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    Il bisogno religioso


     

    A tu per tu con Dio /1 

    Paolo Zini

    (NPG 2009-08-03) 

    Veniamo dunque al primo interrogativo:
    Perché il bisogno di Dio ha seppellito le profezie che ne annunciavano la morte?
    Basta mettersi in ascolto degli osservatori della società contemporanea per scoprire un dato interessante: sembra tornato di moda, nelle società occidentali, il bisogno di Dio.

    La profezia della secolarizzazione

    Una resurrezione di questo genere non può passare inosservata. Troppo sicure e troppo forti erano
    state nella seconda metà del secolo scorso le voci di quanti pensavano che l’atteggiamento religioso avesse le ore contate. Il teorema era di quelli semplici ed efficaci. Dio non c’è; se c’è, c’è come invenzione dell’uomo che quando sente dentro di sé un bisogno prepotente arriva ad autoingannarsi, creando l’oggetto proporzionato al suo bisogno. E se Dio è nato per la potenza del bisogno umano, morto quel bisogno la faccenda religiosa è definitivamente liquidata.
    Per indicare questo processo culturale e sociale di superamento del bisogno religioso è stato utilizzato il termine secolarizzazione.
    Ovviamente l’espressione secolarizzazione non è semplice etichetta appiccicata ad un fenomeno; piuttosto è il riflesso di un modo di vedere il mondo, le cose, l’uomo; un modo di vedere per il quale la morte del bisogno di Dio diventa comprensibile, spiegata, giustificata. La parola secolarizzazione viene da saeculum, espressione antica, utilizzata per distinguere l’orizzonte profano, mondano, pagano, rispetto all’orizzonte sacro, monastico, cristiano. Il passaggio dalla radice saeculum al termine secolarizzazione è più complesso di quanto non appaia. L’antica distinzione di sacro e profano, in molti interpreti contemporanei della secolarizzazione, diventa opposizione: Dio e i suoi diritti hanno di fronte l’uomo e le sue aspirazioni.
    Entrare nel mondo del sacro significa allora riconoscere i diritti di Dio; mentre riservarsi lo spazio profano significa essere uomini alle prese con la propria solitudine mondana. La parola secolarizzazione nel suo uso più frequente esprime dunque un’opposizione; ma di questa opposizione, tra diritti di Dio e ambizioni dell’uomo, rimarca la conflittualità: quel che è dato a Dio all’uomo è tolto, e quel che è dato all’uomo è tolto a Dio [1]. Il fronteggiarsi però di Dio e uomo, ancora questo ci dice la parola secolarizzazione, non è simmetrico: Dio ha un volto prodottoda ignoranza, opportunismo, infantilismo, mentre il volto dell’uomo è il termine reale di esperienze e conoscenze chiamate ad un infinito incremento. Ma allora è chiaro: le profezie della secolarizzazione in realtà sono vere e proprie operazioni di marketing, che sponsorizzano un preciso progetto uomo. Per i profeti novecenteschi della secolarizzazione l’uomo religioso sarebbe il frutto di una minorità dell’intelligenza, della volontà, delle passioni; un uomo da risvegliare alle sue potenzialità, ai suoi diritti, alla sua verità. L’uomo secolarizzato descritto da tanta letteratura è colui che non deve più abitare un mondo piccolo, accerchiato dal mondo in espansione del suo confinante, un Dio severo e dispotico, dunque pericoloso. L’uomo secolarizzato deve essere aiutato nel suo processo di liberazione, sostenuto nella sua emancipazione da Dio. Certo, privarsi dei conforti di un Dio costruito come risposta ai propri bisogni di sicurezza, comprensione e salvezza, chiede un salto di qualità, uno scatto d’orgoglio, un di più di virilità.
    Poi però paga con un’emancipazione che restituisce l’uomo alla sua dignità di protagonista di sé, di signore del mondo, di artefice della storia.

    Secolarizzazione o risacralizzazione?

