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    Nuova geografia dell’invidia nel tempo dell’anima a un solo volto



    Cantieri dell’anima /10

    Fabio Gabrielli

    (NPG 2009-08-58)


    L’invidia, come è noto, si radica nelle passioni, nei sentimenti freddi, ovvero là ove manca il cuore caldo e accogliente dell’affettività, ove la sensibilità è regredita al punto da obliterare l’umana compenetrazione dei vissuti e delle loro ricadute comunitarie, riducendo l’altro, e di conseguenza se stessi, ad un groviglio inestricabile di molecole impersonali ed errabonde.
    I sentimenti freddi, nella loro feroce glacialità, pietrificano la coscienza morale, scardinano le dinamiche affettive, svellono la tensione oblativa, impediscono la germinazione dell’empatia, intesa come pudica attenzione, custodia dell’altro come irripetibile mistero.
    Sull’intima natura dell’invidia ha scritto parole definitive Spinoza nel III libro dell’Etica («Definizioni degli affetti»): «[L’invidia] è Odio in quanto si impadronisce talmente dell’uomo che questi si rattrista della felicità altrui e, al contrario, gode del male altrui». È indubbio che l’invidia, a differenza di altri vizi, non procuri alcun piacere, in quanto arreca danno a chi la subisce e certifica il nostro stato di impotenza, amplifica la nostra frustrazione per non essere strutturalmente capaci di espandere, e testimoniare, la nostra energia esistenziale, la nostra forza ideante e progettante.
    Sui tratti distintivi dell’invidia nella sua formulazione classica si è già espresso su questa rivista, con assoluto nitore e dovizia di riferimenti biblici, culturali e bibliografici, Carmine di Sante, con una preziosa scheda operativa di Giuseppe Morante, per cui l’aggiunta di un solo rigo sarebbe superflua o speciosa (NPG 8/2008).

    L’ANIMA IN AZIONE

    Vorremmo, invece, soffermarci sulle forme e le modalità con cui l’invidia si annuncia nell’età della tecnica, per cercare di mostrarne quello che, a nostro avviso, è il suo nuovo volto.
    In via preliminare, ricordiamo sinteticamente due possibili interpretazioni dell’invidia:
    – l’invidia come sentimento fondativo di una civiltà, motore vitale della competizione, che ci porta a migliorarci individualmente nel confronto con i successi dell’altro e, quindi, a un arricchimento comunitario di quanto perseguito e ottenuto come singola biografia, spronati dal confronto con l’alterità positiva;
    – l’invidia come in-videre, orientamento inautentico dello sguardo che non custodisce l’altro come Volto irripetibile, come mistero sacrale, non lo ospita con attenzione, come identità assiologica, espressione di valori testimoniati e riconosciuti, bensì come portatore di positività a noi precluse, per insipienza o deficienza di energie etiche ed esistenziali, e per questo fonte, appunto, di invidia, memoria incarnata, monito quotidiano del nostro fallimento, della nostra frustrazione, della nostra incapacità di essere altrettanto positivi.
    Insomma, l’invidia come riconoscimento della propria inadeguatezza, della propria strutturale impotenza verso tutto ciò che germoglia, cresce, si fortifica a fronte dei nostri fallimenti e dei nostri limiti.
    Ora, è innegabile che nel quotidiano (potremmo dire, dal punto di vista filosofico, a livello ontico) permangano queste espressioni dell’invidia, mescolandosi o predominando l’una nei confronti dell’altra, tuttavia riteniamo che questo sentimento, su scala globale (a livello ontologico, sempre per usare un termine caro alla filosofia), abbia subito una trasformazione profonda, poiché l’età della tecnica ha portato con sé un inevitabile mutamento antropologico, una rivisitazione profonda, se non una radicale amputazione, dei vecchi valori, delle credenze e dei sentimenti in cui essi si esplicano.
    Vediamo di snodare la nostra tesi in alcuni passaggi essenziali.

