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     Evangelizzare oggi

    Armando Matteo


    M
    i piace avviare la riflessione con una citazione di Walter Kasper: “Ognuno di noi ha già incontrato uomini a cui sembra mancare ogni antenna, quando parliamo di Dio. […] Nelle forme almeno e nelle formule, nelle quali la fede si articola secondo la Chiesa, essa non trova più rispondenza con i loro problemi ed esperienze” (Introduzione alla fede, Brescia 1985, 32).

    Mi pare ben azzeccata questa immagine di uomini e di donne – soprattutto giovani – che non hanno alcun antenna per recepire quanto ne va di Dio in quella ricerca di una vita riuscita che tocca ogni essere umano. Ed è per questo, che mancando di antenne, la fede cristiana è diventata agli uomini e alle donne di oggi estranea.
    E questa è per noi, ministri del vangelo, un’esperienza di ferita.
    La contemplazione e la considerazione, infatti, da una parte, un mondo che molto dis-perde inseguendo illusioni e falsi idoli, e dall’altra, un tesoro, quello del Vangelo, che appare quasi messo da parte come cosa passata, che nulla abbia più da dire e da dare, lacerano il nostro vissuto, ferendoci.
    Ed è una ferita destinata a rinnovarsi, ogni volta che, proclamando o predicando il Vangelo, noi prendiamo coscienza di come Gesù non sbagli mai un colpo, nell’indicare ciò che custodisce e promuove l’umano e nello stigmatizzare ciò che lo deturpa e ne offusca l’originaria bellezza e destinazione.
    Questo è, mi pare, il luogo dell’evangelizzare oggi: luogo di un vulnus di fronte ad una civiltà per molti aspetti alienata e per tanti altri aliena nei confronti del Vangelo.
    Senz’altro non desidero negare i molteplici lati positivi di questo nostro tempo. Io stesso non saprei più vivere senza Internet o senza il cellulare o senza il benessere diffuso o senza le medicine ed i mezzi di trasporto odierni, ma registro pure che il costo di tutto ciò sul senso della vita sia davvero alto, perché questi strumenti incidono non solo sul livello quantitativo dell’esistenza (possiamo fare più cose e più velocemente), ma sul livello qualitativo (affrontiamo diversamente la nostra vita). E quando tutto ciò viene vissuto, come normalmente capita, in modo frenetico, senza cautele e attenzioni, senza il riscontro di un’istanza critica, allora queste stesse positività degli strumenti e delle condizioni attuali rischiano di essere risucchiate nel cono delle energie negative pur presenti in essi.
    Ed è esattamente in relazione a queste ambivalenze che la parola del Vangelo, oggi, sarebbe tanto “utile”, eppure proprio essa resta dis-attesa.
    Se ora focalizziamo la nostra attenzione al mondo dei giovani, mi sembra di poter dire che, dal punto di vista della religione cristiana, ci troviamo di fronte alla prima generazione “incredula”, che cioè appunto non possiede alcuna antenna rispetto alla parola del Vangelo. Declinano la loro esistenza secondo una mentalità che è in forte contrasto con quella tradizionale, ampiamente gravitante nell’ambito del cristianesimo. Hanno ricevuto dalle loro famiglie e dall’ambiente vitale un’iniziazione alla vita, al suo senso e valore, che non prevede alcuna antenna per Dio. Certo, sarebbe interessante ricostruire le fasi e le articolazioni di questo sommovimento dello spirito umano, ma non abbiamo il tempo.
    [È la questione dell’avvento della mentalità postmoderna, la quale, nel suo costituirsi, si è liberata di alcune delle matrici fondamentali della civiltà occidentale, su cui finora ha fatto leva il cristianesimo per l’inculturazione e per l’annuncio del vangelo].
    Dal punto di vista dell’annuncio della fede, dunque, le famiglie non offrono più alcuna iniziazione alla convenienza umana del Vangelo; dall’altro lato, l’attuale configurazione dell’azione parrocchiale presuppone ancora la fede in chi le frequenta. Non sono per nulla ospitali per i non credenti e per i non ancora credenti. Non sono per nulla attrezzate a diventare luoghi di mistagogia, di un primo contatto con l’esperienza della preghiera e dell’aver fede. Che cosa davvero offrono nella quotidianità a questa prima generazione incredula?
    Rispetto a questo destinatario, cioè a questo soggetto “estraneo” alla fede cristiana, almeno nella sua versione tradizionale, come pensare il tema dell’evangelizzazione?
    [è questa certamente la sfida di oggi. Sfida difficile, ma non impossibile: se, infatti, uno è estraneo ad una certa realtà, in verità è anche libero per essa, per vederla senza pregiudizi di sorta e senza precomprensioni fuorvianti].
    Le questioni aperte:
    Che cosa significa “credere”?
    Quale vangelo per l’uomo postmoderno?
    Ha ancora un significato la pre-evangelizzazione?

