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    Evangelizzare

    (il) postmoderno

    Armando Matteo


    S
    convolge la dismisura esistente tra i trent'anni passati da Gesù nel più profondo anonimato a Nazaret e la brevità della sua missione pubblica. Di quel periodo gli evangelisti ci riportano solo brevi notizie, ma quello è stato il tempo di un fecondo apprendistato presso l'uomo del suo tempo, che ha consentito a Gesù di individuare, al momento opportuno, la giusta chiave d'accesso al cuore e alla mente dei suoi contemporanei. Gli ha permesso quella profonda compartecipazione alla storia dell'uomo della porta accanto, quella lucida presenza di spirito alla vita concreta, spicciola, così che mai le sue parole risuonarono astratte, distratte, indifferenti, semplici luoghi comuni, intellettualistiche o enigmatiche.

    Basta, infatti, sfogliare qualche pagina dei vangeli per afferrare la straordinaria misura con la quale Gesù ha saputo scendere dentro i dettagli della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, con una concretezza e una precisione che hanno preservato il suo insegnamento, che resta la sua prima e fondamentale opera di evangelizzazione, da qualsivoglia deriva dottrinalistica e ideologica.

    La scuola di Nazaret

    La lunga sosta di Nazaret - vera incarnazione nell'incarnazione - gli ha consentito di insegnare agli uomini a riconoscere la presenza di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella bellezza non artificiale dei gigli dei campi. E soprattutto in quel di "più" con cui l'Abbà - Padre suo e Padre nostro - si prende cura della creatura umana, che arriva sino all'impensabile della conoscenza del numero dei capelli che portiamo in capo! .
    L'esperienza di Gesù, profondamente innestato nell'ambiente umano del suo tempo, discepolo anonimo dei suoi stessi discepoli futuri, diventa un paradigma fecondo per pensare in termini precisi il metodo e lo stile dell'evangelizzazione contemporanea.
    Come Gesù, bisogna abitare questo tempo, cercando di definirne i contorni e i motivi profondi. Specificatamente, si tratta di cogliere le linee congiunturali che segnano l'oggi della storia e misurare gli spazi di accoglienza che potrebbero riservare alla verità dei misteri cristiani. Si tratta insomma di imparare ad evangelizzare il postmoderno. evangelizzando postmodernamente, con uno stile di annuncio capace non solo di parlare del e al mondo (= destinatari) postmoderno, ma il. mondo (= sintassi) postmoderno.
    Ciò postula la decifrazione dei marcatori più forti della postmodernità e una loro intensa interrogazione. Solo sostando su di essi, si possono cogliere quegli spiragli capaci di indirizzare efficacemente l'opera di evangelizzazione in presenza di una nuova fase della modernità, ancora più radicale di quella precedente, il che giustifica l'espressione "ultramodernità". Nella precedente tappa si è verificata la separazione (formale o de facto) del potere religioso e di quello politico, nonché l'estromissione di ogni trascendenza della religione dallo spazio sociale globale. La fase ulteriore che stiamo vivendo oggi consiste nell'espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare un'istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell'assoluto e dell'intangibile proviene dalla religione. Nella modernità, tuttora legata ai "grandi discorsi", viene trasferito in un ordine sociale e naturale che mantiene un'impronta religiosa attraverso il carattere assoluto del loro fondamento estremo. Nell'ultramodernità non vi è più alcun assoluto, alcun ordine che si imponga a tutti».[1]

    "Non c'è più religione"

