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    L'accoglienza adulta del mondo giovanile (cap. 6 di: Comunicazione educativa)


    Mario Pollo, COMUNICAZIONE EDUCATIVA, Elledici 2004

     

    La criticità

    Il dialogo, per essere pienamente produttivo a livello educativo, deve essere caratterizzato dalla razionalità critica. Questo vuol dire che l'educatore, quantio è in relazione con il giovane, deve essere in grado di osservarsi mentre dialoga, ovvero deve mantenere un controllo critico della dinamica interattiva che sta vivendo.
    Questo al fine di evitare che i sentimenti e le emozioni che sono presenti nella relazione possano subire sviluppi dannosi del clima, di rispetto, di fiducia e di apertura reciproca che è necessario alla buona riuscita del dialogo.
    È chiaro che questi principi, desunti con molta libertà e, probabilmente, arbitrarietà dall'opera Semiosfera di Lotman, si intrecciano nel dialogo in un unico atteggiamento dei comunicanti e che, quindi, la loro distinzione analitica ha uno scopo meramente didattico. Essi però, se applicati con umiltà e coerenza, producono realmente dialogo.

    LA RECIPROCITÀ EDUCATIVA COME VIA ALL'ADULTITÀ

    C'è una diffusa convinzione, secondo la quale l'evoluzione della persona umana si ferma alla soglia dell'età adulta, ragion per cui in questa fase della vita i cambiamenti vengono visti esclusivamente come il frutto di fatti esterni, come la conseguenza delle situazioni sociali ed economiche in cui l'adulto si trova a vivere. In altre parole, questo significa che i cambiamenti che investono la persona adulta non sarebbero altro che il risultato del suo adattamento all'ambiente naturale e sociale nel quale egli vive. Al suo interno l'adulto non avrebbe, secondo questa concezione, né una fonte energetica, né un programma sufficientemente autonomi per garantirgli dei significativi cambiamenti di tipo evolutivo, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche che intessono la sua vita.
    Tale convinzione appare errata, in quanto la moderna ricerca psicologica, sociologica e antropologica ha messo in evidenza che l'età adulta è una età in cui la persona prosegue il suo ciclo evolutivo, anche se in modo meno evidente.[1]
    Le scienze umane sembrano confermare, un po' tardivamente per la verità, quello che la riflessione filosofica aveva da tempo intuito. Valga, tra tutti i possibili esempi, la citazione della riflessione in cui Bergson afferma: «Esistere significa cambiare; cambiare significa maturare; maturare significa creare se stessi incessantemente».[2]
    Si può perciò dire che la condizione adulta è la fase in cui la persona deve far evolvere la «differenza», conquistata nella fase evolutiva precedente, verso l'unità e la totalità.
    Essa è anche la fase in cui la persona deve restituire, a livello sociale, i frutti della sua evoluzione personale, e deve quindi ricambiare i doni ricevuti nel corso del suo processo di formazione. Infatti, l'adulto ha costruito la sua individualità originale, il suo Io, solo perché è esistito un Noi che gli ha fornito l'aiuto e gli strumenti necessari al suo farsi uomo, al suo costruirsi.
    Come si è già sottolineato, senza questo Noi, che è l'espressione della solidarietà concreta di un gruppo sociale, così come viene vissuta direttamente dall'uomo nelle fasi evolutive che vanno dall'infanzia all'adolescenza, nessuna persona raggiungerebbe l'autonomia e la responsabilità tipiche dell'essere autocosciente. Il Noi, ovvero la cura che ogni uomo manifesta per gli altri uomini che condividono con lui lo spazio-tempo sociale, è una sorta di prestito che ogni persona, una volta divenuta adulta, deve restituire, con gli interessi, alle nuove generazioni, divenendo per esse una espressione concreta dello stesso Noi.[3]
    L'educazione si fonda su questa consapevolezza. Infatti essa fornisce alla persona l'occasione e gli strumenti necessari a generare l'evoluzione del suo essere adulto, consentendogli di operare quella restituzione senza la quale non può pretendere di partecipare solidarmente al Noi.
    Lo strumento principale che l'educazione ha a disposizione per favorire questo cammino evolutivo dell'adulto è costituito dalla relazione educativa.

