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    Pastorale giovanile in ricerca


     

    Inizia un anno di autentico discernimento

    Rossano Sala

    (NPG 2019-01- 2)


    Buon anno 2019 a tutti e a ciascuno dei lettori di NPG!
    Vorrei incominciare il nostro cammino insieme in modo provocatorio, ponendo nel cuore di ogni lettore una “sana inquietudine” che ne risvegli il cuore. Lo faccio interpellando ciascuno di voi, facendomi alcune domande per poter partire secondo quello “stile pedagogico interpellante” che l’Assemblea sinodale ha tanto raccomandato in un bel passaggio del Documento finale al n. 70:

    «La missione è una bussola sicura per il cammino della vita, ma non è un “navigatore”, che mostra in anticipo tutto il percorso. La libertà porta sempre con sé una dimensione di rischio che va valorizzata con coraggio e accompagnata con gradualità e saggezza. Molte pagine del Vangelo ci mostrano Gesù che invita a osare, a prendere il largo, a passare dalla logica dell’osservanza dei precetti a quella del dono generoso e incondizionato, senza nascondere l’esigenza di prendere su di sé la propria croce (cfr. Mt 16,24). Egli è radicale: "dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso" (Francesco, Omelia del 14 ottobre 2018). Evitando di illudere i giovani con proposte minimali o soffocarli con un insieme di regole che danno del cristianesimo un’immagine riduttiva e moralistica, siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi le loro responsabilità, certi che anche l’errore, il fallimento e la crisi sono esperienze che possono rafforzare la loro umanità».

    Questa “pedagogia che provoca” e invita ad uscire non vale solo per i giovani con cui abbiamo a che fare quotidianamente, ma ci riguarda come Chiesa intera, al cui interno ci siamo anche noi in quanto appassionati dei giovani. Anche noi dobbiamo reimparare ad osare con coraggio e a prendere il largo con audacia.

    Il Sinodo è finito?

    Incomincia un anno entusiasmante. L’Assemblea sinodale si è conclusa il 28 ottobre 2018, ma il Sinodo continua nelle nostre Chiese particolari. Sarebbe un imperdonabile errore pensare che tutto sia finito, che si tratterebbe semplicemente di “applicare” in forma anonima – come degli automi che non sentono e non pensano – ciò che i Padri sinodali avrebbero deciso per conto nostro e al nostro posto. Noi siamo invece parte in causa con la nostra intelligenza pastorale e la nostra sapienza pedagogica. Il Documento finale, riflesso della coscienza di coloro che hanno partecipato all’Assemblea, è chiaro e limpido su questo punto nel momento in cui scrive che

    «il termine dei lavori assembleari e il documento che ne raccoglie i frutti non chiudono il processo sinodale, ma ne costituiscono una tappa. Poiché le condizioni concrete, le possibilità reali e le necessità urgenti dei giovani sono molto diverse tra Paesi e continenti, pur nella comunanza dell’unica fede, invitiamo le Conferenze Episcopali e le Chiese particolari a proseguire questo percorso, impegnandosi in processi di discernimento comunitari che includano anche coloro che non sono vescovi nelle deliberazioni, come ha fatto questo Sinodo. Lo stile di questi percorsi ecclesiali dovrebbe comprendere l’ascolto fraterno e il dialogo intergenerazionale, con lo scopo di elaborare orientamenti pastorali particolarmente attenti ai giovani emarginati e a quelli che hanno pochi o nessun contatto con le comunità ecclesiali. Auspichiamo che a questi percorsi partecipino famiglie, istituti religiosi, associazioni, movimenti e i giovani stessi, in modo che la “fiamma” di quanto abbiamo sperimentato in questi giorni si diffonda» (n. 120).

