetto; in ogni caso, all'interno di Westerbork le occasioni di opporsi attivamente alle autorità sono inesistenti. Con l'aumentare dei compiti che le sono affidati cresce la sua felicità. In questo momento non è tanto il campo in sé che Etty ama, quanto la vita che vi conduce, dove può dare libero sfogo all'amore umano che cresce dentro di lei. Evidentemente qui non tutto merita approvazione, tuttavia il male non regna uniformemente, e un gesto generoso, uno sguardo d'affetto possono redimere giornate d'angoscia.
    Immersa nella vita degli altri, Etty comincia a prendere le misure della loro sofferenza in maniera molto più concreta. «Confesso che ancora non capisco come degli uomini possano infliggere simili maltrattamenti ad altri uomini» (lettera 21). La realtà che appare ai suoi occhi è così nuova che diventa impossibile descriverla con le solite parole, bisognerebbe trovare nuove forme espressive per trasmetterne l'orrore. «Ci vorrebbe proprio un grande poeta, le semplici cronache giornalistiche non bastano più» (lettera 23). In realtà, è ormai diventata quel poeta tanto desiderato. Sono i convogli in arrivo o in partenza che offrono allo sguardo le scene più sconvolgenti. «La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere ed essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse» (lettera 23). «In quelle ore si potrebbe accumulare malinconia per una vita intera. [...] La locomotiva manda un fischio terribile, tutto il campo trattiene il fiato, partono altri tremila ebrei. [...] I vagoni merci erano completamente chiusi, ma .qua e là mancavano alcune assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga» (lettera 37). «Una notte della settimana scorsa è transitato qui un convoglio di prigionieri. Visi diafani e cerei. Non ho mai visto tanta stanchezza e sfinimento su un volto. [...] La mattina presto li hanno ammassati dentro vagoni merci vuoti. [...] Materassi di carta sul pianale, per i malati. Per gli altri, vagoni completamente spogli con un barile nel mezzo e circa settanta persone in un vagone chiuso» (lettera 46).
    Esistono molte lunghe lettere di Etty che non sono indirizzate a un destinatario specifico e costituiscono racconti completi della vita a Westerbork; saranno pubblicate già durante la guerra. Per esempio, la lettera del 24 agosto 1943: «Dopo la notte scorsa ho pensato per un momento, in tutta sincerità, che ridere ancora sarebbe stata una colpa. [...] Ma i bambini di pochi mesi, le piccole grida penetranti dei bambini, che sono strappati dalle loro culle nel cuore della notte per essere trasportati verso un paese lontano...» (lettera 64). Seguono scene di crescente tragicità, descritte con uno stile asciutto, lapidario: è il nuovo stile scoperto da Etty, adatto a questo mondo allucinato. Davanti ai suoi occhi passano una giovane paralitica che rifiuta di portare con sé un piatto per nutrirsi; un ragazzo in preda al panico che si dà alla fuga e crede di potersi nascondere, scatenando una caccia all'uomo condotta da altri ebrei che sarebbero stati deportati al posto suo; i cinquanta ebrei condannati alla deportazione perché serva d'esempio, anche se il fuggitivo poi è stato catturato; gli impiegati del Consiglio ebraico (tra cui Etty) che vestono i neonati e tranquillizzano le madri perché gli uni e le altre salgano sui vagoni senza fare storie; la giovane madre preoccupata che il pannolino lavato del suo neonato non sia asciutto prima della partenza del treno; una donna incinta al nono mese trasportata su una barella verso il treno e alla quale, al momento delle doglie, viene detto che deve restare al campo; una terza donna che spera di ritrovare il marito, partito con il convoglio precedente per la Polonia; una madre che sale con i suoi sette figli. «Le porte si chiudono sulle moltitudini cacciate indietro e pigiate nei vagoni merci. Attraverso le strette aperture in alto si vedono teste e mani che fra poco saluteranno [...]. Un fischio acuto e stridulo, e un treno con 1020 ebrei lascia l'Olanda.»