    La reciprocità come fondamento della relazione educativa e come possibilità della testimonianza dell'educatore

    Ogni processo educativo autentico richiede la disponibilità dell'educatore a educarsi mentre educa. Questa affermazione è divenuta molto popolare, in questi ultimi anni, sotto la spinta in modo particolare delle pedagogie della liberazione.[4]
    Eppure, nonostante la sua popolarità, questa concezione non ha indotto significative modificazioni negli stili educativi degli adulti. Infatti, la maggioranza degli adulti educatori opera come se l'unico beneficiario del processo educativo fosse il giovane educando.
    Questa sorta di monodirezionalità dell'educatore non riguarda solo il suo modo di vivere la relazione educativa, ma anche, e in modo ancora più accentuato, i processi attraverso i quali vive la sua crescita personale.
    Ora, se l'educatore vuole conquistare la pienezza della sua condizione di adulto deve, come si è detto, scoprire che la sua crescita può avvenire solo all'interno del processo, formativo ed esistenziale, attraverso cui i giovani costruiscono la propria maturità umana. In altre parole, questo significa che l'educatore evolve solo se aiuta i giovani ad evolvere.
    È chiaro che lo stesso discorso, in modo ancora più accentuato, vale anche per il percorso di maturazione attraverso cui l'educatore conquista, giorno per giorno, un modo più autentico di vivere la propria fede.

    L'educatore testimone della civiltà della storia

    La reciprocità della relazione educatore-giovani è l'unica condizione che consente all'educatore di essere un testimone umile e credibile dei valori, delle esperienze, delle idee e della fede che tessono il senso del suo essere nel mondo.
    Occorre sottolineare che questa testimonianza è necessaria per dare spessore esistenziale alla relazione educativa, per far sì che non sia un mero espediente tecnico, ovvero, come si ama affermare oggi, che essa non sia solo la manifestazione di una forma di professionalità, ma al contrario sia un modo di vivere, nel segno dell'amore per i giovani, il processo di comunicazione intergenerazionale attraverso cui la civiltà si perpetua trasformandosi.
    È all'interno di questo processo intergenerazionale che l'educatore può giocare il suo ruolo di tessitore di tempo. L'educatore infatti, in quanto adulto, ha il compito affatto particolare di svolgere la funzione che consente, al fluire del tempo, di essere percepito dai giovani come storia.
    Questa percezione del tempo come storia appare importante perché l'uomo, dopo l'emersione alla coscienza e alla storia, ha la responsabilità di tessere il tempo in modo che possa strutturarsi come storia, ossia di consentire che gli eventi della vita umana abbiano un senso, non solo in sé ma anche come passi di un cammino che dal passato porta, attraverso la sua azione nel presente, verso una realizzazione e una liberazione della condizione umana, che in parte appartiene al tempo e in parte è alla fine del tempo.
    La vita, infatti, si inscrive in una storia che per l'uomo può essere sia fonte di salvezza che di perdizione nei sentieri facili della distruttività. È all'interno di questo orizzonte temporale che il cristiano costruisce la sua giornata terrena.
    Questo obiettivo educativo è oggi particolarmente importante perché, come si è visto, la cultura sociale attuale tende a chiudere l'orizzonte di senso della vita all'interno dell'angusto limite temporale del presente. I giovani vivono in modo drammatico questa limitazione temporale attraverso la crisi di tempo che attraversa la loro esistenza. L'educatore è quindi impegnato a restituire ai giovani il senso storico dell'esistenza.
    Qualcuno a questo punto può forse domandarsi cosa c'entri con la comunicazione questa riflessione sulla testimonianza dell'educatore e sulla sua funzione come tessitore di tempo. La domanda è oltremodo legittima. Occorre però ricordare, a questo punto, che la comunicazione nell'educazione non si fonda solo su tecniche professionali, ma anche, se non soprattutto, su una vera e propria conversione del cuore dell'educatore. L'educatore deve prima prendere coscienza, maturare alcuni presupposti culturali ed esistenziali, e poi cominciare ad educare. Se non realizza questa conversione, la sua comunicazione educativa viene privata dello spessore dell'autenticità esistenziale.
    Qui di seguito vengono elencati i principali presupposti esistenziali che l'educatore deve possedere, o perlomeno ricercare, per poter dar vita ad una relazione educativa efficace. Essi sono stati raggruppati intorno a sette punti.