    Gli inviti sono molto esigenti: si parla di “processi di discernimento comunitari” capaci di coinvolgere tutti, fatti di “ascolto fraterno” e di “dialogo intergenerazionale”. Insomma è l’invito a far parte di una Chiesa sinodale e missionaria, dove non ci sono semplicemente alcuni che pensano e decidono al posto di altri, ma dove il discernimento è davvero vissuto come esperienza comune di ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa oggi.
    La recente Costituzione Apostolica Episcopalis communio, giustamente preoccupata della ricezione del Sinodo, che da sempre costituisce un tallone d’Achille di tutto il processo, spinge la Chiesa nel suo insieme a pensare la sinodalità come un processo permanente nella vita e nella missione della Chiesa. Raccomando a tutti gli addetti ai lavori di valorizzare il recente testo della Commissione Teologica Internazionale sul tema: La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018. Si tratta di uscire dalla logica “evento” ed entrare nella logica “cammino”, conformemente all’icona dei discepoli di Emmaus, non a caso scelta come referente trasversale di tutta l’esperienza sinodale. Tre numeri della Costituzione Apostolica Episcopalis communio sono dedicati alla “fase attuativa dell’Assemblea del Sinodo” che non possono essere disattesi (nn. 19-21): essi coinvolgono la Chiesa universale, le Conferenze Episcopali e le Chiese particolari.

    Frequentare il futuro

    Effettivamente, se ci pensiamo bene, è molto facile parlare di un documento “per sentito dire” e solo per criticarlo. Il santo Padre lo aveva detto il 3 ottobre, giorno di apertura dell’Assemblea sinodale, e aveva fatto un invito chiaro:

    «Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo».

    È importante leggere un Documento, ma è molto più importante il modo in cui lo si legge. È infatti difficile “ascoltare” davvero un documento, regalandogli autentica attenzione spirituale: approfondirlo per avere elementi per discernere, per pensare insieme a coloro che hanno pensato ed entrare in empatia con un evento spirituale che ha acceso un fuoco. Perché quello che noi oggi abbiamo bisogno è di crescere nella nostra capacità di discernimento. Che cosa significa? Saper ascoltare con concretezza la vita dei giovani e insieme gli appelli dello Spirito che ci arrivano attraverso di loro.
    A questo proposito è stato illuminante l’Angelus che papa Francesco ha rivolto il giorno della conclusione dell’Assemblea sinodale alla Chiesa tutta il 28 ottobre 2018. Risentire con attenzione alcuni passaggi fondamentali, che prendono corpo a partire da una rinnovata capacità di ascolto, ci farà ancora del bene:

    «Con questo atteggiamento fondamentale di ascolto, abbiamo cercato di leggere la realtà, di cogliere i segni di questi nostri tempi. Un discernimento comunitario, fatto alla luce della Parola di Dio e dello Spirito Santo. Questo è uno dei doni più belli che il Signore fa alla Chiesa Cattolica, cioè quello di raccogliere voci e volti dalle realtà più varie e così poter tentare un’interpretazione che tenga conto della ricchezza e della complessità dei fenomeni, sempre alla luce del Vangelo. Così, in questi giorni, ci siamo confrontati su come camminare insieme attraverso tante sfide, quali il mondo digitale, il fenomeno delle migrazioni, il senso del corpo e della sessualità, il dramma delle guerre e della violenza.
    I frutti di questo lavoro stanno già “fermentando”, come fa il succo dell’uva nelle botti dopo la vendemmia. Il Sinodo dei giovani è stato una buona vendemmia, e promette del buon vino. Ma vorrei dire che il primo frutto di questa Assemblea sinodale dovrebbe stare proprio nell’esempio di un metodo che si è cercato di seguire, fin dalla fase preparatoria. Uno stile sinodale che non ha come obiettivo principale la stesura di un documento, che pure è prezioso e utile. Più del documento però è importante che si diffonda un modo di essere e lavorare insieme, giovani e anziani, nell’ascolto e nel discernimento, per giungere a scelte pastorali rispondenti alla realtà».

    Ecco, il Sinodo può davvero essere generativo se diffonde un modo di essere e lavorare insieme che dice la qualità di una “Chiesa in conversazione permanente” con i giovani e con il mondo. Chi ha partecipato al Sinodo ha fatto l’esperienza concreta che oggi non siamo chiamati a “parlare al mondo”, ma a “parlare con il mondo”, che non dobbiamo “parlare ai giovani”, ma “parlare con i giovani”. E soprattutto camminare insieme.

    Sensibili allo Spirito?

