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    La proposta

    di un’esistenza felice

    Per una buona pastorale giovanile

    Rossano Sala



    Quattro domande per incominciare

    La prima domanda sembra addirittura ovvia: che cos’è la pastorale giovanile? Lasciando la parola a un autorevole protagonista della rifl essione sulla pastorale giovanile nel post-Concilio in Italia recentemente scomparso – don Riccardo Tonelli – in prima battuta possiamo dire che

    per noi pastorale giovanile è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale compie, sotto la guida potente dello Spirito di Gesù, per dare pienezza di vita e speranza a tutti i giovani. […] La pastorale è una sola: il servizio alla vita in Gesù, il Signore della vita, l’unico nome in cui possiamo avere vita. Essa si diversifica nelle differenti realizzazioni pastorali, perché si incarna in situazioni diverse e concrete. Diventa pastorale giovanile quando il servizio alla vita in Gesù si realizza nel mondo dei giovani [1].

    Tale sforzo, che passa decisamente attraverso la pratica educativa e non è pensabile senza di essa, ha fin dall’inizio una chiara ispirazione e finalità evangelizzatrice, e quindi ci inserisce nel cuore della missione propria della Chiesa, dalla quale non è mai possibile indietreggiare e alla quale non ci è permesso sottrarci:

    La pastorale giovanile vuole annunciare che Gesù è il Signore e solo in lui possiamo essere pienamente nella vita e fondati nella speranza. Per questo non può accontentarsi mai di fare un ottimo servizio educativo, ma si interroga continuamente sul significato, sull’urgenza e le ragioni dell’evangelizzazione [2].

    In secondo luogo ci chiediamo: qual è il punto di riferimento della pastorale giovanile? Dobbiamo riconoscere che la luce viene dalla fede, viene precisamente dal Signore Gesù, luce del mondo. Il nostro faro rimane il cero pasquale, sul cui senso così si esprimeva Benedetto XVI, nella sua consueta lucidità e precisione:

    Nella Veglia pasquale, la notte della nuova creazione, la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolare e molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrifi cio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce. Come seconda cosa possiamo rifl ettere sul fatto che la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo [3].

    È il Cristo crocifisso-risorto, colui che offre la sua vita e per questo è resuscitato, che invia i suoi discepoli verso la missione, donando loro il mandato e la forza dell’apostolato: «Andate e fate discepoli tutti i popoli… Ecco io sono con voi fi no alla fi ne del mondo» [4]. Non può essere diversamente per la pastorale giovanile: «Andate e fate discepoli tutti i giovani!». Un programma sintetico ma completo per la pastorale giovanile. In terzo luogo mi domando qual è l’orizzonte della pastorale giovanile? Se la Chiesa nel suo insieme ha a cuore lo «sviluppo di tutto l’uomo e tutti gli uomini» [5], dobbiamo dire che, all’interno di questa passione dominante, l’orizzonte della pastorale giovanile è quello di avere a cuore «tutto il giovane e tutti i giovani». L’orizzonte è quello di una educazione integrale e integrata, che non lasci nulla fuori dal suo raggio d’azione. Per precisare meglio mi esprimo parlando di cinque cerchi concentrici, che stanno uno dentro l’altro e non uno accanto all’altro: la promozione umana, che nell’ambito delle giovani generazioni prende chiaramente il nome e la declinazione educativa; l’evangelizzazione esplicita, che implica per ciascun giovane l’incontro vitale con la persona di Gesù Cristo, attraverso la liturgia e la catechesi; la formazione morale della coscienza, perché la Chiesa, attraverso la catechesi e la pastorale giovanile, si sforza di rendere i giovani capaci di discernere tra il bene e il male; la corresponsabilità apostolica con i giovani che abilita i giovani stessi a essere protagonisti della loro stessa crescita; la cura della vita spirituale in ottica vocazionale, che conduce ogni giovane a riconoscere, accogliere e rispondere alla sua personale vocazione e missione.
    In quarto luogo ci domandiamo qual è il luogo di esercizio della pastorale giovanile? Il popolo di Dio vive nel cuore del mondo, all’interno di una cultura e di una storia: ci rendiamo sempre più conto che «la grazia suppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» [6]. La fede, che è certamente altro rispetto alla cultura, non è però mai altrove rispetto a essa. Non siamo quindi gente che fugge dal mondo, ritenendo oggi impossibile educare ed evangelizzare i giovani. In quanto raggiunti e conquistati dal Signore Gesù qui e adesso vogliamo essere speranzosi rispetto al tempo in cui esistiamo, se non altro perché è l’unico che ci è dato di vivere:

    Il mondo è in crisi fin dall’origine. E tale situazione critica non ha mai smesso di ripresentarsi nel corso dei tempi. […] La cosa certa è che non possiamo avere nostalgia di una cristianità sepolta. Bestemmierò contro la provvidenza che mi ha posto in questo momento della storia? Non devo forse riconoscere che sono nato in quest’epoca, che la mia missione, anche se complicata, è adesso, e che non devo aspettare il ritorno di condizioni favorevoli per cominciare a essere testimone? [7].

    La strategia pastorale per il nostro tempo

    Viviamo in una stagione originale della storia e della Chiesa. Stiamo assistendo a una transizione epocale, dove si vivono tanti pericoli, ma anche tante opportunità inedite. Sta di fatto che questo tempo richiede un cambio di strategia. In ambito ecclesiale si parla volentieri di ‘nuova evangelizzazione’. Si tratta però di comprenderne il senso e di arrivare alle conseguenze necessarie per l’impostazione strategica della nostra azione pastorale.
    Come dobbiamo intendere la nuova evangelizzazione? Al di là di qualche gruppo che la pensa come tempo per la ‘riconquista cattolica’, la Chiesa si sente impegnata verso un vero e proprio riposizionamento del cristianesimo, capace di fare i conti, prima ancora che con l’uomo d’oggi, con le esigenze radicali del Vangelo.
    Da una parte vi sono coloro che fanno leva maggiormente sui destinatari dell’evangelizzazione: la cultura odierna, l’uomo d’oggi e per noi i giovani sono radicalmente diversi e quindi va ripensato l’impianto generale della trasmissione della fede. In questo senso bisognerebbe impegnarsi maggiormente per comprendere ‘come parlare di Dio ai giovani’. In altra direzione vi sono coloro che puntano sui soggetti dell’evangelizzazione: la Chiesa, prima di pensarsi adeguata al Vangelo, deve prima di tutto riconoscere di esserne la destinataria privilegiata.
    In fondo si tratta di prendere coscienza che non vi è un momento storico in cui la Chiesa possa dire di essere ‘a posto con Dio’, ma sempre è chiamata a una continua conversione al Dio vivente, che è sempre maggiore e sempre avanti! In questo senso bisognerebbe impegnarsi maggiormente per comprendere ‘perché parlare Dio ai giovani’.
    Non si tratta evidentemente di contrapporre queste due ‘accentuazioni’ – una più culturale e l’altra più ecclesiale, una più ad extra ed una più ad intra – perché in fondo si tratta, a mio parere, di un unico riposizionamento del cristianesimo, che tiene conto insieme sia dei soggetti che dei destinatari della buona novella.
    Ogni volta che si riposiziona il cristianesimo si opera una riforma nella Chiesa. Cioè si cerca di nuovo una conformazione a Cristo Signore, il quale rimane sempre «il primo e il più grande evangelizzatore» [8] e quindi il modello a cui ispirarsi sempre di nuovo, proprio perché il Signore Gesù è l’eterna novità: «Se poi vi viene in mente questo pensiero: ma allora il Signore che cosa è venuto a portarci di nuovo?, sappiate che ha portato ogni novità portando se stesso» [9].
    Mi pare illuminante l’indicazione di un grande teologo, Giuseppe Colombo, il quale, in un agevole e denso libretto scritto nel 1997 sul tema dell’evangelizzazione, ha anticipato una prospettiva che effettivamente si sta verificando. Secondo lui nel nostro tempo «s’impone il ripensamento dell’evangelizzazione» [10]: godendo di una libertà senza precedenti, alla Chiesa