    L'educatore al confine tra memoria e sogno del futuro

    L'educatore deve sviluppare la sua coscienza di essere, per i giovani, sicuramente la memoria del passato e di poter divenire suscitatore di sogni del futuro. Infatti, l'educatore è in quanto adulto, che lo voglia o no, la memoria vivente di un frammento significativo di cultura sociale ed è, nello stesso tempo, portatore o compartecipe di un progetto di futuro entro il quale si snoda la sua vita individuale e la sua partecipazione alla vita sociale.
    E infatti compito dell'educatore contribuire a preservare la memoria culturale, trasmettendola e, nello stesso tempo, lavorare per la transizione verso il futuro della società in cui vive secondo il progetto o il sogno di cui è portatore.
    Questo significa che l'educatore deve sviluppare, nell'ambito della relazione educativa, un atteggiamento di tipo genitoriale, che è una delle forme di responsabilità più alte verso le giovani generazioni. Educare, in senso culturale, significa infatti dare un passato e un futuro ai giovani, come ogni genitore autentico, più o meno consapevolmente, tenta di fare. L'evoluzione delle culture umane si basa su questa azione educativa, che consente alle nuove generazioni di collegare il proprio presente e il proprio futuro al passato che, di fatto, ha reso possibile la loro esistenza e ha prodotto la cultura nella quale vivono.
    Perché questo avvenga, è però necessario che l'educatore divenga narratore della memoria mentre cerca faticosamente di essere fedele nella vita quotidiana al suo sogno di futuro. Questo significa che, mentre interagisce con gli educandi, egli deve produrre messaggi in cui è presente sia la memoria sia il progetto di futuro.

    L'educatore come testimone del trascendimento delle costrizioni della necessità verso i valori

    Come suo compito di restituzione primaria alla società del dono della sua realizzazione umana, l'educatore dovrebbe riuscire a dimostrare che la sua vita, nonostante le difficoltà e gli insuccessi, è una risposta non solo a bisogni, desideri, impulsi emotivi e calcoli razionali utilitaristici, ma anche, se non soprattutto, alle istanze della fedeltà ad un insieme di valori.
    È infatti compito dell'educazione la proposta della ricerca di una condizione esistenziale non determinata solo dalle necessità della sopravvivenza o da principi di utilità e di ricerca del benessere materiale. L'educatore dovrebbe riuscire, con tutti i limiti imposti dalla sua radicale finitudine, a testimoniare che nella vita adulta è possibile trovare un equilibrio tra ciò che si deve fare per sopravvivere, o per vivere il meglio possibile, e la fedeltà ai valori, che soli possono produrre il senso o il non senso della vita e del mondo che si abita.
    I giovani devono essere indotti dalla testimonianza adulta dell'educatore a maturare la consapevolezza che l'uomo che non tesse il suo progetto di vita sull'ordito dei valori, di fatto rinuncia allo sviluppo delle sue potenzialità umane e, in qualche modo, rinuncia a trovare se stesso, o perlomeno rinuncia a governare la propria vita lasciandola, viceversa, alla deriva prodotta dalle correnti delle circostanze e delle manipolazioni di chi ha il potere di influire, se non di determinare, queste stesse circostanze.
    L'educatore dovrebbe riuscire a comunicare, soprattutto attraverso la consapevolezza critica della propria finitudine, piuttosto che con l'arroganza del successo, che l'uomo senza valori è un uomo in balia degli eventi della vita e quindi delle condizioni politiche, sociali ed economiche in cui essa si svolge, oltre che delle tensioni e degli impulsi che provengono dall'interno della sua persona a livello biologico e psicologico.
    La maturità, l'autonomia e la libertà di essere protagonista della propria vita derivano all'uomo dall'avere su di sé un progetto che trascende l'orizzonte, quasi istintuale, dei bisogni, dei desideri e delle passioni.
    C'è quindi una sorta di equivalenza tra l'essere uomini educati dalla libertà nella verità e la capacità di vivere oltre l'orizzonte del puro adattamento alle varie situazioni personali, sociali e naturali che l'individuo si trova ad affrontare.
    È attraverso questa testimonianza, autentica proprio perché segnata dalla debolezza e dalle sconfitte di chi la offre, che l'educatore fonda la possibilità di effettuare qualsiasi trasmissione di valori. Ogni discorso, ogni esperienza di valori proposta ai giovani appare inconsistente e inefficace se non può poggiare sulla testimonianza dell'educatore.

