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    Le virtù e le norme




    Le virtù /5

    Paolo Carlotti

    (NPG 2009-05-68)


    È facile constatare, anche nella nostra quotidiana esperienza, come il semplice tentativo di un qualsiasi approccio etico susciti nelle persone un contegno attendista, che progressivamente diventa sempre più rigido e reattivo, quando si delineano riferimenti non solo o non più descrittivi ma chiaramente prescrittivi. L’etica non incontra molto gradimento e tende a perderlo del tutto, quando abbandona il suo piano propositivo, ottimale e facoltativo per introdurre a quello normativo, minimale e obbligatorio. Parlare di etica è dunque non facile, e di norme quasi impossibile. Queste sono ritenute un’indebita ingerenza in ambito privato e di fatto suscitano una idiosincrasia diffusa, la cui persistenza viene a sua volta e senz’altro letta come conferma della giustezza del rifiuto. Ma si può raggiungere il massimo senza assicurare il minimo? Si può costruire una casa senza fondamenta o il suo terzo piano senza il primo?

    Che comunque ci troviamo di fronte a qualcosa di rilevante, lo segnala il fatto che tra le chiavi di lettura con cui è possibile leggere l’intera storia dell’etica, sia filosofica sia teologica, quella che l’articola tra etica della virtù ed etica della norma è abbastanza assodata. In filosofia, si dà un’etica della legge con I. Kant (1724-1804)), mentre è un’etica della virtù quella di Aristotele (384-322) e, in teologia, rispettivamente incontriamo s. Alfonso Maria de Liguori (1696-1787) e s. Tommaso d’Aquino (1225-1274). È senz’altro da ammettere che l’etica orientata alla virtù e l’etica orientata alla norma sono guidate da paradigmi, oggetti, argomentazioni e percorsi diversi, cioè in altre parole da modi di intendere l’etica tra loro diversi, e tuttavia mi sembra non solo possibile ma necessaria una loro minimale coniugabilità congiunta. In fondo se non è possibile costruire una casa senza le fondamenta, neanche ha senso costruire soltanto le fondamenta, senza erigere almeno anche un pian terreno! Certo, alcune costruzioni abitative sono state abbandonate e possiamo ancor oggi vedere solo il perimetro delle loro fondamenta, ma il progetto iniziale non era certo questo, e se questo era, era assai poco ragionevole.

