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    Uomo-donna e mondo nel piano di Dio (cap. 2 di: Dio e l'uomo)


    Mario Cimosa, DIO E L'UOMO: LA STORIA DI UN INCONTRO, Elledici 1997



    Il Dio della creazione

    I primi undici capitoli della Genesi non descrivono chi è Dio o come bisogna concepirlo, ma essi ne parlano continuamente e questo traspare da ogni parola. La concezione di Dio ne è l'elemento religioso predominante.
    Com'è presentato Dio in questi primi capitoli?
    Cominciamo dall'uso del "nome di Dio". In questi testi Dio viene chiamato con un duplice nome: Elohim e Iahvè. Sono i due nomi che si trovano nelle due tradizioni corrispondenti.
    Dio è chiamato Elohim. È la forma plurale del nome El (divinità). El era la divinità principale del pantheon semitico. Può essere probabilmente considerato “plurale di eccellenza” per indicare che il vero Dio assume in sé tutti i caratteri propri della divinità. Questo nome nell'AT è spesso unito al nome di altre realtà: El-Shadday, El-Mistatter, El-Gibbor... Da El deriva anche il nome che i mussulmani danno a Dio: Allah, che perciò significa semplicemente Dio.
    L'altro nome Iahvè, rivelato a Mosè all'Oreb, ricorre soprattutto nella cosiddetta tradizione iahvista ma si incontra anche nella sacerdotale unito a Elohim in Genesi e all'inizio dell'Esodo e costantemente da Es 6,2 in poi. Il nome Elohim invece si ha sempre nella tradizione elohista. Nel rapporto con il primo uomo si vede che l'iniziativa di «plasmare» l'uomo e di parlare con lui è di Iahvè-Elohim[1].
    Quali le caratteristiche di Dio presentate in questi capitoli? Anzitutto egli appare come l'onnipotente, che trascende il mondo e che crea soltanto con la sua Parola. Egli è il padrone e signore di tutto, che dà il nome alle singole creature indicando loro la funzione che devono avere nel cosmo[2]. Dio è misericordioso e provvidente, soprattutto nei riguardi dell'uomo: lo accoglie nel suo giardino, gli dà il dominio sugli animali, non lo lascia nella sua solitudine, gli dà una compagna. Dopo il peccato gli promette una salvezza e un ritorno a lui. Dio appare all'uomo e parla con lui, lo benedice. La benedizione appare soprattutto nei testi sacerdotali. È proprio questo il nucleo, il messaggio della tradizione sacerdotale: la benedizione di Dio all'uomo creato «a sua immagine e somiglianza». Lo iahvista presenta la storia patriarcale all'insegna della benedizione che, come afferma C. Westermann, è il modo costante di agire di Dio, in opposizione alla storia delle origini dove, come abbiamo visto, si trova tutta una serie di fatti qualificati dalla maledizione. Soprattutto le due caratteristiche di Dio creatore e signore universale resteranno costantemente presenti nell'Antico e nel Nuovo Testamento, sia nei testi di vocazione (Abramo, Mosè, Profeti) che in quelli di preghiera.
    Tra i testi più significativi dove si ricorda il Dio creatore, richiamiamo soprattutto il Deuteroisaia (che darà nuova fiducia al popolo disperato nell’esilio in Babilonia), il Libro di Giobbe (che esalta la compassione di Dio per i sofferenti) e i Salmi che nel genere letterario della lode glorificano Dio nella pienezza della sua divinità dall'alba al tramonto, dall'inizio alla fine).
    Così pure è presente nel NT in alcuni testi evangelici o nei discorsi kerigmatici degli Atti degli Apostoli il cui nucleo centrale è sempre l'annuncio di Dio Creatore e di Dio «che ha risuscitato Cristo» e in particolare nel discorso di Paolo all'Areopago di Atene (At 17,22-31): «Egli è colui che ha fatto il mondo e tutto quello che esso contiene. Egli è il Signore del cielo e della terra... è lui che dà a tutti la vita, il respiro e tutto il resto».

    L'uomo e la donna

    I capitoli 1-3 del libro della Genesi sono il punto di riferimento obbligato per la visione cristiana dell'uomo. Presentano un messaggio ripreso e completato nel NT. Un messaggio che riguarda ogni uomo e per tutti i tempi.

