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    Giovani in ricerca

    Riccardo Tonelli



    1. La prospettiva

    Possiamo analizzare la situazione attuale dei giovani, definire fino a che punto essi sono veramente in ricerca e, soprattutto, cosa stanno cercando, da molti e differenti punti di vista. Per correttezza, devo dichiarare su quale prospettiva intendo collocare la mia riflessione.
    Non sono né un sociologo né uno psicologo. Mi interesso, da tanti anni, delle questioni che riguardano l’educazione dei giovani alla fede e lo faccio all’interno di una scelta di campo che considero qualificante e urgente per ogni studio di pastorale giovanile: lo stretto rapporto esistente tra i processi che riguardano l’educazione in senso stretto e l’annuncio, deciso e coraggioso, del Signore Gesù, unico nome in cui avere vita e speranza. Considero questo orientamento un modo di fare teologia per la pastorale giovanile oggi.
    Immagino che questa mia collocazione sia la ragione dell’invito che mi è stato rivolto e che mi onora.
    Mi chiedo dunque, da quella esplicita prospettiva pastorale che ho appena descritto, se nei giovani di oggi esiste un atteggiamento di ricerca, verso quali obiettivi esso è eventualmente orientato, come possiamo educarlo (generare, orientare e consolidare), quale responsabilità ci compete per non mandare in nessun modo deluse queste attese.
    Devo dichiarare un’altra opzione per assicurare quella collaborazione critica che mi sembra fondamentale per ogni ricerca che riguardi cose serie e impegnative.
    Riconosco che qualsiasi progetto di pastorale deve nascere da un confronto sull’esistente. La cosa è oggi pacifica. Le differenze nascono sulla qualità del confronto e sulla sua utilizzazione nell’organizzazione del progetto. Considero inadeguato un doppio atteggiamento: assumere l’esistente come il punto di partenza da cui dedurre le conseguenze operative, o, al contrario, valutarlo come il dato da superare, l’ostacolo che chiama a raccolta le energie.
    Per assicurare una comprensione sapiente dell’esistente da parte di noi educatori, mi piace in concreto utilizzare la categoria della “sfida”. Con l’espressione “sfida” in questo contesto intendo una interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La “sfida” è, di conseguenza, un contributo e una provocazione: una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita a intervenire coraggiosamente.
    Stimo la scelta urgente, perché ho l’impressione che abbiamo bruciato tempo e risorse nel discutere, in questi ultimi decenni, sul rapporto tra domande e risposte, senza trovare soluzioni adeguate alla dialettica tra deduzione e induzione, tra proposte forti, sconnesse dalla realtà, e rassegnazione esasperata.
    Nell’orizzonte di questa prospettiva, che dà il senso e il limite della mia proposta, affronto il tema che mi è stato affidato.