    Che cosa significa credere?

    Potrebbe apparire una domanda scontata addirittura oziosa, ma non dovremmo mai dimenticarci che esiste una sproporzione quanto la riflessione teologica ha definito in merito (cf DV) e una certa diffusa immagine del credere nella vita concreta delle comunità. Per molti ancora oggi credere significa accogliere come vera una serie di “dogmi”, cioè di proposizioni che superano la capacità umana di comprenderle. Si ha quindi una concezione “didattica” del credere ed una “nozionistica” della rivelazione: Dio avrebbe rivelato alcuni pensieri ed il credente dovrebbe accettarli senza alcuna discussione. Significa poi rispettare alcune regole e accedere ai sacramenti.
    Sappiamo bene invece che credere è imparare a guardare e a vivere il mondo, la propria umanità e Dio secondo Gesù, secondo cioè quel particolare atteggiamento esistenziale che ne ha contraddistinto la vita, la morte e la risurrezione. [cfr i libri di Pagazzi]
    L’esperienza credente trova esattamente in Gesù le istruzioni per vivere la vita che ci è stata affidata con quell’apertura e quello slancio di amore, con quell’accoglienza e prossimità all’altro e a Dio, che caratterizzano una vita buona e ricca di gioia. Colui che crede sa – dovrebbe sapere – che la cura della sua vita e la cura della sua fede sono sostanzialmente un medesimo affare e che solo nella misura in cui si lascia plasmare dai sentimenti che furono in Cristo Gesù (cfr Fil 2,5) riuscirà ad apprezzare in pieno l’avventura meravigliosa dell’esistenza umana: riuscirà cioè a conquistare il mondo senza perdere l’anima.
    La proposta di vita cristiana, del resto, non intende ridurre o negare la libertà umana, ma presentare Gesù quale modello di una libertà che trova nel gesto dell’amore la sua più alta e completa configurazione. Siamo, in fondo, liberi proprio per amare.
    Credere significa accettare che l’unica cosa che vale nella vita, perché resta dopo e oltre la morte, è l’amore che sappiamo offrire; accettare che tutto il resto sia secondario e che nessuna cosa al mondo potrà fino in fondo riempire gli orizzonti della nostra libertà se non l’amore, questo è credere.
    Giustamente il Card. Newman ha affermato che il cristiano crede, perché ama: “We believe, because we love”.
    Perché allora insisto sulla questione del credere? Perché la strada più promettente per pensare l’evangelizzazione oggi non può che passare attraverso la definizione del soggetto credente. Più concretamente, le verifiche del vissuto pastorale dovrebbero risultare illuminate dalle seguenti domande: Quale credente viene fuori (dovrebbe venire fuori) dall’insieme delle nostre azioni pastorali? Quale tipo di credente, insomma, “produce” la mia parrocchia, la mia associazione, la mia diocesi? È un tale credente all’altezza del tempo che viviamo? Quali cristiani sogniamo per il nostro oggi e per il nostro domani?

    Quale Vangelo per l’uomo postmoderno?

