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    Il problema della laicità

    Armido Rizzi


    I
    l termine «laico» ha una lunga storia, che parte dall'interno della nomenclatura cristiana (o addirittura di quella giudaico-ellenistica) e giunge fino al post-moderno. Laico è, nella tradizione cristiana, colui/colei che non appartiene al ceto sacerdotale; poi, nella tradizione moderna, è laico ciò che non riconosce un fondamento confessionale; più tardi, ciò che rifiuta qualsiasi richiamo ideologico, e, come ultimo approdo, ciò che si vuole «senza fede» né in Dio né nell'uomo né in un mondo di valori.

    Non è difficile vedere come, attraverso mutazioni anche drastiche di significato, il termine mantenga una sua unità formale, che consiste nella definizione in negativo: «laico» è sempre usato per tracciare un confine tra un dentro e un fuori, e per indicarne l'appartenenza al fuori: fuori dalla funzione sacerdotale, fuori dalla fede cristiana, fuori dall'ideologia, ecc. Dovrebbe essere chiaro che una definizione in negativo non comporta una valutazione negativa; tutto dipende da come viene giudicato ciò rispetto a cui si è fuori: se si tratta di un privilegio (come nel caso del sacerdozio), l'esserne esclusi è una minorazione (come appunto per i laici nella tradizione cattolica), mentre se sulla realtà che viene detta in positivo (la confessione di fede o l'ideologia) grava un'ombra di sospetto, l'esserne esterni costituisce un motivo di vanto. Così, nella tradizione moderna tutto ciò che è laico gode di una pregiudiziale positiva rispetto a ciò che non lo è; e non è un caso che, a differenza di quanto vale per la tradizione cattolica, «laico» sia stato qui adottato come autodefinizione.
    Tra le varie realtà che si sono attribuite questo nome, (cultura, scuola, pensiero, istituzioni, ecc.), due meritano la nostra particolare attenzione: l'etica e lo Stato. L'interesse per una considerazione sinottica di etica e Stato laici è, insieme, storico e militante. Da un lato, infatti, essi sono cresciuti assieme e si sono reciprocamente alimentati; dall'altro, questa reciprocità ha presentato contorni poco netti, che hanno dato luogo a sovrapposizioni e a confusioni tutt'altro che «laiche», anzi pesantemente ideologiche, che la crisi della modernità in parte mette allo scoperto in parte continua ad occultare.

    I fondamenti dell'etica laica

    Etica laica è quella che, diversamente dalle culture premoderne - dalle etnologiche al Medio Evo - cerca il suo fondamento non nel discorso religioso, mito o credo, ma nel discorso della ragione come interpretazione della natura umana. Natura come fondamento oggettivo, ragione come fondamento soggettivo: ecco gli elementi che definiscono in positivo quella che, secondo l'etimo, è l'etica non confessionale. La ragione interprete della natura era -doveva essere - il luogo della verità etica: quel luogo che era stato fino allora il mito religioso e, nella storia cristiana, la rivelazione.
    Due almeno erano le ragioni che inducevano a questa dislocazione del fondamento: una più contingente, l'altra più di fondo. In primo luogo, la necessità di dare alla convivenza sociale una base laica nacque dalla frattura determinatasi all'inizio dell'era moderna nella cristianità. Se fino allora la fede cristiana era stata la base del vivere e del convivere, la divisione al suo interno in confessioni differenti le rendeva ormai impossibile svolgere questo compito; anzi, dal momento che le confessioni cristiane si armavano l'una contro l'altra, la fede da fondamento dell'unità sociale diventava causa principale della sua lacerazione. Bisognava dunque trovare un fondamento non confessionale, slegato da una fede cristiana fattasi ormai pluralità di fedi in conflitto.
    La seconda ragione dell'imporsi di un'etica laica emerse successivamente ma presentò un carattere più sostanziale, e fu l'esigenza di dare all'agire umano un fondamento non estrinseco, eteronomo, ma interno all'uomo stesso, degno di quella «maggiore età» che con l'illuminismo l'uomo europeo credeva di essere sul punto di raggiungere.
    Due furono perciò le istanze che sottesero il passaggio dalla religione alla ragione come base etica: la pace sociale e la volontà di autonomia.
    Si noterà che, nei due casi, non si tratta esattamente della stessa problematica: da una parte è in gioco la convivenza tra i membri di una società, dall'altra il valore dell'agire individuale, sia esso privato che pubblico. Ma, se non identiche, le problematiche sono così vicine da determinare, dicevo, ampie sovrapposizioni e, in più ambiti, profonde confusioni. Prendiamo come esempio l'etica familiare: l'indissolubilità del matrimonio, l'interruzione della gravidanza, la monogamia, ecc., sono questioni di moralità privata o pubblica? Noi avvertiamo come sia difficile dare risposte univoche e sicure a domande come queste. L'etica laica moderna credette di poterle dare; meglio: non si pose neppure le domande, perché le risposte le possedeva a priori, nella convinzione che esse fossero sedimentate nella natura umana e nella capacità razionale di leggerla.