    Il teorema della secolarizzazione inarrestabile dell’Occidente sembrava perfetto; conforme al progresso scientifico e alla sua promessa di verità; conforme al desiderio umano di libertà e alla sua insofferenza rispetto alle regole morali; conforme all’evoluzione multiculturale della società con la sua esigenza di mettere da parte i conflitti religiosi. La cultura della seconda metà del XX secolo ha investito molte delle sue migliori energie per propagandare, spiegare, accompagnare il processo di secolarizzazione. Per rendere l’uomo più uomo era necessario svelargli l’inganno del bisogno religioso, l’equivoco dell’espressione Dio, il fascino della maturità intellettuale, morale e culturale promessa dall’abbandono dell’illusione religiosa. Dopo decenni di secolarizzazione promozionata in tutti i modi, però, gli interpreti della cultura sono obbligati a registrare il ritorno del sacro, una persistente nostalgia di Dio; e questo proprio agli inizi del XXI secolo. Il teorema della secolarizzazione non è stato contraddetto; contraddirlo sarebbe impossibile, in quanto le sue premesse sono postulati, non dati di esperienza. Ma certamente il teorema della secolarizzazione vede smentita la sua capacità previsionale: ha previsto cose che non sono accadute, e ha escluso cose che sono invece accadute. Insomma, aveva sbandierato la notizie della morte individuale e sociale del bisogno di Dio, mentre il bisogno di Dio non è morto, sembra, al contrario, più vivo che mai. Non si può trionfalisticamente dire che oggi questo bisogno goda di buona salute, ma certamente gode di un’ostinata vitalità.
    Potremmo dire che il trend registrato dagli studiosi del costume all’inizio del XXI secolo rivela un bisogno di Dio più dinamico dell’impegno di chi ne vorrebbe documentare la morte: esattamente il contrario di quanto sembrava in atto qualche decennio fa. E allora? E allora, con questa strana inclinazione ad entrare in rapporto con Dio, inclinazione che sembra inestirpabile dal cuore umano, proprio l’uomo è obbligato a rifare i conti. Così diventa importante ascoltare di nuovo i più attenti studiosi del costume; e questi parlano di un processo di risacralizzazione del mondo e dell’esperienza,
    che sarebbe tipico di questo tempo. Cosa vuol dire risacralizzazione? Semplificando un po’, forse si potrebbe dire che l’uomo contemporaneo sembra essersi stancato di infinite operazioni culturali che cercavano di riportare le cose, l’esperienza, la sua stessa vita ad un’immediatezza solare. Curioso: quella che fino alla fine del XX secolo era venduta come terapia, è avvertita, all’inizio del XXI secolo, come una sindrome. Il sogno illuminista dei secoli XVII e XVIII mirava ad un mondo immerso in un perpetuo meriggio: la maturità dell’uomo doveva consistere nel viversi come intelligenza solitaria e priva di mistero, capace di illuminare ogni angolo della realtà, sottraendola, essa pure, al mistero. Oggi quella illuminista pare una sindrome, un’ossessione patologica; e il suo mondo piatto e assolato, senza ombre e oscurità, sembra invivibile.
