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    Una pastorale

    in prospettiva

    missionaria

    Francis-Vincent Anthony



    I
    termini «pastorale» e «missione» spesso evocano due prospettive diverse, a volte parallele e disgiunte. «Pastorale» fa pensare subito alla prassi della Chiesa in riferimento ai credenti, ad intra; «missione» richiama l’azione della comunità riferita ai non-credenti, ad extra. Di fatto, fino alla metà del secolo scorso, andare in «missione» voleva dire recarsi in terre lontane e tra persone che non avevano conosciuto Cristo e il suo Vangelo.
    In tale accezione, il termine «missione» riporta alla mente l’opera immensa e coraggiosa di missionari, uomini e donne, in terre lontane e spesso in circostanze ostili e precarie. Il sostantivo «missione» richiama, però, anche altre parole che indicano altrettante modalità con cui venne attuate nel corso dei secoli, ad esempio, le «crociate» e la «conversione». Perciò, a partire dall’inizio del secolo XX, si è fatto progressivamente strada il ricorso al termine «evangelizzazione» per indicare la «missione». Senza dire, poi, che non di rado «evangelizzazione» e «pastorale» appaiono anche come sinonimi.
    Nel linguaggio teologico-pastorale contemporaneo, «pastorale», «evangelizzazione» e «missione» sono termini che descrivono globalmente la stessa multiforme prassi della Chiesa che concretizza, qui e ora, la salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo. Ma ognuno di essi sottolinea una dimensione particolare della prassi ecclesiale. «Pastorale» evidenzia l’aspetto di cura e di guida che caratterizza l’agire della Chiesa; «evangelizzazione» sottolinea la dimensione comunicativa di tale prassi; «missione» rimarca il mandato insito nell’azione ecclesiale.
    Qui ci interessa mettere in luce la prospettiva o dimensione missionaria della pastorale in generale, e quella giovanile in particolare. In altri termini, cercheremo di focalizzare l’aspetto del mandato associato alla cura e guida della comunità cristiana e, in modo particolare, delle giovani generazioni.

    1. PASTORALE DI UNA «CHIESA IN MISSIONE»

    La progressiva scristianizzazione di paesi tradizionalmente cristiani, come per esempio la Francia e l’Italia, ha fatto maturare la consapevolezza di essere anch’essi «terra di missione». Basta ricordare il celebre libro di H. Godin e Y. Daniel: La France, pays de mission? (1943). Così il termine «missione» usato per indicare la periferia della Chiesa diventa pertinente anche per descrivere l’Europa, la roccaforte del Cristianesimo. Questa nuova situazione di paesi tradizionalmente cristiani ha portato alla riscoperta della missione come una dimensione essenziale della stessa natura della Chiesa.

    1.1. Una Chiesa centrifuga

    La Chiesa è l’assemblea di coloro che sono chiamati per essere inviati. L’identità della Chiesa è legata al mandato di Gesù: «Andate dunque e ammaestrate tutte le genti» (Mt 28, 19). Andare per le strade del mondo a proclamare Cristo e il suo Vangelo è un aspetto essenziale dell’«essere» della Chiesa e del suo «fare».
    A questo proposito, si legge nel Programma Pastorale della Diocesi di Roma per il triennio Pastorale 2001-2004: «La missione rappresenta l’obiettivo, il contenuto e la spinta propulsiva della vita della Chiesa e di ogni cristiano. […] La missione risponde all’essere della Chiesa, alla sua natura più profonda e vera come l’ha voluta il Signore Gesù Cristo, e alla vocazione di ogni battezzato».
    La dimensione missionaria, dunque, è quella forza centrifuga che anima la Chiesa dal di dentro. La Chiesa non può restare ferma, ripiegata su se stessa aspettando che tutti i popoli, alla fine, vengano da lei. Non può rinchiudersi entro i cerchi ristretti dei credenti praticanti. La prospettiva missionaria esige che la Chiesa abbia uno sguardo universale capace di comprendere tutti e di trasformare tutti gli aspetti della vita.
    L’anelito missionario teso a raggiungere tutti, senza escludere nessuno, implica però una scelta preferenziale da parte della Chiesa: la scelta dei poveri ed emarginati. Paradossalmente, la scelta degli ultimi è l’unico modo di dimostrare che vorremmo accogliere tutti.
    D’altra parte, la tensione missionaria spinge ad interessarsi di tutti gli aspetti della vita umana: quello religioso, quello culturale e sociale, quello politico ed economico. In altre parole, la missione consiste nel portare i valori del Vangelo all’interno di ogni settore della vita pubblica e privata. Se qui dobbiamo fare una scelta preferenziale comprensiva di tutte le dimensioni della vita, tale scelta cade necessariamente sull’educazione. L’educazione, intesa come trasmissione critica dell’eredità culturale e religiosa, scientifica e tecnologica di una società, offre l’opportunità alla Chiesa di permeare tutti gli aspetti della vita umana con i valori evangelici.
    Di conseguenza, la prospettiva missionaria nella pastorale impone «il superamento dell’ecclesiocentrismo, che si esprime a tanti livelli ("parrocchio-centrismo", "movimenti-centrismo", "religioso-centrismo", e anche "diocesi-centrismo" […]). È necessaria pertanto la formazione alla Chiesa come mistero e sacramento, vale a dire come realtà che non è fine a se stessa ma che è totalmente relativa a Dio e all’uomo, o meglio a Dio come salvezza dell’uomo in Gesù Cristo» [1].
    Ciò significa che le strutture parrocchiali, interparocchiali e diocesane, i movimenti e le associazioni, le comunità dei religiosi e delle religiose devono impostare la loro prassi pastorale in un’ottica centrifuga e a largo raggio, con l’intento di raggiungere tutte le persone e la vita nella sua interezza.

