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    I tre livelli della comunicazione interpersonale: la pragmatica (cap 3 di: Comunicazione educativa)


    Mario Pollo, COMUNICAZIONE EDUCATIVA, Elledici 2004

     

    Dopo aver esplorato, seppur in modo sommario, la dimensione sintattica della comunicazione, è ora il turno dell'esplorazione della dimensione pragmatica. Questa dimensione, oltre ad essere quella relativamente più nuova nello studio della comunicazione umana, è anche quella che solitamente viene considerata la più immediatamente utilizzabile nel lavoro educativo. Pur non essendo questo del tutto vero, resta comunque il fatto che la pragmatica manifesta una notevole utilità per chi deve lavorare con e sulle relazioni umane.
    Anche se a rigore la pragmatica è una dimensione della comunicazione molto complessa e ampia, in questi ultimi anni, dopo il successo della scuola sistemica aut relazionale di Palo Alto, gli orientamenti di questa scuola hanno finito per essere identificati con il modello teorico della pragmatica della comunicazione.
    I cardini del modello teorico della scuola di Palo Alto sono costituiti dall'assunzione di alcuni concetti della teoria dei sistemi, delle scienze della comunicazione e del linguaggio e di un insieme particolare di assiomi, dai quali viene dedotta l'intera costruzione concettuale della pragmatica.