    Non è certamente semplice "dare nome" alla nostra epoca, nella quale siamo chiamati a ridire la bellezza e Ia pertinenza umana della parola del Vangelo, ma è un'operazione indispensabile.
    Ci sembra opportuno partire da un'espressione molto comune, la cui analisi ci può aiutare a cogliere il volto del nostro tempo: "non c'è più religione". Essa è frequentemente usata per nominare gli inediti contorni di un mondo che non risponde più ai comandi di una saggezza antica, informata essenzialmente all'immagine religiosa dell'esistenza offerta dal cristianesimo. Trattasi di bizzarri abbigliamenti, di nuove forme gergali, di improvvise interruzioni di scelte di vita una volta definite "per sempre" (matrimonio o consacrazione religiosa), di scandali che coinvolgono persone sino allora al di sopra di ogni legittimo sospetto, il colto e il semplice trovano proprio nella locuzione citata - "non c'è più religione" - lo strumento più adeguato per manifestare il proprio disorientamento e disagio di fronte al tempo che vivono.
    L'espressione, però, dice molto di più di quanto non si creda in prima istanza: coglie in semplicità e pertinenza la risultanza complessiva di quella svolta, mutamento, rivoluzione, che chiamiamo avvento della postmodernità. Con esso, infatti, accade il tempo in cui non è più possibile istituire una qualche forma di visione religiosa sulla propria vita e sul mondo. Siamo nell'epoca della fine della religione, nella quale non è più offerta al soggetto umano una tavola condivisa di riferimenti, di valori non negoziabili e gerarchicamente strutturati, con la quale valutare e ordinare l'esercizio della sua libertà e alla quale legare il proprio desiderio di una vita buona e felice.
    Con le parole di F. Lenoir possiamo dire: “Ci troviamo chiaramente in presenza di una nuova fase della modernità, ancora più radicale di quella precedente, il che giustifica l'espressione "ultramodernità". Nella precedente tappa si è verificata la separazione (formale o de iure) del potere religioso e di quello politico, nonché l'estromissione di ogni trascendenza della religione dallo spazio sociale globale. La fase ulteriore che stiamo vivendo oggi consiste nell'espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare un'istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell'assoluto e dell'intangibile proviene dalla religione. Nella modernità, tuttora legata ai "grandi discorsi", viene trasferito in un ordine sociale e naturale che mantiene un'impronta religiosa attraverso il carattere assoluto del loro fondamento estremo. Nell'ultramodernità non vi è più alcun assoluto, alcun ordine che si imponga a tutti».[2]
    Ecco qui indicata la cifra con la quale possiamo nominare il nostro tempo: ci troviamo un tempo definitivamente postreligioso, un tempo nel quale vengono a cadere le condizioni di possibilità perché possa darsi qualcosa come una "religione".[3]
    La nostra è l'epoca della fine della religione. Questo rilievo sintetico intende segnalare quella destrutturazione cui è sottoposta la concezione classica dell'uomo, dei legami familiari, della società, dell'etica e della politica, e ovviamente del cristianesimo, che non rende più possibile un'organizzazione strutturata del cosmo interiore del soggetto in corrispondenza con l'ordine socio-culturale vigente e in vista della sempre difficile missione di dare un nome al proprio mestiere di vivere.
    Più concretamente: l'imporsi di un'ontologia del finito e l'abbandono della metafisica, l'affermarsi di una visione "vitalistica" dell'esistenza e il crollo dell'immaginario sacrificale, l'avvento di una mentalità profondamente democratica e pluralistica e la diminuita forza di credibilità delle istituzioni pubbliche (che tocca profondamente il valore dell'insegnamento magisteriale della chiesa. nel senso della sua fatica a innescare nei credenti comportamenti inerenti alle istruzioni offerte) sono i nomi delle cause che segnano la scomparsa della religione.[4]
    Ovviamente questo si ripercuote in modo amplificato e profondo sul cristianesimo. Per usare un concetto oramai diffuso, si può e si deve parlare di definitivo tramonto della cristianità.[5] Con le parole trasparenti dei nostri vescovi, possiamo dire: «Da tempo la vita non è più circoscritta, fisicamente e idealmente, dalla parrocchia; è raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi il campanile che svetta sulle case è segno di un'interpretazione globale dell'esistenza. Non a caso si è parlato di fine della "civiltà parrocchiale", del venir meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa. Noi riteniamo che la parrocchia non è avviata al tramonto; ma è evidente l'esigenza di ridefinirla in rapporto ai mutamenti, se si vuole che non resti ai margini della vita della gente».[6]
    Ecco il punto nodale: la difficoltà che il cristianesimo oggi soffre è esattamente quella di presentarsi come un'interpretazione globale dell'esistenza, cioè come una religione. Ciònon manca di manifestarsi negativamente nella vita delle persone, le quali, private di un orientamento globale di senso, spesso non restano solo ai margini della vita ecclesiale, ma ai margini della vita tout court.
    Ha scritto lucidamente C. Magris: «In Italia, e anche in altri paesi, folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura, cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e dei passi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere».[7]
    Come, allora, poter annunciare il liberante messaggio dell'amore di Dio all'uomo contemporaneo?