    Il fine dell’agire e l’istanza normativa

    Nelle puntate precedenti, abbiamo appurato come il senso della virtù stia o cada con un preciso senso dell’agire umano, individuato in modo pertinente nella giustificata preferenza accordata alla prospettiva deontologica – un’etica fine-orientata – rispetto a quella consequenzialista – un’etica effetto-orientata.
    Come ogni altro vivente, anche l’uomo è orientato verso un fine globale, possiede cioè una costituzione teleologica. Inoltre, l’uomo è un vivente teleologico al modo suo proprio, cioè in modo razionale: cioè, a differenza di altri viventi presenti nella biosfera, è capace di consapevolezza, che si esprime e si articola in conoscenza e scienza, coscienza e autocoscienza. C’è subito da aggiungere che questa visione fine-orientata dell’uomo e del vivente, quasi scontata in altre epoche storiche, incontra oggi, nell’epoca della tecnica – dove prevale una visione effetto-orientata, se non meccanicistica – una certa difficoltà ad essere accolta. L’insistenza su di essa è dovuta, come abbiamo già avuto modo di osservare nelle precedenti puntate, al fatto che implica significati irrinunciabili per una valida decifrazione dell’esperienza morale della persona.
    Continuando in questa prospettiva, si può affermare che al progressivo e pieno discernimento di questo fine contribuiscono l’insieme delle norme morali, che a gran parte dei comportamenti dell’uomo attribuiscono la loro identità e il loro significato, cioè stabiliscono la meta o il fine a cui essi oggettivamente puntano e tendono. Il complesso delle norme è un insieme sistematico, coerente e sperimentato, che offre una informazione sul contenuto intenzionale o in termini tecnici sull’oggetto morale delle svariatissime azioni che l’uomo può compiere, offrendo così un patrimonio di discernimento morale che ha l’età dell’umanità e che è stato trasmesso di generazione in generazione, e per questo costituisce anche una tradizione. In altre parole, in una norma morale si condensa l’esperienza non solo del singolo ma dell’umanità intera.
    Essa è un raffinato sistema di raccolta di esperienze che continuamente verifica la tenuta nel duro confronto con la nuda realtà, in soggetti individuali, in posizioni sociali, in contesti culturali e in periodi storici tra loro molto disparati.
    Ad esempio, la norma morale che vieta l’omicidio o quella che vieta la menzogna, implica una lettura della finalità inerente alle due azioni, che rispettivamente può essere indicata come soppressione o come inganno dell’insopprimibile o inaggirabile alterità dell’altro. Questi fini, che costituiscono l’intenzione oggettiva delle due azioni, sono giudicati modalità di disposizione di sé incompatibili con la dignità del sé, e quindi sanzionati come cattivi per ogni soggetto agente che intenda agire moralmente.
    Ora questa tradizione è necessaria alla vita morale dell’uomo che intende essere virtuoso.
    Infatti, se questo compito dovesse essere preso in carico da ogni singolo uomo, partendo da zero, risulterebbe troppo gravoso, sarebbe esposto anche all’insuccesso e soprattutto sarebbe troppo lungo: «… la vita è una sola e finisce; per non perderla occorre che tu ne disponga prima che il tempo te la porti via», e il disporre di un abbozzo di progetto esistenziale, in quest’ottica, è una buona occasione, anche se oggi forse «... la vita è pensata e poi anche vissuta come una possibilità sempre aperta e senza scadenze, senza morte» [G. Angelini, Le età della vita e la figura dell’uomo, Teologia 32 (2008) 168]. La mappatura normativa dei comportamenti umani previene quindi la perdita del tempo della vita come pure lo spaesamento del suo soggetto, e permette la facile decifrazione della finalità che il singolo seleziona e decide per sé.
    Certo, soprattutto in una visione etica religiosamente ispirata e ancor di più religiosamente fondata, il fine definitivo e «ultimo» di ogni agire umano è Dio stesso, fine che tuttavia è perseguito per provvisori e «penultimi» avvicinamenti, tipici del fine proprio delle singole azioni e del loro progressivo coordinamento.

