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    La domanda su Dio

    è ancora sveglia

    Considerazioni pratiche
    sulla pastorale giovanile

    Hans Zollner


    C
    hi sono i giovani che frequentano i nostri ambienti cristiani? Da dove vengono, che cosa cercano? Come ottimizzare – con passi concreti – una trasmissione della fede adatta a loro? Cerco di dare risposte pratiche a partire dalla mia attività di assistente dei giovani. Come gesuita, guardo il mondo da una prospettiva ignaziana, così come appare dagli «Esercizi di S. Ignazio». Come psicologo, mi interrogo sui presupposti umani che favoriscono quella trasmissione della fede che trovi risonanza e porti ad una decisione di vita.

    Riflessioni, queste, che possono essere di stimolo affinché il lettore decida la sua posizione e i suoi passi da fare e che potrà tradurre conformemente alla sua sensibilità spirituale. La scansione dell’articolo in «esperienza», «riflessione», «azione» – che si rifà al modo di procedere degli Esercizi Ignaziani – suggerisce l’idea che l’attività spirituale, parimenti a quella pastorale, presuppone la disponibilità interiore a mantenersi allenati, prendere decisioni e rimettersi costantemente in cammino.

    Esperienza

    All’inizio del testo degli Esercizi Ignaziani (annotazione 23) si legge: «l’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e mediante questo salvare la sua anima; e le altre cose sopra la faccia della terra sono create per l’uomo, e perché lo aiutino nel conseguimento del fine per cui è stato creato». Si dice dunque da dove veniamo e come dobbiamo usare le cose del mondo così da raggiungere il nostro fine. Ma oggi? Qual è il quadro di riferimento nostro e dei nostri studenti? «Padre, qui si sente Dio in ogni istante». Era una calda giornata estiva e all’ombra degli alberi che circondano l’Eremo delle Carceri ci stavamo riposando dalla lunga marcia verso Assisi. Appena reduci dagli esercizi spirituali, io e i miei studenti universitari ci eravamo proposti di comporre un salmo che esprimesse il nostro rapporto con Dio vissuto in quelle ore. E questa che ho riportato fu la risposta di Christoph, non molto diversa da quelli degli altri suoi compagni. Ma ciò che mi colpì fu l’aggiunta, sua e degli altri: «Perché a casa (in Germania) Dio è così lontano?». Come lenti d’ingrandimento, le due espressioni fissano il modo di sentire e di rispondere alla fede che, a mio parere, è comune allo spirito dei giovani europei.
    Provo a tratteggiarlo così.

    * Mutamento nei valori. I bambini dei nostri oratori non provengono più da famiglie unite, vivono in nuclei familiari ristretti e respirano un ambiente socio-culturale che non è più compatto. Le persone di riferimento primario sono i loro compagni e abbastanza spesso anche gli insegnanti e gli educatori, così da poter dire che la scuola è diventata la loro casa. Nel mondo dei consumi, sono soffocati da impegni e sottoposti ad una miriade di informazioni non facilmente decifrabili. Diventati più grandi, anziché svilupparsi sulla scia di disposizioni e assetti adatti a loro, devono trovarsi da soli la propria via di senso, a volte assunta acriticamente dagli idoli e ideologie di destra o di sinistra. La cosiddetta liberazione dai tabù li ha allontanati dai criteri morali tradizionali. Fanno sesso senza che ciò si collochi o sfoci in una relazione duratura. Espressioni come «perseveranza», «lasciarsi formare», «rinuncia» sono problematiche ed evocano modi di relazione e identificazione a loro alieni. «È tutto qui dentro, sempre e dovunque». Alla «infantilizzazione» degli adulti si associa la precoce autonomia dei bambini che non hanno più il lusso di poter crescere per gradi.