    L'uomo

    Anzitutto il vocabolario, come primo passo per capire il discorso sull'uomo fatto dalla Genesi. L'ebraico usa vari vocaboli per indicare l'«uomo»:
    - 'adam, è il più importante. Significa semplicemente «uomo». Nella maggior parte dei passi in cui ricorre, indica ogni uomo, e non soltanto gli Israeliti, così da mettere in evidenza il rapporto dell'uomo non solo con il Dio di Israele ma con la divinità in genere. L'autore biblico vuole proporre una dottrina universalmente valida dell'uomo, per tutti gli uomini e per tutti i tempi;
    - altri termini per dire «uomo» sono in ebraico: 'ish, 'enosh, gèber. Ognuno di questi termini, ma soprattutto il primo, non intende indicare l'umanità in astratto ma sempre l'uomo concreto, storicamente situato. La prima cosa che appare in questi capitoli sulla dottrina dell'uomo è che egli è un essere «creato», è opera di Dio, o, se si vuole, il capolavoro di Dio. Con accentuazioni diverse, sia il racconto sacerdotale che quello iahvista presentano l'uomo come creatura di Dio e con un rapporto esplicito al resto del creato.
    Nel primo capitolo della Genesi l'uomo appare come il vertice di una piramide, è l'ultima delle creature fatte da Dio. L'uomo è diverso da Dio e dagli animali perché è immagine di Dio; è una creatura simile agli animali in quanto è maschio e femmina. Perché immagine di Dio, uomo e donna sono 'adam, perché maschio e femmina sono una unità duale a cui Dio dona la benedizione. Il c. 1 non dice niente del matrimonio; parla di maschio e femmina e non di marito e moglie.
    Il secondo capitolo parla dell'uomo come essere vivente collegando la vita che anima l'uomo ad un'azione speciale e diretta di Dio (Gn 2,7). È stato affermato: «La dottrina della somiglianza divina dell'uomo è il tema fondamentale dell'antropologia cristiana e ne contiene in sé tutti i temi, cosicché partendo da essa si potrebbe sviluppare una dottrina sistematica sull'uomo» (W. Seibal).
    Tentiamo di cogliere anzitutto l'esatta portata di Gn 1,26-27 che propone il tema. Dio stesso in forma di autoesortazione esprime il suo proposito: «Facciamo l'uomo come immagine nostra secondo la somiglianza nostra». Finora Dio aveva usato il singolare. Perché ora usa il plurale? Il plurale del verbo «facciamo...» ha avuto nei secoli tante interpretazioni. I Padri della Chiesa vi vedevano già un'allusione alla Trinità. Altri autori vi hanno riconosciuto un «consiglio degli dèi» (un residuo di politeismo). Non si può escludere che nella tradizione usata poi dall'autore sacerdotale si volesse alludere a una consultazione di Dio con la sua corte celeste. Non si può invece pensare a un plurale «maiestatico» che è completamente sconosciuto dalla grammatica ebraica. Di solito sì dà una spiegazione di carattere filologico: si tratterebbe di un «plurale deliberativo». Dopo aver creato tutte le altre opere Dio si decide a fare l'opera più grande: l'uomo. Si potrebbe rendere in italiano questo verbo così. «Ora voglio fare l'uomo/ «Ora vogliamo fare l'uomo/ «Ora è il momento di fare l'uomo: sia simile a Dio, la sua immagine...».
    Che cosa significa poi a «immagine» e «somiglianza»? Immagine (selem) ha un significato concreto e indica la figura plastica che riproduce un modello; somiglianza (demût) è invece astratto e indica la somiglianza di una persona o di una cosa con un'altra. Il tema ha un grandissimo sviluppo nell'AT e nel NT[3]. Per me la spiegazione della formula «a immagine, secondo la somiglianza di Dio» significa fondamentalmente queste tre cose:
    1) L'uomo è re «delegato» di Dio, ha il compito di dominare il creato ma soprattutto ha il compito di collaborare con Dio nel portare il creato alla sua massima realizzazione.
    2) L'uomo è «figlio di Dio», egli sta a Dio cioè in un rapporto di figliolanza. C'è poi anche una connessione tra l'aspetto regale dell'essere immagine di Dio e l'aspetto filiale. Basti pensare al mondo semitico dove il re è chiamato «figlio di Dio» (cf Sal 2,7-8; 110,3-4: figlio, re e sacerdote).
    3) L'uomo è «sacerdote», per il suo rapporto con il «sabato» che è creato subito dopo di lui e per gli altri due aspetti della regalità e figliolanza. Se l'uomo è immagine di Dio in quanto è re e figlio, è investito anche in qualche modo di uno dei compiti del re ideale (Sal 110,3-4) e del figlio: il culto e l'onore del Padre. Si può facilmente scorgere qui la preparazione, anche se remota, al sacerdozio comune dei cristiani, ampliato nel NT (cf 1 Pt 2,4-10; Rm 12,1-2). L'uomo è nel creato il luogotenente di Dio e il suo principale collaboratore. «Dio ha guidato la materia, fino all'ominizzazione; ma quando fa apparire l'uomo sulla terra, un lavoro immenso gli resta ancora da compiere, perché il mondo primitivo si trasformi in civilizzato. Ma ormai sulla terra Dio ha un collaboratore che, ubbidendo liberamente all'impulso creativo, potrà compiere l'opera da Dio iniziata» (Z. Alszeghy). Questo è l'insegnamento biblico contenuto nelle due narrazioni della formazione del mondo presenti nella Genesi e in tantissimi altri testi.
    La concezione dell’uomo-immagine di Dio viene ripresa e riletta in molti testi biblici. Ricordiamo anzitutto il famoso Sal 8 in cui vengono attribuiti all'uomo caratteri divini e regali (la «gloria» e lo «splendore» passano da Dio al re e dal re all'uomo) e Sap 2,23-24 dove viene presentato il fondamento dell'immortalità dell'uomo nel suo essere «immagine di Dio». Una bella meditazione sull'uomo e sulla sua posizione nel creato la ritroviamo poi anche in Sir 17,1-12.
    Nel Nuovo Testamento incontriamo l'interpretazione cristologica e antropologica del Sal 8 che ci viene offerta nella Lettera agli Ebrei. Oltre all'idea di Cristo come modello a cui Dio conforma i suoi eletti (Rm 8,29), c'è anche quella di Cristo nuovo Adamo (1 Cor 15), capostipite della nuova creatura (2 Cor 5,17). «Tanto è il peso che Paolo attribuisce al primato di Cristo, da farci ritenere che, secondo il suo modo di concepire le relazioni tra Dio e il creato, l'antico Adamo fu fatto a immagine del nuovo, di Cristo. E il cerchio si chiude. Inizia da Dio, e attraverso Cristo Dio-Uomo arriva all'uomo; riparte dall'uomo, e attraverso il Cristo Uomo-Dio ritorna a Dio» (N. M. Loss).
    Partendo da questo punto prospettico dell'uomo immagine di Dio, come ce lo presenta Gn 1-3, possiamo ritrovare, seguendo la sintesi di M. Flick - Z. Alszeghy[4] le dimensioni o caratteristiche fondamentali dell'uomo come ce lo descrive la Genesi: la dimensione teologale (l'uomo interlocutore di Dio), la dimensione sociale («maschio e femmina li creò»), la dimensione cosmica («sottomettere la terra»), la dimensione storica (l'uomo deve scegliere il suo destino). Sono le dimensioni non solo dell'Adamo biblico ma dell'uomo di sempre.