    LA TEORIA DEI SISTEMI

    Per molto tempo le scienze hanno considerato i loro oggetti di studio attraverso il filtro di una concezione meccanicistica e deterministica. Al livello dello studio dell'uomo questo tipo di approccio ha comportato la scomposizione della persona in tante parti – i pezzi della macchina  e l'analisi di queste parti in modo autonomo l'una dall'altra, senza cioè preoccuparsi della relazione di ognuna di esse con le altre e con il tutto costituito dalla persona nella sua globalità. Chi si è occupato dello studio, ad esempio, dei processi intellettivi, non si è preoccupato quasi mai di studiarne la relazione con l'affettività o la corporeità. Oppure, chi si è occupato dell'individuo ha isolato solitamente questi dal contesto sociale e culturale in cui viveva. L'ipotesi soggiacente a questa impostazione, che ha favorito tra l'altro la nascita di una infinità di specializzazioni, era che la somma delle conoscenze delle singole parti garantisse la comprensione della persona nella sua interezza. Il termine meccanicismo si riferisce proprio a questa meccanica somma di parti attraverso cui si sarebbe dovuto comprendere il funzionamento del tutto., ovvero della persona. Accanto al meccanicismo era operante nella scienza, anche in anni recenti, il determinismo, ovvero la convinzione che date certe cause o condizioni una persona, o un qualsiasi oggetto, si comporterà secondo i criteri di una data legge, ovvero in parole più semplici che data una certa causa si avrà necessariamente un certo effetto. È interessante citare a questo proposito il fondatore della Teoria Generale dei Sistemi Von Bertalanffy che osserva:
    «Nell'ambito di quella concezione del mondo che viene normalmente definita come meccanicistica, e che ebbe origine dalla fisica classica del XIX secolo, il gioco senza fine degli atomi, retto dalle inesorabili leggi della causalità, produceva tutti i fenomeni del mondo inanimato, vivente e mentale [...]. L'unico scopo della scienza risultava essere di tipo analitico, e cioè tale da consistere nella suddivisione della realtà in unità sempre più piccole e nell'isolamento di singoli temi casuali. In tal modo la realtà fisica veniva frantumata in masse puntiformi e in atomi, l'organismo vivente in cellule, il comportamento in riflessi, la percezione in sensazioni puntuali, ecc. Corrispondentemente la causalità era a senso unico: un certo sole attrae un certo pianeta nell'ambito della meccanica newtoniana, un certo gene fertilizzato produce questa o quella malattia, gli elementi mentali sono allineati come i grani di una collana di perle mediante la legge dell'associazione [...j. Possiamo affermare, come caratteristico della scienza moderna, che questo schema in termini di unità isolabili si è rivelato insufficiente. Di qui il comparire in tutti i settori della scienza di nozioni quali quelle di totalità, di olistico, di organismo, di Gestalt, le quali, complessivamente, non significano altro se non che dobbiamo in ultima analisi pensare in termini di sistemi, di elementi e interazioni».[1]
    La teoria dei sistemi ha, quindi, costituito, insieme ad altri modelli teorici, una rottura rispetto a questi principi tipici della scienza del passato. Essa, infatti, ha sostituito il determinismo causalistico con l'equifinalismo, il probabilismo, e il meccanicismo con il concetto stesso di sistema.
    Il concetto di sistema ha, infatti, preso il posto di concetti come, ad esempio, macchina e organismo. Un sistema è definito come un insieme di unità interagenti, in relazione tra di loro.
    Questa definizione, apparentemente semplice, implica una serie di conseguenze notevoli.
    La prima è quella per cui ciò che accade in una parte del sistema ha degli effetti sia sulle singole altre parti che sull'intero sistema. Ad esempio, un evento nella sfera emotiva di un individuo, oltre che sulla totalità della sua persona, si riflette nella sfera cognitiva, in quella corporea, in quella relazionale e così via.
    La seconda conseguenza è quella che consente di considerare il sistema nella sua totalità come un qualcosa di diverso e superiore alla semplice somma delle parti che lo formano.
    Questo significa che un sistema nella sua totalità non può essere dedotto dalla somma delle parti che lo formano, ma che deve essere osservato e studiato in quanto tutto.
    L'equifinalismo, o principio di equifinalità, che ha preso il posto del determinismo, afferma invece che due sistemi che sono in un identico stato iniziale, date determinate condizioni simili, possono raggiungere un diverso stato finale, oppure che due sistemi che uno stato iniziale differente, date determinate condizioni simili, possono raggiungere un identico stato finale.
    Il probabilismo o principio di probabilità, a differenza del causalismo rigido, afferma che determinate cause hanno solo la probabilità, più o meno elevata, di produrre determinati effetti e non la certezza, in quanto il principio di causalità è applicabile solo ai sistemi chiusi che, come è noto, sono quelli che non scambiano materia-energia e informazione con l'ambiente esterno.
    Questi nuovi principi, introdotti dalla teoria dei sistemi validi per tutte le scienze, hanno una particolare importanza pere le scienze dell'uomo, in quanto si adattano meglio dei precedenti agli effetti prodotti nel comportamento umano dalla libertà e dalla imprevedibilità.
    Nell'educazione poi questi principi sono della massima importanza, perché da un lato costringono l'educatore a verificare sempre se gli effetti prodotti dalla sua azione sono quelli previsti e, quindi, a non abbandonarsi alla certezza prodotta dalla sperimentata efficacia passata dei suoi metodi e delle sue tecniche di lavoro, ovvero al determinismo, e dall'altro lato lo obbligano a considerare ogni caso educativo come un unicum, che seguirà un proprio percorso formativo non necessariamente uguale o simile a quello di altri. Ma non solo. Il principio di equifinalità darà anche all'educatore la concreta speranza della educabilità di ogni situazione umana in quanto, pur partendo da condizioni iniziali svantaggiate, ogni persona può raggiungere uno stato finale evoluto e pieno.

    GLI ASSIOMI

    Gli assiomi che vengono qui di seguito presentati sono tratti dal testo più noto prodotto dai rappresentati della scuola di Palo Alto, ovvero dalla Pragmatica della comunicazione umana.[2]