    2. Quali giovani?

    Oggi la condizione giovanile è segnata dalla complessità e si frammenta in differenti tipologie. Se le cose stanno così, molte questioni sorgono spontanee: cosa significa, in una situazione come è questa, parlare dei giovani? Con quali giovani ci misuriamo? A chi diamo credito?
    Scelgo, come referenti, “tutti” i giovani, e cioè l’universo giovanile nella sua globalità. Lo so che si tratta di una pretesa quasi assurda, soprattutto quando si passa dalla “quantità”, organizzata in percentuali, alla “qualità” e alle linee di tendenza, come vorrei fare io.
    Per elaborare almeno un poco la difficoltà, spendo qualche battuta per precisare la mia posizione.
    È interessante e urgente confrontarsi con i giovani più sensibili e impegnati, quelli che ormai hanno saputo elaborare la loro esistenza, governando sapientemente i profondi cambi culturali che la segnano.
    Dare credito ai giovani non significa però ascoltare solo questi giovani. Spesso essi non rappresentano la situazione tipica dell’essere giovane in questo tempo. Indicano una prospettiva matura… ma spesso lontana da quella normale e diffusa.
    Anche i giovani più quotidiani hanno tante cose da dirci, proprio nella nostra preoccupazione di dare volto e parola al Dio di Gesù che vogliamo incontrare e far incontrare.
    Non possiamo contrapporre gli uni agli altri. Dobbiamo raggiungere “tutti”. E abbiamo bisogno di una categoria di interlocutori che ci restituisca questa possibilità e ci rassicuri sulla validità del percorso.
    Per riuscire a realizzare questo approccio complessivo, credo di dover preferire i più marginali, i meno sensibili, quelli che ci lanciano più preoccupazioni che consolazioni. Questi “poveri” rappresentano, per me, quella categoria egemone capace di offrire la presunzione motivata di comprendere effettivamente tutti.
    Inoltre, per fare seriamente riferimento a tutti i giovani, colloco l’essere giovane nel tempo che stiamo vivendo, cercando di interpretare i riflessi che da questo dato oggettivo rimbalzano sui giovani.
    Mi spiego.
    Essere giovani è una tappa decisiva dell’esistenza, carica dei suoi limiti e ricca delle sue potenzialità. La giovinezza è però fortemente influenzata dal tempo e dal contesto in cui viene vissuta. Il fatto di vivere oggi, in questo determinato tempo e luogo, rappresenta una specie di denominatore comune che attraversa e supera le altre differenze classiche. In altre parole, la giovinezza non può essere descritta adeguatamente solo dai tratti psicoevolutivi come da quelli somatici, ma si richiede una forte attenzione all’influsso culturale. Essa rende i giovani di questo tempo giovani molto diversi dai loro coetanei di altri tempi e non ci permette più un riconoscimento adeguato solo dai contributi delle discipline normalmente incaricate di offrirci descrizioni.
    Persino le caratteristiche psicologiche sono modificate e influenzate dal contesto di vita concreto e quotidiano. Per questo non possiamo parlare dei giovani senza porci in ascolto attento del tempo che stiamo vivendo e dell’influsso che esso esercita.
    Lo so che non esiste questo giovane “astratto”. Esistono quelli che hanno ormai saputo elaborare sapientemente la crisi della stagione in cui viviamo, quelli disimpegnati e disincantati che affollano le nostre piazze, i troppi giovani disperati che scherzano tranquillamente con la morte o quelli che invece stanno ansiosamente cercando frammenti di futuro e orientamenti di senso.
    Per non raccontare storie troppo personali, difficilmente generalizzabili sull’universo giovanile, preferisco dialogare con una situazione culturale che mi autorizza a fare riferimento a tutti i giovani, nel nostro oggi sociale e culturale.

    3. Una ricerca di senso e di speranza

    Precisato il referente, posso affrontare la questione messa a tema: i giovani di questo nostro tempo, che abitano il nostro mondo occidentale, ricco e scontento, sottoposti alle mille seduzioni di un’esistenza decentrata e manipolata, sono in stato di ricerca, cosa cercano, con quale livello di consapevolezza stanno cercando qualcosa?

