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    Società interculturale: sogno irrealizzabile o utopia possibile?



    Educare all’intercultura /7

    Per una pedagogia della vulnerabilità

    Roberto Radice

    (NPG 2009-02-61)


    «Il nostro mondo, cosiddetto globale, in fin dei conti
    non è che un pianeta di migliaia e migliaia
    delle più svariate province che non si incontrano mai».

    [Ryszard Kapuściński)


    Durante le ultime elezioni politiche nazionali, tra i numerosi manifesti elettorali che inneggiavano a questo o a quel candidato ritratto in una sorridente quanto artefatta posa, un manifesto su tutti spiccava: in esso era raffigurata l’immagine, in primo piano, di un capo indiano d’America con il tradizionale copricapo di penne d’aquila e lo slogan accanto all’immagine recitava «Loro hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve». Poco sotto vi era il simbolo del partito della Lega Nord affiancato dalla scritta «Pensaci». Per chiunque non abbia avuto la possibilità di ammirare tale opera propagandistica – perché magari non residente al nord Italia – è possibile ritrovarla facilmente nello sconfinato mondo di internet, digitando sul famoso motore di ricerca Google, nella sezione immagini, le parole «manifesti elettorali immigrazione»: è la prima che viene visualizzata.
    Malgrado tale manifesto sia stato copiato dalla Lega dei Ticinesi della confinante Svizzera, il motto leghista contiene due verità. La prima: loro – questo pronome im-personale cancella istantaneamente l’identità della popolazione nativa – hanno subito l’immigrazione, infatti non hanno avuto alcuno scampo di fronte al potere incontrastabile dei fucili dei conquistadores. La seconda: ora vivono nella riserve, ma anche questa condizione è stata totalmente subita se volevano rimanere in vita, o meglio sopravvivere poiché a rischio estinzione.
    Associato al modello di questo manifesto ve ne erano altri due, sempre con il capo indiano in «estinzione» in bella mostra, che affermavano rispettivamente: «Loro non hanno potuto mettere regole all’immigrazione. Ora vivono nelle riserve»; «Gli indiani non sono riusciti a fermare l’invasione. Credi di essere forte come gli indiani e sopravvivere nelle riserve?».
    Il trittico di suddetta iconografia ci permette di affermare, senza alcuna titubanza, che «il razzismo viene perpetuato ogni volta che ci si limita ad associarlo a un’esperienza concreta e vissuta a livello viscerale, in opposizione o senza alcuna connessione con il pensiero astratto e la produzione di teoria culturale» (bell hooks). Come già aveva intuito Pier Paolo Pasolini, le parole creano la realtà e la cultura, quest’ultima produce dei codici, i codici producono il comportamento e il comportamento è un linguaggio. È allora evidente come il razzismo sia il linguaggio di un comportamento.