    Dalla produzione al consumo

    Il dispiegamento della potenza tecnologica si incarna nella società dei consumi, dove dominano quantità, istantaneità, transitorietà, accumulo, profusione. La nostra epoca si caratterizza per il binomio produzione-consumo, il cui processo circolare non si limita all’erogazione di merci per soddisfare bisogni, ma anche alla produzione incessante di bisogni, affinché le merci abbiano una presenza continuativa sul mercato; il tutto veicolato da una pubblicità ossessiva.
    Viviamo il tempo degli oggetti: voglio dire che viviamo al loro ritmo e secondo la loro incessante successione. Al giorno d’oggi siamo noi che li vediamo nascere, completarsi e morire, mentre in tutte le civiltà precedenti erano gli oggetti, gli strumenti o i monumenti perenni a sopravvivere alle generazioni umane.
    Queste riflessioni di Jean Baudrillard, tratte da La società dei consumi (opera riedita da Il Mulino, 2008), trovano puntuale riscontro nelle parole di uno degli intellettuali più influenti del nostro tempo, Zygmunt Bauman:

    «La grande frattura che separa nel più netto modo possibile la sindrome culturale consumistica dalla precedente sindrome produttivistica, quella che tiene insieme l’insieme delle tante e diverse spinte, intuizioni e propensioni elevando il tutto a programma di vita coerente, sembra essere il rovesciamento dei valori legati rispettivamente alla durata e alla transitorietà.
    La sindrome culturale consumistica consiste soprattutto nell’enfatica negazione della virtù del rinvio, e dell’opportunità e desiderabilità di ritardare la soddisfazione: i due pilastri assiologici della società dei produttori regolata dalla sindrome produttivistica.
    Nella gerarchia tramandata dei valori riconosciuti la sindrome consumistica ha declassato la durata in favore della transitorietà. Essa antepone la novità alla durata. Ha abbreviato molto non solo il tempo che separa il bisogno dall’appagamento (come hanno suggerito molti osservatori, ispirati o fuorviati dalle agenzie di informazioni commerciali), ma anche il momento in cui sorge la carenza dal momento in cui essa termina, e il momento in cui ci si rende conto che un bene è utile e desiderabile da quello in cui viene percepito come qualcosa di inutile da scartare. Ha collocato l’atto dell’appropriazione, cui deve prontamente seguire lo smaltimento del rifiuto, tra gli oggetti del desiderio umano, al posto che un tempo spettava all’acquisizione di un possesso che si presumeva durevole e al suo durevole godimento» (Consumo, dunque sono, Laterza, 2008).

    L’ampiezza della citazione era necessaria per cogliere appieno i riverberi esistenziali della civiltà dei consumi, ovvero uno stile di vita frenetico, dimentico di qualsiasi dilazione, abbarbicato su un presente consumato ancora prima che accada, dove il possesso è funzionale solamente ad un nuovo possesso, in un perverso circolo acquisizione – scarto – nuova acquisizione.
    Non conta solo ciò che si possiede, ma la carenza da colmare, il nuovo prodotto che rende obsoleto quello precedente, poiché la nostra capacità di fruire è di gran lunga inferiore alla velocità con cui vengono erogati, a dosi massicce, nuovi bisogni, che se non soddisfatti producono frustrazione, inadeguatezza.
    La conseguenza più immediata del turboconsumismo, così come del pernicioso efficientismo tecnologico, è l’oblio del limite, della temperanza o «giusta misura».
    La stessa depressione ha subìto mutamenti significativi: non più tristezza, dolore morale, senso di colpa, ma ansia, insonnia, inibizione, fatica ad essere se stessi, poiché viviamo in un contesto che valuta una persona solo sulla base dei successi che realizza, degli oggetti che esibisce, dei prodotti che consuma voracemente, nell’istante.
    Insomma, la depressione non è più conflitto, bensì fallimento, scacco, naufragio dell’io che non riesce a spingere la sua azione al limite dell’impossibile.