    1.2. Una prassi congiuntamente pastorale, ecumenica e missionaria

    La prassi della Chiesa, in concreto, è la prassi dei suoi appartenenti. Per esempio, la prassi della Chiesa cattolica è la prassi delle comunità cristiane cattoliche. Come prassi cristiana, l’agire della Chiesa cattolica ha molto in comune con la prassi delle altre denominazioni cristiane. Nella stessa linea, possiamo affermare che come prassi religiosa, la prassi cristiana ha qualcosa in comune con la prassi delle altre tradizioni religiose del mondo. In questo senso, la prassi della Chiesa è una prassi ecclesiale, cristiana e religiosa.
    Inoltre, se la forza centrifuga informa tutta la prassi della Chiesa, non possiamo fare una netta divisione – pur mantenendo la debita distinzione – tra prassi ad intra e prassi ad extra. Non possiamo, cioè, considerare la prassi ecclesiale solo nella sua rilevanza all’interno della Chiesa cattolica; occorre sempre tenere presente il suo valore all’interno delle altre Chiese e comunità cristiane e, allargando ulteriormente la visuale, all’interno delle varie religioni ed ideologie e delle loro forme aggregative. La prassi ecclesiale è, dunque, un continuum che comprende congiuntamente l’aspetto pastorale, ecumenico e missionario.
    Tutto ciò significa che l’azione pastorale deve sempre possedere una dimensione ecumenica e missionaria. In un certo senso, anche l’ecumenismo è un’espressione della missionarietà all’interno delle denominazioni cristiane.

    2. PASTORALE IN UN «CONTESTO DI MISSIONE»

    Oggi la prospettiva missionaria nell’agire pastorale è particolarmente rilevante – come ha ribadito il card. Camillo Ruini nella sua relazione su «La missione incarnata nel contesto socio-culturale di Roma» [2] e per due motivi sostanziali: «la missionarietà che è costitutiva della Chiesa tutta e la situazione storica di parziale scristianizzazione, a Roma come in Italia e in genere in Occidente, che richiede la "nuova evangelizzazione" […]».

    2.1.Un contesto secolarizzato e segnato dal pluralismo

    La cultura moderna, con il suo appello alla razionalità scientifica e al consenso democratico, ha messo in crisi l’accettazione automatica della tradizione di fede e dell’autorità ecclesiastica. Inoltre, per molti settori della vita pubblica, il processo di secolarizzazione ha significato un’emancipazione dal controllo eccessivo del potere religioso.
    La nuova situazione di pluralismo e relativismo, legata al processo di secolarizzazione, pone una nuova sfida missionaria alla Chiesa. La crisi delle strutture di trasmissione della fede, come la famiglia e la scuola, ha lasciato le nuove generazioni senza punti di riferimento nella loro crescita umana e religiosa.
    D’altra parte, il contesto secolarizzato apre alla Chiesa e ai suoi appartenenti un campo libero per iniziative missionarie da attuare, in concorrenza rispettosa oppure in collaborazione, con altre tradizioni religiose e con altre agenzie e settori presenti nella società. La nuova situazione offre alla Chiesa una rinnovata possibilità di essere lievito che trasforma il tessuto sociale dal di dentro.