    È impossibile non comunicare

    Questo primo assioma indica che quando due o più persone sono in relazione tra di loro, attraverso uno o più organi sensoriali, è per loro impossibile non comunicare reciprocamente. Infatti, se uno di essi non risponde ai messaggi, la sua mancata risposta non può essere definita come una non comunicazione, ma solo come la comunicazione del suo rifiuto di comunicare. Questo perché la comunicazione interpersonale è un comportamento e, come è noto, non esistono non comportamenti.
    Dato che tutte le persone, magari inconsciamente, conoscono questo assioma, esso è all'origine di quei comportamenti comunicativi particolari che le stesse persone mettono in atto tutte le volte che, pur sapendo di non poter non comunicare, desiderano tuttavia non comunicare. Questo perché il semplice rifiuto della comunicazione in molte situazioni non è praticabile, vuoi perché esso è oggetto di stigmatizzazione e può comportare conseguenze negative per chi lo esprime, vuoi perché in alcune situazioni di vita esso avvia un processo di comunicazione nei riguardi di chi lo manifesta, cosa questa che è proprio ciò che il rifiuto voleva evitare. In questi casi le persone che desiderano non comunicare danno vita a strategie complesse che tendono a metterle al riparo o dallo stigma sociale o dall'innesco del processo di comunicazione.
    Una di queste strategie è il cosiddetto rifugio nel sintomo. In questo caso la persona che non vuole comunicare attraverso il messaggio non verbale del sintomo dice al o agli interlocutori che egli vorrebbe sì comunicare con loro, ma che qualcosa più forte della sua volontà glielo impedisce. Questo qualcosa può essere un malessere, un tabù, una ideologia, un pregiudizio o la buona educazione. Si tratta di una vera e propria proiezione della responsabilità della non comunicazione dalla persona a qualche fatto esterno alla propria volontà e coercitivo. Normalmente il. caso più diffuso di rifugio nel sintomo è costituito dal fatto che chi non vuole comunicare accusa un malessere: «vorrei tanto parlare con te di questo problema, ma ho un tale mal di testa che proprio non ce la faccio...». Il dato interessante è che in molte situazioni di comunicazione interpersonale disturbata il malessere non è solo immaginario, una scusa bella e buona, ma reale.
    Un'altra strategia, più sofisticata, è costituita dal tentativo di squalificare la comunicazione introducendo in essa elementi di contraddittorietà, di incoerenza, di ambiguità, di confusione, di incompletezza, oppure ricorrendo ad uno stile oscuro e manierato o, ancora, al gioco dei fraintendimenti, ovvero del più classico «prendere fischi per fiaschi». La squalificazione della comunicazione dovrebbe consentire a chi la promuove di evitare nella sostanza di comunicare senza però andare incontro a nessuna sanzione sociale. Questo vuol dire che in certe situazioni i discorsi un po' folli e strampalati di qualche persona non sono il prodotto di uno stato di follia o di creazione poetica, ma solo del fatto che in quel caso la squalificazione della comunicazione viene ritenuto l'unico comportamento possibile.

    Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione. La relazione classifica il contenuto ed è quindi metacomunicazione