    L’istruzione esteriore e interiore, generale e specifica

    Naturalmente tra norma e virtù si danno anche notevoli differenze, che è bene rimarcare anche per giustificare la preferenza che qui si intende accordare alla prospettiva virtuosa dell’etica rispetto a quella normativa, preferenza che mi sembra raccolga anche una migliore compatibilità con la visione rivelata, cristiana, dell’esperienza etica.
    Una delle differenze più evidenti tra la norma e la virtù consiste nel fatto che la prima è un’istruzione esterna, cioè istruisce il soggetto morale sul proprio agire dall’esterno di sé, mentre la seconda è un’istruzione interna, cioè istruisce il soggetto morale sul proprio agire dall’interno di sé. Inoltre, a ben vedere, la prima è di prevalente indole eteronoma, mentre la seconda è, all’opposto, caratterizzata più dall’autonomia: l’input procede e muove dal soggetto stesso.
    Infatti, con la virtù, il soggetto non può non interiorizzare il bene, perché questa implica un’educazione della mente, del cuore e dell’agire, che, come si suol dire, porta il soggetto a plasmare il proprio intimo in modo tale da renderlo buono e quindi da riconoscere per connaturalità il bene da farsi. L’abilità a riconoscere il bene viene dal fatto che la persona è diventata, per libera scelta, buona e quindi ha istituito una sintonia, una vicinanza, una familiarità tra la propria natura di persona e la natura del bene, in modo che si riconoscono immediatamente, quasi istintivamente, nelle diverse situazioni e vicende della vita. Con la virtù è il soggetto stesso che sa cos’è e dov’è il bene, non lo viene a sapere da una norma che lo informa dall’esterno.
    Certo nelle prime fasi dello sviluppo morale – sviluppo, si noti, che non ricalca pedissequamente le età della vita e quindi può essere pieno in un adolescente e carente in un adulto – si dà una prevalenza dell’aspetto eteronomo, condizione che però viene presto mutata in autonomia, quanto più ci si avvicina ai suoi livelli elevati.
    Si noti che la novità della morale evangelica è l’inabitazione della grazia dello Spirito santo, che istruisce dall’interno e dall’intimo la persona cristiana e non dall’esterno, come necessariamente farebbe un’altra legge. Per avere un’altra legge basta un altro Mosé, per avere la grazia è necessario il Cristo, che non è un altro Mosé, ma il nuovo Mosé, implica cioè un modo nuovo di assolvere lo stesso compito della legge.
    Sotto un altro aspetto poi, la differenza tra virtù e norma emerge in modo rilevante. La norma infatti è conoscenza solo generale, mentre la virtù è conoscenza generale e specifica: è generale perché la virtù presuppone l’osservanza della norma, e specifica perché è ad essa ulteriore e rende disponibile ciò di cui il singolo necessita per realizzarsi come singolo. La norma morale è ciò che attiene alla natura comune ad ogni uomo, ottenuta tralasciando e astraendo da ciò che è unico e tipico di ogni singolo uomo. La legge morale naturale che da essa scaturisce, tiene conto di una dimensione della realtà della persona, cioè della sua natura, ma non di ciò che essa è come persona unica e irrepetibile, che non può essere conosciuto in modo universale, ma solo in modo concreto e particolare. Questa conoscenza specifica e particolare non è facoltativa o opzionale, ma indispensabile e necessaria per il singolo, che vuole realizzarsi come tale. Come non ricordare qui un grande teologo contemporaneo, Karl Rahner, che proprio a questo proposito parlò di un’etica esistenziale formale, distinguendola appunto da quella essenziale materiale?
    Per questo la legge assolve al compito dell’istruzione in modo parziale, fornisce ciò che è indispensabile alla realizzazione morale del soggetto, ma non tutto ciò che il singolo uomo necessita. Infatti la singola persona ha il compito di realizzarsi non solo come «uomo», ma anche come questo «uomo qui», singolo e unico, esistente qui e ora. In altri termini si tratta di realizzare non solo il «Sé» ma anche l’«Io». Per questo c’è bisogno di una conoscenza personalizzata, aderente all’unicità della persona, che solo una virtù può rendere disponibile.
    L’osservanza delle norme morali non esaurisce il compito morale dell’uomo, ma solo lo inizia. La sua prosecuzione ha un profilo insopprimibilmente personale, dove si dà un vincolo che, non perché non è universale è meno vincolante, un vincolo che scaturisce dal modo proprio a ciascuno di essere persona: in altre parole dal profondo dialogo di sé con se stessi. Sotto un altro versante, il vincolo normativo previene il rischio di personalismi eccentrici nella realizzazione dell’esperienza morale e impedisce poi di coltivare l’illusione di un profilo ottimale, dimentico del livello minimale. Può capitare anche questo, ed è capitato, anche per il cristiano, se il Vaticano II, nella sua costituzione pastorale, la Gaudium et spes, invitava appunto i cristiani a uscire dallo studioso inganno di ritenere di fare la carità quando assolvevano un semplice dovere di giustizia – guarda caso – sociale.