    In questo immediato periodo dopo l’Assemblea sinodale mi ha molto colpito quella che definirei una certa “insensibilità allo Spirito” rispetto alla stagione ecclesiale che stiamo vivendo. C’è stato effettivamente modo e modo di partecipare all’Assemblea sinodale di ottobre 2018.
    Tutti i giovani presenti dal 3 al 28 ottobre nell’Aula sinodale e che sono intervenuti hanno mostrato tutta la freschezza della loro presenza, caratterizzata dall’entusiasmo di partecipare ad un evento unico a cui per la prima volta potevano presenziare in rappresentanza di tutti i giovani del mondo: i giovani, dal mio punto di vista, erano certi di vivere un evento dello Spirito e nello Spirito. Ho sentito che loro più di tutti gli altri erano “sensibili allo Spirito”. Il loro atteggiamento e la loro parola non hanno lasciato in me alcun dubbio in proposito.
    Molti Vescovi, sulle orme dei giovani, sono entrati con grande passione nei lavori sinodali, certi che l’azione dello Spirito fosse reale, attiva e attivante: si è fatta sentire la forza del loro cuore pastorale, la loro commozione nel raccontarci le diverse situazioni dei giovani dei loro paesi di provenienza, le loro spinte verso un rinnovamento pastorale ineludibile. Molti Vescovi hanno parlato in nome di tanti giovani. Direi che la maggior parte dell’Assemblea si è mostrata “sensibile allo Spirito”, ovvero sveglia e attenta a cogliere i segnali di una presenza viva di Dio nella storia degli uomini.
    Alcuni Vescovi hanno invece partecipato in maniera abbastanza formale al Sinodo: c’erano, ma la mia impressione è che non sono mai entrati nel clima spirituale che si era creato. È un po’ come quando ad un incontro un gruppo di persone – capita sempre più sovente – è formalmente presente ma realmente altrove: tutti facciamo l’esperienza di alcuni che continuamente sono attratti e distratti dal loro smart phone o dal loro tablet ed effettivamente non stanno partecipando a ciò che stanno vivendo. Il loro essere altrove li rende insensibili a ciò che capita loro attorno. Alcuni sono stati al Sinodo come si sta su un treno o su aereo: cioè in un “non luogo”, in quanto affetti e legami non erano molto in gioco. Persone vinte e sottomesse alle loro preoccupazioni pastorali e sostanzialmente incapaci di prendere una distanza contemplativa da ciò che stanno vivendo nel loro ordinario per poterlo comprendere in maniera più autentica. Incapaci di salire sul monte a pregare, staccandosi dalla routine quotidiana per poi poter ritornare ad essa con rinnovato entusiasmo.
    La cartina al tornasole della partecipazione spirituale al Sinodo si vede da ciò che ognuno ha portato a casa propria. Ho potuto seguire in vari modi interventi e proposte di Padri sinodali nelle loro Chiese particolari in questi mesi: alcuni di loro stanno infiammando con il loro entusiasmo le loro Chiese locali; alcune Conferenze Episcopali si sono già tirate su le maniche per favorire la diffusione e la recezione del messaggio emerso dall’Assemblea sinodale; altri non hanno nemmeno accennato a ciò che hanno vissuto; altri ancora ne hanno dipinto i tratti in maniera incolore, inodore e insapore.
    Che cosa poter imparare da tutta questa diversità di esiti? Che alcuni si sono mostrati tendenzialmente “sensibili allo Spirito” e che altri hanno evidenziato una chiara “insensibilità allo Spirito”. Il santo Padre aveva denunciato all’inizio del Sinodo una “Chiesa in debito di ascolto”, e aveva aggiunto: «Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi» (discorso del 3 ottobre 2018). I lavori sinodali hanno chiarito che l’ascolto è una questione teologica prima che pedagogica: avendo perso la sensibilità per Dio certamente siamo incapaci anche di ascoltare i giovani. Domandiamoci con onestà se siamo ancora “sensibili allo Spirito”: sia personalmente, sia comunitariamente. Non è una domanda da poco: e se ci troviamo in debito di sensibilità, facciamo qualcosa tutti insieme per riacquistarla!

    Chiesa in ricerca?