    Le «riserve» contemporanee

    Il presupposto di tale riflessione parte dalla convinzione personale di chi scrive che non ci può essere autentica accoglienza senza regole e, che la vita associata per essere tale non deve nascondere le «estraneità» in quelle che sono le «riserve contemporanee» – come lo sono ad esempio i centri di permanenza temporanea recentemente ribattezzati in «centri di identificazione ed espulsione» – ma tanto meno voler creare una comunità che cancelli le individualità risucchiandole in un tutto indistinto – così come fece il regime nazi-fascista e forse come sta accadendo nell’attuale società mass-mediatica. Di nuovo Pasolini, in Scritti corsari, rilevava come «il fascismo non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…».
    Guardando con occhi disincantati la nostra società verrebbe da affermare che realmente «l’Umanità non è mai tutta insieme».
    Ma che cosa vi è di così ostacolante nel contatto con chi è diverso, straniero, estraneo? Non dovremmo essere tutti uniti e inclusi sotto la comune categoria biologica di «essere umano»? O c’è chi è più essere umano e chi lo è un po’ meno o non lo è proprio? Tutti gli essere viventi non dovrebbero ritrovare una comunanza sotto il segno della loro vulnerabilità e creaturalità?
    Thomas Hobbes, nel Leviatano, sostenne che le persone sono uguali nella loro «fragilità» e questo le pone, come già Aristotele aveva intuito, in un costante stato di invidia e perciò di paura reciproca.
    La «fragilità» diviene per tale motivo il crocicchio dove è possibile riconoscersi per immaginare una possibile società interculturale oppure dove può attecchire l’annullamento della altrui individualità e originarsi la prevaricazione razzista.
    Il mondo di domani dipenderà dai giovani di oggi che si trovano nel mezzo di questo crocevia e un educatore, impegnato in una prassi pedagogica interculturale, ha il dovere di ascoltare tutti i giovani perché da tutti loro può venire un’idea.
    Sono Martina, Gaia, Anna, Sara, Xheni, Alessandra e Gabriele. Hanno tredici anni e quotidianamente vivono accanto a coetanei stranieri – a scuola, nella squadra di calcio o di pallavolo, in oratorio –. Non è però altrettanto scontato il come si relazionano a questa diversità e infatti dubbi e paure inespresse importunano le loro adolescenti esistenze.
    Provocati dalle domande che ci siamo posti in precedenza da subito affiorano contraddizioni e lacerazioni dalle tinte fosche.
    «Abbiamo paura di offendere e mancare di rispetto agli stranieri perché non ne conosciamo la cultura e la tradizioni» (Anna); «spesso non sappiamo come comportaci perché non conosciamo la loro lingua» (Sara); «abbiamo paura dei romeni adulti che incontriamo per strada perché c’è troppa influenza dei mass-media che dicono che tutti i romeni sono violenti» (Gaia). Il sentimento predominante sembra essere la paura: paura legata all’ignoranza della cultura straniera ma soprattutto paura associata e contaminata dall’immagine degli immigrati che viene proposta e ri-prodotta dal sistema mediatico. Paura che vuole ridurre l’Altro – facendogli violenza spesso accuratamente velata – a immagine di ciò che vogliamo per convenienza, indifferenza o moraleggiante buonismo. La paura viene usata come strategia di disciplinamento della società: ci educano ad avere paura e a incutere paura. Paura del diverso, dello straniero, dell’anormale e infatti tutto il territorio è video sorvegliato: le telecamere servono per rassicurare i cittadini che «non devono avere paura di avere paura». Vi è una vera e propria costruzione sociale mediatica degli immigrati attuata attraverso un canovaccio stilistico efficace: immigrazione = illegalità = disordine = degrado = paura. Ciò porta appunto alla costruzione sociale del migrante come nemico. Non è altro che la banalità del male: la perdita completa della concezione del male che si può arrecare anche tramite la violenza delle belle maniere, del rendere le persone sole e trasparenti – come se non fossero al mondo –. Ma in questa riduzione operata dalla cultura offensiva dell’inimicizia e da politiche ingiuste viene negato il diritto a essere cittadini, con diritti e doveri.
    Strettamente connessa alla paura ecco emergere, dalle acque torbide del senso comune, l’invidia, la rivalità: «gli stranieri vengono qui in Italia per fotterci tutti, in modo particolare i romeni. Ma come è possibile che chi è diverso ha sempre ha più diritti e meno doveri?» (Anna).
    Infine è percepibile come la diversità crei disturbo: «le differenze ostacolano e chi è diverso è una persona fastidiosa perché non è uguale a noi» (Martina).
    Sono frasi che posso urtare la sensibilità adulta ed essere immediatamente incasellate come xenofobe, ma a uno sguardo più approfondito nascondono una richiesta di senso che è la vera sfida educativa e antropologica del dare senso all’estraneità, un senso che trovi una via media tra l’assolutismo e il relativismo culturale.
    In questi ragazzi e ragazze si cela anche una sana indignazione perché «la scuola non fa niente per l’integrazione» (Gabriele) e «ci sono decisioni politiche e sociali che devono essere prese per il bene di tutti, italiani e stranieri, ma manca la volontà e l’interesse. A me fanno venire il nervoso gli italiani che dicono che gli immigrati vengono da noi e noi li accettiamo bene ma poi questi stessi italiani li trattano a pesci in faccia» (Alessandra).
    Xheni, proveniente dall’Albania, afferma senza astio e timidamente, che «la maggior parte delle persone è egoista, pensano solo a se stesse e questo crea il razzismo perché l’altro è quello che può rovinare il mio star bene». Le fa eco Gaia: «nulla potrà cambiare se non cambia la mentalità delle persone».
    Il senso di impotenza di fronte a una situazione che si vorrebbe cambiare apre inoltre la voragine dello sconforto: «una società interculturale… è possibile ma non è realizzabile. Noi ci possiamo anche credere ma siamo in pochi» (Martina).