    2.2. Un contesto di cristianesimo privato e pubblico

    Nei paesi tradizionalmente cristiani – come per esempio l’Italia – si verifica un nuovo modo di gestire la fede che è indipendente dalla struttura ecclesiale. È il caso dei cosiddetti «cristianesimo privato» e «cristianesimo pubblico».
    Il contesto di secolarizzazione rende possibile ed incoraggia un modo personale di impostare la vita cristiana scegliendo a piacimento, a volte in maniera sincretista, alcuni valori religiosi e tralasciandone altri, più impegnativi e scomodi. Questo fenomeno del «cristianesimo privato» è presente prevalentemente tra le giovani generazioni.
    D’altra parte, nei paesi di lunga tradizione cristiana, alcuni valori, simboli e feste vengono gestiti come un fatto culturale e sociale, prescindendo dal livello più profondo, religioso e spirituale. È il fenomeno del «cristianesimo pubblico».
    Tra il cristianesimo pubblico e privato possiamo annoverare il fenomeno crescente delle sette. La loro forza «missionaria», che spesso appare come indottrinamento, lancia un’ulteriore sfida alle Chiese.
    Il fenomeno del cristianesimo privato, pubblico e delle sette sembra offrire, ognuno a modo suo, proposte alternative di vita cristiana. In questa situazione di ambiguità all’interno del cristianesimo occorre attivare «itinerari "mistagogici" rivolti ai giovani e agli adulti, ricchi di contenuto biblico, di preghiera e di approfondimento culturale, ma anche di vera esperienza di vita cristiana nella comunità, che proseguano e irrobustiscano il lavoro compiuto nell’iniziazione cristiana» [3].

    3. LA DIMENSIONE MISSIONARIA DELLA PRASSI PASTORALE

    Se la stessa natura della Chiesa e la situazione attuale nelle Chiese esigono una forte accentuazione della prospettiva missionaria, la domanda è: cosa comporta tale prospettiva per l’agire pastorale?
    Globalmente possiamo dire che la prospettiva missionaria non richiede un’aggiunta alla pastorale esistente; esige invece una revisione di tutta la prassi della Chiesa in riferimento all’intero contesto umano nella società, in modo da superare la tendenza centripeta di chiusura ad intra.
    In tale rinnovata visuale, «missione» significa anche partire per annunciare Cristo e il suo Vangelo per la salvezza del mondo. Il partire implica essere pronti ad incontrare nuove situazioni e persone, lasciando dietro di sé la sicurezza della propria casa, del proprio gruppo, del proprio mondo culturale e sociale. La visuale missionaria indica non semplicemente il fatto di partire, ma soprattutto il modo di incontrare nuove situazioni e persone per annunciare loro il Cristo.
    Nella lunga storia della Chiesa, a volte il mandato di Gesù venne invocato per giustificare una certa aggressività nell’annuncio che ignorava l’esperienza religiosa e culturale dei popoli. Facendo una semplificazione teologica, si consideravano gli altri popoli come «pagani» e la loro ricca realtà religiosa e culturale come «tabula rasa».
    Nell’attuale contesto segnato dal pluralismo religioso e culturale, se non si vuole che la missione sia una conquista oppure una sottile politica di espansione religiosa, occorre che la Chiesa segua la via maestra tracciata dal concilio Vaticano II: il dialogo con il mondo contemporaneo. La missione, più che una proclamazione aggressiva e trionfalistica, è un’umile e gioiosa condivisione della nostra esperienza di Dio in Cristo: proclamare quello che abbiamo visto, sentito, toccato e vissuto. È una premurosa condivisione della nostra esperienza di fede per la vita più piena di tutti.
    Il fatto di dover andare verso altri mondi religiosi e culturali, non dà il diritto di calpestare tutto quello che si trova sulla propria strada. Al contrario, proprio il fatto di andare in luoghi diversi e nuovi, come «stranieri» che portano un dono inaudito ma che desiderano essere accolti ed amati, richiede un approccio più rispettoso ed accogliente ei confronti dell’eredità religiosa e culturale dei popoli. Tale atteggiamento deriva anche dalla convinzione che il mistero che annunciamo ci precede e ci attende in ogni contesto e tempo.
    Tutto ciò significa che la prospettiva missionaria della pastorale deve concretizzarsi, come d’altronde puntualizza l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio, in termini di un dialogo rispettoso e critico con l’esperienza religiosa delle persone, con le loro sensibilità culturali e con le loro ideologie di sviluppo.