    Evangelizzare il tratto antimetafisico della postmodernità

    La presenza dell'uomo nel mondo è oggi guidata da una decisa opzione per la finitezza dell'esistenza.. non si crede più al mondo platonico delle idee., all’esistenza di valori trascendenti e normanti l’esperienza della libertà, non si allarga più lo sguardo oltre la morte, Tutto ciò che è, è finito.
    Ma cosa comporta questa svolta antimetafisica della cultura occidentale? Certamente ci sono i risvolti legati all'affermarsi di una cultura sensibile-sensuale, che promette a tutti l'immediato godimento della vita e l'illusione di non sprecare alcuna occasione, con i tanti esiti tragici di cui spesso siamo impotenti testimoni; ma non c'è solo questo. La svolta antimetafisica comporta, per esempio, anche una precisa rivalutazione del finito quale luogo degno dell'umano, luogo cioè abitabile dall'uomo. Non si deve più "disprezzare" il finito, illimitato, per onorare la vocazione trascendente (la sua ex-sistentia) dell'uomo. E cosa non dire poi del tema della corporeità, degli affetti e dei legami, e infine della sessualità, sottoposti qualche volta ad un trattamento non generoso da parte della tradizione platonico-cristiana? .
    Come può ora il cristianesimo intercettare questa affermazione così decisa dell'umana abitabilità del finito? Come può ancora parlare di Dio e di trascendenza in questo contesto?
    La provocatorietà e l'irritazione connessa alla presa di coscienza della svolta antimetafisica devono spingere la teologia a riscoprire la grammatica trinitario-kenotica dell'evento dell'incarnazione. Non si tratta certamente di una scoperta dell'ultima ora: il cristianesimo è fondamentalmente segnato dalla logica del già e del non ancora. Si tratta piuttosto di cogliere il tempo presente come un invito a porgere l'annuncio del volto cristiano di Dio lasciandosi maggiormente istruire dalla scuola di Nazaret.
    Il Dio che noi annunciamo, infatti, dichiara per primo non solo l'umana abitabilità del finito, ma anche e più sorprendentemente la divina abitabilità del finito. Nell'evento dell'incarnazione ne va della verità cristiana: è quello il luogo in cui imparare Dio, il suo nome e soprattutto il suo stile. Dio è, per i cristiani, secondo Gesù! Il cristianesimo è esperienza di Dio secondo Gesù: credere è assumere lo stesso sguardo di Gesù relativamente a Dio, all'uomo e al mondo. Gesù mostra a noi il volto del Dio-Trinità, dal cui abbraccio in-finito prende origine la tenerissima cura con la quale Dio accompagna la . faticosa avventura della singolare esistenza di ognuno di noi.
    Di più: Gesù è il volto di Dio che sa abitare il finito e che non si presenta sulla scena della storia umana con i segni di una gloria cui nessuno saprebbe resistergli. Egli rivela ed è, e rivela perché è, un Dio cui l'uomo può sfuggire. Dio sa abitare la distanza che la libertà dell'uomo impone: Dio non è irresistibile. Si offre alle nostre mani. Accetta la logica del finito: la logica della libertà, sino in fondo, sino alla croce. Ma, nello stesso tempo, svela che ciò che è finito è più che finito. Proprio nell'evento dell'incarnazione, infatti, Gesù rivela anche I"ampiezza (il di più) della nostra libertà: possiamo accogliere o rifiutare Dio stesso. Ed è sulla formidabile pertinenza umana della prima opzione che il cristianesimo è chiamato a giocare la sua partita.