    L'educatore come testimone dell'impegno adulto alla comprensione e alla lotta per il superamento della sofferenza nella vita umana

    L'educatore, operando all'interno delle asperità, delle sofferenze e delle contraddizioni della vita, ha tra i suoi doveri primari quello di tentare di aiutare i giovani a dare un senso alla presenza della sofferenza nel mondo e nella loro vita e, nel contempo, motivarli ad operare fattivamente per ridurne la presenza.
    Nonostante il progresso sociale ed economico, la sofferenza continua a mostrare i suoi multiformi volti nella vita umana.
    C'è infatti la sofferenza che sorge dalla natura, c'è quella che nasce dalla psiche delle persone, e infine c'è quella che è provocata dalla vita sociale. La lotta dell'uomo per allontanare questa presenza inquietante dalla sua vita è un succedersi di vittorie e di sconfitte in cui a volte è difficile osservare un qualche progresso significativo.
    La cultura delle società complesse sembra aver perso la capacità di dare senso al dolore, e le persone cercano, nella maggioranza dei casi, di eluderne la presenza, rimuovendolo o rifugiandosi negli analgesici fisici e psichici. Non importa se questi analgesici sono sostanze chimiche, bevande, cibi, svaghi, mass media. Essi sono uniti dalla loro funzione, che è quella di nascondere il dolore, di impedirgli di interpellare la coscienza umana.
    In questo tipo di cultura sociale il dolore non è più il mistero che inquieta la coscienza e pone radicali interrogativi al senso della vita umana, esso è semplicemente un evento che la razionalità dell'uomo non ha saputo prevenire o controllare.
    L'abitudine poi a ricorrere a sostanze esterne per alleviarne la presenza, ha ridotto la stessa tolleranza umana alla sua presenza e ha reso indifese molte persone nei suoi riguardi.
    Eppure la capacità di affrontare l'esperienza del dolore rimane uno dei compiti sociali fondamentali della condizione umana adulta, nonostante la rimozione della cultura sociale di questo compito di auto-realizzazione umana.
    Accettare di farsi interpellare dal mistero del dolore non significa però rassegnarsi alla ineluttabilità della sua presenza. Al contrario, significa ricavare energia e sapere per una efficace lotta nei suoi riguardi. L'educatore deve saper proporre, con il suo rapportarsi personale all'esperienza del dolore, un percorso che porti i giovani a scrutare il mistero del dolore e agire con tutte le risorse disponibili, già nella vita del loro gruppo di educazione, per combattere le cause che lo generano, pur con la consapevolezza che la vittoria su di esso si realizzerà solo alla fine del tempo.
    Questa testimonianza, inattuale forse ma esistenzialmente significativa e potente, è quella che struttura la ricerca dell'amore la vita che segna in modo inequivocabile l'educazione.

    L'educatore come creatore di limiti

    La vita, per svilupparsi e avere qualche probabilità di far affiorare nel suo corso la felicità, ha bisogno di trovare dei limiti, ovvero delle regole e delle forme, al cui interno declinarsi. È questa una consapevolezza che è alla base del pensiero occidentale e che si ritrova espressa chiaramente sin dai primi filosofi greci e dalla salvezza proposta dall'Alleanza centrata sulla legge.
    La vita, almeno quella che si sviluppa tra gli uomini emersi alla coscienza, nasce e si sviluppa attraverso l'incontro del desiderio, parafrasi dell'energia vitale che muove la vita dell'uomo e dell'universo, con i limiti che le norme, i codici, i saperi e i valori pongono alla sua espressione. La capacità di emetter suoni di un bambino, ad esempio, per divenire linguaggio deve incanalarsi all'interno di precise regole fonetiche. Solo questo flettersi del suo desiderio di comunicazione alle regole del codice linguistico gli consentono di divenire un atto comunicativo.
    La coscienza stessa dell'uomo è il regolatore fondamentale di questo incontro/scontro tra desiderio e limite.
    Questi limiti, per non divenire una prigione della creatività della vita e quindi produttori di morte, devono essere continuamente e incessantemente rinnovati attraverso un loro continuo riadattamento alle mutazioni delle persone, della società e della natura.
    Compito dell'educatore, se vuole essere un produttore di vita, è quello di essere un modello che rende questi limiti gli elementi positivi del progetto di vita del giovane.
    Questa sua azione egli la realizza attraverso la proposta ai giovani di quel desiderio mimetico insegnato dalla vita e dalle parole di Gesù. Proposta che deve consentire ai giovani di accostarsi al canone culturale, ovvero ai codici, alle norme e ai valori della cultura sociale non come a divieti, ma come a forme di azione in grado di incanalare l'energia del desiderio verso la realizzazione di una vita individuale e sociale piena.
    Quasi sempre l'espressione da parte dei giovani di questo desiderio mimetico produce un profondo rinnovamento del canone culturale, che svolge una funzione creativa solo quando è una espressione della legge dell'amore, ma che diviene una prigione quando ricava solo in se stesso la propria ragione di esistenza.