    La donna

    Non è esatto parlare della donna distinta dall'uomo perché la Genesi li considera uniti: «maschio e femmina li creò». La bipolarità sessuale fa essenzialmente parte dell'uomo. Non esiste un individuo asessuato, esiste o come uomo o come donna. Questa diversità di sessi è stata creata da Dio come «cosa molto buona». Ne scaturisce la perfetta uguaglianza e l'identica dignità dell'uomo e della donna. La dignità della donna la si può comprendere meglio rileggendo il racconto della sua formazione in Gn 2,18-23. Sono tre scenette in crescendo che culminano in quella della formazione della donna dalla parte più nobile dell'uomo[5]. Gn 1 rileva l'uguaglianza dei due sessi, entrambi immagine di Dio.
    Gn 2 mostra la superiorità della donna sugli animali e la perfetta corrispondenza alla natura dell'uomo. Solo lei può rompere la sua solitudine. Soltanto dopo il peccato originale (Gn 3,16) si parlerà di un dominio dell'uomo sulla donna.

    Il matrimonio

    In Gn 2 tutto il racconto sembra proteso verso i vv. 23-24: «Essa sarà chiamata 'ishshah-donna, perché dall''ish-uomo essa è stata tolta. Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e aderirà alla sua donna, e quei due diverranno una sola carne, cioè una sola persona». L'integrazione dei sessi nel matrimonio è dunque stabilita da Dio. Se in Gn 1 Dio vede che ogni opera da lui creata è «buona», in Gn 2,18 osserva che la solitudine dell'uomo «non è buona». Dopo la formazione della donna da parte di Dio, Adamo le dà il nome: «si chiamerà 'ishshah perché proviene da 'ish».
    Una delle cose misteriose per l'uomo biblico è come mai l'uomo e la donna si uniscono per diventare una sola carne.

    Vi sono tre cose per me misteriose
    anzi, quattro che non posso intendere:
    come l'aquila si levi nel cielo,
    come la serpe corra sulla roccia,
    come la nave cammini in mezzo al mare
    e come l'uomo aneli alla sua 'almah (Prv 30,18-19).

    L'autore iahvista pone l'amore coniugale che deve sfociare nel matrimonio su due colonne stabili: l'unità e l'indissolubilità. «L'uomo si unirà alla sua donna» (al singolare). Il Siracide descrive la separazione della propria donna come un taglio nella propria carne (Sir 25,25-26).
    L'uomo deve vivere in comunità con esseri della sua stessa natura. E comunità fondamentale è quella coniugale. L'uomo per completarsi ha bisogno di un «aiuto a sé conveniente... un aiuto capace di stargli di fronte». Non esiste un legame più forte di questo, l'amore tra i due sessi e la profonda attrazione che entrambi hanno. È un ritorno a quell'unione iniziale prima che la donna fosse tratta dall'uomo. La stessa radice verbale qui usata: «aderire» non indica soltanto l'adesione sessuale ma anche quella spirituale, anzi di tutta la persona (cf anche Dt 10,20; Gn 34,3; Rt 1, 14; Sal 119,31; Ef 5,28-30). Così si trova insinuato nel vecchio racconto genesiaco, con finezza e profondità, l'ideale che il Creatore assegna alla legge essenziale della comunità coniugale: l'unità e l'indissolubilità. «Qui culmina per l'autore iahvista l'attività creatrice di Dio: il mondo ha la forma voluta da Dio soltanto quando appare la coppia umana» (A. Bonora).
    Questa dottrina trova conferma nella condanna dell'inizio della poligamia, nel duplice matrimonio di Lamech (Gn 4, 19-21) e viene ripresa anche verso la fine dell'AT (Ml 2,15-16: Tb 8,6). Quando poi Gesù nel Vangelo riprova il divorzio si appella proprio a questi testi e dice che «in principio non era così» (Mt 19,8) dando al significato di questi testi tutta la loro pienezza.
    Questa avventura meravigliosa avviene nel torpore del sonno, segno del nulla. L'incontro dell'uomo con la donna nel matrimonio è quindi come una nuova creazione. Come richiama Giovanni Paolo II nella sua catechesi: «L'uomo e la donna, unendosi tra loro nell'atto coniugale, così strettamente da divenire una sola carne, riscoprono ogni volta il mistero della creazione, ritornano così a quell'unione dell'umanità (carne della mia carne, osso delle mie ossa) che permette loro di riconoscersi reciprocamente e, come la prima volta, chiamarsi per nome. Questo 'chiamarsi per nome' che segna l'inizio di una nuova esistenza avviene attraverso la 'conoscenza', il famoso verbo semitico yada’, un 'conoscere' che ingloba un ventaglio di significati: dalla conoscenza intellettuale all'adesione della volontà, dalla tempesta della passione e dei sentimenti all'azione viva e palpitante dell'atto sessuale. Uomo e donna nell'atto di amore matrimoniale si rivelano l'uno all'altro, con quella specifica profondità del proprio 'io' umano».