    Questo assioma chiarisce come ogni comunicazione umana abbia sempre sia un aspetto di notizia o contenuto, sia uno di comando o relazione: il primo trasmette i dati della comunicazione, mentre il secondo indica il modo in cui tale comunicazione deve essere assunta da chi la riceve. C'è da notare che il contesto in cui si svolge la comunicazione serve a precisare ulteriormente la relazione, dando un senso più definito al comando.
    L'assioma permette di sottolineare ulteriormente quanto già detto intorno alla relazione, ovvero come nelle interazioni di gruppo e interpersonali in genere la dimensione relazionale sia molto importante, in quanto essa indica, oltre all'atteggiamento reciproco delle persone che comunicano, anche il modo in cui deve essere decodificato lo stesso contenuto. Ad esempio, se una persona dice ad un'altra: «che simpatica sei!», questo messaggio può essere decodificato sia in modo letterale, ossia che la persona esprime il proprio apprezzamento per la simpatia dell'altra, sia in modo metaforico, ossia che la persona esprime la propria disapprovazione per l'antipatia dell'altra. La de-codificazione in un senso o nell'altro del contenuto del messaggio dipende dal tipo di relazione che è in atto tra le due persone nel momento in cui il messaggio viene trasmesso. Se stanno litigando o semplicemente punzecchiandosi la decodificazione sarà metaforica, mentre se stanno tubando essa sarà letterale.
    Occorre poi sottolineare che la dimensione relazionale, oltre che per la decodificazione del contenuto, è importante perché molti problemi della vita di gruppo e dei rapporti interpersonali hanno origine a livello di relazione. Di solito questi problemi si aggravano perché le persone non sono in grado di affrontare tra di loro una comunicazione sulla relazione. Per capire e risolvere i problemi di tensione, di conflitto, di disgregazione che si manifestano nelle comunicazioni interpersonali di gruppo, è necessario che l'educatore metta il gruppo in condizione di analizzarle dal punto di vista della relazione, ovvero della metacomunicazione.
    Molti studi condotti sia su nuclei familiari che su gruppi, hanno infatti da tempo dimostrato che i conflitti (disaccordi, litigi, ecc.) di cui sono afflitti, di solito hanno origine non a livello di contenuto ma di relazione. Normalmente le persone coinvolte in questi conflitti non hanno consapevolezza di questo, e pensano che all'origine dei loro conflitti vi siano problemi di contenuto. Invece il disaccordo sul contenuto sovente non è che pretesto per manifestare il disaccordo a livello di relazione; infatti anche quando si risolve il conflitto a livello di contenuto il disaccordo resta, magari a livello latente, in attesa di manifestarsi in un nuovo contrasto di contenuto.
    Alcuni studiosi contemporanei sostengono che la comunicazione interpersonale ha comei
    motivazione al suo svolgersi il. fatto che essa serve agli individui a confermare il proprio sé, per ciò che tè e può di- Nella munazione con un altro, nfatt, un individuo ricerca la con- venire. co
    ferma del proprio modo d'essere, dellai propria storia passata e del proprio progetto per l'avvenire, e mentre cerca nell'altro questa con- ferma ha la capacità a sua volta di offrirla all'altro. Sarebbe questo il motivo che spinge l'uomo a sviluppare la comunicazione ben oltre i limiti della pura necessità biologica di sopravvivenza e di evoluzione. È senz'altro un'ipotesi interessante, che può offrire la spiegazione della potenza della relazione aut metacomunicazione, visto che essa è la dimensione della comunicazione in cui avviene la conferma o la disconferma del sé dell'altro. Occorre poi anche ricordare che il bisogno di conferma del sé è un bisogno la cui soddisfazione è indispen- sabile per la stabilità psichica
    Quanto appena detto significa che la comunicazione di una persona nei confronti di una o più persone contiene sempre, oltre al contenuto, la domanda: «Io esisto? E se esisto tu mi accetti e mi riconosci per come io sono?». La risposta che l'altro o gli altri danno può essere:
    • una risposta pienamente affermativa che riconosce sia l'esistenza che l'identità dell'altro. È questo il caso della risposta puntuale, serena e cordiale;
    • una risposta parzialmente affermativa che riconosce l'esistenza dell'altro ma ne rifiuta l'identità. In questo caso vi è una risposta sì puntuale ma ostile o conflittuale;
    • una assenza di risposta che nega sia l'esistenza che l'identità dell'altro.
    Il primo caso è talmente evidente e normale che è inutile soffermar- si su di esso. La risposta ostile, per quanto dolorosa possa essere per chi la riceve, è comunque un riconoscimento che il comunicante esiste e che egli è in qualche modo accettato. Il problema in questo caso è costituito solo dalla divergenza tra l'immagine di sé che la persona si è costruita e quella che di lei hanno gli altri.
    Da notare che questo conflitto, se accolto e fatto evolvere, può svolgere una funzione positiva rispetto alla maturazione e alla crescita dell'individuo.
    La disconferma invece è una risposta che afferma, di fronte alla domanda di riconoscimento del sé del comunicante, semplicemente: «Tu non esisti». È la situazione diabolica in cui una persona, qualsiasi cosa faccia, non ottiene alcuna retroazione efficace e adeguata. È come se vivesse prigioniera in un mondo di nebbia, come se fosse invisibile agli altri e, quindi, anche a se stessa. La schizofrenia pare abbia radici e cause nella disconferma.
    Un modo di realizzazione pratica della disconferma è quello, ad esempio, di premiare o punire sempre il comportamento di un individuo al di là degli effetti reali che esso produce, senza considerare mai se esso è adeguato o inadeguato, utile o dannoso, buono o cattivo, ecc. Si potrebbe dire che l'eccesso di amore, per cui tutto ciò che la persona amata fa, va sempre per definizione premiato, nella realtà è una negazione di esistenza di questa stessa persona.
    La disconferma produce, tra le altre possibili conseguenze, l'impenetrabilità, che è mancanza di consapevolezza del punto di vista dell'altro nel rapporti interpersonali. L'impenetrabilità è cioè una sorta di cecità nei confronti di tutti gli aspetti della metacomunicazione, è una chiusura quasi assoluta al punto di vista dell'altro. Normalmente essa è anche responsabile delle false armonie, degli pseudo contrasti sui contenuti, dei conflitti espliciti che emergono nello svolgersi della relazione di comunicazione. Ora l'educatore deve far acquisire la coscienza che, affinché tra le persone possa svolgersi una interazione efficace e non disturbata, ognuna di esse deve essere attenta al punto di vista dell'altra, non solo sui contenuti ma in particolare sulla relazione.
    Una breve nota ancora su questo aspetto. Il permissivismo inteso come non premio e non punizione delle azioni di un educando è fonte di impenetrabilità nel rapporto educatore educando e di patologia nella dimensione del sé di quest'ultimo. In ogni caso questo tipo di relazione fa male anche all'educatore.
    Anche l'atteggiamento austero dell'educatore che punisce solo e non premia mai è fonte di un eguale pericolo di impenetrabilità, in quanto rende allo stesso modo, anche se di segno contrario, monotamente uguali le risposte alla comunicazione dell'educando.