    3.1. Questo nostro tempo…
    Per comprendere la situazione dei giovani sono sollecitato ad allargare lo sguardo verso questo nostro tempo. Il suo influsso segna fortemente l’essere giovane.
    I Vescovi italiani hanno invitato le comunità ecclesiali italiane ad un impegno speciale per il prossimo decennio sulla educazione e sulla sua qualità. La scelta è motivata sulla constatazione dell’attuale “emergenza educativa” ed è sviluppata in un interessante documento programmatico “Educare alla vita buona del Vangelo”. Mi ispiro a queste riflessioni per offrire qualche battuta interpretativa della stagione culturale che stiamo attraversando. Lo faccio perché le indicazioni sono preziose per comprendere la situazione giovanile attuale dal punto di vista dei valori e degli atteggiamenti e, dunque, in chiave educativa.
    Sulla bocca di tutti corrono i giudizi pesanti sulla situazione sociale e culturale che stiamo vivendo. I Vescovi non vogliono ripetere lamentele, esagerando magari i toni per farsi applaudire dai nostalgici. Il documento ha scelto un’altra prospettiva: si guarda d’attorno e chiede a tutti una forte capacità di “discernimento”.
    L’invito al discernimento richiede l’attenzione disponibile alla realtà, per non smarrire nella sua analisi nessun frammento di essa. Sollecita però, con la stessa intensità, verso una disponibile collocazione personale.
    Leggendo quindi la realtà in quello sguardo penetrante che sa cogliere ciò che inquieta e ciò che spalanca verso il futuro, il documento va alle cause e spalanca l’attenzione sui possibili esiti. Soprattutto coglie e valuta l’esistente a partire da un atto di fiducia sull’uomo, sulla storia, sul mistero di un progetto di speranza che è più forte delle delusioni e delle degenerazioni. Produce esiti di speranza anche quando deve constatare i segni di disperazione e si lascia inquietare dalla vita di ogni persona, come la cosa che conta di più.
    In questa opera di discernimento viene lanciata la sfida: l’emergenza educativa.
    Noi accogliamo abitualmente le ragioni di senso e di speranza, le prospettive di futuro e gli inviti alla responsabilità nel presente, attraverso quella relazione che mette in accoglienza reciproca le persone, soprattutto assicura il dialogo dei giovani con le generazioni che li hanno precedenti (genitori, anziani, educatori). Siamo in emergenza quando si rompe questa relazione e non sappiamo più dove andare a ritrovare le ragioni per vivere e per sperare.
    Cito alcune annotazioni interessanti: “Considerando le trasformazioni avvenute nella società, alcuni aspetti, rilevanti dal punto di vista antropologico, influiscono in modo particolare sul processo educativo: l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività. Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative. Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione. Ciò si riflette anche nello smarrimento del significato autentico dell’educare e della sua insopprimibile necessità. Il mito dell’uomo “che si fa da sé” finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’“emergenza educativa”, il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa io nella relazione con il tu e con il noi” (9).
    Questa situazione condiziona fortemente l’essere giovani. Esiste un atteggiamento comune che attraversa la giovinezza. Lo chiamo una profonda, diffusa situazione di “orfanità”. È orfano chi è privo del padre o della madre. In molte nazioni, devastate dalla guerra, sono davvero molti i giovani senza genitori. Da noi, per fortuna, non è così. Molti giovani sono orfani, sperduti nel deserto della vita quotidiana, perché c’è una orfanità per eccesso di genitori. Cambia persino il numero fisico dei padri e delle madri. Ma soprattutto siamo circondati da proposte che fanno di tutto per prendere il posto dei nostri genitori nella pretesa di darci ragioni di futuro e di speranza. Persino per vendere le cose più banali o solo funzionali, è chiamata in causa la qualità e il senso della vita: qualcuno entra con violenza nella nostra esistenza e pretende di dirci chi siamo e come dobbiamo vivere.
    Non possiamo però vivere senza padri e madri autorevoli e significativi. In questa situazione il futuro si fa incerto e la speranza va in profonda crisi. E così dall’orfanità molti cercano di uscire nella disperazione o nel disimpegno. Le esperienze forti funzionano da nuova proposta di paternità.

    3.2. “L’ospite inquietante”
    Dalle nostre parti – senza eccessiva distinzione di collocazione culturale e valoriale – ha fatto molta fortuna il libro del noto filosofo Umberto Galimberti L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli editore, uscito nel 2007 e alla nona edizione già nel 2008).
    Parla dei giovani, della loro ricerca più profonda. E interpreta con categorie attente, di respiro fondamentalmente culturale, la situazione di “emergenza educativa” di cui dicevo.
    Riporto una affermazione che anticipa molto bene tutta la sua proposta.
    “Un libro sui giovani: perché i giovani, anche se non sempre ne sono coscienti, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
    Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché permette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.
    […]
    E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato” (pagg. 11 e 12).
    Il ritratto è tragico. Chi conosce i giovani e li frequenta, andando leggermente al di là del piccolo cerchio ristretto degli impegnati, fa poca fatica a riconoscerlo dolorosamente realistico.

    3.3. La rottura della scansione temporale
    Il primo frutto di questa presenza inquietante è proprio la rottura della tradizionale scansione temporale, un modo nuovo di collegare presente, passato e futuro.
    La scansione tradizionale partiva dal passato per aprire il presente verso il futuro. I giovani di oggi sono tutti concentrati sul presente. Il futuro è incerto e angosciante. Le radici nella memoria del passato sono estremamente deboli. Di conseguenza sono molto deboli le relazioni intergenerazionali con gli adulti. Si passa così dall’assenza degli adulti nella funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale alla scelta, diffusa e consolidata, di una relazionalità con i pari età nella crescita personale.
    La trasformazione della temporalità produce l'indebolimento dell'asse verticale del tempo e un contemporaneo straordinario rafforzamento dell'asse orizzontale dello stesso tempo. Solo il presente sembra avere un valore ed un senso. La vita appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato.
    In questa trasformazione della temporalità, le generazioni tendono sempre più ad isolarsi all'interno del loro segmento temporale, indebolendo il legame della solidarietà in-tergenerazionale nel presente. La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione.