    si aprono due vie, non alternative. L’una: quella di convincere gli uomini e quindi la società postmoderna a tornare alla ragione. L’altra: quella di proporre se stessa, cioè le proprie forme e il proprio stile di vita. In altri termini, invece di impegnarsi nel tentativo di convincere gli uomini a tornare alla ragione, impegnarsi a convincere i cristiani a praticare il cristianesimo nella sua autenticità; propriamente a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo [11].

    La prima via, quella orientata a riportare gli uomini alla ragione, sembra oggi strategicamente la meno conveniente e la più improbabile.
    Rimane però, dal punto di vista pastorale, la seconda via, quella che potremmo definire ‘regale’ o ‘testimoniale’, che vede impegnata la Chiesa e i cristiani a proporre se stessi e le loro esistenze in conformità a quella di Gesù Cristo. Tale via «non è il ripiego cui adattarsi per la constatata impraticabilità della prima strada: è invece la strada “regale”, propria, di sempre, da preferire a qualsiasi altra, anche se in qualche momento persa di vista» [12]. Così il cristianesimo oggi, lungi dal pensare all’evangelizzazione come «parola/idea/verità (astratta) da dimostrare razionalmente» [13], deve convincersi che la vera alternativa da seguire

    è quella della evangelizzazione impegnata, non a dimostrare la verità astratta del messaggio/vita cristiana, ma a mostrare nella pratica effettiva la sua ‘convenienza’, alla quale soltanto, nell’età ‘postmoderna’ possono essere riconosciute le chances di farsi valere e di persuadere. ‘Convenienza’ non nel senso mercantile del termine, ma nel senso oggettivo – e, se è permesso – ontologico [14].

    La via di Gesù non può che essere anche la via della Chiesa: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per nicare agli uomini i frutti della salvezza» [15]. Alla Chiesa, per riabilitare se stessa agli occhi del mondo giovanile, rimane sempre la possibilità strategica di offrire una testimonianza credibile circa la convenienza della sua forma di vita: effettivamente una Chiesa che vive come il suo Signore diviene una provocazione ed una interrogazione per ogni giovane che sia alla ricerca del senso pieno della propria esistenza.

    La decisiva qualità degli educatori-pastori

    Propongo tre elementi su cui far leva, tre punti di forza sicuri e decisivi per il nostro modo di essere educatori e pastori dei giovani: testimonianza, prossimità, essenzialità. Nella certezza che

    la posta in gioco non è nient’altro che essere se stessi. È quindi una questione di essere e non di fare. Non si tratta di fare l’evangelizzazione, ma di essere veramente cristiani, e l’evangelizzazione viene in sovrappiù a partire da un modo di vita e non a partire da una tecnica di vendita [16].

    Partiamo dal tema della testimonianza. Ogni operatore – sia esso sacerdote, consacrato/a o laico/a – è prima di tutto un testimone e bisogna a questo proposito tenere presente che la parola ‘testimone’ deriva da ‘terzo’:

    Forse può sorprendere il fatto che le espressioni ‘testimonianza’ e ‘testimone’, derivando dal termine latino testis, provengano, secondo un’accreditata etimologia, da terstis, che significa ‘colui che sta come terzo’. Il termine, di conseguenza, soprattutto per il suo valore giuridico, va a identifi care colui che si pone in rapporto ad altri due soggetti, relazionandoli tra loro [17].