    Lo stato soggetto etico

    Un punto si andò, comunque, rapidamente consolidando: che la ragione che presiedeva all'etica pubblica avesse come soggetto lo Stato, mentre le convinzioni di individui e gruppi sociali - comprese le chiese - appartenessero alla sfera dell'opinione, della credenza, a cavallo tra superstizione e ragione marginale. Etica laica venne così a definirsi, oltre che come etica razionale, anche come etica statuale.
    Se poi ci chiediamo in «quale ragione» si sia identificato lo Stato moderno, troviamo una nutrita gamma di concezioni, dove l'elemento comune è la pretesa di coniugare verità e forza, e le varianti sono i diversi modi di intendere la prima: da quella minimale di Hobbes, tutta funzionale alla coesistenza pacifica dei cittadini, a quella massimale degli Stati comunisti, che pretendeva di confiscare tutta la verità e perciò aboliva tendenzialmente anche gli spazi della coscienza, a partire da quelli religiosi.
    Lo Stato liberale si è barcamenato tra questi due estremi: dal rispetto quasi religioso delle dinamiche sociali, soprattutto in campo economico, al loro assorbimento ideale e pratico al servizio (anch'esso carico di succhi parareligiosi) dello Stato sovrano nazionale e delle sue affermazioni di potenza (fino al colonialismo e alle guerre mondiali).

    Humus antropologico della cultura cristiana

    Malgrado il diverso peso del momento statuale, e quindi dell'etica razionale e pubblica, un fenomeno accomuna però la storia delle nazioni moderne, un fenomeno cui non viene data dagli studiosi un'attenzione pari alla sua importanza: la sopravvivenza, accanto all'etica ufficiale, di una morale sociale basata sulla tradizione, di codici di comportamento che veicolano un sentire plurisecolare, radicato su un humus antropologico di lunga durata. Questo humus è impregnato - quanto a valori e quanto a limiti - di quella cultura cristiana che ha forgiato l'uomo europeo (e le sue propaggini nord e sudamericane) più a fondo di dove potessero arrivare le divergenze confessionali. Ebbene, gli Stati moderni sono vissuti parassitariamente sulla piattaforma antropologica di un'etica cristiana, che essi hanno in parte incorporato traducendola in termini secolari (sarebbe qui di grande interesse una riflessione sui vari sensi di «secolarizzazione»), in parte emarginato, ma che hanno continuato ad alimentare le collettività di uomini/donne e di cittadini che le componevano.
    Stato laico come non-confessionale ha dunque significato, nella realtà dei fatti e diversamente dall'autocomprensione ideologica, uno Stato liberato dagli specifici confessionali ma non dalla matrice etico-cristiana generale; non quindi una figura di convivenza « razionale» e come tale universale aldilà e al di sopra di ogni tradizione, bensì una figura dotata di quella reale ma relativa universalità etica che gli deriva dal cristianesimo (come confluenza e amalgama del monoteismo ebraico e del logos greco).
    Perciò la crisi dell'etica è anche crisi dello Stato nel suo fondamento rimosso ma operante. Perciò non ha senso cercare nella «laicità» dello Stato un principio superiore di unificazione delle componenti etico-culturali fratte (?) e conflittuali della società odierna. Così come non ha senso cercare tale principio nella «laicità» dell'etica intesa come istanza pubblica-razionale, da affidare, invece che allo Stato o insieme con esso, alla ragione scientifica.

    Laicità dello stato

    La laicità dell'etica è il suo appartenere alla coscienza, è il suo essere esperienza originaria, che religione e ragione sono chiamate a interpretare, non a fondare; è il suo essere dialogo fra le tradizioni interpretative - religiose, sapienziali, filosofiche, ecc. - in un cammino di ricerca della verità. E la laicità dello Stato non è altro che l'accoglienza di queste tradizioni e posizioni per raccoglierne e fissarne di volta in volta i punti comuni, oppure, lì dove questo risulti impossibile, scegliere in base a un principio che non è né religioso né razionale, che non è ricerca di verità ma vittoria numerica: il principio-maggioranza.
    Verità e maggioranza sono voci reciprocamente im-pertinenti; ma è soltanto dal singolare connubio tra passione per la verità e accettazione del principio-maggioranza che può risultare un agire umano a un tempo obbediente alla coscienza e leale verso lo Stato. Le due cose assieme ma senza indebite identificazioni: indivise et inconfuse.

    (Rocca 1 marzo 1995)


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