    Abbiamo detto che la proposta cristiana trova il suo centro nel presentare Gesù quale modello di umanità, di libertà, di compimento. Utilizzando un’immagine molto semplice, si potrebbe dire che il Vangelo è il libretto delle istruzioni sull’umano, un libretto che, come già introduttivamente accennato, oggi non appare per nulla interessante. Per nulla conveniente. Nel suo libro Dio e la felicità, il teologo protestante Lauster ha incisivamente scritto: non è forse vero che moltissimi oggi ritengono che chi cerca la felicità deve cercarla altrove rispetto al cristianesimo?
    Qui è il nodo tra evangelizzazione e sensibilità culturale attuale: viviamo in un tempo in cui la promessa di redenzione del cristianesimo non è più percepita in tutta la sua forza di umanizzazione. È ad altro che la gente fa riferimento nella gestione del suo vissuto feriale, con risultati non sempre felici. Che cosa posso dire in sintesi?
    Per prima cosa dobbiamo riconoscere con tutta onestà che lo stare al mondo dell’uomo sia diventato oggi più complesso che nel passato.
    La svolta verso la mentalità postmoderna, con la netta presa di distanza dal sapere tradizionale sull’umano ha certo il sapore di una liberazione da tanto attesa e finalmente realizzata: la rinuncia a norme e a condotte morali valide per tutti ed in pratica per nessuno, offrendo esse poco rispetto per le mille sfaccettature delle condizioni singolari di ciascuno, la sovversione di un progetto di vita che fondamentalmente puntava all’accettazione dell’esistenza in vista di ciò che le sta oltre, ed infine lo scioglimento della libera espressività del soggetto dall’inquadramento in strutture di sapere, di ordinamento politico e sociale decise dall’alto e da altri, hanno certamente allargato l’orizzonte di libertà degli uomini e delle donne di oggi più che in qualsiasi altro momento della civiltà umana. Nello stesso tempo, la postmodernità ha attivato il desiderio di una prassi sensibile, puntuale, attenta, la speranza di una riconciliazione intramondana con l’esistenza, ed infine il progetto di una convivenza civile e sociale che non faccia ricorso alla sola forza della legge, la quale troppo sovente si trasforma in legge della forza. Tutto ciò in vista di una vita buona e degna di essere vissuta. Ma il mutamento rapidamente descritto e le corrispondenti attese impegnano il soggetto umano molto più che nel passato.
    Lo stesso atteggiamento contemporaneo di un posizionamento più kairologico e singolare alla propria esistenza risulta più difficile che in passato, esattamente perché si è rinunciato alla possibile ispirazione derivante da modelli interumani di riferimento. La libertà del singolo deve giudicare non solo di una specifica azione, ma deve inventarsi un’intera costellazione di significati al cui interno accedere di senso il suo agire tout court.