    La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti

    La comunicazione umana, così come la vita, si svolge in un continuum che per poter essere letto, compreso e dotato di significato ha bisogno, attraverso il linguaggio, di essere organizzato in unità, in segmenti, e trasformato in una sequenza di eventi discreti, di unità linguistiche. Questo vale in particolar modo per i linguaggi che sono dotati di una struttura logico-formale. Il modo di segmentare, ovvero di punteggiare, una qualsiasi sequenza di eventi o una sequenza di segni, determina in gran parte il significato degli stessi eventi e segni. Uno stesso continuo di eventi o di segni cambia significato a seconda del modo in cui è segmentato attraverso la punteggiatura.
    Individui diversi, che vivono la stessa sequenza di eventi, danno a volte interpretazioni e significati differenti perché punteggiano in modo diverso il succedersi di quegli stessi eventi. Le cause di una differente punteggiatura tra individui diversi può essere ricercata nel fatto che essi possiedono una diversa informazione, una diversa visione del mondo, un diverso modo di selezionare le informazioni (10.000 al secondo) che li aggrediscono in continuazione. Questo significa che ogni individuo possiede un proprio sistema simbolico attraverso cui organizza e struttura la propria percezione della realtà. Al di là di quale sia l'origine della diversità della punteggiatura, di solito ogni individuo, essendo diffusa e radicata la convinzione che esista soltanto una realtà, è convinto che la visione che egli ha del mondo rifletta il mondo come oggettivamente è. L'individuo tende cioè a confondere il proprio modo di punteggiare gli eventi con quello assoluto, oggettivo. Di conseguenza di fronte alle diversità di punteggiatura, in molti casi, ognuno è convinto che la propria sia quella giusta e non capisce perché l'altro neghi, a suo avviso, l'evidenza.
    Tutto ciò è fonte di disturbi di comunicazione a livello di relazione. La diversità della punteggiatura può fare sì, poiché è profondamente radicata nelle persone la convinzione che gli eventi della vita e della comunicazione siano sempre prodotti da cause che agiscono in modo lineare, che ognuno dei comunicanti attribuisca i disturbi relazionali alla responsabilità all'altro. In altre parole, che veda il proprio agire disturbato come l'effetto dell'agire dell'altro, a cui attribuisce il ruolo di causa. E tutto questo in assoluta buona fede.
    Un esempio tipico è il caso della coppia in cui la moglie afferma che tutte le volte che il marito diventa aggressivo e violento lei si chiude a riccio rifiutando la comunicazione, mentre il marito dice che tutte le volte che la moglie si chiude a riccio e rifiuta la comunicazione lui diventa aggressivo e violento. Come si vede, entrambi riconoscono gli stessi fatti, solo che ognuno di essi pone il proprio comportamento come effetto di quello dell'altro. Questo avviene perché ognuno punteggia la relazione in modo diverso, ovvero ognuno mette l'inizio e la fine della relazione in un momento diverso della stessa.
    Questa diversità di punteggiatura è possibile perché la relazione di comunicazione è di tipo retroattivo, circolare, e in un cerchio non c'è inizio e non c'è fine. Ognuno dei due comunicanti attribuisce, invece, arbitrariamente un punto di inizio al cerchio.
    Il problema della diversa punteggiatura può essere superato solo se si riesce a metacomunicare su di essa avendo preso coscienza della sua natura soggettiva e arbitraria. Solo se si riesce a capire perché l'altro punteggia in un modo diverso dal proprio gli eventi, si può superare il disturbo di comunicazione.