    Essere terzo significa porsi sotto l’ottica di una duplice obbedienza: da una parte rispetto al messaggio ricevuto, che non si può cambiare a proprio vantaggio, e dall’altra rispetto alle condizioni dei destinatari di tale messaggio, che vanno culturalmente intercettati.
    Oggi sembra ad alcuni che la Chiesa parla molto di Dio, ma parla poco con Dio. Siamo effettivamente sfiniti da coloro che parlano di Dio, ma che lo fanno continuamente ‘per sentito dire’, e non per esperienza di chi viene da un’intimità con Lui. Parlare dopo essersi immersi nella Parola è cosa molto diversa dal sostituire la Parola con una moltitudine di parole! E i nostri giovani si accorgono subito, perché possiedono il senso della fede, se colui che parla è un ‘confidente di Dio’ o un ‘mercenario delle parole’.
    Ecco il tema della testimonianza nella sua semplicità disarmante: parlare con Dio prima che parlare di Dio, non parlare mai di Dio senza prima aver parlato con Dio. Tale prospettiva, dal punto di vista formativo, mette al centro la relazione di inclusione reciproca che sussiste tra spiritualità e pastorale: spiritualità e pastorale non si possono separare, così come non si possono omologare, ma crescono o diminuiscono in proporzionalità diretta. Per usare un’immagine, direi che sono gemelli siamesi con un cuore solo. Occorre insomma essere discepoli del Signore prima di essere suoi apostoli. In questo senso l’indimenticabile Paolo VI, nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, riferendosi alla sensibilità dei giovani, così si esprimeva:

    Consideriamo ora la persona stessa degli evangelizzatori. Si ripete spesso, oggi, che il nostro secolo ha sete di autenticità. Soprattutto a proposito dei giovani, si afferma che hanno orrore del fittizio, del falso, e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza. Questi ‘segni dei tempi’ dovrebbero trovarci all’erta. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza, ci domandano: Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione. Per questo motivo, eccoci responsabili, fi no a un certo punto, della riuscita del Vangelo che proclamiamo [18].

    Un secondo passaggio ci invita a uno stile di prossimità quotidiana con i giovani. Non è possibile rimanere a distanza di sicurezza dai giovani ai quali siamo mandati. Il criterio dell’incarnazione ha l’indubbio vantaggio di mettere al centro della nostra pastorale la vicinanza, la condivisione e la piena solidarietà con i giovani. In effetti la valorizzazione della vita quotidiana risulta sempre essere quello stile vincente che nella prossimità di Dio trova il suo fondamento autorevole, defi nitivo e insuperabile. Il pensiero corre immediatamente alla schiera di santi e sante che hanno evangelizzato i giovani attraverso una pratica educativa quotidiana. Il beato Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, così spiega il segreto della riuscita del sistema educativo del santo torinese:

    Il sistema di don Bosco non si riduceva a non bastonare, a non castigare, ma stava soprattutto in una cosa semplicissima, cioè nel vivere in mezzo ai ragazzi.
    Diceva: – Don Bosco viveva in mezzo ai suoi ragazzi, conversava con essi, come Nostro Signore conversava coi peccatori, coi farisei, coi fanciulli. Il nostro è il sistema della familiarità e del contatto. Don Bosco non risplendette come grande oratore; non i suoi discorsi commovevano, ma la vista di lui, l’intrattenersi con lui. Neppure si presentava don Bosco come professore: la sua scuola era il cortile. Insomma l’ideale di don Bosco era vivere in mezzo ai suoi. Per lui educare è stare in mezzo ai ragazzi, non per imporsi, ma per conversare, per intrattenersi con loro, in modo che tutti ci si avvicinino e si possano così guadagnare i cuori di tutti [19].

