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    Uno Spirito per mezzo del quale gridiamo «Abbà Padre» (Rm 8,15). Imparare a pregare con Paolo



    Paolo e i giovani /7

    Stefano Romanello

    (NPG 2009-07-3)


    Per introdurci a questo tema, non è inutile ricordare che Paolo è stato una persona di preghiera. Un solo importante dato basta ad evidenziarlo: scrivendo delle autentiche lettere alle proprie comunità, egli fa seguire ai saluti, con cui convenzionalmente si iniziavano le lettere, delle estese preghiere per i propri destinatari. In esse combina un rendimento di grazie per ciò che Dio ha operato e sta continuando ad operare tra loro (elemento sempre presente, in 2Cor 1,3 si ha l’affine benedizione) e altri possibili motivi di preghiera, quali anche l’intercessione per il progresso del loro cammino di fede. Si veda, come esempio, 1Cor 1,4-9. Qui l’apostolo prega a motivo della grazia da Dio elargita ai Corinti, che così non mancano di nessun dono spirituale.

    Paolo uomo di preghiera

    Certo, un’affermazione talmente enfatica tradisce una certa esagerazione, e mira anche ad accattivare la simpatia dei destinatari della lettera, secondo tecniche a loro volta convenzionali nell’antichità. Tanto più che, affrontando esplicitamente la questione dei doni comunitari (charismata), Paolo ricorderà come essi siano subordinati alla ricerca della costruzione comunitaria, in un cammino che pone continuamente l’amore di donazione (agapê) come suo centro di valore dirimente (cc.12-14). Eppure, a ben vedere, la realtà dei doni e la loro importanza non è in alcun modo negata in tali capitoli. L’argomentazione ivi sviluppata serve a indirizzare i doni comunitari al bene reciproco, non a smentirne il valore.
    Di conseguenza, quando Paolo si introduce alla lettera rendendo grazie per essi, non menziona qualcosa che poi squalifica, ma su cui volgerà uno sguardo educativo. La preghiera iniziale non è quindi una finzione ma, pur tenendo conto del suo elemento di esagerazione verbale e di guadagno della benevolenza dei destinatari, esprime gli autentici sentimenti di Paolo verso la comunità di fronte a Dio. Nella preghiera emerge il profondo legame dell’apostolo con le sue comunità, la sua partecipazione personale alle loro vicissitudini. Nella preghiera l’apostolo porta le sue comunità davanti a Dio. Egli si dimostra autentico uomo di preghiera.