    * I turbolenti cambiamenti di carattere della pubertà sono ormai una constatazione ovvia per la psicologia evolutiva. Per gli adolescenti è normale (!) vivere il tracollo dei fondamenti del loro mondo interiore precedente. «È una discussione continua; mia figlia non mi ascolta più; non so più che cosa fare»: è una lamentale ricorrente.
    Gli ideali di prima sono messi in dubbio; ne nascono di nuovi. Si ridisegna la propria identità non senza momenti di crisi e principalmente in riferimento ai pari. Il turbamento interiore inclina a cercare con barcollamenti emotivi: il che può produrre una personalità dai fondamenti solidi ma anche portare alla perdita dell’orientamento. Dalla prospettiva della psicologia delle motivazioni, salta agli occhi la limitata capacità di prendere posizione verso le dimensioni essenziali della vita. Il ciclo vitale non si sviluppa più su una linea sola ma chiede la ricomposizione unitaria di vari tasselli che a volte diventa uno zibaldone anziché un mosaico. «Sono passato al basket, il pallone non mi interessa più» diventa, più tardi: «ho interrotto ragioneria, passo a giurisprudenza e dopo incomincio informatica». Sono sparite la cause classiche della nevrosi –quelle che Freud aveva individuato nella compulsione indotta da regole rigide, nella repressione della sessualità o nei genitori autoritari – e al loro posto sono subentrate insicurezze e deficit negli ambiti più decisivi per un’identità stabile: orientamento sessuale, capacità di vivere i valori naturali quali il lavoro e l’amore, possibilità di relazioni, capacità di tollerare la tensione.

    * Della fede cristiana, anche i «nostri» giovani conoscono poco più di quelli che sono semplicemente i suoi segni e le sue esecuzioni operative. Quando non c’è contatto con i contenuti della fede, nel corso dello sviluppo cognitivo quasi immancabilmente si realizza una crisi nella fede in Dio. Dice un genitore: «Ho cercato di tenere mia figlia vicino alla Chiesa, ma adesso lei non ne vuole più sapere.
    La sua amica le ha parlato della teoria della reincarnazione e lei ci ha creduto subito.
    In che cosa ho sbagliato?». Karl Rahner parlava delle persone «rudi» alle quali bisognava far conoscere di nuovo la fede in Cristo. Data questa ignoranza, si capisce anche perché per molti giovani d'oggi la Chiesa è una realtà troppo lontana che non ha più neanche il potere di scuoterli.
    Conosciamo tutti la situazione in cui si trova chi vuole trasmettere la fede e che sfida la sua stessa identità. Come fare per impostare bene la questione? Come reagire alla delusione constatando che ciò che è fonte e centro del nostro esistere riesce a mala pena ad interessare ed entusiasmare gli altri? Come resistere alla tentazione di giocare al ribasso, verso un’animazione generica che riduce le indicazioni di Dio a note a margine? Non sarà tutto, ma per non cadere in soddisfazioni sostitutive o nel cinismo, dobbiamo imparare ad agire abbastanza rilassati con lucidità di mente e serenità d’animo, rinunciando ai bisogni di potere e riconoscimento.

    Riflessione

    Il mutamento dei valori e delle modalità usate per trovare il senso ha effetti positivi e negativi. Positivi: il rifiuto di un modello di uomo solo razionale, tutta testa e volontà in favore di una «intelligenza emotiva»; il passaggio dall’autoritarismocoercizione ad uno stile educativo che cerca di motivare e rendere corresponsabili; la ricerca di uno scopo con cui relazionarsi anziché subire per una protezione da ottenere; l’allergia all’esteriorismo delle pratiche religiose. Negativi: una vera e propria «fede» (!) nel principio di piacere («Mi piace, quindi lo faccio/lo voglio») e la venerazione per il proprio io («Faccio così, perché mi fa sentire al massimo»).
    D'altra parte i secondi non annullano i primi, altrettanto presenti. Anzi, spingono e tengono sveglia la domanda: «Chi mi ama davvero? Di chi posso aver fiducia? Che fare con la mia vita?».
    Di fronte a questo dialogo interiore del giovane, rispondere con comandi perentori lo irrita; ma anche replicare con discussioni senza fine lo annoia. Meglio fare un’altra cosa: provocazioni adeguate. Adeguate vuol dire che confrontano il giovane con specifici contenuti che sono credibili – e perciò convincenti – proprio in forza di quel contenuto, ma anche da un punto di vista umano, cioè costituiscono una valida garanzia di successo nella vita pratica. Si tralascia il primo aspetto quando, nella pastorale, si fa una «pedagogia delle chiacchiere» (quella che amoreggia con gli interessi superficiali e apparenti dei giovani e li insegue illudendosi di rispondere così alle loro domande profonde). Il secondo aspetto viene meno – come spesso capita – quando non si conosce o si finisce per trascurare il mondo «normale» in cui la gente vive, con l’assurda pretesa di insegnare la vita senza sapere con che contesto di vita il nostro interlocutore ha a che fare. Senza queste provocazioni adeguate il nostro asso nella manica («Possiamo credere nella vita perché Dio è con noi e ci ama») fa la fine del ritornello di una bella canzone. Ma dove, se non da noi, si può imparare a vivere bene? Questo contatto con la vita vissuta del giovane non significa scimmiottare le sue attività o fare come quel genitore che dice a suo figlio di non chiamarlo babbo ma amico. Occorre che il giovane, come noi, abbia preso contatto con lo strato ampio e profondo del messaggio di senso portato da Cristo. Prima di trovare le mediazioni, si devono formulare bene gli ideali e offrire con chiarezza e semplicità i fondamenti della fede. Non dovrebbero essere fatte per questo le nostre parrocchie, le nostre scuole e i nostri oratori? Azione Come tener viva la domanda su Dio e favorire un contesto per risposte esistenziali? I punti che seguono sono solo stimoli per riflessioni ulteriori. I giovani hanno bisogno di zone di contatto con la fede. È mia esperienza e convinzione che noi sappiamo creare quelle zone se osiamo presentare in modo conveniente ma chiaro la domanda su Dio, prendiamo decisioni conseguenti e ci manteniamo vincolati ad esse. Le zone di contatto qui sotto riportate mirano allo stesso scopo: avere e dare una visione via via più profonda e dinamica della domanda su Dio e farla rientrare nella vita vissuta.
    Si tratta «soltanto» (!) di raccogliere la nostalgia per Dio e dare un esempio di come riempirla.