    Gli esseri umani comunicano utilizzando tanto il modulo numerico che quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia, ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica, ma non ha alcuna sintassi adeguata per definire in un modo non ambiguo la natura delle relazioni

    L'uomo è l'unico essere vivente che nella comunicazione utilizza sia il modulo analogico che quello digitale, e questo fatto appare di estrema importanza. Il modulo digitale è quello che utilizza segni che hanno una relazione arbitraria e astratta con gli oggetti fisici e concettuali per cui stanno e che vengono organizzati in un linguaggio secondo una determinata sintassi logica. In altre parole, la lingua, l'aritmetica, la musica, ecc. sono esempi di linguaggi che appartengono alla modalità digitale.
    Nella comunicazione in cui si utilizza il modulo analogico si hanno invece due altri tipi di relazione tra segno e oggetto. La prima, di solito non verbale, stabilisce una similitudine fisionomica tra segno e cosa rappresentata. Un esempio è dato dal disegno di un oggetto. La seconda, invece, è biologicamente obbligata e determinata, in quanto il rapporto del segno con l'oggetto è stabilito per via filogenetica e appartiene, quindi, della sfera istintuale dell'organismo.
    Segni di questo genere sono ad esempio il riso e il pianto, oppure il gesto attraverso cui un animale offre la propria parte più debole e vulnerabile all'avversario a cui riconosce la dominanza.
    Nell'analisi dell'interazione umana è rilevante la comprensione e la descrizione di come i due livelli interagiscano tra di loro, di come cioè la comunicazione a livello analogico possa essere tradotta in quella digitale e viceversa.
    La comunicazione analogica appartiene senza dubbio alla parte più arcaica dell'uomo, essendo la modalità di comunicazione che egli condivide con le specie inferiori. Molti problemi nell'interazione umana nascono dalla difficoltà di tradurre il linguaggio analogico in quello logico simbolico. Gli errori di traduzione danno origine a disturbi di relazione tra le persone che sono in comunicazione. Ciò perché l'uomo, a differenza dell'animale, ha sviluppato una comunicazione digitale che è gerarchicamente superiore a quella analogica, per cui il messaggio analogico per essere percepito a livello di decisione, per diventare cioè l'origine di un comportamento di risposta, deve essere prima tradotto nel linguaggio digitale.
    Questo non vale sempre, sia chiaro, anche se è valido in tutti i casi di condotta razionale dell'uomo. Certamente non vale in quelle situazioni molto particolari in cui salta il controllo razionale dell'uomo su se stesso. Quando l'uomo si muove all'interno di una condotta istintuale, si muove a livello di elaborazione dell'informazione analogica. La traduzione del messaggio analogico in quello digitale è soggetta a notevoli distorsioni, anche perché situazioni determinate nel contesto analogico risultano indeterminate in quello simbolico-formale del modulo digitale.
    Questo perché il linguaggio analogico non ha né morfologia né sintassi, non conosce la negazione e le operazioni logiche elementari. Quando viene tradotto deve essere completato, ma il completamento avviene molto spesso sulla base di una interpretazione soggettiva che può dare al messaggio un significato diverso da quello che gli ha dato chi lo ha trasmesso.
    Occorre allora, per poter tradurre senza distorsioni, avere ben presente che la caratteristica centrale del messaggio analogico è il suo non essere una asserzione o una denotazione, ma sempre e solo una domanda e una proposta di relazione. I messaggi analogici sono sempre invocazioni di relazione che propongono la ricerca di un accordo circa le future regole di relazione.
    Ad esempio, un atteggiamento di aggressione può significare tanto una minaccia quanto una intenzione di non aggressione. Non esistendo nel linguaggio analogico la negazione, un soggetto non può comunicare «io non ti aggredisco»: l'unico segno che può comunicare è quello dell'aggressione. Se chi lo riceve dà ad esso un significato negativo, cioè di non aggressione, allora con un altro segnale (ad esempio nell'animale l'offrire la parte più indifesa all'altro) fornirà le regole di una interazione che esclude l'aggressione. Se invece darà un significato positivo al segno di aggressione, difendendosi o aggredendo, di fatto comunicherà all'altro la proposta di una relazione conflittuale
    Il fraintendimento a livello digitale i mssggi analogici provoca sempre l'insorgere di conflitti di relazione. Gli animali, la cui possibilità di comunicare è collocata prevalentemente a livello analogico, possono essere un'utile fonte di insegnamento circa l'uso di questo modulo di comunicazione. Per segnalare la negazione di un'azione, la propongono e la mostrano senza portarla a termine. Il non compi- mento dell'azione segnala la negazione e dà all'altro il segnale dell'invocazione della relazione negata dall'azione.
    Dato che molti aspetti della vita di relazione sociale sono intessuti, nonostante il primato deve odulo digitale, dalla comunicazione analogica, è necessario tenpresente gli aspetti che la caratterizzano per ridurre queste fonti di conflitto inutile, e cioè gli errori di traduzione nel linguaggio digitale.
    C'è anche un altro aspetto importante, ed è quello che riguarda il processo inverso, quello della traduzione del messaggio digitale in quello analogico. Occorre subito segnalare che questa tale traduzione è solitamente una vera e propria regressione, e come tale patogena, che scatta quando uno o più soggetti perdono, parzialmente, la capacità di comunicare gli aspetti della relazione con il linguaggio simbolico, e cioè di metacomunicare a livello simolico. In questi casi il ritorno all'analogico diviene, apparentemente, b l'unica soluzione possibile. C'è da dire che nella comunicazione umana, la dimensione analogica ca- ratterizza spesso, come aspetto della relazione, la trasmissione di un contenuto. Il dominio maturo della comunicazione nasce dalla capacità delle persone di metacomunicare a livello digitale. Controllare le relazioni, attraverso i linguaggi del modulo digitale, è l'affermazione di una socialità non intrisa di barbarie.