    L’anima ad un unico volto

    Sulla base di quanto affermato sopra, ne consegue che l’uomo d’oggi è troppo impegnato su se stesso, sul suo iperattivismo, perché abbia il tempo necessario per invidiare l’altro, divenuto ormai figura del nulla; per citare Aubert, potremmo dire che siamo occupati in permanenza, un’urgenza dietro l’altra. D’altronde, l’invidia è un sentimento, sia pure di segno negativo, e i sentimenti presuppongono un’intelligenza affettiva che li coltivi e li mediti in ampiezza e profondità: ma quale porzione di tempo la tecnica lascia al radicamento dei sentimenti, in uno scenario connotato in misura specifica solo da efficacia, efficienza, produttività, individualismo?
    Si badi, non più un individualismo semplicemente narcisistico, bensì legato alla sopravvivenza. L’uomo, infatti, è al mondo per espandere la propria energia, per dispiegare la propria potenza d’essere, ma quando questa non è più arginata dal senso del limite, poiché la tecnica ci vuole tutti massimamente potenti non tanto per noi stessi, ma come suoi zimbelli, al fine di alimentarne la Volontà di potenza, di perpetuarne l’esistenza come unico orizzonte di senso, essa diventa primario istinto di sopravvivenza, lotta per la vita, dove l’altro non è tanto l’invidiato classico, ma, molto peggio, una cosa tra le cose.
    È così che le domande non fioriscono, le articolazioni di senso alternative al vivere tecnologico restano inevase, le provocazioni etiche ed esistenziali non vengono disseminate, poiché, recisi gli interrogativi ospitati da sempre dall’anima, tutto è omologazione, produzione, consumo.
    L’anima piatta, dozzinale, che ormai ci trasciniamo dietro, ha ridotte possibilità di un sussulto spirituale, poiché impera l’inquietante cultura dell’anima ad un unico volto, che parla un unico linguaggio e vive secondo un’unica dimensione antropologica e temporale:
    Le conseguenze di questa terribile fretta sono devastanti: il passato e il futuro come categorie mentali sono minacciati dalla tirannia dell’istante […]. La minaccia, anzi, riguarda persino il «qui e ora», perché l’istante successivo arriva talmente in fretta che è difficile vivere il presente (Th. H. Eriksen, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Elèuthera, 2003).