    L'educatore e la comunicazione silente

    L'educatore non comunica però solo in modo attivo con ciò che dice e con ciò che fa, ma anche in modo passivo. Il suo compito infatti non è solo quello di aiutare i giovani a trasformare la loro vita, ma anche quello di contemplarla gratuitamente. Questo significa che egli deve essere in grado di fare silenzio, di lasciarsi cioè pervadere da ciò che esiste, per riuscire a comprenderlo al di là delle sue personali precomprensioni.
    La capacità di fare silenzio è, tra l'altro, l'unica in grado di consentire all'educatore di comprendere e di accettare gli altri nella loro singolarità irrepetibile, così come ogni altra manifestazione del vivente. In una realtà in cui dominano il soggettivo, il relativo e la fragilità di fronte alla possibilità di comprensione della realtà, il silenzio appare come una delle poche vie che l'educatore ha a disposizione per raggiungere una comprensione «oggettiva».
    Il silenzio consente infatti una conoscenza non distorta dalla propria soggettività, essendo un tentativo di percepire direttamente la soggettività della realtà dei giovani contemplata, lasciandosene pervadere. Tra l'altro, è attraverso il silenzio che l'educatore può percepire le vibrazioni che provengono dalla fonte profonda e misteriosa dell'Amore. La capacità di osservazione empatica dell'educatore può essere considerata una delle declinazioni del silenzio, a patto che non sia distorta da filtri ideologici o anche da paradigmi scientifici, ma che al contrario essa sia il più possibile vicino alla contemplazione di origine mistica.
    Solo così l'educatore riuscirà a far sentire ogni membro del gruppo una persona irripetibile, un protagonista e, nello stesso tempo, di essere compreso nell'autenticità del proprio essere. Il silenzio, ovvero la capacità di contemplazione dell'educatore, è una forma di altruismo che connota la sua relazionalità con gli educandi.
    L'educatore come testimone del mistero della morte
    La morte è il mistero più descritto e, nello stesso tempo, più rimosso dalla nostra società. Basta infatti accendere il televisore o aprire un giornale per essere inondati da descrizioni, a volte impudiche, di eventi luttuosi reali o immaginari. Qualcuno ha calcolato che un telespettatore medio in un anno vede, tra finzioni e cronache, alcune migliaia di morti.
    Questa descrizione, quasi barocca, della morte che i mass media propongono non è che il tentativo di esorcizzarla, perché la nostra cultura non ha più gli strumenti idonei per spiegarla, per dare ad essa un significato.
    Il pensiero della morte, così come la sua presenza materiale concreta, è sempre più rimosso dalla vita quotidiana delle persone. La morte quando accade, specialmente nelle grandi città, è nascosta in luoghi separati. Questa rimozione si manifesta poi in modo molto evidente nel generalizzato rifiuto da parte delle persone di considerare che ogni loro progetto, prima o poi, incontrerà il limite radicale della morte. La maggior parte delle persone vive come se non dovesse mai morire.
    Eppure, nonostante la nostra volontà, la morte è il confine che segna tutti i nostri sogni di futuro e balena da tutte le esperienze del ricordo.
    L'educatore deve affrontare, nel progetto educativo che propone ai giovani, il senso di questo evento, se non vuole che la loro vita si inaridisca e perda la sua reale dimensione di senso.
    La stessa salute psichica dei giovani, specialmente quando saranno diventati adulti o anziani, dipende dalla loro capacità di dare significato all'evento della morte come confine della loro vita. Molte angosce, molte nevrosi e molte depressioni che affliggono gli abitanti delle culture delle società complesse, sono figlie della rimozione della morte.
    L'educatore, proprio perché amante appassionato della vita, non deve nascondere ma porre in evidenza la caducità dei progetti attraverso cui si declina la vita umana nell'orizzonte spaziotemporale del mondo. Ed è proprio dal conflitto tra il desiderio di vita dei progetti del giovane e la realtà della morte, che nasce la capacità di scoprire la bellezza e il senso profondo della vita umana, delle esperienze e dei progetti che la disegnano.
    L'educatore, per realizzare questa testimonianza in modo lieve, profondo e non macabro, deve acquisire quel sapere e soprattutto quella saggezza di cui il salmo 90 è una stupenda espressione.[5]