    Occasioni educanti

    Il compito dell’educatore dovrebbe essere quello di trasformare un evento occasionale in un’occasione educante e paure, rabbia, invidia, indignazione, sconforto quando vengono verbalizzate non possono essere lasciate a loro stesse poiché esprimono la richiesta di un aiuto, quell’aiuto urgente che Samuel Beckett in Aspettando Godot esprime con folgorante poesia:
    «C’è qualcuno che chiede aiuto»
    «Sì – risponde l’altro – questa richiesta è per tutta l’umanità»
    «Ma in questo momento – dice il primo – l’umanità siamo tu ed io».
    Siamo tu ed io l’umanità, siamo io educatore e tu educando, io italiano e tu romeno, albanese, marocchino, senegalese, moldavo nella comune ricerca in questa terra di frontiera che è il nostro essere reciprocamente vulnerabili. Dare spazio educativo a terre di frontiera e non a linee di frontiera – che invece separano, dividono nettamente, assimilano indistintamente o ghettizzano – per provare a guardare allo straniero non solo come immigrato, corpo estraneo e problema da normalizzare, ma anche come migrante che ha lasciato la sua terra, la sua storia, il suo mondo dove si riconosceva ed era riconosciuto. Le scuole, i centri di aggregazione, gli oratori, i centri sportivi sono chiamati da una corresponsabilità educativa ad accogliere queste estraneità affinché la società interculturale non sia un sogno irrealizzabile.
    È inoltre auspicabile predisporre meccanismi economici e istituzionali di integrazione sociale attraverso i quali l’Altro, come lo sono io stesso, sia libero di essere cittadino del mondo e «nella libertà dell’altro rientra tutto ciò che si intende per essenza, peculiarità, disposizioni, anche le debolezze e le stravaganze, che mettono alla prova così duramente la nostra pazienza, vi rientra ciò che dà luogo agli attriti, ai contrasti agli scontri fra me e l’altro. Portare il peso dell’altro significa sopportare la realtà creaturale dell’altro» (Dietrich Bonhoeffer, Vita comune).
    Come esplicitamente dichiarato dalle parole dei ragazzi, l’Altro è fastidioso, è un peso alla mia libertà perché scomoda la mia visione del mondo, i miei orizzonti di riferimento e irrompe nell’omogeneità sconquassandola. Il reciproco e fraterno riconoscimento, l’ascolto attento di culture diverse, la capacità di intuire che si può camminare insieme, la qualità di affiancarsi al cammino senza imporsi, è un tragitto che passa per la porta stretta dell’essenzialità dell’unica radice: la vulnerabile unicità. In questo sta la sacralità della vita altrui.
    «Se tutto fosse facile non ci sarebbe il mondo» ha detto Gabriele a conclusione della chiacchierata, perché ovviamente tanti passi ancora restano da compiersi e questa Umanità è tuttora divisa in chi sta dentro e chi sta fuori, tra chi è accolto e chi è rifiutato, tra chi è amato e chi è odiato. Uno dei rischi che come Paese stiamo correndo è quello di una «trasformazione immaginaria del territorio in proprietà di un popolo, o di una razza» ma, come direbbe Immanuel Kant, «ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro».
    È la logica della compresenza che può affinare l’attenzione verso l’esistenza vulnerabile di chiunque abbia un volto umano: il riconoscimento dell’altro trova il suo passaggio obbligato ed etico nell’essere antropologicamente vulnerabili.
    Come educatori dobbiamo abitare la fragile terra di frontiera consapevoli che l’Altro è «mistero irrefutabile, che si rende percepibile sulle instabili frontiere degli interessi in conflitto e che sfuggirà sempre a una confisca, persino nell’apparente fusione dell’amore o della collaborazione nata da una medesima passione.
    Sempre là, mai catturato. L’altro non è mai «altra cosa» da ciò che egli crede di dover difendere, e nondimeno mai identificabile con ciò che si può acquisire di lui» (Michel de Certau, Mai senza l’altro); e la realizzazione di una società delle differenze passa anche dall’incessante lavorio dell’ascoltare quel qualcuno che chiede aiuto e del non lasciare vuoto.


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