    3.4. L’esperienza religiosa
    Tra i temi di una possibile ricerca da parte dei giovani merita un’attenzione speciale la dimensione – cercata e vissuta – dell’esperienza religiosa della vita.
    Ci interessa in modo speciale anche per l’intenzionalità di fondo, educativa e pastorale, della nostra riflessione.
    Non mi convince l’affermazione che i giovani del nostro tempo siano in ricerca di esperienze religiose, di spiritualità, di proposte forti e coinvolgenti. Mi sembra una valutazione parziale, che privilegia alcune manifestazioni o tende a generalizzare su alcuni soggetti privilegiati. Forse pesa eccessivamente il mondo delle nostre attese o la nostalgia dei felici ritorni.
    L’affermazione è complessa e va presa con ampio beneficio d’inventario. È facile, infatti, e ben giustificato contrapporre a questa valutazione che può sembrare pessimista la fotografia dei due milioni di giovani che hanno vissuto l’ultima “giornata mondiale della gioventù” di Madrid (come le altre precedenti e le moltissime iniziative locali e regionali). Siamo, per esempio, tutti rimasti ammirati dalla capacità di interiorità, contemplazione e silenzio da parte dei giovani presenti a Madrid.
    Esistono anche affermazioni autorevoli e ben documentate che possono confermare l’esistenza di quell’atteggiamento che sto, invece, relativizzando.
    Rilancio però la mia valutazione.
    Molti protagonisti di questa intensa rinascita religiosa fanno parte di quei giovani fortunati che sono stati aiutati a superare le tensioni del tempo che stiamo vivendo. La constatazione rappresenta una preziosa indicazione di prospettiva pastorale. Ma io, come ho ricordato, vorrei fare sinceramente riferimento a “tutti” i giovani e non solo a quelli bravi che ci ripagano con consolazioni non piccole.
    Spesso, nello stesso tempo, è facile constatare che anche questi giovani sono segnati dalle logiche culturali del nostro tempo. Vivono la ricerca di esperienze religiose secondo le modalità tipiche dell’oggi: soggettivizzazione e disincanto, disponibilità e autonomia, separazione tra confessione di fede e scelte etiche.
    Altre due ragioni mi orientano verso la constatazione.
    La partecipazione a manifestazioni giovanili è ormai un dato di costume, giocato su molte frontiere. Non possiamo di sicuro attribuircelo in esclusiva.
    Non mi convince poi chi fa riferimento a quel ristretto universo di giovani nostalgici dei modelli del passato, talvolta con una radicalità preoccupante… presenti all’interno di tutte le confessioni, religiose, politiche, culturali.

    3.5. Una ricerca, affannosa e disturbata, di senso e di speranza
    Ritorno così al titolo che ho scelto per il paragrafo, aggiungendo due caratterizzazioni qualificanti l’essere giovane in questo tempo.
    Interpretando, con amore lucido, il vissuto giovanile attuale, affermo la presenza di una diffusa domanda di senso: quello che tutti i giovani cercano, anche nelle espressioni più disturbate, riguarda il senso e la speranza, ragioni di vita e di futuro e la rassicurazione che conforta ogni piccola quotidiana conquista. Constato però che questa ricerca di senso è affannosa e spesso disturbata. Significa che non corrisponde ai nostri parametri spontanei ed esige, almeno in molti casi, una coraggiosa scommessa educativa per definirla in questo modo.
    Questo è consolante e impegnativo. La diffusa crisi attuale e la inquieta domanda giovanile interpellano noi adulti e soprattutto noi educatori della fede a quel livello di profondità competente ed esigente, in cui possiamo radicare veramente la riconquista di una relazione perduta.
    Non sono d’accordo con le conclusioni a cui giunge lo studio già citato: “E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità […]? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l'esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto del vivere come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità e nell'esplicitarle e vederle fiorire secondo misura” (pag. 14).
    Non mi sembra davvero la prospettiva più praticabile e promozionale, come cercherò di mostrare in seguito. Intanto stimo urgente sollecitare ad una presa di responsabilità, soprattutto per noi adulti educatori, fondata e sollecitata dall’interpretazione del grido dei giovani.
    Si tratta di un “grido”, forte, verso noi adulti: un dono che non ci lascia tranquilli e che ci carica violentemente delle responsabilità che non possiamo certamente scaricare su altri e che, nello stesso tempo, ci fa scoprire che è tempo di camminare coraggiosamente assieme, condividendo gioie e inquietudini.
    I vecchi modelli non funzionano più. Ripercorrono le strade superate e aumentano il disagio dell’orfanità. Qualcuno stenta a capirlo. I giovani ci chiedono invece di essere adulti nuovi, capaci di camminare con loro e di condividere la ricerca e l’esperienza del senso e della speranza. In fondo… ci fanno un dono impensabile: ci chiamano a diventare sempre più padri e madri, sapendo generare al senso e alla speranza.