    Non è quindi possibile per la nostra pastorale astrarre da questa dinamica di presenza, vicinanza, accoglienza, prossimità, partecipazione di vita che nella povertà solidale di Cristo trova massima espressione. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» [20]: questo è un fatto che la fede riconosce come principio della salvezza e che segna la singolarità del cristianesimo rispetto a qualsiasi altra religione.
    Dalla prossimità di Dio si va immediatamente verso la pratica della povertà evangelica, che non è meramente funzionale, ma essenziale alla vita cristiana: proprio san Francesco, che in maniera così singolare ha messo a tema l’evento dell’incarnazione, ha proposto alla Chiesa del suo tempo – e con questo alla Chiesa di tutti i tempi – un ritorno radicale alla povertà e alla letizia per essere all’altezza delle esigenze dell’evangelo. Il farsi vicino di Dio, nella forma della nascita, è un grande atto di spogliamento iniziale. Morire in croce ne è il suo compimento radicale. Questa è propriamente la grazia che il Signore ci ha portato: egli, «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» [21]. È la povertà – frutto della condiscendenza, della condivisione e della fraternità – che arricchisce non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini, ridandoci la gioia essenziale della vita.
    I poveri sono coloro che si attendono tutto da Dio e non per nulla la prima e più importante beatitudine di Gesù è dedicata a loro: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» [22]; «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» [23]. Anche oggi, per giungere all’essenzialità dell’annuncio, la ‘nuova evangelizzazione’ ha bisogno di apostoli capaci di vivere dell’essenziale e di eliminare ciò che è superfl uo: ad alcuni la Chiesa oggi appare come una bella mongolfi era piena di spirito, ma che non riesce a innalzarsi perché ha troppa zavorra! Il grande teologo H. De Lubac, offrendoci qualche pennellata sulla possibile santità del futuro, così si esprimeva:

    Il santo di domani sarà povero, umile, senza ricchezze. Possiederà lo spirito delle beatitudini. Non maledirà e non adulerà. Amerà, invece. Prenderà il vangelo rigorosamente alla lettera. Una dura ascesi l’avrà liberato da se stesso. Sarà l’erede di tutta la fede d’Israele, ricordandosi però che tale fede è passata attraverso Gesù. Prenderà su di sé la croce del suo salvatore e si sforzerà di seguirlo [24].

    La costruzione di una fraternità profetica

    La dimensione della relazione e della comunione divengono sempre più centrali per comprendere il nostro compito ecclesiale nel mondo di oggi, perché il modo in cui viviamo e lavoriamo insieme come Chiesa diviene sempre di più la nostra presentazione davanti ai giovani.
    Oggi siamo chiamati a essere profeti e mistici della fraternità, perché la credibilità di quello che facciamo e di quello che diciamo, come singoli e come comunità, si gioca sul modo in cui questo avviene: Dio ama gli avverbi! La verità e la via per arrivarci non sono estrinseche una all’altra: i processi, le metodologie, le scelte sul come lavorare devono derivare dalla verità che si vuole annunciare ed è già compresa in questi cammini.
    È radicalmente importante conoscere la meta a cui vogliamo portare i nostri ragazzi, ma è altrettanto decisivo approntare un cammino che rispetti la qualità di questa meta. Bisogna rileggere e correggere in maniera cattolica la famosa frase ‘il fi ne giustifi ca i mezzi’: i mezzi derivano dalla meta e devono essere a essa esattamente conformi. Gesù è per noi non solo verità da raggiungere, ma via da percorrere! Diviene così chiaro che la prima ‘professionalità’ di tutti coloro che sono impegnati nella pastorale giovanile è quella di una spiritualità della relazione, ovvero di una capacità di vivere e lavorare insieme che fa la differenza, e che è molto di più rispetto a una generica capacità gestionale e manageriale, seppur necessaria. La recente nota pastorale sugli oratori, parlando dei responsabili di questi decisivi ambienti educativi, mette al centro le necessarie competenze relazionali che non possono mai mancare:

    La necessità di avere in oratorio fi gure stabili di riferimento è indiscutibile: tradizionalmente essa è individuata nel direttore, coordinatore o responsabile dell’oratorio, ma in alcuni grandi oratori operano stabilmente diversi educatori.
    I ruoli di responsabilità, in passato, venivano svolti per lo più da sacerdoti o religiosi/religiose. Oggi, sempre più spesso, tale compito viene affi dato a dei laici preparati. Al di là delle tradizioni e delle odierne situazioni, chiunque, su mandato ecclesiale, ne assuma la responsabilità deve operare perché l’oratorio ‘funzioni bene’, coordinando le varie attività, operando nell’ottica evangelica e vocazionale, garantendo la cura delle relazioni interpersonali, lo stile dell’accoglienza e la qualità educativa dell’ambiente. Il responsabile è chiamato a favorire un positivo e armonico intervento di tutte le altre fi gure educative: deve possedere pertanto buone doti di coordinamento e una spiccata attitudine al lavoro comune e condiviso. Non agisce mai a titolo personale e per questo riceve un incarico dall’autorità ecclesiale di riferimento che ne certifi ca la formazione e ne determina la funzione [25].

    Dobbiamo e possiamo parlare di una ‘profezia di fraternità’ e perfi no di una ‘mistica di fraternità’: si tratta di una profezia, perché nel nostro mondo globalizzato è impossibile da vedere e molto diffi cile da attuare; si tratta poi di una mistica, perché affonda le sue radici nella comunione con un Dio che è comunione di amore.
    Ora, se davvero crediamo che la Chiesa nel suo insieme sia il soggetto dell’evangelizzazione, è evidente che i giovani, in quanto parte di essa, non possono e non devono essere pensati come soggetti passivi della loro stessa salvezza. I giovani possono prendere consapevolezza del loro ruolo nella Chiesa solo nella forma della condivisione evangelica di vita e quindi della corresponsabilità apostolica. Non è possibile entrare nel ritmo della fede al di fuori di un’esperienza ecclesiale coinvolgente che abbia la forma di un evento sempre inedito capace di generare simpatia, accoglienza e imitazione da parte dei giovani.
    Considero questo il punto qualifi cante della pastorale giovanile, perché il cristianesimo è nella sua essenza un evento di donazione e quindi esso ‘si impara’ solo attraverso il contatto con una testimonianza capace di generare sequela e imitazione: non nel sapere teorico, né nel ripetere scolastico, né nel contemplare spirituale, ma nel servizio concreto, nell’esperienza della dedizione reale si fa esperienza di Dio, della sua Chiesa e del suo Regno che viene. Il cristianesimo, pur esprimendosi in forma dottrinale, non è mai riducibile a questo: è una pratica di vita orientata intimamente alla sequela e all’imitazione del Signore Gesù: la pastorale giovanile rischia di rimanere una teoria senza questo aspetto di coinvolgimento corresponsabile dei giovani nella fede testimoniale. Non è mai troppo lontano il rischio di ridursi a pensare e ad agire come se i giovani fossero solamente destinatari passivi da ‘formare’, ‘istruire’, ‘riempire’, ‘educare’, ‘salvare’ senza la loro necessaria ed intima partecipazione.
    La pastorale giovanile fa così dei giovani a cui è mandata dei soggetti impegnati in presa diretta nell’esercizio della vita cristiana, non degli inoperosi, disinteressati e indifferenti destinatari: l’idea che i giovani siano soggetti passivi della pastorale giovanile è assolutamente da respingere, perché – in primo luogo – tradisce il cuore della proposta cristiana, che è certamente ricezione dell’iniziativa di Dio a favore nostro, ma, nella sua piena maturità, è altrettanto un impegno esplicito di attestazione esistenziale di un certo modo di vivere che si pone al servizio degli altri. In secondo luogo tale prassi non è per nulla rispettosa dell’età della vita del giovane stesso: un’età che richiede l’energica presa in carico della propria vita, caratterizzata dall’esercizio in prima persona della libertà e della responsabilità, dalla capacità di iniziativa personale attraverso tentativi a volte fallimentari ma assolutamente necessari e improrogabili.
    Rimane evidente che questa strategia pastorale richiede un atteggiamento fondamentale nei confronti dei giovani: la fi ducia e la speranza nei giovani stessi. Se questo atteggiamento manca nei responsabili della pastorale giovanile – e in generale nell’istituzione ecclesiale – non vi sarà la possibilità di fare dei giovani dei soggetti attivi della pastorale giovanile, e in fondo diventa così impossibile fare di loro degli autentici discepoli del Signore. Propriamente, per essere ancora più radicali, è necessario affermare che senza fi ducia non vi è nemmeno umanità degna di questo nome.
    Concludo facendo leva sul tema delle beatitudini evangeliche. Oggi siamo immersi nella società dei diritti e sembra questa essere la piattaforma unifi cante delle società occidentali. Il ‘diritto ad avere diritti’ sembra essere il punto di focalizzazione della piena liberazione della persona umana da qualsiasi schiavitù. Il magistero della Chiesa, dopo qualche tentennamento, si è reso attento e disincantato rispetto al possibile utilizzo perverso dei diritti umani individuali, denunciando ne i possibili abusi. Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustifi cazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifi ca che alcune persone vivano con minore dignità [26].
    Dall’altra parte la nostra pastorale, anche quella giovanile, a volte è molto puntata e calibrata sui comandamenti che in fondo, nella società dei diritti, che rischia di della libertà individuale il proprio referente unico, non hanno molte chance di essere apprezzati e osservati. Le ricerche sul mondo giovanile ci avvertono che uno dei modi in cui i giovani vedono la Chiesa oggi è quella di una istituzione che gli impone una montagna di divieti! Essa è compresa come un’agenzia produttrice di norme che regolano autoritariamente la vita dei loro fedeli [27].
    Ma la qualità della vita cristiana non è data dai diritti e nemmeno dai comandamenti, ma dall’annuncio gioioso delle beatitudini che, da una parte, compiono pienamente i comandamenti senza trasgredirli in alcun modo, come il dettato neotestamentario ci assicura [28], e dall’altra diventa uno stile di vita che critica autorevolmente i diritti umani tardo moderni, che troppe volte appaiono come una mascheratura a un narcisismo insostenibile e irrispettoso della dignità di tutti e di ciascuno, specialmente dei più deboli e indifesi.
    Prima di essere un annuncio di un mondo nuovo, le beatitudini sono l’esplicitazione della forma di vita che Gesù assume tra noi, sono il suo autoritratto, che ci viene offerto in vista dell’imitazione:

    Le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il Maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci: sono l’autoritratto di Gesù! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia [29].

    Il Signore Gesù non è solo colui che annuncia le beatitudini, ma colui che si identifi ca con esse, sia come soggetto attivo che come soggetto passivo:

    Nella condizione del povero di spirito, nella condizione di colui che ha perduto tutto, Gesù indica la condizione di se stesso. È possibile e meritevole di ricompense umane provvedere alle cure di un lebbroso, ma abbracciarlo e dirgli apertamente che egli è il figlio di Dio che soffre, appartiene a un registro diverso dalla stessa idea di carità che abbiamo coltivato nella migliore tradizione delle opere di bene [30].

    Dobbiamo quindi essere educatori ed evangelizzatori dei giovani nell’ottica delle beatitudini, che dicono la qualità della vita cristiana: lì abbiamo a che fare con il volto positivo e irradiante della vita cristiana, perché la vita cristiana è bella, attraente e raggiante solo se è vissuta secondo lo spirito delle beatitudini. Solo così essa può essere beata, cioè benedetta, felice e feconda perché caratterizzata dalla prospettiva del dono di sé. La scommessa della pastorale giovanile sta nel mostrare che la via regale della donazione è una proposta di esistenza felice, contrariamente a quello che questo mondo ci assicura. Certo non a buon mercato, perché a buon mercato, lo si sa oramai con una certa precisione, ci sono solo fandonie e surrogati di felicità, di cui tutti prima o poi assaggiano l’amarezza, compresi i giovani. Invece «è da riconoscere che non può darsi esistenza umana felice in alternativa a quella vissuta da Gesù Cristo» [31]. D’altra parte l’omissione di questo tema nella letteratura teologica corrente – e anche in quella di pastorale giovanile – «produce danni non irrilevanti» [32]. Emerge infatti «quanto gioverebbe alla pratica effettiva dell’esistenza cristiana, cioè dell’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo, la conoscenza della esistenza umana “felice” di Gesù Cristo» [33].
    Rimane evidente che la pastorale giovanile deve essere orientata in questo senso, di contro a una prospettiva triste, mortifi cante e quindi radicalmente anticristiana: l’intenzione fondamentale di un buon progetto di pastorale giovanile deve sempre essere «attraversato dalla preoccupazione di risultare una buona notizia, concreta, sperimentabile, per i giovani di oggi» [34].