    L’invidia come rassegnazione

    Ebbene, l’invidia, a maggior ragione, non può più sedimentarsi come risentimento, bensì, paradossalmente e per essere ottimisti, come speranza del tipo «anch’io ce la posso fare!», oppure, peggio, come rassegnazione, immobilismo progettuale, poiché il mondo appare sempre più inquietante, enigmatico, in balia dell’imponderabile, o addirittura inospitale, minaccioso. Infatti, là ove l’istante signoreggia, il respiro delle idee e dei sentimenti si fa corto e finiscono per prevalere progetti a corto raggio, continuamente reversibili, tragicamente precari.
    Prevale, di conseguenza, uno stare al mondo autoreferenziale, al limite familistico, roccioso, impenetrabile dall’esterno e impermeabile a qualsiasi intrusione affettiva, ripiegato su scarne e mirate realtà biografiche, oppure pietrificato nell’indifferentismo emotivo, espressivo di una messa tra parentesi della persona, così come sottolinea Adriano Zamperini, in L’indifferenza, Einaudi, 2007 (da noi già citato e tematizzato in Cantieri dell’anima /9).
    Sappiamo bene che un quadro esistenziale di questo tipo potrebbe spingere il lettore ad accusarci di catastrofismo. In questo senso, Paolo Rossi, uno dei filosofi di spicco della «storia delle idee», in una sua recente pubblicazione per i tipi de Il Mulino, Speranze, si scaglia, in pagine agili e provocatorie, contro i cosiddetti apocalittici, i neocatastrofisti, gli ideologi del futuro-minaccia; ma anche contro i sostenitori delle speranze «smisurate», del Senso ultimo della vita, della redenzione sociale e politica, della Purificazione della storia. A queste forme di ideologia, Rossi contrappone le speranze «ragionevoli», ovvero le lente ma intense conquiste sociali, dalla fame al sottosviluppo, capaci di lasciare un segno nello scenario del tempo umano, di arginare, sia pure tra ombra e luce, l’impetuosa, ineluttabile forza del male.
    Tuttavia se anche tutto questo valesse, a nostro avviso rimane palpabile a prima mano lo sfondo delle angosce planetarie che contrassegnano vieppiù l’uomo d’oggi, senza tema di essere accusati di catastrofismo ad oltranza. Solo avendo una chiara coscienza del proprio tempo, si può iniziare a dare voce alla speranza, sia essa, come per chi scrive, radicata nella trascendenza, oppure nell’immanenza della storia umana; sia essa alimentata dal disegno imperscrutabile della Verità eterna, oppure espressiva delle provvisorie, precarie, limitate verità umane, «quelle – come ricordava Primo Levi – che si conquistano faticosamente con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o dimostrate».
    La tesi che sosteniamo è ulteriormente corroborata dalla pervasiva crisi economica in atto: i recenti sondaggi della Doxa, per l’Italia, e da Gallup International Voice of the People nel resto del mondo, confermano un pessimismo diffuso (47% degli italiani, 35% nel resto del mondo, addirittura 52% di pessimisti in Inghilterra). Il luogo del contendere non è la lettura sociologica di questi dati, se siano reali o conseguenti all’insistenza dei media sul concetto di crisi, quello che conta è come l’uomo d’oggi vive le sue angosce, quali ricadute hanno nei suoi vissuti e nei suoi agiti. Se le ricadute, come pensiamo, sono espressive non semplicemente di un’angoscia strutturale al nostro vivere malcerto, umanamente finito, caduco, bensì di un’angoscia cosmica, di una malinconia epocale, si capisce come sia esiguo lo spazio per l’invidia dell’altro: la posta in gioco, come dicevamo, è la propria sopravvivenza, e si badi, non solo spirituale, ma biografica, carnale.

    Il mestiere e l’arte del vivere

    Quale messaggio, allora, per i nostri giovani?
    Se è vero, come anche noi riteniamo, quello che affermava Hörderlin, secondo cui «Là ove cresce il pericolo / cresce anche ciò che ti salva», allora l’uomo potrebbe ricavare dal tragico il farmaco capace di alleviarne le ferite: consumo equo e responsabile, relazioni non più impersonali ma improntate al personalismo e al solidarismo, recupero del bello rispetto al lusso e, soprattutto, saggezza, distacco, frugalità, temperanza o «giusta misura». In una parola, recupero della tradizione classica, non esibita solo come sfoggio accademico o surrogato più o meno riuscito della psicologia (consulenza filosofica), dove i classici sono in qualche modo rimasticati e offerti come spot esistenziali (le tristemente celebri ricette per essere felici, sorridenti, sani…), ma intensamente meditata e agita, resa operativa. I classici ci hanno lasciato in eredità un messaggio altissimo: la filosofia è arte del vivere, e si riduce solo a vacuo esercizio della mente se non incide nel «qui e ora», nel nostro quotidiano mestiere di vivere ( non a caso il concetto greco e latino di temperanza, frugalità, come autentico stile di vita è al centro di un bellissimo libro scritto a più mani da filosofi ed esperti di scienze sociali: Frugality. Rebalancing material and spiritual values in economic life, a cura di Luk Bouckaert, Peter Lang Publishing, 2008).
    In conclusione, ci si permetta un breve richiamo al distacco, come radicale monito per l’uomo d’oggi e come messaggio da trasmettere ai suoi figli. Ebbene, il distacco si identifica con la massima libertà rispetto a tutto ciò che è egoità, possesso, chiusura all’essere in nome dell’avere. Non va confuso con il più terribile dei sentimenti, l’indifferenza, bensì va visto e calibrato nel quotidiano, nel segno del bene e del vero; in altri termini, il distacco si configura come condivisione, coinvolgimento entusiastico nella e della realtà totale, proprio perché non è il singolo possesso che conta, ma il tutto, umano e divino, che mi abbraccia. In questo modo, non saremmo più schiavi delle cose, dei contrastanti sentimenti che il loro possesso suscita, ma esseri liberi, aperti a tutto ciò che è umano e umanizzante, fedeli testimoni, per coloro che credono, dell’Amore primigenio.