    4. Tempo felice e impegnativo per la pastorale giovanile

    Non posso accontentarmi di ricostruire una specie di fotografia dell’essere giovani in questo tempo e della qualità della loro ricerca di senso e di speranza, organizzando frammenti di interpretazione dell’esistente.
    Mi muovo in una esplicita e decisa scelta educativa e pastorale. Per questo considero i fatti e anche la loro interpretazione come una “sfida”. Non possono cioè rappresentare l’ultima e conclusiva parola, ma solo una preziosa interpellanza. Ci indicano dimensioni da non smarrire, mettendo sotto giudizio anche quello che poteva apparire decisamente consolidato e quasi immutabile.
    In quest’ottica considero quello che ho appena constatato una preziosa opportunità per la pastorale giovanile.
    Sul problema della vita, del suo senso e di quell’insuperabile minaccia alla vita che è la morte, la fede cristiana, infatti, è chiamata a misurarsi. Continuare l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli significa, in concreto, annunciare il Vangelo dentro questi problemi, con la preoccupazione che questo annuncio risuoni veramente come «bella notizia».
    Due sono di conseguenza i compiti di un progetto di pastorale giovanile, impegnato per la vita e la speranza.
    Da una parte, esso si preoccupa perché cresca in ogni giovane la ricerca di ragioni per vivere e per sperare. Su questa linea diventa urgente una educazione che abiliti a vivere a braccia alzate, nella trepida ricerca di due braccia robuste, capaci di afferrare la nostra fame di vita e di felicità. La comunità ecclesiale incoraggia e sollecita questo atteggiamento esistenziale. Lo sostiene con i giovani che lo stanno spontaneamente sperimentando; lo scatena in quelli che hanno rimosso ogni confronto con la morte, da figli succubi di questa nostra cultura, che non si pongono più alcun problema di senso.
    Dall’altra, la comunità ecclesiale ripensa al Vangelo per restituirgli la forza di salvezza «dentro» e «per» la vita quotidiana.
    Il primo compito ci pone in compagnia con tutti coloro che cercano ragioni di vita e di speranza, per reagire in modo consapevole a quella situazione di strana rassegnazione che porta alla disperazione o al disimpegno.
    Il secondo compito richiede un coraggioso e urgente salto di qualità.
    Una lunga tradizione teologica e pastorale sembra stranamente spingere in direzioni diverse. Basta pensare a come, purtroppo, abbiamo utilizzato il confronto con il dolore e con la morte nei processi educativi e pastorali. Diventa urgente, per realizzare correttamente i compiti della pastorale giovanile, riscoprire l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. L’annuncio non è mai un vuoto gioco di parole, verificato sui parametri della congruenza formale tra soggetto e predicato. I fatti sono la prima e più eloquente parola. Le parole della verità interpretano i fatti. Per questo, la pastorale giovanile si pone, immediatamente, in atteggiamento critico nei confronti di modelli di spiritualità tradizionali… quelli della “fuga mundi”, per intenderci e ne cerca, affannosamente, di alternativi.
    Le comunità ecclesiali, non attente all’esistente o eccessivamente autoreferenziali, sono costrette ad accontentarsi di coloro che sono rassegnati ad ascoltare qualsiasi proposta e si consolano facilmente contando quelli che ci stanno. Si dimentica troppo facilmente che in un tempo di crisi e in una stagione di orfanità diffusa, chiunque parli con un briciolo di entusiasmo… qualche sciocco disposto ad ascoltarlo lo trova sempre.
    Dando voce a tante esperienze in atto in molte comunità ecclesiali, rilancio alcune linee operative che riguardano i due compiti appena ricordati, nella prospettiva del senso e della speranza che li unifica.