    Evangelizzare il tratto antisacrificale della postmodernità

    Nel tempo passato, segnato da numerose situazioni di miseria e di bisogni non sempre soddisfatti, l'esercizio della libertà era molto compresso e compromesso. Basterebbe pensare al limitato raggio di azione nella scelta dell'uomo o della donna da sposare, del tipo di mestiere da esercitare o anche semplicemente del luogo dove abitare. Per questo si veniva iniziati al mistero della vita attraverso la sofferta indicazione che l'esistenza è fatta di sacrifici. Questa elementare catechesi era già una forma di iniziazione al grande catechismo ecclesiale del sacrificio di Cristo per meritare la salvezza dell'uomo. La postmodernità è invece caratterizzata da una decisa sospensione del valore positivo del sacrificio: la vita è fatta di occasioni e di possibilità.
    Oggi nessuno accetta come verità elementare la necessità del sacrificio quale condizione di una vita buona e degna dell'uomo. Anzi tutti si sentono sempre vittime, perseguitati, privati di qualcosa che doveva essere loro concesso, per cui il senso di tolleranza nei confronti della violenza, che comporta il solo evocare l'idea di un sacrificio, è bassissimo.
    Questo tratto della mentalità contemporanea provoca una forte tensione quando si discute di evangelizzazione. Sembrerebbe quasi che sia impedita qualsiasi parola circa il mistero della croce di Cristo, qualsiasi accenno al lato agonico dell'esistenza, qualsivoglia riferimento al tema evangelico del "perdere la vita". Come interagire con tutto ciò?
    Intanto la teologia, oggi, ci invita a non assolutizzare la lettura sacrificale della croce di Cristo. È il Crocifisso che rende preziosa la croce. AI cuore dell'evangelo si trova infatti il dono della vita da parte di Gesù come ultima insuperabile testimonianza che solo l'amore di e per Dio salva l'uomo - ieri come oggi.
    La concezione corrente ("vitalistica") dell'esistenza, di fatti, non è priva di contraccolpi per il soggetto postmoderno: la maggiore disponibilità economica, l'aumento della qualità e della quantità dell'offerta sanitaria, la logica del politicamente corretto hanno fatto esplodere l'ambito della libertà umana, ma resta il problema della sua configurazione. Come essere all'altezza della propria libertà? Come scioglierla dalla dipendenza di una rincorsa ossessiva dietro ogni occasione e dalla frustrazione continua di non aver afferrato quella migliore? Come liberare, infine, la libertà dalla deriva verso la depressività e dalla ricerca ansiosa di "cirenei" cui affidare questo peso: psicoterapeuti, guru, scrittori famosi e fumosi, leader carismatici di ogni tipo?
    La fede cristiana promette esattamente una configurazione della libertà del soggetto umano che gli faccia conquistare il mondo senza perdere la propria anima. Afferma. infatti. che solo nella misura in cui facciamo nostra la fede in/di Gesù. accogliendo e ricambiando l’amore di Dio, evitiamo di cercare negli altri ma invano quel riconoscimento del nostro essere amabili che solo l'Abbà di Gesù invece graziosamente concede. Ecco perché solo Dio deve essere amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. L'amore di/per Dio è la garanzia per un esercizio riuscito della libertà umana. Sorretti da questo amore, possiamo generosamente amare il prossimo.