    Tutti gli scambi di comunicazione sono o simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sulla uguaglianza o sulla differenza

    Le relazioni interpersonali tra due o più persone tendono a svolgersi all'interno di un continuo che ha agli estremi due poli. L'uno costituito dall'interazione simmetrica e l'altro dall'interazione complementare. L'interazione simmetrica si ha quando, di fronte al messaggio inviatogli da un partner, chi lo riceve risponde in modo speculare, soprattutto a livello di relazione. Un esempio tipico è quello della persona che di fronte a un'azione di dominio di un partner risponde con un'azione di contro-dominio equivalente, come nel caso di chi a fronte della richiesta «vammi a prendere quella cosa!» risponde «vattela a prendere tu!».
    L'interazione complementare è, invece, quella in cui il comportamento di uno dei partner completa quello dell'altro. Di fronte ad esempio ad un atto di dominio da parte di un partner, l'altro risponde con un atto di sottomissione. Nell'esempio precedente si ha una relazione complementare quando chi riceve il messaggio accetta il comando e va prendere la cosa richiesta.
    Nell'interazione complementare un partner di solito assume la posizione primaria-dominante (one-up), mentre l'altro assume una posizione gregaria-secondaria (one-down). Esempi di relazioni complementari normali sono quella medico-paziente, docente-allievo, madre-figlio, ecc.
    In molte situazioni la rigidità di comportamento dei soggetti comunicanti può provocare una sorta di progressione della relazione simmetrica, dove l'esasperazione degli atteggiamenti simmetrici fa progredire lo scontro sino a livelli estenuanti.
    Di segno opposto, ma comunque preoccupanti, sono anche le relazioni in cui la complementarità, che normalmente assicura armonia, vede sempre gli stessi soggetti in posizione primaria-dominante e, di contro, gli altri sempre in posizione gregaria-secondaria.
    L'educatore deve operare affinché ci sia nel gruppo che educa, a seconda delle situazioni e del contesto, una scelta adeguata del tipo di relazione, simmetrica, complementare o mista che sia. In certe situazioni è utile che un partner reagisca con un atteggiamento simmetrico, mentre in altre è più utile quello complementare. Questo perché la buona armonia in un gruppo umano richiede qualche volta anche duri contrasti oltre all'accordo. Se si pensasse di eliminare le relazioni simmetriche in un gruppo si potrebbe, ad esempio, rischiare la dipendenza da una forte leadership. La complementarità assoluta genera sempre dipendenza, mentre una corretta miscela di complementarità e simmetria, specialmente quando la complementarità si sviluppa alcune volte nella direzione di un partner e le altre nella direzione opposta, è alla base di un gruppo democratico.


    NOTE

    1 Von Bertalanffy L., La teoria generale dei sistemi, ILI, Milano 1971.
    2 Watzlawick P., Helmick Bea'in J., Jackson D. P., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.


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