    L'educatore cristiano come operaio del Regno

    L'educatore deve compiere la propria opera educativa nella consapevolezza di essere un esecutore imperfetto di un disegno più grande, che già esiste ma che ancora deve rivelarsi nella sua completezza. La sua azione educativa ha il compito di essere fedele a questo grande disegno.
    In questa fedeltà l'educatore deve essere sorretto dalla consapevolezza che se egli lavora con fedeltà e coraggio alla costruzione del Regno, quale sia la durata e il successo del suo lavoro, egli abiterà per sempre nel Regno e aiuterà i giovani con cui lavora a scoprire le strade che conducono ad esso.
    Allo stesso modo, deve fare spazio alla consapevolezza che sovente le esperienze dell'insuccesso, della sconfitta e del fallimento, che alcune volte purtroppo accompagnano il suo agire educativo, se poste con fede ai piedi della Croce diventeranno anch'esse passi importanti nella costruzione del Regno.
    Questa consapevolezza, che solo la fede può dare, sono l'antidoto più efficace sia alle tentazioni prometeiche cui l'educatore può essere soggetto, sia alla disperante angoscia che gli deriva dalla contemplazione della sua radicale finitudine, che si manifesta nella sua incapacità di proporre un cammino di redenzione a quelle vite di giovani che egli incontra e che vede scivolare negli abissi della distruttività.
    La fede apre all'educatore le porte del raggiungimento della sua umanità integrale e quindi della pienezza della sua autenticità di educatore.
    Questo discorso è solo apparentemente poco «operativo», in quanto, come l'esperienza insegna, la ricerca da parte dell'educatore della realizzazione della propria vita come testimonianza autentica ha degli effetti immediati e benefici, oltre che sulla costruzione del suo modo di essere adulto, sulla sua azione comunicativa con i giovani.