    IL PENSATOIO

    – Riportiamo un questionario sull’invidia che alcuni studenti di una Scuola di Como – in modo autonomo – hanno proposto sul «Giornalino» scolastico ai loro compagni; se volete, potete riproporlo anche ai vostri ragazzi, modificandolo o ristrutturandolo liberamente. L’importante è che il questionario riguardi il mondo dei sentimenti o, se preferite, dei vizi e delle virtù:

    INCHIESTA SULL’INVIDIA

    Sei: maschio femmina
    o M o F
    Età ............

    1) Hai mai invidiato qualcuno?
    o Sì o No
    Se sì:
    Chi? ………………………………...………………………………….....................
    Perché?……………………………….……………………………………………...............................................................................................................................

    2) Pensi di essere invidiato da qualcuno?
    o Sì o No o Non lo so
    Se sì, da chi?……………………………………………..………….......……….....
    Perché?……………………………………………………………………………................................................................................................................................

    Ne sei lusingato?
    o Sì o No o Non lo so

    3) Provare invidia per qualcuno può portare a migliorarsi?
    o Sì o No o Non lo so

    4) Qual è secondo te la causa più frequente d’invidia?
    Attribuisci un punteggio da 0 a 10 ad ognuna di queste voci, senza mai ripetere la cifra:
    Soldi …...… Ragazzi/e .…...… Felicità …...… Successo scolastico ….....… Intelligenza …….. Bellezza ….....… Popolarità ….....…
    Altro…………………………………………………………………………................................................................................................………......................…….

    5) Prova a dare una definizione sintetica dell’invidia e a descrivere la tipologia dell’invidioso:
    ………………………………………………………………………………..................................................................................……....................……………………


    – Alberto Pellai, S.d.s. Sindrome da spot. Perché la pubblicità ci vuole infelici, Editrice Monti, Saronno 2005: ne consigliamo caldamente la lettura come fecondo strumento di formazione e di interpretazione delle strategie pubblicitarie più nocive per i nostri ragazzi; il testo, infatti, si pone come griglia di lettura e di comprensione della pubblicità per rendere innocui i suoi messaggi più pericolosi.

    – Non c’è nulla che sia altrettanto caratteristico di noi, uomini di oggi, quanto la incapacità della nostra anima di rimanere «up to date», al corrente della nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati in avanti nel futuro (chiamato «presente») e che ci sono sfuggiti di mano […]. Non è del tutto escluso che noi, che fabbrichiamo questi prodotti, siamo sul punto di edificare un mondo con cui non siamo capaci di mantenerci al passo e, per «afferrare» il quale, si pongono esigenze assolutamente esorbitanti dalle capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni e della nostra responsabilità (G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I; Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003).

    Partendo dal passo qui riprodotto, potete dare vita con i vostri ragazzi ad una sorta di tavola rotonda, coinvolgendo anche giovani di altre parrocchie od organizzazioni, ragazzi apparentemente poco sensibili a queste tematiche, esperti del settore, religiosi, genitori, insegnanti, ecc., sul tema: «Quali sentimenti nell’età della tecnica?».