    * «Tempo, pazienza, interessamento»: queste erano le cose che una studentessa mi aveva detto di aver appreso all’oratorio. Si tratta della zona del contatto personale con un interlocutore disponibile a fornire spazi protetti per ogni genere di domande personali. Nell’accompagnamento individuale il giovane può esplicitare la sua visione delle cose, vedere come l’educatore vive nel proprio intimo, come aiuta gli altri a ritornare in se stessi. Inoltre il giovane è aiutato a riconoscere i valori e i bisogni che lo animano, a riflettere sulle proprie esperienze ed è sfidato a trovare un equilibrio fra gli affetti e le conoscenze. È decisivo che l’educatore, al di là del ruolo, si renda concretamente raggiungibile, si lasci vedere, anche nei propri limiti.
    Non finisce mai di stupire quanto noi tentiamo di presentarci perfetti e diversi da quello che in verità siamo. La preghiera personale, gli esercizi spirituali annuali e il confronto spirituale con gli altri permettono all’educatore di lasciare la porta aperta affinché il giovane entri e veda come l’educatore vive partendo da Dio, come Gesù gli si presenta e lo incontra nelle diverse fasi della vita. È la «differenza dello spirito», e non le qualità personali, a renderlo credibile. È vero che non possiamo scegliere gli educatori secondo i nostri gusti ma una condizione minima ci vuole: l’apertura personale ai valori cristiani e l’anelito di una vita sempre più nello spirito.

    * Diventare uomini per gli altri: il volontariato non è un semplice incontrare chi ha bisogno ma un’occasione per imparare rapporti che sanano e aprono a nuove prospettive relazionali. La gioia del farsi prossimo a chi ha bisogno deve avere una ricaduta anche nel quotidiano abituale del giovane e lì tradursi in forme altrettanto cristiane: dal modo di gestire la sessualità al modo di relazionarsi con strati sociali differenti o al modo di reagire a lingue e culture diverse. Per non scivolare in una semplice attività filantropica, il coinvolgimento nel volontariato si accompagna alla riflessione e alla discussione dei fondamenti cristiani dello stare insieme, veicolati dalla catechesi e dalla riflessione sulle domande religiose e politiche.

    * Come la comunità stessa dei giovani vive e si esprime è un’altra mediazione. I grandi raduni collettivi o le attività diocesane a grande effetto hanno un potere formativo se collegate ad un cammino di fede che le precede e le segue. È sempre sorprendente vedere che in quelle occasioni i giovani accettano come evidenti le proposte religiose, ma una volta rientrati nei loro ambienti recuperano la timidezza di prima, anziché ritornare con un motivazione più profonda ad assumersi responsabilità e compiti anche nel quotidiano delle loro parrocchie.

    * Per la pastorale giovanile si impongono, sulle altre, due domande: chi è Dio e che cosa è l’amicizia con Gesù. Le due domande sono da adattare alle esigenze dell’età, dato che ad ogni fase del ciclo della vita corrispondono interessi diversi: quelli sull'identità personale e la relazione (all’età di 12-14 anni) e quelli sul confronto personale con le richieste evangeliche (a 15-17 anni). Ma queste domande evolutive diventano formative se legate al progetto di fondo di voler trovare le chiavi della vita secondo la logica di Cristo. Per questo, dunque, vanno collegate e inserite nel cammino d’iniziazione cristiana.