    3.1. Dialogo con le esperienze religiose

    Il desiderio di condividere con gli altri la propria esperienza di fede comporta anche la capacità di comprendere la loro esperienza religiosa, specialmente se si tratta di appartenenti ad altre tradizioni religiose (Redemptoris missio 55-57). Un annuncio che non sia accompagnato da un atteggiamento di dialogo, non solo diventa un’imposizione, ma compromette anche l’autenticità e la profondità della stessa proposta cristiana. L’esperienza religiosa cristiana, benché distinta, non può essere totalmente staccata dall’esperienza religiosa resa possibile dalle varie tradizioni religiose. La possibilità che nelle altre tradizioni religiose siano presenti dei «semina Verbi» proibisce di guardarle con occhi dispregiativi.
    La novità caratterizzante l’attuale situazione sta nel fatto che non è più necessario andare in paesi lontani per incontrare le altre religioni. Il movimento dei popoli per motivi di studio o di lavoro, l’emigrazione, i mezzi di comunicazione, internet, … hanno portato la gente di ogni parte del mondo a un contatto ravvicinato con le varie tradizioni religiose. Questo crescente pluralismo religioso presente di fatto nei paesi di antica tradizione cristiana esige che la prassi pastorale si apra costantemente a una visione missionaria a largo raggio.
    All’interno del cristianesimo, la prospettiva missionaria spinge a stabile un dialogo con le esperienze religiose delle altre denominazioni cristiane. In un certo senso, ognuna di esse rappresenta l’integrazione della fede cristiana con la sensibilità religiosa particolare di un popolo.
    Come abbiamo accennato, all’interno del cristianesimo c’è un crescente numero di fedeli, in modo particolare di giovani, che gestisce l’esperienza religiosa cristiana in modo autonomo e privato. D’altra parte, c’è anche il cristianesimo pubblico che propone un’esperienza religiosa di tipo secolare. La prospettiva missionaria esige che la comunità cristiana stabilisca un dialogo sincero ed aperto anche con questi tipi di esperienza religiosa.
    Nel contesto di un dialogo con le esperienze religiose dei popoli, non si possono ignorare le sette cristiane e i nuovi movimenti religiosi che offrono altri tipi di esperienza religiosa, a volte ambigua. Anche nei loro confronti occorre assumere un atteggiamento guidato da un dialogo critico.
    Considerando la presenza attiva dei giovani nelle sette e nei nuovi movimenti religiosi e l’influsso che questi esercitano sui loro coetanei, una pastorale giovanile in prospettiva missionaria non può ignorare tali fenomeni.
    Come viene chiarito in alcuni altri contributi di questo volume, l’attenzione alla dimensione missionaria nella pastorale giovanile comporta, prima e soprattutto, una capacità di dialogare con tutte le esperienze umane aperte a una profonda «invocazione» di senso, di verità, dell’Altro.

    3.2. Dialogo culturale ed interculturale

    Passare da un contesto culturale all’altro fa percepire, da una parte, che la stessa fede che annunciamo è legata, nelle sue espressioni, ad alcune culture specifiche: ebraica, greca, romana, europea, ecc. Dall’altra parte, senza utilizzare le lingue, i simboli, le espressioni delle persone cui siamo inviati, non sarebbe possibile condividere con loro la nostra esperienza di fede. In questo senso, la missione necessita di un processo di inculturazione (Redemptoris missio 52-54) in cui è implicato un dialogo tra la cultura biblica e della tradizione, la cultura di chi annuncia e quella di chi accoglie il messaggio.
    La nuova situazione ecclesiale che, su un versante, vede la fioritura delle «giovani» Chiese in Africa, in Asia e in America Latina, e, su un altro versante, constata la stanchezza delle «vecchie» Chiese in Occidente, ha reso necessario uno scambio più fecondo tra le Chiese locali. L’interculturazione, ovvero il reciproco arricchimento tra le Chiese nell’ambito dell’espressione culturale della fede, è un aspetto nuovo della loro dimensione missionaria. Con la progressiva integrazione della fede cristiana nella propria cultura, le Chiese locali sono in grado di offrire elementi ed espressioni nuovi per proclamare e celebrare il mistero di Cristo.
    In altre parole, «essere in missione» significa non solo portare la fede ad altri, ma anche essere pronti ad accogliere le scoperte di fede fatte dalle altre Chiese. Per esempio, la Chiesa in Italia può arricchire il suo cammino di fede integrando gli elementi nuovi che emergono nelle Chiese dell’emisfero sud e dell’Oriente. Inoltre, «essere in missione» significa essere pronti a riconoscere che la Chiesa ha bisogno di essere evangelizzata a un livello sempre più profondo, scoprendo risvolti nuovi ed inauditi della fede.
    Grazie alle scienze, quali l’antropologia culturale e l’etnografia, nate e cresciute nei territori delle missioni, oggi si riconosce il legame inscindibile tra il soggetto umano e la sua cultura. Questo significa, come afferma l’esortazione di Paolo VI Evangelii nuntiandi (n. 20), che la Chiesa nel compiere la sua missione non può evangelizzare un popolo, trascurando la sua cultura: occorre evangelizzare anche le culture. La missione verso le culture si traduce in un impegno teso a rendere le culture sempre più degne della persona umana, innestando in esse i valori evangelici. Il progetto culturale lanciato dalla CEI nel contesto italiano è un eloquente esempio di questa missionarietà.
    Inoltre, una pastorale giovanile configurata in prospettiva missionaria non può dimenticare la stessa subcultura giovanile con le sue risorse e devianze. Un approccio dialogico alla cultura giovanile e alla loro apertura/chiusura all’interculturalità offre nuove possibilità per quanto riguarda l’espressione della fede e la maturazione dei giovani nella fede.