    Evangelizzare il tratto antiideologico della postmodernità

    Un ultimo consistente tratto della postmodernità è dato dal crollo delle ideologie e dei partiti unici, che non concedevano spazio al nemico, al diverso, all'altro. E la vittoria della democrazia come sistema socioculturale della convivenza non violenta dei diversi. E questa è una conquista che nessuno oggi si sognerebbe di mettere in discussione. Con essa accade una riabilitazione della libertà, del libero acconsentire da parte del soggetto a ciò che gli si offre come vero, mentre perde credibilità il profilo di una verità che si imporrebbe a tutti costi.
    Da qui sorge quel tratto antiistituzionale tipico del nostro tempo che, mettendo in crisi i luoghi pubblici di mediazione, invita i singoli ad accedere autonomamente alla questione del senso. Ciò rende ragione della difficoltà di molti di riconoscere e di accettare la singolare mediazione ecclesiale-cristologica della verità. La chiesa viene normalmente allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di regole, di funzioni e di funzionari. Tramite i media poi passa l'immagine di una chiesa quale istituzione assoluta - dai tratti quasi astorici - in grado di decifrare a priori la soluzione (non condivisibile ovviamente) di ogni problema, e quindi l'immagine di un'entità remota, distante, fredda, lontana dalla pratiche contemporanee di confrorto e dialogo .democratico.
    E una situazione che richiede la massima accortezza e attenzione. La lezione che l'ascolto di questo tratto della mentalità postmoderna impone alla teologia è severa e parte dalla comprensione che la chiesa oggi si trova a vivere un'esperienza di debolezza, che va assunta con coraggio. Non si tratta semplicemente di riflettere sulla crisi numerica, bisogna invece riconoscere che qualche volta la chiesa stessa indulge in una posizione di rappresentanza e di istanza totale, correndo il rischio di giocare il ruolo di un "oggetto fittizio", che ricorda il mondo moderno dell'epoca della religione, carino e simpatico anche da visitare, ma scollegato dalla vita degli uomini e delle donne. Cosa fare dunque?
    Serve il coraggio per la minorità: «Del resto non è in qualche modo la chiesa destinata a essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità, chiamata ad andare sempre oltre il presente, a crescere non solo nel cuore degli uomini, ma pure nell'intelligenza di sé e del suo mistero. e nelI'apertura alla novità di un Dio sempre più grande.[8]
    Ci piace concludere con le parole davvero ispirate del card-. Martini: “Il riconoscere con serenità di essere piccolo gregge, di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso. Un ethos di umiltà, di mitezza, di misericordia, di perdono, di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all'interno della chiesa [...]. Una chiesa che è conscia della sua "minorità" ha più vivo il senso della testimonianza, coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso, vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le chiese locali, instaura un rapporto più autentico con la chiesa universale in stretta comunione con il vescovo di Roma. Questo ethos interno ha anche un influsso sul modo con cui la chiesa si rende presente nel quadro sociale e politico di una nazione e sul modo con cui i singoli cristiani operano, a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico? Certamente sì e vorrei richiamare qui alcune conseguenze. Esso 1) esclude una riduzione dell'impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo; 2) induce a un "pensare politicamente" che sia veramente tale, rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali; 3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori; 4) promuove le regole del consenso dei cittadini. Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa "piccolo gregge", che ha colto la sua missione di essere seme e lievito, è dunque complesso ed esigente».[9]

    NOTE

    1 Le considerazioni qui sviluppate sono pensate soprattutto per il contesto culturale occidentale.
    2 Lenoir F., Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale, Garzanti, Milano 2005 (ed. or. 2003), 182-183. Contrariamente al pensatore francese, preferiamo il termine "postmodernità".
    3 Con Werbick anche noi intendiamo con il termine "religione" «un'opzione di base di tipo orientativo, permeata talvolta da un notevole grado d'insicurezza e connessa a numerosi interrogativi, volta a collocare l'esistenza dell'uomo in una prospettiva semplicemente identica a quella da cui ci si può aspettare che abbiano un senso il mondo, il cosmo, la vita in genere in tutte le sue fasi evolutive» ("Il futuro della religione in Europa" Regno-attualità 50 [15 settembre, 2005] 558).
    4 Per una descrizione più dettagliata della postmodernità, cf. "Postmodernità e futuro del cristianesimo", in Settim. n.42/05, 8-9.
    5 Altamente istruttivo sulla questione è C. Torcivia, La chiesa oltre la cristianità, EDB, Bologna 2005.
    6 Conferenza episcopale italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004), n. 2.
    7 Magris C., "Quando scompare il senso religioso", in Corriere della Sera, 12.6.2004, 1. Il fenomeno, pur vistoso, del contemporaneo risveglio del religioso non della religione - trova la sua ragion d'essere sia nell'eccessivo peso che l'esercizio della libertà comporta, sganciato da riferimenti valoriali sovraindividuali, sia nel bisogno di fuga dall'attuale cultura ipertecnologica avvertita come oppressiva.
    8 Martini C.M., Il seme, il lievito e il piccolo gregge. Discorso per la vigilia di s. Ambrogio,5 dicembre 1998 (il testo è rinvenibile sul sito: www.chiesadimilano.it)
    9. Ivi

    (Settimana 2006/37)


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