    Dover dire di sé e del mondo, del cuore e della vita: «Chiaro, è tutto qui!», sembra una condanna più che una promessa per molti uomini del 2000. Oggi allora sembra essere divenuta più allettante una esperienza che interfaccia un uomo alle prese con la profondità misteriosa di sé e un mondo ben più profondo di quanto non suggeriscano le sue apparenze frequentate dalla scienza e dalla tecnica.
    La nostalgia di una profondità dell’esperienza che oggi sembra caratterizzare il ritorno del bisogno religioso
    convive però con alcune espressioni dei tempi più ruggenti della secolarizzazione distruttiva del secondo novecento. L’uomo di oggi si è fatto un’idea molto precisa dell’importanza della sicurezza del mondo, di sé e della vita; questa idea di sicurezza segna profondamente il suo sentirsi religioso, e il suo tentativo di vivere dimensioni meno superficiali di sé e del mondo.
    Riducendo i fenomeni all’essenziale potremmo dire: l’uomo preilluministico si percepiva come un navigante alle prese con un mare burrascoso, ma si rassicurava pensando alla stabilità del porto dal quale la sua vita era partita e nel quale era, alla fine, attesa; alla luce della stabilità di quel porto – conosciuto nella fede e nella speranza – combatteva e «significava » i marosi della navigazione quotidiana. L’uomo illuministico scopre come alleato fondamentale nella sua difficile navigazione, non la speranza di un porto promesso, ma l’ingegno che gli permette di vincere il mare e di sconfiggerne la profondità insidiosa; per questo si concentra sulle onde e sulle tempeste che lo attaccano, senza attendere un porto promesso, ma guadagnandosi, attraverso la fatica e la scaltrezza, una navigazione senza incognite.
    L’uomo postilluministico – quello del 2000 – non accetta una navigazione tutta concentrata a controllare il pericolo del mare; vuole godere del mare stesso e della sua profondità, e trova eccitante una navigazione incerta quanto a provenienza e destino; ma non tollera di essere privo del soccorso di mezzi tecnici che gli consentano di dominare l’insidia del mare. Insomma, il mistero del mare e l’incognita del porto rendono la navigazione un’avventura, mentre la competenza tecnica ne fa un’avventura sicura, al riparo da un temutissimo binomio: dolore e fatica. Ma lo stesso uomo postilluminista ha anche un secondo rapporto con il mistero del mare e dei suoi porti: quando questo non è garanzia di avventura ma principio di dolore e fatica inevitabili, allora viene idealizzato dentro aspirazioni consolatorie. Le vicende di molti turisti dello spirito del XXI secolo mostrano la sottile linea che separa l’avventura cercata e assicurata, dalla tragedia indesiderata e irrimediabile: tutte e due sono vicende nelle quali si consuma il contatto con il mistero, e con il suo duplice volto eccitante e consolatorio. Ora è forse più comprensibile la strana vitalità del bisogno religioso contemporaneo: si tratta di un’attrazione fatale per la profondità e il mistero. Un’attrazione che però si presenta come gusto dell’avventura e dell’eccesso o come bisogno di consolazione, sempre stretta al cordone ombelicale della tecnica, prodiga di buoni servizi. Quando il mistero promette eccitazione e novità, è la tecnica a garantirne un consumo sicuro; quando il mistero eroga consolazione, è la delusione tecnica a renderlo comunque un produttore alternativo di sicurezza. 