    La vicinanza che si è stabilita con i futuri deportati rende sempre più difficile a Etty mantenere la sua posizione di piena accettazione di fronte a ogni avvenimento. La situazione si aggrava ulteriormente quando, il 21 giugno 1943 – «la giornata più nera della mia vita» (lettera 39) –, in seguito a un rastrellamento ad Amsterdam, i suoi genitori e il fratello più giovane si ritrovano nello stesso campo di Westerbork. La ragione di questo nuovo smarrimento è che, come ella capisce subito, ciascuno può decidere di accettare tutto ciò che offre la vita, «ma si può farlo solo per sé stessi e non per gli altri» (lettera 53). Etty realizza ora che la netta separazione, che precedentemente isolava interno ed esterno, non è più valida, perché anche gli altri fanno parte di lei. Ormai, la sofferenza di persone a lei care la fa vivere in «un assoluto inferno», una «totale catastrofe» (lettera 40). Sacrificarsi per loro è molto più facile che vederli immolati. «Io stessa andrei dieci volte più volentieri in Polonia o in qualsiasi altro luogo, se prima riuscissi a togliere di qui i miei cari» (lettera 45). La prospettiva della loro partenza la getta in un perenne stato di angoscia, che alla lunga diventa insopportabile. Etty lo analizza lucidamente: «La cosa più disperante è che si può fare molto meno di quanto i nostri cari si aspettino da noi» (lettera 49). L'amore universale per il mondo e per la vita, indifferente a tutto ciò che accade, è possibile soltanto se non si prova un amore particolare per pochi esseri scelti: la loro caduta in disgrazia e il loro massacro sono intollerabili.
    Ed è così che, in quel momento, Etty rinuncia all'idea che sia necessario evitare ogni intervento esterno in grado di migliorare la situazione, ogni atto politico capace di arrecare sollievo alle persone amate. Quando vede i convogli dell'incubo portar via il proprio carico umano, si unisce mentalmente a quelli che prima disapprovava e comincia a sognare un bombardamento compiuto dall'aviazione inglese: «E, una volta tanto, non poteva essere colpita una linea ferroviaria, così da impedire la partenza del treno? Non è ancora successo, mai; ma si continua a sperarlo a ogni deportazione, con una fiducia incrollabile...» (lettera 64).
    La fine di Etty si avvicina. Nel luglio 1942 era entrata al servizio del Consiglio ebraico a Westerbork, credendo che questo semplice incarico l'avrebbe protetta dalla deportazione. Ma il 7 luglio 1943 tutti i privilegi sono aboliti ed Etty diventa una detenuta come le altre. La famiglia Hillesum compie alcuni tentativi al fine di ottenere un'esenzione per il figlio Mischa, pianista di straordinario talento, ma ottiene un rifiuto; giunge poi l'ordine che il giovane sia incluso nel successivo convoglio destinato ad Auschwitz insieme con tutta la famiglia, ossia il padre e la madre, ma pure la sorella Etty. La decisione è presa il 6 settembre 1943; la partenza è fissata per il giorno seguente. All'inizio Etty è frastornata dalla notizia, ma nel giro di un'ora ritorna in sé. Ritrova il suo humour, la sua gentilezza nei confronti di quelli che l'accompagnano, prepara lo zaino in cui fa scivolare la Bibbia, un volume di Tolstoj e la grammatica russa, oltre all'ultimo quaderno del diario che non sarà ritrovato. L'ultimo biglietto, rinvenuto dopo che è stato gettato dal treno in partenza da Westerbork, proclama il suo buon umore: «Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa» (lettera 71). Il suo compagno Jopie, rimasto al campo, descrive con queste parole il suo stato d'animo: «E credo che fosse anche un po' contenta di fare quest'esperienza, di dover vivere pienamente il destino che ci è riservato» (lettera 78). Malgrado la lucidità sulla situazione in cui si trova, Etty non ne afferra tutta la gravità. Un altro dei suoi ultimi messaggi pone questa domanda: «Mi aspetterete?» (lettera 79). Nemmeno lei pensa di andare incontro alla morte, spera di sopravvivere e tornare tra i propri cari. Davanti allo scandalo di questa deportazione – una tra le tante – si sogna un intervento soprannaturale. Che non ci sarà.
    I genitori di Etty sono registrati come morti il giorno dell'arrivo del convoglio ad Auschwitz, il 10 settembre 1943: forse sono decéduti durante il viaggio o, più probabilmente, uccisi nelle camere a gas appena arrivati. La morte di Etty è registrata ad Auschwitz il 30 novembre 1943.