    Bibbia ed evoluzionismo, monogenismo e poligenismo

    La Bibbia fa derivare tutte le cose direttamente da Dio, autore della creazione del mondo e dell'uomo. Però non tutte allo stesso modo. Per esempio, mentre la Genesi dice che Dio crea il firmamento direttamente, per l'uomo dice che si serve della polvere del suolo, per le piante che nascono dalla fecondità della terra, causa seconda all'ordine del Creatore supremo.
    Quindi questo non appare in contrasto con quello che dice la scienza la quale ammette nello sviluppo del creato l'esistenza di cause seconde. Per la determinazione di queste cause seconde la scienza e la Bibbia seguono due binari diversi. Nessun contrasto teologico quindi sembra esserci tra evoluzione e Bibbia. Non è teologicamente assurda una creazione evoluzionistica, anche se la Bibbia insegna una creazione fissista, cioè non per evoluzione della specie.
    La rivelazione afferma spesso con forza l'unità del genere umano, soprattutto quando la vede spezzata dal peccato. Ma la Bibbia non si esprime chiaramente sulle origini: una sola coppia (monogenismo) o più coppie (poligenismo)? Il termine Adamo raffigura sotto una forma figurata l'unità della razza umana di cui porta il nome. Unità non solo di natura ma anche di origine, di vocazione, di destino, nel piano della salvezza universale. Anche se l'umanità è oggi divisa in popoli, nazioni, lingue, la Genesi li ricollega tutti ad Adamo (cf Gn 10), sono una sola famiglia che l'umanità ha diviso (At 17,26).
    L'unità umana non interessa soltanto la dottrina del peccato ma anche la dottrina della redenzione. Ma questa unità necessita di una base biologica.
    La paleontologia preferisce parlare dell'esistenza all'inizio di un gruppo che forma una società, di una popolazione. Il Magistero della Chiesa ha sempre parlato della necessità di ammettere alle origini un «intervento speciale» di Dio, cioè l'infusione di un'anima spirituale. Questo può essere avvenuto nel momento in cui il genere umano emerse dall'animalità.
    Questo tipo di poligenismo che viene chiamato «mitigato» e che si lascia all'indagine antropologica non necessariamente è da scartare a priori. «Ci si potrebbe persino domandare se esso... non comporterebbe un vantaggio positivo nella prospettiva di un'antropologia cristiana. Infatti, se l'associazione dei due sessi nella coppia fornisce un'immagine integrale della natura umana, grazie a un rapporto interpersonale dell'uomo e della donna, vi manca però un elemento fondamentale dell'esperienza umana finché la coppia presa come tale non ha la possibilità di aprirsi ad altri con una comunicazione sociale effettiva... Il monogenismo stretto, eliminando ogni gruppo sociale alle origini dell'umanità, rischierebbe di condannare la prima coppia al solipsismo poco compatibile con un aspetto importante dell'antropologia rivelata. Viceversa, facendo di questa coppia il punto di cristallizzazione di una società, si scoprono all'origine dell'umanità tutti i caratteri di un'esperienza sociale completa. A più forte ragione si ammette che al punto di partenza vi fosse una pluralità di coppie. Ma... si tratta di una questione di fatto, che il teologo non ha modo di risolvere da solo» (P. Grelot).
    Il racconto della creazione di Adamo ed Eva si presenta nella Bibbia come monogenista (esistenza di una sola coppia originaria). Questo era certamente il modello dominante della cultura scientifica del tempo perciò la proposta adottata dalla Bibbia per sviluppare il suo discorso sull'uomo. La moderna ipotesi poligenista può essere accettata solo in quanto riesce ad accogliere i dati di antropologia teologica offerti dalla Bibbia.
    Nella Bibbia c'è spesso il procedimento convenzionale di far derivare da un unico antenato (chiamato eponimo) tutto un popolo (cf per esempio la «tavola dei popoli» di Gn 10). Così l'umanità deriverebbe dall'unico Adamo. Specialmente il NT - Paolo in particolare (cf Rm 5,12-19)- sembra a favore di un'unica coppia umana, per la cui colpa tutta l'umanità sarebbe costituita peccatrice.
    L'eponimo Adamo raffigura con una forma simbolica l'unità della razza umana, di cui porta il nome. Unità non di sola natura, ma anche di origine, di vocazione, di destino nel piano della salvezza universale. Quest'unità è stata però infranta dal peccato. L'autore iahvista mostra nelle pagine iniziali della Genesi la prima rottura dell'uomo con Dio, la quale ha dato inizio a una rottura progressiva degli uomini tra di loro fino al peccato della «torre di Babele», che rappresenta il primo peccato sociale.
    L'unità umana non interessa soltanto la dottrina del peccato, ma anche la dottrina della redenzione, perché «come a causa della disobbedienza di un solo uomo, i molti furono costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo i molti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
    Dopo il racconto della «torre di Babele» viene narrata la vocazione di Abramo. Si apre così la storia di Israele. Ma l'unificazione di tutti avverrà attorno al Dio vivente riconosciuto da tutti gli uomini. Il profeta Isaia (2,24) vede tutti i popoli in pellegrinaggio verso Gerusalemme, centro del mondo, antitesi di Babilonia.
    Sarà Dio stesso a rifondare nel futuro l'unità umana: «Io vengo per radunare tutte le nazioni e tutte le lingue; esse verranno e vedranno la mia gloria» (Is 66,18).
    L'inizio della rifondazione avviene nel giorno di Pentecoste visto da Luca negli Atti e dai Padri come l'anti-Babele (At 2,1-11). Giovanni ne vede la realizzazione piena nel mondo futuro, quando dice nell'Apocalisse che attorno all'Agnello «si radunerà una grande folla, che nessuno può contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9-12).