    Un incontro con il Tu di Dio

    Ma cos’è la preghiera? Per alcuni è un bisogno di interiorità, equivale a meditazione con cui l’io si incontra con se stesso. Molte importanti tradizioni religiose orientali offrono profonde suggestioni su questo. Ma questo è un aspetto della preghiera cristiana, di certo non quello determinante. La preghiera, infatti, non è incontro del soggetto con se stesso, ma con il Tu di Dio. Questo comporta l’introspezione, ma come un momento di un processo che trova la sua ragione nel dialogo interpersonale con Dio. In quest’ottica, infatti, si collocano le bellissime pagine che anche la tradizione cristiana ha sviluppato al riguardo (si pensi solo alle Confessioni di Sant’Agostino).
    Per altri la preghiera è sì dialogo con Dio, ma sostanzialmente di richiesta, quasi a convertire Dio ai nostri bisogni. Ma l’immagine di Dio che soggiace a tale atteggiamento non è quella biblica! Dio non ha bisogno delle nostre parole per attivarsi ad agire per noi, ma è già all’opera per l’umanità, in forza esclusivamente del suo amore gratuito. La nostra preghiera nasce dall’accoglienza riconoscente di tale agire, e ne chiede il suo compimento.
    Proprio come la preghiera di Paolo in 1Cor 1,4ss, che riconosce i doni di Dio presenti nella comunità, e «rende grazie» per la «grazia», per la gratuità di Dio di cui i Corinti fanno esperienza. Se la preghiera è dialogo con Dio, non è quindi un rivolgersi a un essere distante, ma a una persona che si è fatto vicino all’esperienza di vita umana e si dimostra ad essa solidale, e il cui operare è riconosciuto e accolto nella comunità dei credenti. Da ciò nascono i vari atteggiamenti della preghiera. Realisticamente, si deve far conto che l’opera di Dio è «non ancora» compiuta, per cui il cristiano ne chiede il compimento con la preghiera di richiesta e intercessione. Ma ne sa altresì riconoscere le realizzazioni «già» operanti, e per questo loda e rende grazie.
    Due passaggi paralleli, forse di una tradizione immediatamente successiva a Paolo, invitano i cristiani a rivolgersi al Signore «con salmi, inni, canti spirituali… rendendo sempre grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5,19-20; cf Col 3,16-17); è sicuramente pregnante questa accumulazione, che indica un’esuberanza nella lode da parte di chi è cosciente di essere stato incontrato, mediante Cristo, dall’amore di Dio, e rivolge di conseguenza il suo grazie a Dio mediante lo stesso Cristo.
    L’amore di Dio, da cui origina la preghiera, è quindi un’esperienza personale. Più precisamente, è esperienza dello Spirito di amore che al credente è donato (cf Rm 5,5). Nel capitolo ottavo della lettera ai Romani Paolo tratteggia molte ricche dimensioni della presenza dello Spirito nell’esistenza credente, all’interno delle quali inserisce quella della preghiera. Diamo pertanto uno sguardo a quel capitolo nella sua interezza, per scorgervi poi come vi sia menzionata l’esperienza della preghiera.
    Lo Spirito appare già al v. 2, in un’affermazione ellittica, come spesso succede in Paolo. Più precisamente, è menzionata «la legge dello Spirito della vita», gioco di parole per dire lo Spirito che opera vita. Esso ci è donato da Cristo risorto, e continua a rendere attuali nella nostra esistenza i doni arrecatici da Cristo, la sua liberazione dalla realtà del peccato e della morte conseguente. Ciò comporta la possibilità di camminare secondo lo Spirito e non secondo un’esistenza autosufficiente, ripiegata su se stessa, da Paolo metaforicamente chiamata «sarx, carne». Con questo termine Paolo non indica il costitutivo materiale dell’individuo, né la sua affettività o sensualità, quasi fossero in sé realtà negative, cui lo Spirito si oppone. Invece indica, metaforicamente, un’esistenza autosufficiente, che il dinamismo dello Spirito combatte perché la persona si apra a Dio e agli altri nell’amore.
    «Camminare» è un’esperienza di vita, è lo scegliere la direzione del nostro percorso ogni giorno, è autodeterminarci. Noi lo possiamo fare secondo quel progetto di vita rivelatoci nel Vangelo, che lo Spirito in un certo modo porta nella nostra interiorità, nella nostra coscienza, rendendocelo non codice estrinseco, ma connaturale con le nostre aspirazioni più profonde, dimensione interiormente sorgiva del nostro fare. Lo Spirito, infatti, suscita in noi i suoi stessi «sentimenti», o meglio, «aspirazioni», «orientamenti esistenziali» (phronêma).
    I vv. 12-17 iniziano tirando le conclusioni di quanto affermato a riguardo dell’esistenza dei credenti ai vv. 1-11. Lo Spirito ci abilita ad una vita non orientata dalla «carne», e quindi indirizzata a una vita vera, piena, eterna. Ma non solo; il v. 14 compie un salto, affermando che lo Spirito indirizza la vita di coloro che sono «figli di Dio», ci assicura del nostro statuto di figli. Ciò è possibile perché è proprio lo Spirito di Cristo (v. 9), e quindi ci associa allo statuto di Cristo, Figlio unigenito di Dio.