    * Anche la partecipazione liturgica diventa formativa se legata alla vita pratica e capace di attivare un’esperienza di senso. Quindi, da happening o rito formale ad una preparazione della liturgia ma anche alla liturgia, con la meditazione, la confessione e il digiuno.
    Ciò che ho voluto dire è che, dalla mia esperienza, lavorare con i giovani richiede coraggio. Sono convinto che in loro la domanda su Dio è viva e sentita come importante per la propria esistenza. Ma domandare non basta. Perché la domanda porti frutto ha bisogno di educatori pazienti ed esigenti, comprensivi e coerenti, credibili e consapevoli della via verso Dio, compreso ciò che le è di ostacolo. Le vie sono molte ma non tutte di uguale affidabilità. A volte le scegliamo con lo stato d’animo di Pietro sulle onde in tempesta: a partire dalle nostre difficoltà e perplessità anziché a partire da uno sguardo verso il Signore che ci rende abili a dare ad altri indicazioni su come incontrare Dio.
    Se ci spaventa l'idea di essere mediatori per i giovani, sarà difficile che altrove ne trovino altri.

    Che fare con i giovani che hanno nostalgia di Dio, ma non sanno «dove» incontrarlo?

    Cinque mediazioni in breve.

    1. Educatori non perfetti, ma credibili.
    Credibile non significa «impeccabile», ma portatore di uno stile di vita insieme desiderabile e coerente. L’educatore ha qualcosa da offrire perché propone uno stile che incarna la perennità del Vangelo, ma anche in «edizione» per l’oggi. Da una parte si offre, testimoniando che il Vangelo propone una vita bella, e dall’altra fa percepire che accogliere il Vangelo nella vita la rende unificata, non schizofrenica, dove per essere cristiano non viene chiesto di rinunciare ad essere un giovane del proprio tempo.

    2. Il servizio come sfida ad una visione più ampia.
    Quando il volontariato non scatena la crisi e non provoca ad una ridefinizione di se stessi, allora si limita ad essere una medaglia in più da appuntare sulla propria divisa. Le esperienze di servizio devono essere adeguate, cioè di «qualche gradino più in alto» di quello in cui la persona si definisce. Sono educative quando mettono in contatto con il limite: non per umiliare ma per attivare il senso della sfida e il desiderio di infrangere il confine cui ci si trova davanti.

    3. Il gruppo, luogo di elaborazione del senso.
    È facile condividere gli ideali e cantare insieme quando si è in tanti. Più difficile guardarsi negli occhi per mettere a confronto le proprie scelte pratiche. Il gruppo e la comunità giovanile svolgono un ruolo di mediazione se sono luoghi di elaborazione, anche sofferta e combattuta, del senso; luoghi dove l’educatore chiede a ciascuno di «uscire dalla tana» e mettere a disposizione di tutti il proprio giudizio sulla realtà, la propria interpretazione di cosa significhi essere cristiani oggi.
    Attraverso la crisi e l’aggressività il gruppo diviene una mediazione autentica, altrimenti rimane la culla de-responsabilizzante.

    4. L’ultima parola sulle parole.
    È il linguaggio il luogo che forgia il senso e, come ben si sa, i giovani tendono a creare un proprio linguaggio che non è solo l’insieme delle parole che usano ma un tipico modo di definire la propria cultura, a volte «contro», più spesso omologata benché rivestita di diversità. Il Vangelo esige di essere l’ultima parola sulle parole, o meglio ancora, la prima: quella che dà fondamento alle altre. Per questo, anche se la catechesi giovanile privilegia una via antropologica, l’incontro-scontro con il Vangelo non può essere rimandato per motivi pedagogici.

    5. Dal rito formale all’esplosione simbolica.
    La liturgia mette a disposizione parole e gesti che intendono far dialogare la vita con il mistero che la avvolge. Utilizzarne i simboli senza che siano ponti fra mistero e vita pratica significa buttarli via: il rito è corretto e bello, ma la vita dei giovani è altrove. È là, in quella distanza che può apparire difficilmente superabile che il simbolo si deve e si può collocare grazie alla sua ricchezza di significati. Ogni simbolo è portatore di un grappolo di significati, pur rimanendo unica la sua matrice.
    Sfruttandoli tutti, la vita viene celebrata nella liturgia e la liturgia fa esplodere le sue potenzialità.

    (Tredimensioni 3(2006) 151-158)


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