    3.3. Dialogo per la liberazione e lo sviluppo

    Dato che l’annuncio evangelico riguarda la salvezza/liberazione dell’uomo, non si possono chiudere gli occhi di fronte al contesto di oppressione e di ingiustizia in cui si trovano coloro cui è rivolto. La dimensione missionaria dell’azione pastorale implica anche una critica profetica delle ideologie oppressive ed un impegno per lo sviluppo integrale della persona (Redemptoris missio 58-59).
    Anche qui i flussi migratori, la globalizzazione e i mezzi di comunicazione portano alle nostre porte situazioni di oppressione e di ingiustizia dominanti nel mondo intero. La prospettiva missionaria dell’agire pastorale richiede una visione evangelica e planetaria, capace di mettere in discussione le ideologie che creano uno sviluppo squilibrato. Ciò comprende anche la necessità di rendersi conto che nell’attuale contesto segnato dalla globalizzazione, le scelte economiche e tecnologiche di una società hanno delle ripercussioni non trascurabili sugli altri assetti sociali, specialmente sui più poveri.
    La prospettiva missionaria nella pastorale, più che una semplice promozione della causa delle terre di missione, obbliga a superare visioni e ideologie nazionalistiche ed etnocentriche, sia all’interno della Chiesa sia nella società, e sollecita ad impegnarsi per una liberazione/sviluppo integrale e planetario.
    Ciò significa che una pastorale giovanile configurata in prospettiva missionaria non può non interessarsi della formazione socio-politica dei giovani.

    4. CARATTERISTICHE DI UNA PASTORALE IN PROSPETTIVA MISSIONARIA

    Come si è accennato, la prospettiva missionaria dell’azione pastorale comporta un dialogo con le esperienze religiose, le culture e le ideologie circa lo sviluppo dei popoli, sia ad intra sia ad extra della Chiesa. Al riguardo, sulla base di quanto si è finora esposto, è possibile tracciare alcune caratteristiche essenziali, che evidentemente valgono anche per la pastorale giovanile.

    4.1. Riconoscimento della dignità della persona umana

    Il fondamento ultimo di una pastorale in prospettiva missionaria è il riconoscimento della dignità della persona umana. Oltre ad essere un valore basilare nelle culture tradizionali dei vari popoli e nella cultura moderna e postmoderna, la dignità della persona umana fa parte del nucleo del messaggio cristiano: la persona umana, uomo o donna, è l’immagine di Dio; la natura umana, come si rivela nel mistero dell’incarnazione, è capace di contenere il divino (K. Rahner); il soggetto umano è chiamato ad una comunione intima con Dio.
    Eppure, la dignità della persona umana è calpestata in mille modi nella società contemporanea. In tale contesto, promuovere e difendere la dignità della persona, dialogando e collaborando con altre agenzie e persone di buona volontà, è una via privilegiata per realizzare e proclamare la salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo.
    Di conseguenza, tutta la prassi ecclesiale, anche quella ad intra, occorre che sia segnata dalla preoccupazione di salvaguardare la dignità della persona, ovvero occorre che sia fattivamente attenta a non ridurre mai la persona umana ad un mezzo per raggiungere altri fini, per quanto utili o pregevoli essi siano. In breve, non deve sacrificare mai il soggetto umano e la sua dignità in nome di Dio.
    In ambito della pastorale giovanile, possiamo affermare che il rispetto sincero e profondo per la dignità dei giovani – a prescindere della loro condizione sociale, culturale e religiosa – è un requisito imprescindibile nell’impegno educativo diretto a promuovere la loro maturazione umana e cristiana.