    L'uomo e il creato

    La Genesi insegna che l'universo è «una creatura» di Dio. Tutte le singole parti sono «buone» e l'universo nel suo insieme è «ottimo». Al centro della realtà creata c'è l'uomo a cui tutto il resto è orientato e a cui tutto è subordinato. C'è un legame particolare fra la parte materiale dell'uomo e il mondo. L'uomo «plasmato di terra» dovrà, con la morte, «tornare alla terra».

    L'origine del mondo

    L'idea di creazione appartiene alla fede e alla rivelazione e non al semplice ordine della ragione umana. Gli antenati degli Ebrei erano pagani (cf per esempio Gs 24,2) e avevano una certa concezione dell'origine del mondo, comune a tutto l'Oriente antico. Questa concezione si è trasmessa oralmente di generazione in generazione. Ma se Dio non l'avesse rivelato sarebbe impossibile conoscere come il mondo ha avuto origine. «Dov'eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se hai tanta intelligenza» (Gb 38,4). È certo un avvenimento che ha avuto origine nel tempo. Ma quando?
    La tradizione rabbinica ha una bella immagine per indicare il mistero delle origini. Dice così: poiché il racconto della creazione comincia con la lettera dell'alfabeto ebraico «beta» la quale è chiusa da tutte le parti tranne che nella direzione delle lettere che seguono, vuol dire che non è lecito ricercare quel che c'è in alto o in basso, davanti o dietro ma solo a partire dal giorno in cui il mondo esiste. La Bibbia comunque non intende fornire una spiegazione sul «come» del mondo ma dare una testimonianza, un segno. È un segno, un gesto di Dio e poiché il gesto creatore è permanente, il suo linguaggio è frutto della potente parola. Occorre la fede per poterlo leggere. La natura è così perfetta da mostrare che è immagine di Dio, ma ha anche tanti limiti da mostrare che ne è solo l'immagine.
    L'insegnamento biblico sulla creazione non è mai dato per se stesso. Quello che è fondamentale è la fede nella salvezza e nella vocazione. Il Dio dell'Alleanza è anche il Signore del mondo. Il racconto della creazione in Gn 1 deve essere visto nell'ottica del redattore finale che è quella di un'introduzione alla storia della salvezza. Da Adamo al Diluvio, da Noè ad Abramo è tutto un crescendo del peccato degli uomini ma è anche un progressivo aumento della misericordia e dell'amore di Dio verso una porzione eletta dell'umanità. Il «mondo» non è una realtà statica ma un avvenimento, il teatro degli avvenimenti divini. Dopo il racconto della creazione del sabato non c'è come per gli altri « e fu sera e fu mattino».
    L'azione creatrice di Dio continua ora nella storia umana. Perciò i rabbini nei loro commentari midrashici alla Genesi dicono che Dio ha creato il mondo a causa della Torah e a causa di Israele. Perciò Paolo, nella lettera agli Efesini, dice che Dio ci ha scelti prima ancora della creazione del mondo per essere santi e immacolati davanti a Lui. In molti testi biblici creazione, alleanza e redenzione sono considerati come momenti di un unico gesto divino. Alcuni esempi.
    Nel Sal 33 viene celebrata la creazione del cielo, la formazione del cuore di ogni uomo e l'elezione da parte di Dio di un popolo che diventa sua eredità (Sal 33,6-12). Il Sal 104 passa dal racconto della prima creazione a quello della provvidenza sempre attuale. Il Sal 136 considera nella stessa prospettiva la creazione del mondo e la storia di Israele come due diverse manifestazioni della misericordia divina. Altri numerosi Salmi invitano alla preghiera, alla lode, al ringraziamento di Dio Creatore, cui si deve ogni cosa: Sal 8; 24; 89; 104; 136; 95; 148; 19.
    In Is 40, 43 si dice che ricordare Dio creatore è motivo di speranza per gli esuli. Dio ha fatto il mondo, sarà capace di «rifare anche noi». Egli è il nostro creatore, che ci ha formato. E nel Sal 115 si dice che il cielo è di Dio, ma Dio ha dato la terra ai figli dell'uomo. Dunque, compito dei viventi è benedire il Signore, ora e sempre.