    Il minimo e l’ottimale, diversamente obbligatori

    La norma, a differenza della virtù, assicura il minimo morale e lo richiede in modo assolutamente vincolante e a raggio universale. Un esempio è presto addotto.
    La norma morale che mi vincola al non uccidere l’altro, richiede il minimo di un impegno relazionale verso i propri simili, che però va ben oltre l’assicurarne la semplice esistenza, anche se ovviamente lo implica e lo richiede in modo tassativo. Il motivo di questa puntuale richiesta consiste nel fatto che in violazione di essa, non solo non si dà più alcuna relazione, ma si dà un soggetto cattivo, che dispone di sé in modo molto negativo di fronte all’altro. In altre parole, al di sotto, della norma morale si ha la negazione o l’alterazione del valore morale stesso, si cade nell’immoralità: ogni persona che la disattende e la trasgredisce, persegue la propria distruzione e non invece la propria costruzione, si odia invece di amarsi [NB. L’amore di sé è completamente diverso dall’egoismo].
    Questo minimo vincolante è richiesto ad ogni uomo, qualunque sia la condizione personale, sociale e culturale a cui appartenga: ha valenza universale, perché come abbiamo già accennato, procede dalla natura umana, in base alla quale ogni uomo è quello che è, appunto un uomo.
    Andando in Cina, per esempio, pur incontrando un’altra cultura, mi attendo di non essere assassinato, perché mi attendo che anche là si sappia che cosa è un omicidio e soprattutto che un omicidio è un male e, ancora di più, che un male va evitato, diversamente dal bene che invece va fatto e perseguito, secondo il primo principio – un vero principio questo – della ragione pratica, che è universalmente e insopprimibilmente noto all’uomo.
    Se è vero che più l’esperienza morale rimane a livello minimale più è uguale e comune ad ogni uomo, è altrettanto vero che più essa si spinge verso il livello ottimale, più si personalizza, più diventa specifica del singolo uomo. L’ottimale è perseguibile più al modo della persona che al modo della natura. La giustizia, l’onestà hanno il volto del giusto e dell’onesto.
    Per questo, in un lontano passato, si soleva dire, con qualche approssimazione, che la pratica della virtù non poteva essere universalmente vincolante, ma era da considerarsi facoltativa, inclinando a quella figura di morale minimale e prescrittiva, che giustamente ha sollevato più di una critica. Certo l’appello alla pratica della virtù è vincolante, ma la sua pratica si snoda secondo il modulo personale dell’impegno morale. La condotta virtuosa è vincolante ma, a differenza della norma, più in modo personale che in modo universale. Quali virtù debbano essere praticate e in quale modo, è possibile evincerlo solo interpellando il «genio» proprio ad ogni persona. È in fondo questo, quello che K. Rahner esprimeva definendo l’etica essenziale come materiale e l’etica esistenziale come invece formale.
    Le virtù hanno i volti delle persone che le hanno praticate in modo originale. La povertà e la spogliazione di sé davanti a Dio richiama Francesco d’Assisi; la carità verso gli ultimi e i poveri madre Teresa di Calcutta o Martin L. King; la testimonianza della verità un Tommaso Moro, la dedizione alla pace un Mohandas K. Gandhi. Se è facile affermare che l’uomo deve poter curare la propria anima sviluppandola in modo ottimale e cioè in modo virtuoso, è più difficile stabilire per tutti un cammino virtuoso, anche per una stessa virtù. Certo il modo con cui molti lo sono stati è utile al nostro impegno, ma non al modo tassativo della norma, ma piuttosto al modo esortativo dell’esempio, che come ogni buon esempio richiede una traduzione e una appropriazione così unica come è unica ogni singola persona e la situazione che vive.
    L’optimum potentiae, l’ottimale realizzazione della potenzialità della persona è la virtù, un agire eccellente, degno della dignità della persona umana. Se la norma tende a vincolare ad una prestazione operativa – ad una azione – a prescindere dal modo con cui una persona è persona, in altri termini dal suo stile di vita, la virtù dopo aver assicurato questo punta a garantire la qualità personale dell’azione posta, cioè non si accontenta di garantire una prestazione operativa, ma mira a garantire una persona, il più possibile qualitativamente buona.
    Inoltre e infine, può sorgere il dubbio che la norma, una volta soddisfatta nella sua esigenza vincolante, lasci uno spazio libero dall’esigenza morale e occupabile come uno meglio crede: una volta assolto il dovere, si può fare quello che si vuole. Le implicanze di questa visione non sono delle più coerenti ed elevate. Infatti, rimarrebbe una persona tutto sommato divisa quella persona che più che considerare la morale un’alleata, la teme e appena può se ne libera, lasciando intravedere un progetto esistenziale che preferisce snodarsi a piacimento e accettando solo quelli necessari. Ora se tutto questo potrebbe risultare plausibile in un’ottica di etica della norma, è impossibile in un’ottica di etica della virtù, dove il soggetto «si fida» della morale e ritiene la propria vita persa al di fuori di un perseguimento eccellente della prassi umana. Ne è ulteriore segnale il fatto che solo la virtù richiede una condotta, cioè un coordinamento intelligente delle varie azioni personali, mentre la norma molto meno.


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