    Ciò che mi ha colpito durante la partecipazione all’Assemblea sinodale è il clima di umiltà che in genere si è respirato: nessuno dei partecipanti, al di là di qualche infelice eccezione, è venuto al Sinodo proponendo la “soluzione perfetta” alle questioni pastorali presenti nel proprio territorio; nessuno ha cercato di imporre “proposte preconfezionate” ai problemi del mondo di oggi; nessuno ha cercato di vendere “ricette pronte”. Abbiamo vissuto insieme un’esperienza di ricerca, condividendo le nostre gioie e le nostre fatiche, ciò che facciamo e che a volte non risponde a ciò che i giovani meritano, ciò che non riusciamo a fare con loro e per loro. Ripeto, personalmente ho trovato una Chiesa nel suo insieme in autentica ricerca e quindi davvero umile e per nulla arrogante. Questo mi ha fatto del bene, far parte di una Chiesa in ricerca.
    Il Documento finale rende conto di questo clima aperto che nell’insieme si è respirato e condiviso. È un “documento in ricerca”, che però arriva anche a fare proposte, a dare indicazioni, a favorire approfondimenti, a offrire orientamenti. Ci chiede di metterci in movimento, con umiltà e speranza, senza quella supponenza di chi pensa di sapere tutto e di avere tutto da insegnare e nulla da imparare. I giovani stessi durante l’Assemblea sinodale ci hanno spinto ad identificarci con una Chiesa “madre e maestra”: maestra perché madre, madre e quindi maestra. Una Chiesa madre è paziente e prudente, attenta e aperta, dolce e accogliente, serva e amorevole. Solo a partire da questo stile materno la sua parola risulterà rispettosa, udibile e credibile.
    Spero e penso che tutti voi abbiate approfondito il Documento finale. Vi avete trovato molte riflessioni, innumerevoli indicazioni e tante proposte operative. Diventa quindi un imperativo comprendere da dove partire, ed effettivamente questa rimane una domanda importante per non perdersi in mare aperto. È evidente che la sensibilità di ognuno lo potrà portare ad evidenziare una parte piuttosto che un’altra, oppure un aspetto specifico che sente più legato al suo contesto e che riconosce come più urgente e attuale. Basta qualche numero di questo Documento finale per accendere il cuore, illuminare la mente e muovere le mani per far qualcosa.
    Vista l’indole della nostra Rivista, propongo di iniziare la nostra ricerca a partire da quei numeri che riflettono sulla “pastorale giovanile in chiave vocazionale” (nn. 138-143). Sei numeri molto intensi che cercano di porre le basi per una rinnovata qualificazione della pastorale giovanile: è davvero “cosa nostra” questa parte che ci interpella per far diventare la Chiesa sempre di più una casa per i giovani, ad animare vocazionalmente tutta la pastorale, a dare rilievo intensivo alla questione vocazionale nella vita dei giovani che incontriamo, a lavorare sempre meno con una mentalità “da ufficio separato” e sempre più con una da “progetto condiviso”, a rafforzare la logica dei processi e degli itinerari di formazione e a dinamizzare le strutture esistenti di animazione e di accoglienza dei giovani. Questi soli sei numeri, se presi sul serio e seguiti da scelte di cambiamento concrete e profetiche, giustificherebbero ampiamente il lavoro sinodale di questi ultimi tre anni!
    Aggiungo una nota metodologica per l’approfondimento e la ricerca sistematici: come afferma il Documento finale al n. 3

    «è importante chiarire la relazione tra l’Instrumentum laboris e il Documento finale. Il primo è il quadro di riferimento unitario e sintetico emerso dai due anni di ascolto; il secondo è il frutto del discernimento realizzato e raccoglie i nuclei tematici generativi su cui i Padri sinodali si sono concentrati con particolare intensità e passione. Riconosciamo quindi la diversità e la complementarità di questi due testi».

    Che cosa significa questo? Che i Padri sinodali hanno riconosciuto che per comprendere le proposte emerse nel Documento finale è necessario non lasciar cadere la sintesi dell’ascolto presente nell’Instrumentum laboris, il quale continua ad essere un testo necessario da tenere sullo sfondo.
    Nel caso specifico dei numeri 138-143 del Documento finale di cui ho parlato sopra, è quindi necessario tenere presente alcuni passaggi cruciali dell’Instrumentum laboris contenuti nel IV capitolo della III parte (nn. 198-211).


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