    Un'anima sconvolgente

    Non si esce mai indenni dalla frequentazione degli scritti di Etty: la loro forza è tale che si rimane affascinati da questa figura dalle virtù in apparenza inconciliabili. Immergendomi nel testo integrale dei diari e delle lettere, sono colpito al tempo stesso dalla loro omogeneità e dall'evoluzione del suo pensiero, che vede il punto di svolta nell'estate del 1942.
    La continuità si manifesta in quello che è uno dei messaggi fondamentali di Etty: l'amore per il mondo e il rifiuto radicale dell'odio. Amore per la vita, anche in ciò che può avere di più atroce; rifiuto dell'odio, anche verso coloro che sono responsabili delle persecuzioni e degli stermini. Posta di fronte al male, cerca non tanto di distruggerlo nell'altro, ma d'impedire che penetri dentro di lei.
    L'evoluzione nella sua visione del mondo, che avviene senza interromperne la continuità, riguarda in primo luogo lo spostamento del suo centro d'interesse, un passaggio dall'«io» al «loro», dal soggetto agli uomini che lo circondano. Etty si allontana progressivamente dalla grande tradizione del pensiero occidentale, che afferma l'autonomia, addirittura l'autosufficienza del soggetto, che rappresenta gli altri come gli strumenti eventuali delle ricerche condotte dall'io, e che rifiuta di vederli come il fine ultimo dell'azione. Si potrebbe dire che fino all'estate del 1942 agisce come un'allieva piena di talento ma fedele all'insegnamento di Spier. Il cambiamento avviene per effetto dei suoi primi soggiorni a Westerbork, il che può spiegare come la morte di Spier, avvenuta poco dopo, non susciti in lei una particolare impressione. Forse, come afferma Etty, il primo periodo (con Spier) l'ha preparata ad accettare le proprie posizioni durante il secondo periodo (senza di lui), ma non si conoscono molti altri esempi di una simile transizione. Le persone che incontra e alle quali si dedica sono i detenuti di questo campo di transito – dove in un primo tempo lavora prendendosi cura di loro, prima di diventare, un anno più tardi, una detenuta come gli altri. Nel momento in cui crollano le frontiere tra l'io e l'altro, Etty vince il dualismo tradizionale dell'esterno e dell'interno, del corpo e dello spirito.
    Posta a contatto con la miseria affettiva dei detenuti che ha intorno, Etty ammorbidisce il proprio giudizio sul mondo. Pur restando attaccata alla vita sotto ogni sua forma, fa del proprio meglio per curare le piaghe e alleviare le sofferenze con generosità e misericordia. La vita continua in ogni circostanza e può sempre essere motivo di meraviglia – ma il campo di Westerbork, luogo di rapido transito tra convogli che arrivano e che partono, non merita di essere ammirato come un'opera di Dio.
    In questo contesto, ciò che rifiutava all'inizio – la speranza di un intervento militare degli alleati contro l'invasore tedesco – finirà anche lei per auspicarlo: perché l'aviazione inglese non bombarda la ferrovia che conduce a Westerbork? Adesso riconosce la legittimità del combattimento militare e violento, pur rifiutando di esserne parte attiva, e accetta di vedere che l'azione sul mondo esterno prende posto accanto all'educazione morale di sé stessa o della consolazione di coloro che le sono vicini. Per parte sua è capace di compiere solo atti d'amore, non distruttivi, ma riconosce la necessità degli uni e degli altri. Occupa così un posto eccezionale, fuori dall'impegno politico e capace tuttavia di far vivere i valori che danno un senso a tale impegno.
    Etty rifiuta di sottomettersi al clima di odio instaurato dall'occupante nazista e alle reazioni che sarebbero un'immagine speculare dell'aggressione subita – in questo senso, è una resistente che non cerca di opporrsi con la violenza all'aggressore. Esprime perfino una certa diffidenza nei confronti di ogni forma di reazione violenta contro l'occupante, non potendo concepire che sia possibile resistere senza nutrire odio. Lei stessa sa opporsi, e in maniera notevole: non al nemico, è vero, ma alla tentazione di odio e di violenza suscitati dalla guerra e dall'occupazione. Non ignora queste pulsioni, però il suo amore per il mondo le combatte e le annulla. Rimangono allora solo le attenzioni che rivolge a tutti gli individui incontrati nel suo ultimo anno di vita. Rimane soltanto l'amore.


    NOTE

    1 Tutti i riferimenti presenti in questo capitolo rimandano alla data del diario (Diario, Adelphi, Milano 2012) o al numero attribuito alla lettera (Lettere, Adelphi, Milano 2013).
    2 Mohandas Gandhi, Hind Swaraj, l'émancipation indienne [1909], Fayard, Paris 2014, pp. 73, 161, 117 (ed. it., Vi spiego i mali della civiltà moderna, Gandhi edizioni, Pisa 2009).
    3 René Descartes, Les passione de l'âme, par. 83 (ed. it., Le passioni dell'anima, Laterza, Roma-Bari 1996).

    (Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia, Garzanti 2015, pp. 33-54)


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