    L'ACCOGLIENZA ADULTA DEL MONDO GIOVANILE

    Dopo aver visto le caratteristiche della relazione educativa che consentono all'educatore di divenire «adulto» e di restituire i doni che ha ricevuto, è importante analizzare come questa ricerca dell'adultità diventa accoglienza educativa del mondo giovanile.
    La conquista della coscienza e lo sguardo dell'altro: la partecipazione alla vita sociale alla frontiera della solidarietà
    La coscienza, per divenire lo specchio limpido in cui l'uomo legge la verità su se stesso e sulla propria vita, deve passare dalla porta stretta costituita dall'incontro/scontro del soggetto con l'altro. Un incontro/scontro segnato dalla fatica della costruzione di una relazione autentica, al cui interno la persona cerca di vedere se stessa attraverso gli occhi dell'altro, accettando pienamente la irriducibile diversità di questi.
    Una corretta socializzazione è alla base della costruzione di una coscienza in grado di innalzarsi sopra le fredde paludi del soggettivismo egocentrico e narcisista.
    L'adulto educatore è il protagonista primo del processo di socializzazione, o almeno dovrebbe, essendo l'altro significativo del giovane che, a sua volta, è l'altro significativo dell'adulto.
    La socializzazione costruttrice di coscienza non si ferma all'età della adolescenza ma dura tutta la vita.
    Anche se ogni età, naturalmente, ha diversi livelli di profondità, di estensione e di qualità dei processi di socializzazione, questi sono però tutti interrelati tra di loro. Ad esempio, ad un processo di socializzazione carente a livello giovanile corrisponde un narcisismo dell'adulto. Ad un adulto altruista corrisponde un giovane che lavora duramente per aprire il suo Io alla responsabilità sociale. Questo intreccio tra socializzazione e costruzione della coscienza trova la sua naturale conclusione nei processi che disegnano nel progetto di vita del giovane l'avventura della solidarietà. La socializzazione autentica, la scoperta dell'altro come fondamento etico della propria vita, la coscienza limpida di sé sono la base di quella forma dell'agire umano che è la solidarietà. È questa l'avventura più bella che un giovane e un adulto possono compiere insieme. L'adulto, per educare alla solidarietà, deve viverla e deve farla vivere al giovane all'interno di una esperienza comune. Questo, tra l'altro, è l'unico modo che l'educatore ha a disposizione per rileggere criticamente e impietosamente il suo modo di vivere la solidarietà. Il giovane, con la sua lucidità scevra di compromessi, aiuta l'adulto a superare le sue precomprensioni, i suoi alibi, le sue mistificazioni e quindi a maturare la sua socialità. Nello stesso tempo, mentre l'educatore si mette in crisi rispetto al giovane, dona a questi il realismo del potere necessario a rendere produttive ed efficaci le azioni di solidarietà del giovane.

    La storia come radice del passato che apre al futuro

    L'adulto educatore deve fare memoria, se vuole aiutare il giovane a liberare la sua coscienza dal drago che gli impedisce di conquistare l'anima, ovvero, se vuole che la liberazione del giovane dai vincoli dell'io lo apra alla conquista della responsabilità e della creatività. L'adulto deve far sì che la sua memoria diventi parte del fondamento dell'identità del giovane. Fare memoria non è solo ricordare, ma è anche operare affinché la propria storia, personale e sociale, diventi parte di quel sapere culturale da cui il giovane attinge per formare il progetto originale innovativo della propria vita. Da questo punto di vista, il fare memoria è la capacità di rivisitare criticamente la propria storia e quella della propria generazione, alla luce delle storie che l'hanno preceduta e che la seguiranno e che stanno cominciando a riflettersi negli occhi dei giovani. Una memoria che non si fa presente nella vita dei giovani non aiuta né l'adulto educatore ad evolvere né i giovani a divenire autori della loro vita, in senso pieno, attraverso la progettualità.
    La memoria, oltre alle esperienze e ai saperi, contiene anche il racconto della storia della salvezza così come essa è apparsa nella vita umana sino all'oggi. È questa la sola memoria che può aprire lo sguardo del giovane alla concezione del futuro come luogo della speranza. Senza questa memoria, il passato e il presente possono apparire al giovane come prigione dell'impotenza umana nei confronti del male che abita lo spazio e il tempo della vita nel mondo.

    La frontiera del limite come potenza del desiderio. Ovvero l'emancipazione dal bisogno

    Nell'educazione c'è uno scambio vitale tra adulto e giovane: quello tra desiderio e limite. Scambio in cui l'adulto si nutre dell'energia creatrice del desiderio e il giovane dà al desiderio la creatività che nasce dal suo incontro con le regole, le norme che sono tipiche delle forme in cui si dice la civiltà umana.
    Se l'adulto educatore non si offre come modello al desiderio del giovane e se, al contrario, il giovane non offre la potenza del suo desiderio al modello proposto dall'adulto, la civiltà umana si inaridisce e la vita non fiorisce.
    Se non c'è questo scambio, il limite radicale della morte crea angoscia, e per questo viene rimosso, e non viene integrato nell'orizzonte di senso della vita umana.
    Il senso della vita nasce anche dal suo confronto con l'evento che più sembra negarlo: la morte.
    Contro le fantasticherie, contro i simulacri e contro l'implosione della parola.