    4.2. Dialogo e riconciliazione

    Riconoscere la dignità della persona implica riconoscere la significatività della sua esperienza religiosa, della sua cultura, della sua organizzazione sociale ed economica. Riconoscere la ricchezza di questa eredità impone, a sua volta, il dialogo considerato come unico modo di condividere l’esperienza della fede.
    I tentativi di dialogo compiuti da Giovanni Paolo II a livello istituzionale (per esempio, quello per la pace ad Assisi, 1986, 2002), dalle Chiese locali nel loro contesto specifico e dai fedeli nella loro vita quotidiana sono altrettanti segnali che nell’agire della Chiesa sta prendendo corpo una nuova mentalità.
    L’altra faccia della medaglia è la riconciliazione. Il riconoscimento della dignità della persona umana esige anche un atteggiamento di riconciliazione, caratterizzato dall’umile e sincero riconoscimento dei modi in cui la comunità cristiana, nel corso della sua storia, ha calpestato la dignità umana, a volte con la pretesa di annunciare la Buona Novella. Non è possibile portare l’annuncio di Cristo agli altri senza riconoscere umilmente di aver tradito il messaggio evangelico con determinate prassi ecclesiali.
    Le richieste di perdono che Giovanni Paolo II ha rivolto, in nome di tutta la Chiesa cattolica, a varie riprese alle comunità religiose, culturali e politiche, in occasione dell’anno giubilare del 2000, sono un segno paradigmatico della prospettiva missionaria nella pastorale.
    In quanto la pastorale giovanile comporta un processo intergenerazionale sia nella Chiesa che nella società, il dialogo e la riconciliazione ne diventano fattori centrali. Basti pensare alla tensione tra le generazioni che si vive nella famiglia, nella scuola e nella società per rendersi conto della significatività del dialogo e della riconciliazione nell’ambito della pastorale giovanile.

    4.3. Solidarietà e accompagnamento

    Il riconoscimento della dignità della persona umana e, di conseguenza, della necessità del dialogo e della riconciliazione, porta a concludere che la prassi pastorale in prospettiva missionaria è chiamata ad esprimersi in termini di solidarietà senza riserve e di accompagnamento fino all’ultimo respiro.
    In un tempo di globalizzazione economica e culturale, Giovanni Paolo II rimarca giustamente l’importanza di una globalizzazione della solidarietà. La prospettiva missionaria sollecita la Chiesa a collaborare nell’impresa di una solidarietà che non conosce confini di religione, nazione, razza, etnia, lingua, cultura.
    C’è bisogno di una solidarietà, non soltanto a livello spirituale, educativo e morale, ma anche a livello materiale e sociale. È necessaria una rete di solidarietà interfamiliare, intergenerazionale, interecclesiale ed internazionale.
    D’altronde, in un contesto dove l’anonimato sta diventando uno stile di vita, si sente la necessità di una pastorale di compagnia e di accompagnamento. Essere disponibili a stare con le persone ed impegnarsi ad accompagnarle, qualunque sia la loro situazione spirituale, morale, culturale ed economica, nella loro ricerca di una migliore qualità di vita, esprime lucidamente la prospettiva missionaria dell’azione pastorale.
    Data la condizione fragile dei giovani nella società e la loro tendenza ad isolarsi, una pastorale giovanile in prospettiva missionaria è sollecitata ad esprimersi in termini di solidarietà e di accompagnamento.

    5. LA PASTORALE GIOVANILE IN PROSPETTIVA MISSIONARIA

    Essendo un aspetto integrante della prassi ecclesiale, la pastorale giovanile è chiamata a realizzare le dimensioni e le caratteristiche missionarie della pastorale in generale sopra delineate. Qui ci si limita ad accennare ad alcuni aspetti tipici della pastorale giovanile configurata in prospettiva missionaria.
    Le proposte concrete che sono elencate in questa sezione provengono grossomodo dall’esperienza chiamata Missione Giovani promossa dalla Diocesi di Roma in occasione dell’Anno Santo del 2000 e dal Programma Pastorale della Diocesi di Roma, 2001-2004.