    Uno statuto da figli

    La qualifica «figli di Dio» merita attenzione. Nel mondo biblico non indica un generico legame con il Trascendente, ma una relazione pregnante di alleanza, in cui il «figlio» si scopre in un legame di amore con Dio suo padre. Così Israele, popolo con cui Dio ha stipulato l’alleanza, a volte si ritiene «figlio» (Es 4,22-23; Os 11,1…) o ritiene che tale lo sia il re (Sal 2; 89; 2Sam 7,14). È tuttavia molto raro che un singolo possa chiamare Dio come «Padre», (cf Sir 23,1.4), e comunque mai è attestata nella preghiera la parola «Abbà». Questo termine aramaico, che Paolo riporta al v.15 sentendo il bisogno di tradurlo per i suoi lettori romani, trova senso in questo contesto solo se è un ricordo dell’autocoscienza propria a Gesù stesso, che si esprimeva nella sua preghiera.
    Ciò è determinante per capire il tenore della figliolanza qui espressa. Siamo ancora nella linea di un legame di amore, ma di una pregnanza e di una confidenza sinora impensabili. I credenti in Cristo hanno infatti quello stesso accesso al Padre che è proprio a lui, Figlio unigenito. Hanno quella familiarità confidenziale che è propria a chi è «figlio» a titolo pieno, e che non può essere conquistata da nessuna pratica umana, ma è liberamente elargita da Colui che ci rende gratuitamente partecipi del suo statuto. Tutto ciò è espresso nella loro preghiera. Anzi, la preghiera diviene proprio l’espressione prima del loro essere figli. Inseriti per mezzo dello Spirito di Cristo in una comunione profonda con Dio, i credenti possono esprimere nella preghiera a chiara voce la loro identità di figli nel Figlio. O meglio, lo «gridano».
    Questo insolito verbo indica una proclamazione franca, sicura, che si contrappone retoricamente ad un altro grido, quello conclusivo della pericope precedente 7,7-25. In tale brano, infatti, è espressa in una prima persona singolare dal tenore retorico la vicenda dell’umanità considerata a prescindere dalla grazia di Cristo. Essa è asservita alla realtà del peccato (7,14), da cui nemmeno la legge di Dio, in sé santa, la può liberare. Di conseguenza, tale brano alla fine esprime un angosciato bisogno di liberazione (v. 24). Ora, il capitolo ottavo è iniziato ricordando proprio come tale liberazione sia avvenuta in Cristo (v. 2), e in questo contesto nasce la preghiera qui manifesta, nella serena fiducia dei figli liberi.