    Vivere oggi è dunque diventato più difficile. Lo sa molto bene la pubblicità con la sua ossessiva predica di una vita “bella” acquistata sotto prezzo, grazie alle cose di cui ci si dovrebbe circondare per aumentare la propria amabilità, grazie alle “occasioni” di viaggio e di divertimento che alleggerirebbero il peso di una vita troppo lunga, e grazie infine alle mille pillole che ridanno salute, vigore, gioia. Lo sa bene il mondo della comunicazione, che ogni mese consacra questo o quello stile di vita come vincente, questo o quest’altro maître à penser, scrittore, cantante, presentatore, per poi metterlo rapidamente da parte come i lettori fanno con il quotidiano. Ed il messaggio resta sempre lo stesso: riuscire nella vita non è poi tanto difficile. Tutti noi, ovviamente, sappiamo che le cose non vanno così, ma spesso vorremmo credere di aver torto.
    Qui il nostro rischio è quello dell’ingenuità, di presentare un cristianesimo scialbo e smidollato.
    Certo, il cristianesimo trova esattamente qui la sua specifica collocazione: non intende altro che servire la vita, alleggerirla dei pesi di cui incosciamente la carichiamo, elevarla dalle bassure in cui inevitabilmente la incastriamo, purificarla dalle storture che le applichiamo. Ma fa ciò, non nascondendo mai la serietà e la severità dell’esistenza umana: parla infatti di una vita da salvare, di una libertà da convertire, di un male da respingere, di un cammino da percorre e di una conversione alle ragioni del bene che mai almeno in vita può dirsi conclusa. È davvero versione “dura” della vita umana, che però invita a scoprire come dono e compito, come avventura e travaglio, cui è prossimo addirittura Dio stesso. Fa ciò, infatti, predicando la parola di Gesù come traccia di una vita vivibile e degna di non venire sciupata.
    Ma come predicare tutto ciò in nel tempo dell’estraneità dalla fede?
    Ritengo che l’attuale stagione culturale vada accolta dal cristianesimo come occasione per diventare un’istanza di verifica e di controcanto profetico nei confronti dell’uomo contemporaneo, perché non perda le sue conquiste, non soccomba alle sue invenzioni, e soprattutto non trasformi le energie positive che ha riscoperto in potenze negative che pure ha risvegliato e che in ogni caso evoca ogni cambiamento radicale come è quello che da almeno quarant’anni sta vivendo l’Occidente.
    Questo possibile compito profetico di istanza di verifica, tuttavia, richiede che, per la stessa fede cristiana, il confronto con la mentalità attuale diventi invito pressante per il discernimento sempre necessario tra ciò che è vivo e ciò che è morto nella continua opera di inculturazione del Vangelo che ogni generazione di cristiani è chiamata a realizzare.
    A mio avvisto, si tratta di “immaginare” un nuovo paradigma per il cristianesimo, capace di essere e dar voce a ciò che l’uomo di oggi, nella sua frenesia dietro alle troppe pretese e alle pretese del troppo, spesso dimentica o mette a tacere; un cristianesimo capace di una descrizione contrastante della contingenza, in vista di una sua benedizione; un cristianesimo lungimirante, dotato di solida competenza critica, all’altezza di un controcanto deciso e decisivo rispetto agli slanci e alle sconfitte, alle conquiste e alle delusioni, dell’uomo del nostro tempo; un cristianesimo chiamato a pensare l’impensato, a dire il non detto, ad ascoltare l’inaudito ed in tutto ciò a promuovere l’inedito delle promesse di Dio.
    Da questo punto di vista, vi è una grande opera di nuova inculturazione che deve accompagnare quella dell’evangelizzazione.