    5.1. Promuovere il dialogo intergenerazionale

    Se il dialogo è un aspetto essenziale destinato a caratterizzare l’intera azione pastorale in una visuale missionaria, il dialogo intergenerazionale è un aspetto che riguarda la pastorale giovanile in particolare.
    Considerata nell’ottica missionaria, la pastorale giovanile è una prassi della comunità cristiana nel suo insieme riferita alle giovani generazioni, sia all’interno che all’esterno della Chiesa. Nella pastorale giovanile, così intesa, il reciproco influsso tra la generazione degli adulti e quella dei giovani gioca un ruolo tutto particolare.
    A questo proposito il Programma Pastorale della Diocesi di Roma, 2001-2004 così si esprime: «I giovani sono oggi la frontiera più difficile e complessa della missione, in quanto risentono più di altri soggetti dei mutamenti culturali e sociali. Non vanno isolati ma aiutati nel loro rapporto con gli adulti, le famiglie e gli anziani, per non accentuare lo scollamento e la frattura tra le generazioni, a cui la nostra pastorale deve invece reagire».
    Mentre i credenti adulti – laici, religiosi e clero – possono favorire, con la loro prassi comunicativa, l’iniziazione e la maturazione dei giovani nella fede, i giovani, da parte loro, con il loro radicalismo, la loro generosità e la loro creatività possono aiutare gli adulti a riscoprire la freschezza e la dinamicità della fede cristiana.
    Questa missionarietà reciproca è resa possibile dal dialogo intergenerazionale in ambito familiare, ecclesiale e sociale. Dato che i giovani rappresentano una fase intermedia, il dialogo intergenerazionale deve includere il dialogo della giovane generazione non solo con gli adulti, ma anche con gli anziani, da un lato, e i ragazzi e i bambini, dall’altro.
    Di conseguenza, in questa visuale missionaria, iniziative di pastorale giovanile che siano sempre ed esclusivamente per i giovani – incontri giovanili, messa per i giovani, centri giovanili, movimenti giovanili – senza riferimenti alle altre categorie di persone, risultano essere poco validi e meno opportuni.

    5.2. Giovani in missione tra i giovani

    Per una pastorale giovanile che valorizza dovutamente la sua dimensione missionaria è indispensabile non solo il dialogo intergenerazionale ma anche quello intragenerazionale, cioè tra i coetanei.
    Scrivendo ai giovani di Roma in occasione della Missione Cittadina in preparazione all’Anno Santo del 2000, Giovanni Paolo II affermava: «Mi rivolgo in modo tutto speciale a voi, giovani credenti. Siate testimoni di Cristo anzitutto tra i vostri coetanei. Il Risorto vi chiama a stringere con Lui e tra di voi un’alleanza per dare alla Città un assetto più giusto, libero e cristiano. Siate protagonisti di questa alleanza nei rapporti con gli altri giovani, in famiglia, nei quartieri, a scuola e nell’università, nei posti di lavoro e nei luoghi dello sport e del sano divertimento. Recate speranza e conforto dove c’è scoraggiamento e sofferenza. Ognuno di voi si renda disponibile per accogliere ed aiutare chi vuole avvicinarsi alla fede ed alla Chiesa. […] Siate missionari di speranza!».
    Nella società contemporanea è sempre più frequente trovare luoghi e circostanze riservati unicamente all’universo giovanile. Ci sono circoli e incontri giovanili che sono chiusi a persone di altre età. C’è poi la tendenza di giovani a riunirsi in «branco» munito di codici linguistici non accessibili agli esterni. Gli unici che possono portare dei valori evangelici in questi luoghi e in tali circostanze di ritrovo spontaneo sono i giovani stessi. In questo senso, occorre che la pastorale giovanile stimoli i giovani a diventare, a loro modo, missionari tra i loro coetanei.
    Questo significa che i gruppi, le associazioni, e i movimenti giovanili sono sollecitati a diventare non spazi chiusi, ma aperti; i loro appartenenti vanno sollecitati a elaborare i loro programmi e le loro attività in un’ottica mirata a raggiungere tutti i giovani del territorio.
    È da notare che il contesto moderno dispone di nuovi mezzi atti a favorire il dialogo intergenerazionale e intragenerazionale: la comunicazione via internet, i piccoli messaggi telefonici, la radio, i centri d’ascolto, ecc.