    Figli nel Figlio

    La preghiera, si è detto, è un dialogo di fronte al Tu di Dio, che non è un essere lontano, o peggio, minaccioso, bensì Colui che per amore è all’opera a favore dell’umanità.
    Tale opera raggiunge il suo culmine in Cristo. In lui Dio si rivela come Padre che apre a noi la possibilità di una relazione dalla familiarità inaudita, rendendoci figli nel Figlio. E allora la preghiera non solo è dialogo di fronte al «Tu» di Dio; ancor di più, ci porta dentro la sua stessa persona, dentro il mistero stesso della Trinità. Infatti «abbiamo ricevuto», da Dio Padre, lo «Spirito di Cristo», per mezzo del quale facciamo nostra la preghiera stessa del Figlio e chiamiamo Dio «Abbà, Padre». Nella preghiera l’opera salvifica ritorna a quel Dio da cui è originata.
    Certo, queste parole potrebbero sembrare eccessivamente e unilateralmente entusiastiche. Ma sono profondamente vere, e dicono la pregnanza che la preghiera ha per il credente. Il rischio dell’entusiasmo è poi contemperato se le collochiamo nel contesto in cui sono inserite.
    Dapprima, i versetti 1-13, nelle loro linee essenziali sopra rammentati. Lì è detto che lo Spirito anima il «camminare» del credente, e così ad un tempo lo responsabilizza alla sua fedeltà al progetto di vita rappresentato dal Vangelo. E questo comporta una scelta e una fedeltà diuturna, sovente non scontata né facile, poiché si tratta di fronteggiare la realtà della «carne», che continua ad essere influente e allettante nella storia umana. E proprio perché lo Spirito è lo Spirito di Cristo, necessariamente anima gli atteggiamenti e orientamenti esistenziali a lui propri nei suoi credenti.
    Atteggiamenti innanzi tutto filiali, si è visto. E proprio del Figlio è l’obbedienza (Fil 2,8), non l’autosufficienza. Lo Spirito suscita l’obbedienza in opposizione all’autosufficienza, che è propria della «carne» (v. 7).
    La preghiera, proprio perché preghiera di figli, non può racchiuderci in una contemplazione estasiata del nostro statuto, a prescindere dalle responsabilità verso le scelte e gli atteggiamenti concreti. Al contrario, ci spinge a dimostrare il nostro essere figli nel concreto. A discernere, nel mezzo delle complesse vicende della storia, gli atteggiamenti e i comportamenti che sono propri ai figli, rifiutando quelli espressivi di una chiusura autosufficiente. La preghiera non può che essere radicata nella vita, e orientata all’etica, ossia al nostro camminare da figli responsabili nella vita.
    Secondariamente, contro ogni entusiasmo a buon mercato, va’ realisticamente detto che il nostro cammino non è ancora giunto al suo traguardo, ed è ineluttabilmente destinato a far conto con l’esperienza della morte. Paolo lo ricorda già al v. 11, assicurando che lo Spirito è la forza che ha operato nella resurrezione di Cristo, e che opererà anche nella nostra. Ma è ai vv. 18ss che le «sofferenze del momento presente» entrano prepotentemente in primo piano nell’argomentazione. L’esperienza della sofferenza è legata alla caducità della nostra esistenza, e la morte ne è espressione tipica. Sono segno distintivo di un’epoca storica in cui il dono della salvezza di Dio, «già» effettivamente operativo, è «non ancora» giunta alla sua completezza.
    Raggiunti dal progetto di amore di Dio, i credenti non sono per questo esenti dalle contraddizioni che contraddistinguono il «tempo presente» dell’umanità, anzi, della creazione stessa (v. 19). Sebbene Paolo abbia definito i credenti come figli (vv. 14-16), ora chiarisce che la loro figliolanza adottiva è ancora attesa, è oggetto di speranza (vv. 23-25). Ossia, il nostro essere figli si manifesterà completamente quando il progetto di amore del Padre su di noi sarà pienamente dispiegato, quando la morte nostra sarà vinta e noi parteciperemo alla vittoria di Cristo stesso su di essa. Tale futuro avrà anche un senso per tutto il creato. La resurrezione è anticipo di «cieli e terra nuovi», di un ordine di cose in cui il progetto di Dio, che è un progetto di vita, si afferma in ogni dimensione dell’esistente.

    Grido di speranza in attesa del futuro di Dio

    Tutto questo non può essere estraneo alla nostra preghiera. La nostra sofferenza, infatti, deve manifestarsi nel nostro colloquio con Dio, e in esso diviene domanda per il compimento del suo progetto salvifico, intercessione perché questo avvenga anche per altri. Lo Spirito, che sostiene la nostra preghiera filiale, è all’origine anche di quella con cui i figli presentano al Padre le loro pressanti necessità.
    Di più, fa propri gli stessi loro gemiti, grida in loro poiché partecipa della loro situazione di sofferenza (v.26), e li presenta a Dio quale intercessore. Tale locuzione trova sostrato nel giudaismo del tempo, ove patriarchi o angeli presentano a Dio le necessità del popolo. Ma per Paolo è Dio stesso, nel suo Spirito, coinvolto nelle nostre necessità e sofferenze. In tale situazione la preghiera ci fa (ri)divenire sintonici con la volontà di Dio. Ci fa vivere la comunione con lui in mezzo anche a situazioni in cui, da un punto di vista meramente umano, sarebbe difficile riscontrare immediatamente la manifestazione del suo progetto.
    È proprio della preghiera, allora, farci far memoria del progetto di amore di Dio Padre verso i propri figli, il quale non è smentito dalle sofferenze presenti. In tal modo nella preghiera riprendiamo continuamente coscienza di esso, e il nostro grido di sofferenza non si tramuta in grido di disperazione, ma diviene grido di speranza verso un futuro in cui si manifesterà compiutamente il nostro essere «conformi all’immagine del Figlio», vivente nella gloria. È la preghiera che ci rende coscienti che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (v. 26).


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