    4.1. Superare lo schema domanda – proposta
    Considero importante analizzare la situazione attuale per constatare come e su quali temi sono in ricerca i giovani di oggi. Ma non è un’operazione sufficiente. Lo stato della loro ricerca non può determinare la qualità della nostra proposta, sia quando la ricerca appare alta e consolante per le nostre prospettive educative e pastorali, sia quando è poco accentuata o risulta orientata verso direzioni che possono giustamente inquietarci. E neppure possiamo aspettare che nasca la domanda per poter offrire le risposte: il bisogno di accogliere e educare le domande per dare sensatezza alla risposta, ha scatenato tempi processuali molto lunghi o rilanciato i vecchi modelli autoritari e deduttivi.
    È tempo di immaginare un’alternativa seria, che colga la ricchezza dell’esperienza e ne controlli i limiti.
    Si tratta di far crescere la domanda, restituendola ai protagonisti in modo più pieno e consapevole… quasi portando a pienezza quello che è presente solo in modo germinale. Soprattutto vanno ripensate le proposte, per restituire ad esse la forza di “bella notizia” e la capacità di scatenare la domanda stessa.
    Come? In una cultura della oggettività, il diritto e la possibilità di collocare una proposta dove si cerca e si produce il senso della vita, era segnato prevalentemente dalla discriminante vero/falso. Quando una proposta era oggettivamente vera, possedeva il diritto di essere offerta con decisione. Al diritto del proponente corrispondeva il dovere di ogni persona saggia di accogliere. Al massimo, difficoltà e resistenze erano tollerate sul piano della prassi spicciola, per rispetto della costitutiva debolezza dell’uomo.
    Oggi – ci piaccia tanto o poco o nulla - le logiche sono molto diverse. La discriminante è tracciata sulla frontiera della significatività. Solo quello che è sentito come soggettivamente significativo, perché si colloca dentro gli schemi culturali che una persona ha fatto ormai propri, merita di essere preso in considerazione. Ci si interroga sulla verità solo dopo aver risposto affermativamente alla domanda della significatività. Quando la proposta è avvertita come poco espressiva, è fuori gioco, perché è fuori dal gioco personale.
    È facile costatare i limiti dei due modelli. Meno facile risulta l’invenzione di alternative. Possiamo sperimentare come alternativa la fatica di percorrere la via della significatività per accedere a quella della verità?

    4.2. Educare la domanda verso l’invocazione
    In una stagione come è la nostra e in dialogo con i giovani del nostro tempo, ho ripensato il centro di un progetto di pastorale giovanile attorno alla categoria della “invocazione”. Essa aiuta ad aprire ogni possibile domanda verso il mistero e suggerisce l’urgenza di offrire proposte che sappiano spalancare ulteriormente la domanda stessa.
    Prima di tutto, devo precisare il significato che attribuisco all’espressione “invocazione”. Lo dico con una immagine: gli esercizi al trapezio, che abbiamo visto, tante volte, sulla pista dei circhi.
    In questo esercizio l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. Ad un certo punto protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.
    Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L’esperienza dell’invocazione è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle. Nell’esercizio al trapezio nulla avviene per caso. Tutto è risolto in un’esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte. Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.
    L’invocazione rappresenta, nella mia ipotesi antropologica, il livello più intenso di esperienza umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.
    L’invocazione è un’esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo essa è già esperienza di trascendenza, spinta verso il mistero dell’esistenza.
    Lo è ai primi livelli di maturazione. L’uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sul l’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.
    Lo è soprattutto nell’espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde nel l’accoglienza del mistero della vita. Ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.
    Il consolidamento e lo sviluppo della capacità di invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l’influsso dell’ambiente culturale e sociale in cui essa si svolge. Abbiamo bisogno di restituire all’uomo una qualità matura di vita; e lo facciamo entrando, con decisione e competenza, nel crogiolo dei molti progetti d’uomo sui quali si sta frantumando la nostra cultura.
    Non tutto però può essere ridotto a interventi solo educativi. L’educatore credente sa che senza l’annuncio di Gesù Cristo e senza la celebrazione del suo incontro personale, l’uomo resta chiuso e intristito nella sua disperazione. Per restituirgli veramente felicità e speranza, siamo invitati ad assicurare l’incontro con il Signore Gesù, la ragione decisiva della nostra vita. Questo incontro è sempre espressione di un dialogo d’amore e di un confronto di libertà, misterioso e indecifrabile. Sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio.
    Di qui la convinzione: l’invocazione è una esperienza di vita quotidiana, frutto di intelligenti processi educativi. Può essere educata. Viene educata però in due modalità che possono apparire all’opposto. Viene educata quando l’educatore opera sui germi iniziali di invocazione e attiva processi capaci di svilupparli, fino ad un esito soddisfacente. Viene però educata anche quando l’educatore che fa proposte, ponendo davanti alla persona il mistero in cui la nostra vita è avvolta e la sua personale esperienza di questo mistero, evangelizza, con decisione e coraggio, rispettando modalità comunicative capaci di suscitare libertà e responsabilità.
    Sono consapevole che la vita quotidiana, nel suo ritmo normale, è carica di germi di invocazione. Per questo ogni domanda e ogni esperienza si porta dentro frammenti di invocazione. Va accolta, educata e restituita in autenticità al suo protagonista.
    L’evangelizzazione, nello stesso tempo, quando risuona dentro la ricerca di senso che attraversa ogni esistenza, può scatenare questo processo di maturazione dell’invocazione; lo sa provocare in coloro che vivono ancora distratti e superficiali; lo satura in coloro che sanno ormai esprimere autenticamente la loro voglia di vita e di felicità.
    Educhiamo all’invocazione per permettere alle persone di spalancarsi sul mistero annunciato. Evangelizziamo il Dio di Gesù per dare pane a chi lo cerca e sorgenti d’acqua fresca all’assetato; ma lo annunciamo con forza e coraggio per far crescere la fame e la sete di pienezza di vita.