    L'uomo e il creato nella riflessione sapienziale

    La riflessione sapienziale ci mostra inoltre il creato come una realtà in tensione, aperta dinamicamente verso l'uomo: il mondo racconta, annuncia, rende grazie a Dio.

    I cieli narrano la gloria di Dio,
    e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento.
    Il giorno al giorno ne affida il messaggio
    e la notte alla notte ne trasmette notizia (Sal 19,-3).

    Dio parla nel silenzio della notte. I cieli parlano; annunciano la gloria di Dio! Dio parla nel silenzio: la creazione è la sua prima parola, parola che tutti gli uomini possono comprendere perché parla al di là e al di sopra di qualunque lingua particolare. «Gli Ebrei erano un popolo di pastori e di agricoltori. Non ci sorprende che la loro poesia dia ampio spazio all'evocazione della natura. Ma trovano in essa spesso, anche se non esclusivamente, una manifestazione degli attributi del loro Dio, e vi scoprono l'impronta delle sue mani. I cieli proclamano la sua gloria... È lui che fa cadere la neve... che irriga la terra... fa che i prati si rivestano di greggi, le valli di frumento...» (W. Harrington).
    I Salmi, soprattutto gli inni, sono una vasta eco di questo amore degli Ebrei per la natura e di questo saper risalire dalla natura a Dio autore e creatore di ogni bellezza.

    Lodate il Signore della terra
    mostri marini e voi tutti abissi
    fuoco e grandine, neve e nebbia,
    vento di bufera
    che obbedisce alla sua parola
    monti e voi tutte colline
    alberi da frutto e voi tutti, cedri,
    voi fiere e tutte le bestie,
    rettili e uccelli alati (Sal 148,7-10).

    Questo Salmo ci mostra anche come con le opere della creazione, dalle stelle ai rettili, anche gli uomini, dai re della terra ai bambini, formano un immenso coro nel lodare e ringraziare Dio:
    Con Cristo Uomo-Nuovo, cambia il rapporto uomo-natura. Gesù venendo nel mondo ha detto: «Il Regno di Dio è vicino. Credete alla Buona Novella». Il Regno di Dio? Un altro mondo o questo stesso mondo, questa stessa natura creata, radicalmente trasformata? Il Vangelo presenta l'intervento di Cristo come il racconto di una nuova creazione. Paolo nella Lettera ai Colossesi ci dice: «Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui... egli è l'lmmagine del Dio invisibile... » (Col 1,16). Con lui la creazione trova la sua strada e l'uomo il suo vero volto. C'è una pagina di Paolo veramente significativa a questo proposito:
    Tutto l'universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato stato condannato a non aver senso, non perché esso l'abbia voluto, ma a causa di chi ve l'ha trascinato. Vi è però una speranza: anch'esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli (Rm 8,19-23).
    L'uomo è considerato solidale con il dolore del creato e come responsabile della mancanza di libertà che c'è nel mondo. Radice di ogni male è il peccato: solo l'uomo è capace di peccare e così portare tutto il creato verso il fallimento. Ma solo l'Uomo-Gesù, vera immagine di Dio, è capace di soddisfare l'aspirazione di un rinnovamento radicale del creato in cui vive.
    «Allora io vidi un nuovo cielo e una nuova terra - il primo cielo e la prima terra erano spariti, il mare non c'era più...» (Ap 21,1). Il «primo» cielo e la «prima» terra sono il creato che sperimentiamo adesso. Fin dalla sua prima pagina la Bibbia aveva parlato di un mondo senza male, di un mondo come dovrebbe essere e come invece non è e gli aveva contrapposto il mondo imperfetto e inquinato della nostra esperienza quotidiana. Un mondo come non dovrebbe essere. Tutta la storia si è sviluppata tra questi due poli e solo alla fine si realizza il mondo ideale voluto da Dio e realizzato dall'uomo, dal cristiano. Il futuro passa ormai per l'accettazione di un nuovo principio: il servizio degli altri e il dono della vita.
    Solo nella gloria, alla fine dei tempi, troverà pieno compimento l'immagine di Dio e solo nella gloria troverà la piena attuazione il comando divino di dominare la terra e di sottometterla. Questa è la speranza a cui siamo orientati nel cammino della vita: il desiderio e l'attesa che l'immagine di Dio pensata e voluta dall'amore di Dio, da tutta l’eternità trovi finalmente la sua piena realizzazione.