    – Chi ha avuto la pazienza di seguirci in questa nostra rubrica, sa che riteniamo fondamentale il patrimonio culturale della classicità nella formazione dei giovani, proprio per la perenne attualità del suo messaggio, per la sua esemplare chiarezza comunicativa, al di là di interessi professionali, specifici o culturali. In questo senso, potete confrontarvi con i vostri ragazzi su questo superbo passo di Seneca, tratto da Lettere a Lucilio (Lettera 5), dove viene evidenziato a tutto tondo come il peso assiologico di una persona, il suo valore, non dipende da quello che ha, ma da quello che è. In altri termini, non è l’abbondanza di oggetti che uno possiede, o la penuria, a determinarne la sua missione nel mondo, bensì l’uso che ne fa e l’importanza che gli attribuisce.
    Ma leggiamo il passo in questione:

    Ecco le regole di condotta che preferisco: la nostra vita sia ordinata secondo costumi onesti e accettati da tutti; tutti la ammirino, ma siano anche in grado di riconoscerne i pregi. «E allora,» mi dirai «ci comporteremo come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e loro?». Risponderò: anzi, grandissima. Chi ci osserverà meglio, comprenderà che noi siamo ben diversi dal volgo; ed entrando nella nostra casa, dovrà ammirare noi, e non la suppellettile. È grande colui che usa vasi d’argilla come se fossero d’argento, ma non è da meno chi usa vasi d’argento come se fossero d’argilla. Un animo debole non sa sopportare la ricchezza.

    – Esercitate la vostra attenzione su queste ulteriori testimonianze della grecità, modellandole sui vostri vissuti e su quelle dei giovani che seguite ed educate, scegliendo modalità, strategie, tempi, campi esistenziali di applicazione, affinché abbiano ricadute davvero feconde nella realtà in carne e ossa:
    1. Infatti, io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico (Platone, Apologia di Socrate, vedi soprattutto 29 D-30 B).
    2. – E tu, o Antistene, riprese Socrate, suvvia, dicci com’è che, pur possedendo tanto poco, sei così orgoglioso della tua ricchezza.
    – Perché, secondo me, amici, ricchezza e povertà gli uomini l’hanno non in casa, ma nell’anima […]. Il nostro Socrate, dal quale l’ho acquistata, non la misurava né la pesava con me, ma me ne dava tanta quanta potevo portarne e io non ne sono geloso con nessuno e a tutti gli amici la mostro senza gelosia e divido con chiunque la voglia la ricchezza della mia anima (Senofonte, Simposio, IV 34 e 43).
    3. «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta» (Epicuro, Sentenze Vaticane, 68).
    – Confrontatevi con i vostri ragazzi, cercando poi di rendere operativo l’aspetto teorico, su come un giovane possa testimoniare nel quotidiano valori come la frugalità, la temperanza, il distacco, la dilazione dei desideri, la condivisione gioiosa dei successi dell’altro (se questa, per l’umana fragilità, non è possibile, perlomeno si eserciti la volontà al riconoscimento delle positività del tu che ci sta di fronte).

    L’ANIMA IN AZIONE

    Per rendere operativo l’argomento di questo numero della rivista, vi suggeriamo una piccola rappresentazione teatrale: potete, con l’aiuto di qualche esperto volonteroso, stimolare i vostri ragazzi, coinvolgendo anche altre realtà giovanili, a ideare un testo teatrale, il cui argomento cardine sia il tema dell’invidia o dei sentimenti di segno negativo. Lasciamo, ovviamente, a voi la scelta se scrivere il testo teatrale tramite un lavoro di gruppo guidato dall’alto (dagli animatori o da qualche esperto), oppure invitare i ragazzi a proporre individualmente un loro testo (cosa particolarmente stimolante e formativa). Chi tra i ragazzi non volesse aderire alla stesura del soggetto teatrale, potrebbe, comunque, contribuire fattivamente all’idea, occupandosi, per esempio, degli aspetti tecnici (luci, audio, materiale scenico, pubblicità, biglietteria…). Il ricavato andrebbe in beneficenza: le forme e le modalità – ovviamente anche i destinatari – saranno liberamente scelte dal vostro gruppo. Se poi questo progetto portasse alla formazione di una compagnia teatrale, ben venga! Di contro, se esiste già nel vostro oratorio una realtà teatrale, meglio ancora!


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