    4.3. “Inventare” un nuovo linguaggio: dal “matematichese” all’ “amorese”
    Quale modello comunicativo… in questo tempo dove sembrano riaffiorare nostalgie per le affermazioni sicure, articolate, perentorie?
    Qui si colloca un nuovo urgente intervento.
    I modelli comunicativi possono essere immaginati distesi in una specie di piattaforma linguistica, che ha un suo centro e una sua periferia. Solo quando collochiamo il nostro linguaggio all’interno di questa piattaforma condivisa, possiamo realizzare una comunicazione corretta: capace di rendere in modo corretto i contenuti e, nello stesso tempo, tale da permettere agli interlocutori il confronto, la condivisione e la decisione sul merito della proposta.
    All’interno della stessa piattaforma ci sono però diverse collocazioni. Il nostro linguaggio ne deve scegliere una, orientandosi tra le differenti posizioni. La decisione di quale sia questa collocazione dipende dalla natura dell’oggetto comunicato e dalla funzione che si intende riservare alla comunicazione stessa.
    La comunicazione di regole matematiche, le norme giuridiche e quelle economiche esigono formulazioni denotative precise ed esigenti. La scelta di altre modalità risulterebbe a scapito della comunicazione stessa. Le dichiarazioni di amore, la poesia e l’arte si collocano alla periferia di questa piattaforma: dalla modalità denotativa ci si sposta decisamente verso quella evocativa, dove prevale il riferimento all’oggetto attraverso giochi di libertà e responsabilità molto personali. Al centro della piattaforma si richiede la ripetizione delle formule. Alla periferia prevale la loro invenzione… misurata sull’evento che si vuole condividere.
    Il linguaggio quello che utilizziamo per condividere le esperienze fondamentali dell’esistenza e del senso nella grande esperienza di Gesù di Nazareth, per l’oggetto di cui riferisce e per l’intenzione che regola il rapporto interpersonale, è sempre di frontiera… Non solo non può collocarsi al centro della piattaforma linguistica assumendone logiche ed esigenze (come fosse una espressione giuridica o economica). Ha persino bisogno di sporgersi oltre il confine naturale… per poter rendere più efficacemente presente l’evento comunicato. Ha le sue regole. E le deve osservare. Ma sono quelle di un linguaggio di frontiera e non quelle di un linguaggio di centro della piattaforma linguistica.
    Quando diciamo che Dio ci ama… non possiamo assolutamente pretendere un linguaggio denotativo, come se formulassimo regole matematiche o giuridiche. Siamo davanti ad un gioco di libertà e responsabilità, che nasce dall’esperienza di chi condivide qualcosa della sua esistenza e si preoccupa di suscitare nuovi eventi esperienziali.
    L’accento sull’esperienza come fonte delle informazioni pone innegabili problemi… ma è difficile immaginare scelte diverse.
    L’esperienza si traduce in parole che interpretano e dicono solo una parte di ciò che è stato sperimentato. Abbiamo bisogno di parole autorevoli e consistenti per dare una risonanza più ampia al vissuto personale dell’annunciatore. Se queste parole non fanno riferimento all’esperienza di chi le pronuncia, suonano come vuote e insignificanti.
    La conseguenza è immediata. Riguarda la “lingua” adatta per questo tipo di comunicazione. Va cercato e sperimentato un tipo di linguaggio capace di assicurare al massimo una autentica interpretazione dell’esperienza.
    Con una espressione… provocatoria, propongo un invito preciso, verso un modello linguistico nuovo: quando parliamo di senso e di speranza, dobbiamo affrettarci a dimenticare la lingua che utilizziamo per altre comunicazioni, per sperimentarne, apprenderne, utilizzarne un’altra, molto diversa.
    La lingua da dimenticare è… il “matematichese”: lo strumento linguistico attraverso cui comunichiamo le informazioni, sicure e precise, del centro della piattaforma linguistica (le nozioni di matematica e le norme giuridiche…).
    Quella da apprendere e utilizzare è l’ “amorese”: lo strumento linguistico attraverso cui, con parole e segni, diciamo ad altri il nostro amore, la nostra stima, i nostri progetti di vita. Essa è la lingua tipica della “linguaggio di frontiera”. Ed è, del resto, è la struttura dei Vangeli, il racconto dell’esperienza fatta stando con Gesù, che i discepoli consegnano a tutti, perché la vita incontrata diventi vita e speranza anche per noi.