    L'uomo e il lavoro

    La Laborem exercens di Giovanni Paolo II afferma che «la Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra», e mostra nelle prime pagine della Genesi la fonte di questa sua convinzione.
    Per la tradizione sacerdotale il lavoro è intimamente connesso all'azione creatrice di Dio e alla creazione dell'uomo come immagine di Dio.
    Il racconto della creazione è articolato secondo il ritmo di lavoro e di riposo (giorni feriali e sabato). Il Dio che crea è un Dio che lavora e che si riposa. L'uomo è creato a immagine di questo Dio! Il lavoro dell'uomo che dura sei giorni, non lo schiavizza ma lo orienta verso “il giorno settimo”, quando l'uomo “riposa” e incontra Dio nel culto. «Nel ritmo di lavoro e di riposo l'uomo non solo riproduce il ritmo divino, ma lo continua, anzi introduce Dio e il suo ritmo in questo mondo» (N. Lohfink).
    L'uomo ha ricevuto da Dio il compito di «dominare la terra», e quando entra in contatto con le cose nel suo lavoro giornaliero egli entra sempre in contatto con Dio che le ha create e che le ha affidate a lui. L'uomo nel mondo ha a che fare con quelle stesse cose che Dio ha fatto.
    La tradizione iahvista mostra come Dio ha affidato all'uomo il compito di lavorare, di continuare la sua opera di creatore. Già all'inizio del racconto viene dato all'uomo come compito precipuo quello di «coltivare la terra».
    Una volta creato, l’uomo viene introdotto nel giardino di Dio perché lo «coltivi e lo custodisca». La creazione è affidata all'uomo come un dono, con l'impegno di coltivarla e di custodirla.
    La concezione genesiaca del lavoro non è però statica ma dinamica. Il coltivare e custodire può assumere le forme più diverse, si riferisce al lavoro in tutte le sue possibilità, di sviluppo; il lavoro acquista il carattere di peso e di fatica solo dopo la colpa: si parlerà allora della maledizione della terra e della pesantezza del lavoro del contadino. In seguito accanto al lavoro del contadino appare quello del pastore, del costruttore di città, dei musicisti, dei fabbri. Si parla poi dell'origine della coltivazione della vite e dell'uso di nuovo materiale di costruzione per le città e gli edifici più grandi. Così il compito dell'uomo di dominare la creazione si allarga e si sviluppa sempre più come conseguenza della benedizione affidata all'uomo.
    Anche negli altri libri dell'AT ci sono molti riferimenti al lavoro. In modo particolare i libri sapienziali sottolineano la diligenza e la pigrizia nel lavoro come causa di successo, di ricchezza, o di insuccesso e di una vita simile a quella degli animali.
    La convinzione che con il lavoro l'uomo partecipa all'attività creatrice di Dio è stata messa in evidenza in modo particolare da Gesù non solo con i suoi insegnamenti ma anche con la sua appartenenza al mondo del lavoro: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data?... Non è costui il carpentiere?» (Mc 6,2-3).
    L'insegnamento di Paolo sul lavoro è poi ricchissimo e anch'esso accompagnato dall'esempio. Ricordiamo il gesto da lui compiuto davanti ai presbiteri di Efeso al termine del discorso di Mileto quando mostra le sue mani agli anziani e dice: «Queste mie mani... hanno provvisto al bisogno mio e di quelli che erano con me»(At 20,34).
    La Chiesa ha ragione quindi di richiamare in tutti i tempi la dignità del lavoro: «L'attività umana, invero, come deriva dall'uomo, così è ordinata all'uomo. L'uomo, infatti, quando lavora non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare... Pertanto questa è la norma dell'attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione» (Gaudium et spes 35).

    L'uomo e il sabato

    Nella Bibbia incontriamo due redazioni del precetto sul sabato con motivazioni diverse: una di origine liturgico-teologica, ed è quella riportata da Es 20,8 ss.:

    Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perché il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

    E una di origine antropologico-sociale:

    Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore, tuo Dio: Non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perché il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato (Dt 5,13-15).