    Storie di linguaggi che aprono e chiudono l'azione

    L'adulto educatore deve pronunciare parole vere, parole cioè che hanno, nella fedeltà alla vita, il fondamento della loro verità.
    L'educatore deve aiutare il giovane a scoprire che le parole sono lo strumento essenziale che egli ha disposizione per trasformare la realtà in cui vive.
    Per fare questo deve riscoprire la parola ebraica «dabar», che è fedeltà alle cose che nomina, e riequilibrare la parola greca «logos», che al contrario è liberazione del potere di astrazione.[6] Deve aiutarlo a capire che le fantasticherie rinchiudono l'uomo nella distruttività senza nome dell'inazione, e perciò che è necessario sostituirle con il sogno. Quante volte infatti, di fronte alla durezza dei vincoli della realtà, il giovane, e anche l'adulto, ha la tentazione di rifugiarsi in un mondo immaginario costruito dalla sua fantasia. Le fantasticherie fanno pagare per la loro breve ed effimera consolazione un prezzo altissimo: quello della rinuncia ad agire, magari soffrendo, per trasformare la realtà. Il sogno, quello vero, invece, non è consolazione, ma un progetto su una realtà che si sente che può essere diversa da ciò che è nel presente e può essere, quindi, come la vita dei Santi dimostra, il motore di un impegno del giovane a costruire un mondo più giusto e bello.
    Come suggerivano gli antichi mistici, occorre combattere le fantasticherie con il gioco e lo studio del moto di ciò che si libra nell'aria, vincendo, per un istante, la prigione della forza di gravità. Questo significa che quando la fantasticheria assale la mente del giovane, è meglio per questi giocare con gli oggetti che si librano nell'aria come il pallone o i pensieri strategici che progettano il futuro.

    Il senso della propria vita individuale

    Quando il giovane ha tessuto il proprio progetto di vita con la memoria e l'ha illuminato con lo sguardo limpido della sua coscienza, quando l'ha aperto ad una socialità intrisa di solidarietà, quando la sua vita è orientata dai valori, allora nasce dalle profondità dell'essere l'autentico amore per l'uomo e per la vita. È il momento in cui il giovane formula il suo sì pieno e convinto alla vita e, al di là di tutte le esperienze negative, irrompe nella sua coscienza la consapevolezza della dignità e grandezza della condizione umana.
    È il momento in cui il salmo 8 viene compreso in tutta la sua maestosità, la bellezza della vita si manifesta in tutta la sua gratuità e la forza del desiderio incanala la propria energia creatrice nel progetto teso a espandere le ragioni della vita nelle culture umane che regolano l'esistenza individuale e sociale delle persone.

    La trascendenza come dono del finito

    Il sì alla vita è la premessa indispensabile al fiorire nella coscienza del giovane di una fede matura, in grado di giudicare e orientare la sua vita quotidiana. È il momento in cui può iniziare quel lungo cammino che termina solo con l'evento della morte.
    In questa fase c'è il riconoscimento che Gesù è il Signore della vita, che Gesù è il volto di Dio che si fa presente nella storia umana.
    In questo punto alto della costruzione della persona umana, in cui il giovane scopre che solo ciò che è totalmente Altro consente di sperimentare il senso pieno della vita umana, lo scambio tra adulto e giovane è veicolato dal silenzio.
    Silenzio inteso come capacità di riconoscere la propria radicale incompletezza.
    Silenzio inteso come capacità di far tacere la propria volontà di potenza per lasciarsi pervadere dalla volontà del Padre.
    Silenzio inteso come capacità di scoprire dietro le sembianze dell'altro, specie se ultimo, il volto di Gesù.
    Silenzio come disponibilità a lasciarsi pervadere dal mistero senza tentare di spiegarlo.
    Silenzio come capacità di accoglienza della ricchezza giovanile nella comunità cristiana.


    NOTE

    1 Levinson D. J., Verso una concezione del corso della vita adulta, in: Smelser N. J., Erikson E. H. (a cura di ), Amore e lavoro, Rizzoli, Milano 1983, pp. 323-352.
    2 Jordan W. D., In cerca dell'età adulta, in Erikson E. H., L'adulto, Armando, Roma 1981.
    3 Jung C., Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Boringhieri, Torino 1980.
    4 Freire P., La pedagogia della liberazione, Mondadori, Milano 1971.
    5 Heschel A., Il sabato, Rusconi, Milano 1972.
    6 Quinzio S., La croce e il nulla, Adetphi, Milano 1984.


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