    4.4. Fatti interpretati dalle parole
    La nuova lingua, da sperimentare e utilizzare nel gioco tra attese e proposte, è costituita da un intreccio di fatti e parole. I fatti stanno prima delle parole. Le parole interpretano i fatti.
    Produrre fatti di speranza significa rendere possibile l’evento che deve accadere e che attendiamo con ansia per la nostra vita quotidiana, riempiendo il presente della prospettiva gioiosa del futuro.
    Lo si può dire, facendo riferimento ad uno degli annunci più solenni di speranza e, nello stesso tempo, tanto lontani dal diventare anticipazione, almeno a livello generale.
    Penso alla grande promessa messianica di Isaia (le spade… trasformate in aratri, i bambini e i danni fisici, il leone che si nutre di paglia…): senza fatti… queste parole suonano come una triste presa in giro, visto che le cronache riferiscono che le cose vanno spessissimo nella direzione contraria.
    Produrre fatti di senso e di speranza comporta il coraggio di un’inversione di tendenza. Possiamo annunciare questo futuro di speranza solo impegnandoci a rendere possibile e sperimentabile, almeno nel piccolo, quello che attendiamo, attraverso una presenza concreta, coraggiosamente innovativa, che sia capace di “indurre” fattivamente l’evento.
    A livello giovanile… le “spade” da trasformare in aratri sono le capacità personali, la simpatia e la bellezza, la padronanza della parola e la sua incisività… Diventano “aratro” quando tutto questo è posto al servizio della promozione di tutti, della gestione nuova del gruppo, della condivisione e del servizio.
    Qualcuno deve mostrare che tutto questo è possibile.
    Nella grande compagnia dei discepoli di Gesù e degli uomini di buona volontà… possiamo incontrare questi concreti “qualcuno”: Gesù di Nazareth, che si lascia inchiodare sulla croce per mostrare chi è più forte, i santi, rilanciati in un martirologio aggiornato che offra progetti di spiritualità affascinanti per l’oggi, gli uomini e le donne che possiamo incontrare sulle strade della nostra vita, di cui spesso si tace perché l’accento corre solo su personaggi più famosi.

    5. Senza chiudere i buchi nei recinti…

    La riflessione sulla qualità della ricerca giovanile ha riportato, ripetutamente, l’attenzione verso l’adulto e la sua responsabilità educativa.
    Qui sta veramente il nodo del problema. La soluzione è da inventare, per costruire alternative, concrete e verificabili, tra il silenzio e l’alzare eccessivamente la voce, tra l’autoritarismo vecchia maniera e quello sfrontato permissivismo che trova tanti adulatori.
    Ce lo possiamo raccontare con una simpatica parabola, tutta evangelica anche nella strana conclusione:
    Una pecora scoprì un buco nel recinto
    e scivolò fuori.
    Era così felice di andarsene.
    Si allontanò molto e si perse.
    Si accorse allora di essere seguita da un lupo.
    Corse e corse,
    ma il lupo continuava ad inseguirla,
    Finché il pastore arrivò
    e la salvò riportandola amorevolmente all'ovile.
    E nonostante che tutti l'incitassero a farlo,
    il pastore non volle riparare il buco nel recinto [1].


    NOTA

    [1] DE MELLO A., Il canto degli uccelli. Frammenti di saggezza nelle grandi religioni, Paoline, Milano 1986.


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