    NOTE

    1 R. Tonelli - S. Pinna, Una pastorale giovanile per la vita e la speranza. Radicati sul cammino percorso per guardare meglio verso il futuro (Nuova biblioteca di scienze religiose 33), LAS, Roma 2011, pp. 21-22.
    2 Ibi, 14.
    3 Benedetto XVI, Omelia della veglia pasquale del 7 aprile 2012.
    4 Mt 28,19.
    5 Cfr. Paolo VI, Populorum progressio, n. 42; Benedetto XVI, Caritas in veritate, nn.
    55.79.
    6 Francesco, Evangelii gaudium, n. 115.
    7 F. Hadjadj, Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione (Il cortile dei gentili), Messaggero, Padova 2013, pp. 135.137.
    8 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 9; Francesco, Evangelii gaudium, n. 12.
    9 Ap 3,20-21.
    10 G. Colombo, Sulla evangelizzazione (Contemplatio 13), Glossa, Milano 1997, p. 46.
    11 Ibi, pp. 49-50.
    12 Ibi, p. 55.
    13 Ibi, p. 60.
    14 Ibi, p. 61.
    15 Cfr. Lumen gentium, n. 8.
    16 F. Hadjadj, Come parlare di Dio oggi?, cit., p. 124.
    17 P. Martinelli, La testimonianza. Verità di Dio e libertà dell’uomo (Diaconia alla verità 9), Paoline, Milano 2002, p. 7.
    18 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 76.
    19 E. Ceria, Vita del Servo di Dio don Filippo Rinaldi, SEI, Torino 1951, p. 443.
    20 Gv 1,14.
    21 2Cor 8,9.
    22 Mt 5,3.
    23 Lc 6,20.
    24 H. De Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa (Opera Omnia 9), Jaca Book, Milano 1979, p. 232.
    25 Conferenza Episcopale Italiana (Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali - Commissione Episcopale per la famiglia e la vita), ‘Il laboratorio dei talenti’. Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, n. 23.
    26 Francesco, Evangelii gaudium, n. 190.
    27 Cfr. A. Castegnaro (con G. Dal Piaz e E. Biemmi), Fuori dal recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013, pp. 144-147.
    28 Cfr. Mt 5,17-20.
    29 R. Cantalamessa, Le beatitudini evangeliche. Otto gradini verso la felicità, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, p. 39. Cfr. anche pp. 42, 52, 68 e 125.
    30 P. Barcellona, Incontro con Gesù, Marietti, Genova 2010, p. 63.
    31 G. Colombo, Sulla evangelizzazione (Contemplatio 13), Glossa, Milano 1997, p. 64.
    32 Ibi, p. 66.
    33 Ibi, p. 67. Cfr. J. Lauster, Dio e la felicità. La sorte della vita buona nel cristianesimo (Biblioteca di teologia contemporanea 134), Queriniana, Brescia 2006.
    34 R. Tonelli, Ripensando quarant’anni di servizio alla Pastorale Giovanile, «Note di Pastorale Giovanile», 5 (2009), pp. 11-65, 49.

    (La rivista del Clero italiano 9/2015, pp. 635-648)


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