    5.3. Presenza qualificata nel settore nevralgico dell’educazione

    La nuova situazione segnata dalla secolarizzazione e dal pluralismo sociale, culturale e religioso richiede alla comunità cristiana un approccio missionario che ha caratterizzato i tempi classici della sua storia: influire sui settori nevralgici della società. Dal punto di vista della pastorale giovanile, il settore nevralgico è quello dell’educazione.
    Una pastorale giovanile configurata in una prospettiva missionaria comporta che i credenti adulti siano presenti con la loro competenza educativa nelle scuole, nei centri professionali, nelle università e nelle altre strutture educative, formali e non formali, per inserire e promuovere i valori evangelici nel processo di trasmissione critica della cultura, della scienza e della tecnologia.
    A questo proposito occorre fare «leva anzitutto sulla capillare e qualificata presenza cristiana che già esiste nella scuola e nell’Università. Vanno colte, in concreto, le nuove attenzioni e le prospettive favorevoli che sembrano aprirsi per la proposta cristiana sia all’interno della scuola che dell’Università» [4].
    Essere presenti nel settore educativo non significa solo avere strutture educative gestite dalla comunità cristiana, ma anche essere presenti nelle strutture statali per portarvi i valori evangelici. Rispettando l’autonomia di tali strutture, si possono avviare iniziative di natura culturale – per esempio, spettacoli teatrali o musicali, mostre fotografiche o artistiche – che coinvolgono i giovani, le loro famiglie e il territorio circostante.
    Per una animazione cristiana della cultura universitaria, si possono anche promuovere i laboratori della cultura con la partecipazione di docenti e studenti.
    Inoltre, nel suo impegno missionario, la comunità cristiana può collaborare con lo Stato e con gli enti pubblici nel promuovere un’educazione integrale dei giovani; può influire sulla politica del settore dell’educazione, giocando il proprio ruolo sia come comunità che come singole persone.

    5.4. Presenza animatrice negli «arcipelaghi» giovanili

    Il pluralismo creato dal processo di secolarizzazione condiziona anche il mondo giovanile, che oggi si presenta nella forma paragonabile a degli «arcipelaghi». In effetti, i giovani tendono a vivere in gruppi tra loro isolati e rispondenti a molteplici interessi particolari, ad aggregazione spontanea, a diversificati impegni settoriali, ecc. Paradossalmente, il contesto di pluralismo li obbliga a coltivare appartenenze multiple, ma in maniera frammentaria.
    Siccome la fede ha una valenza pubblica e universale, è necessaria la presenza competente ed animatrice di credenti adulti e giovani negli «arcipelaghi» giovanili, quali il divertimento, lo sport, il tempo libero, la musica, il teatro, il turismo. Innestare i valori evangelici con la presenza e testimonianza nei vari settori del mondo giovanile è un nuovo modo di essere missionari tra i giovani.
    In questo senso, sono necessari nuovi tipi di missionari, uomini e donne, capaci di avvicinare i giovani nei luoghi di incontro spontaneo (piazze, muretto, discoteche, pubs, bar, ecc.), di tempo libero (palestra, piscina, centri sportivi, campi di calcio, scuola di avviamento allo sport, ecc.), e di vita culturale (biblioteche comunali, associazioni culturali, circoli culturale, teatri, ecc.). Per altre proposte innovative in questa linea si può vedere il contributo «I luoghi della pastorale giovanile» contenuto in questo volume.

    A modo di conclusione possiamo sottolineare che gli adulti e i giovani sono chiamati ad essere sale della terra (Mt 5, 13). La loro presenza missionaria nell’ambito educativo e negli arcipelaghi giovanili dovrebbe essere come la presenza del sale – discreta, non invadente, in giusta misura – che esalta la natura di ogni sapore e gusto. La presenza del sale è così vitale che la sua assenza renderebbe il cibo insipido; eppure il cibo non è tutto e solo sale!
    La missionarietà, dunque, è una prospettiva fondamentale ed indispensabile della prassi ecclesiale. La sua assenza, da un lato, offusca l’identità della Chiesa e dei cristiani; dall’altro lato, produce una prassi pastorale statica, ripetitiva, chiusa, e senza slancio.


    NOTE

    1 Card. C. Ruini al clero romano 2000.
    2 Tenuta all’Incontro del clero romano (2 ottobre 2000).
    3 Programma Pastorale della Diocesi di Roma, 2001-2004.
    4 Programma Pastorale della Diocesi di Roma, 2001-2004.


    Bibliografia

    MIDALI M., Teologia pratica. 2. Attuali modelli e percorsi contestuali di evangelizzazione, LAS, Roma 20003; Programma Pastorale della Diocesi di Roma per il triennio Pastorale 2001-2004, Roma 2001; RUINI C., La missione incarnata nel contesto socio-culturale di Roma. Incontro del clero romano al santuario della Madonna del Divino Amore, 2 ottobre 2002, Paoline, Milano 2000.

     


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