    Ha ancora senso parlare di pre-evangelizzazione?

    Giungiamo così alla terza questione: ha ancora senso parlare di pre-evangelizzazione? Ritengo di sì. Se infatti abbiamo detto che credere è convertire la propria libertà ai e secondo i sentimenti di Cristo, allora la verità di Cristo che intende onorare ed elevare la libertà non potrà imporsi contro di essa o sostituendosi ad essa. D’altra parte la destinazione della libertà umana alla verità di Cristo non accade mai in modo neutrale, da zero, fuori da mediazioni culturali, nelle quali si dà sempre l’esercizio della libertà. È in fondo la dinamica del desiderio che media tra libertà e verità.
    Da questo punto di vista accanto ad un’opera di nuova inculturazione del messaggio evangelico – e ritengo che ve ne possano essere anche più d’una - è pure necessario “colmare” lo spazio vuoto lasciato dall’opera delle famiglie e delle parrocchie nell’iniziazione al cristianesimo. La convenienza/verità del Vangelo non appare alla coscienza se questa non dispone di alcuna antenna per accorgersene. Non vi è un automatismo. Ovvero può anche ricordare qualcosa, ma non avrà ancora la forza di quella conversione della libertà che è il vero significato del credere. Di quale antenna stiamo parlando? A quale disposizione della libertà stiamo accennando?
    Il Vangelo – ovvero la proposta di vita che il vangelo disegna dinanzi alla nostra vita – può diventare significativo solo se, in un qualche momento, il soggetto abbia deciso di prendersi cura di se stesso, solo se in qualche misura ha deciso di volerci bene. Ed un tale amore per sé, potrà nascere solo se non ci si limita a vivere, ma ci si sforza di accompagnare con un giudizio la vita, le cose che si compiono, le conquiste che vengono realizzate, le sconfitte che vengono raccolte. Insomma solo se pensiamo la (nostra) vita, possiamo amarla. E solo se l’amiamo, possiamo abbracciare il Vangelo, cioè credere. Pensare, amare, credere: questi tre verbi designano l’orizzonte di una vita che riconosce la straordinarietà del suo esserci, ma anche la fatica di onorare il dono che siamo a noi stessi. Se pensiamo la vita, l’amiamo e se l’amiamo, la proposta di vita cristiana diventa davvero interessante. Se tra me e la mia vita non c’è un gesto di attenzione, di pensiero, allora anche se dico di credere, in realtà intendo solo un vago affetto per quel Gesù vissuto alcuni secoli fa e che ha proclamato alcune cose intorno a Dio e all’umanità, ma ciò non potrà incidere davvero. Potrei paradossalmente sapere il Vangelo a memoria, ma se non decido di pensare e amare la vita, non posso credere.
    Quando invece provo affetto per me, per la mia esistenza, per il fatto che non sono infallibilmente attrezzato a cogliere ogni buona occasione e a sfuggire quelle cattive, quando provo tenerezza per la bellezza della vita, ovunque essa si manifesti, e soprattutto quando la vita mia ed altrui mi appare al di sotto delle sue reali possibilità, allora, nel diventare consapevole del bisogno umano di una luce, di un libretto delle istruzioni per la vita, il Vangelo mi diventa interessante. Qui si capisce perché il vero nemico della fede sia la superbia, l’arroganza: in fondo l’idolatria e l’autoidolatria. Chi si sente “un dio” (della logica, dei soldi, della bellezza) evidentemente non sa che farsene di Dio e dell’offerta di una comunione con Lui. È l’idolatria il vero nome della non-credenza. Non senza ragione ha scritto M. Scheler: «l’uomo crede a Dio oppure in un idolo. Non si dà una terza possibilità! (der Mensch glaubt entweder an Gott, oder er glaubt an einen Götzen. Kein Drittes!)». E a questo punto affiora anche il senso drammatico della decisione di credere, perché senza umiltà, senza consapevolezza del proprio limite, senza il riconoscimento del bisogno di una luce altra con cui indirizzare la mia esperienza di libertà, il Dio di Gesù Cristo non ha nulla da dirmi e da darmi. Non solo. Credere in un tale Dio significa anche “scomunicare” tutto ciò che fino a quel momento avevo ritenuto come “dio” della mia vita: e abbattere gli idoli non è mai cosa semplice. Ieri come oggi.
    Da questo punto di vista pre-evengelizzare significa sia rendere la coscienza sensibile alla frequenza del Vangelo – la frequenza di una vita “in pienezza” – sia ad aiutare il soggetto a liberarsi dai falsi idoli presenti nel suo cuore. Concretamente si tratta di avviare percorsi di riscoperta dell’umiltà e della povertà dell’essere umano, della fragile grandezza della libertà umana, dell’amore per il bene.
    Rientra nella pre-evangelizzazione tutto ciò che aiuti i giovani a pensare e ad amare la vita. Dobbiamo pertanto con più generosità riflettere sulla solidarietà di pensare-amare-credere.
    Per tutto questo ritengo oggi sia necessario avere più coraggio e mi piace concludere con un testo di Kasper, con il quale mi ero introdotto: “Giovanni XXIII nel suo celebre discorso di apertura del concilio Vaticano II ha parlato del futuro con un ottimismo che oggi ci sembra quasi ingenuo ed ha promesso alla Chiesa una nuova pentecoste. Dopo questa fase, relativamente breve, di fioritura, la Chiesa ha tuttavia ripreso ad aver paura del suo proprio coraggio. Si ha ora di nuovo paura del rischio, che libertà e futuro comportano, e ci si è votati in larga parte ad un’opera di conservazione e di restaurazione. Tuttavia se la Chiesa diventa l’asilo di quanti cercano riposo e riparo nel passato, non deve meravigliarsi se i giovani le voltano le spalle, e cercano il futuro presso ideologie e utopie di salvezza, che promettono di riempire il vuoto che la paura della Chiesa ha lasciato libero” (ivi, 63).


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