    A Dio viene consacrato un giorno su sette, perché anche noi ci fermiamo per far emergere in noi «quell'energia spirituale» che spinge il mondo verso il suo fine. Questo permette agli uomini di svegliarsi «al senso dello stretto legame che associa tutti i movimenti in questo mondo nell'unico lavoro dell'incarnazione».
    Dio ha «benedetto» il giorno di sabato dando ad esso una particolare fertilità. «Osservando il sabato, l'uomo protesta la dipendenza della sua attività da Dio. Egli non può disporre del creato senza riferimento al Creatore; deve lavorare e dominare il mondo non come un piccolo Dio ma come rappresentante e mandatario di Colui che agisce sempre in questo mondo. Consacrandogli un giorno di riposo, riferisce a lui tutta la sua attività» (E. Hamel).
    Quindi il sabato secondo questa normativa elohista è strettamente collegato con la creazione. L'uomo nei sei giorni lavorativi partecipa all'attività creatrice di Dio e al sabato scopre il senso del suo lavoro e ne loda il Creatore.
    La versione deuteronomica invece collega il Decalogo alla storia della salvezza. «Il sabato è l'esodo settimanale dal "servizio-lavoro" per un "servire-culto" (in ebraico è lo stesso verbo), è l'esodo settimanale dalle ingiustizie, dallo sfruttamento e dalle alienazioni del benessere per l'inizio di una nuova settimana di giustizia». (G. Ravasi).
    Purtroppo il duplice significato teologico e antropologico con il passare del tempo svanirà e ad esso subentrerà un aspetto legalistico e formalistico che lo ridurrà ad una pura «osservanza». Sappiamo che il profetismo reagirà continuamente a questa tendenza legalista per farne rivivere l'anima. Ma sarà Gesù nei vari conflitti con gli Scribi e i Farisei a riportare il sabato al suo significato più originario.
    Il sabato è il giorno di Dio, benedetto da lui, è la celebrazione del gesto liberatore di Dio. Aiutare l'uomo, liberare l'uomo in giorno di sabato dalla schiavitù e dalla malattia significa celebrare Dio, dare a quel giorno quel senso di fecondità che Dio gli aveva dato quando lo avevano consacrato.
    Ma c'è un altro aspetto da considerare ed è che il sabato, il settimo giorno «fornisce nel tempo un assaggio di eternità» (A. J. Heschel). L'uomo è il vertice della creazione ma appartiene al sesto giorno, al tempo dell'imperfezione. Celebrando il sabato egli entra già su questa terra nella perfezione di Dio, nell'eternità, nel «sabato di Dio». «Nel settimo giorno si scopre una dimensione in cui l'umano si sente a proprio agio col divino; una dimensione in cui l'uomo aspira a raggiungere la somiglianza col divino» (A. J. Heschel). È quel sabato escatologico «verso il quale ci affrettiamo ad entrare» (Eb 4,11).


    NOTE

    [1] È il nome «Geova» che gli appartenenti alla setta dei «Testimoni di Geova» propagandano come il vero nome di Dio?
    In realtà Geova è una lettura sbagliata di Iahvè. In ebraico le quattro lettere YHWH sono tutte consonanti. Gli Ebrei per la grande venerazione che hanno per questo nome, quando lo incontrano nella Bibbia non lo leggono mai bensì lo sostituiscono con la parola Adonai che significa Signore. Ma quando i rabbini grammatici, detti Masoreti, vocalizzarono il testo consonantico, per ricordare agli Ebrei il dovere di leggere Adonai invece di YHWH, misero sotto le consonanti di questo nome le vocali di Adonai. Per le regole della loro fonetica dopo la «Y» scrissero «e» invece di «a». Di qui ebbe origine la forma YeHoWah che, italianizzata, diventa Geova e che dominò per tutto il Medioevo fino al secolo scorso.
    [2] Nel presentare Dio l'autore yahvista fa grande uso di espressioni antropomorfiche: Dio «dice, fa, vede, decide, si pente». È il linguaggio tipico, anche se piuttosto primitivo, di chi non conoscendo Dio e sapendo che si tratta di un essere spirituale gli attribuisce elementi, sentimenti o atteggiamenti umani (di qui il termine «antropomorfismi»).
    [3] Ecco qualche interpretazione di autori famosi che hanno studiato questo passo:
    Per K. Barth, l'uomo è qui presentato come partner, interlocutore (Gegenüber) di Dio. L'uomo è stato creato in modo che possa stare, unico tra le creature, a faccia a faccia con Dio. È capace di rispondere e di essere in relazione con Dio.
    Per C. Westermann, qui non si parla di uno stato ma di un avvenimento. Dio crea l'uomo «a sua immagine e somiglianza» perché avvenga qualcosa tra sé e l'uomo. Tutta l'umanità è un «Tu» di Dio in vista di un incontro, di un fine sacro: quest'immagine ha quindi un valore funzionale e non ontologico.
    Per G. Von Rad, la somiglianza consiste nel fatto che l'uomo è il rappresentante, il «vizir» di Dio sulla terra. Come i re pongono delle statue che li raffigurino nel loro regno, così Dio pone l'uomo come propria immagine a dominio del mondo.
    Altri autori ricordano anche che nella letteratura egiziana e mesopotamica il re è chiamato spesso «immagine» di Dio. Però, secondo la Bibbia, non solo il re o il faraone, ma ogni uomo (maschio e femmina) è immagine di Dio.
    [4] Cf M. FLICK - Z. ALSZEGHY, L'uomo nella teologia, Ed. Paoline 1971.
    [5] Nel discorso del 21 novembre 1979, Giovanni Paolo II diceva: «La femminilità ritrova se stessa di fronte alla mascolinità mentre la mascolinità si conferma attraverso la femminilità. Proprio la funzione del sesso che, è 'costituzione della persona' (e non soltanto 'attributo della persona') dimostra quanto profondamente l'uomo con tutta la sua solitudine spirituale, con l'unicità e irrepetibilità propria della persona sia costituito dal corpo come 'lui' e 'lei'. La presenza dell'elemento femminile accanto a quello maschile ed insieme ad esso, ha il significato di un arricchimento per l'uomo in tutta la prospettiva della sua storia, ivi compresa la storia della salvezza».

     


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