    Una nuova formazione al mistero 

    Se le osservazioni svolte hanno qualche verità, occorre davvero fare i conti in modo nuovo e serio con il bisogno religioso. Anzitutto occorre prendere atto delle promesse e dei fallimenti degli slogans della secolarizzazione. Non si può assistere muti e indifferenti all’arroganza di chi afferma la definitiva estinzione del bisogno di Dio nel cuore dell’uomo; non è possibile accogliere un teorema frutto di prese di posizione assolutamente arbitrarie, come fosse il verdetto di un giudice competente e imparziale.
    È falso affermare che l’uomo sano e maturo è secolarizzato, nel senso che si è liberato della favola di Dio, riconoscendo di non averne bisogno; come è falso affermare che l’uomo religioso è un malato incapace di stare al mondo, autore e vittima del proprio autoinganno rassicurante. Il bisogno religioso viene dal profondo dell’uomo, ed esprime la memoria di una relazione, non la condanna ad un conflitto. Nel bisogno religioso l’uomo si scopre mistero a se stesso, abitante di un mondo che non può essere ridotto ad apparenza piatta e scontata. Ma il bisogno religioso è esposto all’equivoco, alla tentazione, alla confusione, così come tutti gli altri bisogni, desideri e inclinazioni che rendono vivo l’uomo. L’uomo può giocare con il suo bisogno religioso confondendolo con una equivoca sete di avventura, che diviene il mezzo per fuggire dal mondo padroneggiato dalla tecnica e chiarito dalla scienza. E una simile fuga è ambigua: l’avventura che rende elettrizzante la vita per evitare l’asfissia di previdenze e sicurezze è a caccia di misteri
    che poco hanno a che spartire con la profondità dell’orizzonte religioso. Ma non rispetta la verità del bisogno religioso neppure il rifugio consolatorio in qualche gesto magico, mezzo illuso e mezzo rassegnato, dopo gli agguati tesi da dolore e fatica nel bel mezzo di avventure, previdenze e assicurazioni.
    Devoti rassegnati e avventurieri eccitati non sono veri uomini religiosi, e il mistero che li deprime o li esalta è di basso profilo. Piuttosto… l’uomo è in radice religioso, ma non è detto che a questa radice del suo essere arrivi con matura consapevolezza; per arrivarci deve fare esperienza di non essere la misura né di sé né del mondo: ecco il vero mistero. Solo un paziente discernimento e un accompagnamento sapiente possono
    aiutare il cuore dell’uomo a riconoscersi misurato dalla vita, misteriosamente più grande di lui e delle sue sicurezze tecniche. La forza dell’uomo che si riconosce religioso sta nell’umile virilità di chi non sfida la vita giocando con il pericolo per eccitare il senso della propria grandezza, e neppure motiva attraverso le proprie paure la ricerca affannosa di consolazioni magiche. L’uomo religioso è colui che, sapendo di aver ricevuto in dono, da Altrove, se stesso e il mondo, scruta le ragioni del legame con questo Altrove, radice di ogni fiducia e termine di ogni gratitudine. 

    Dunque? 

    Il ritornello, fortunatissimo fino a qualche tempo fa, di una secolarizzazione inarrestabile dell’Occidente, che avrebbe condotto l’uomo del 2000 a fare a meno di Dio, oggi viene raramente e sommessamente intonato. I profeti della secolarizzazione hanno però lasciato tracce indelebili nel costume e nella cultura; essi hanno insegnato che il rapporto dell’uomo con Dio è sempre concorrenziale: gli interessi dell’uomo non sono quelli di Dio e viceversa. L’uomo contemporaneo non è più tentato dalla secolarizzazione ma dalla risacralizzazione del cosmo e dell’esistere; quest’uomo è alle prese con un bisogno religioso forte ma spesso equivoco, un bisogno che risente di un forte utilitarismo egoistico e del sospetto, ereditato dai maestri
    della secolarizzazione, sulle vere intenzioni e sui veri interessi di Dio. Un bisogno religioso spesso egoistico e convinto dal processo di secolarizzazione dell’inaffidabilità di Dio diventa un nuovo tentativo di relazione con il mistero, ma spesso solo maldestro. Il ritorno del mistero può ridursi a ricerca di una via di uscita dall’angustia del mondo ridotto a misurabilità scientifica e utilizzabilità tecnica; può ridursi a ricerca di nuovi spazi di vita capaci di suscitare curiosità ed emozione; può ridursi a costruzione di nicchie consolatorie ove rifugiarsi quando l’incomprensibilità e la durezza dell’esistere non danno scampo. Si tratta di figure del mistero problematiche, rispetto alle quali l’uomo vuole conservare protagonismo di decisione e capacità tecnica di controllo, per massimizzare il carattere avventuroso dell’esistere e minimizzare fatica e dolore. La rinnovata attenzione dell’uomo al suo bisogno religioso sarà una buona notizia se, una volta purificata, condurrà a comprendere la grandezza e la profondità della vita e del mondo, doni che superano e sorprendono la misura piccola dell’uomo, mettendolo in rapporto con il mistero della sua Origine.

    NOTA

    [1] Vi sono pensatori autorevoli per i quali la parola secolarizzazione alluderebbe ad un processo positivo nel quale la cultura e il costume avrebbero appreso a distinguere le pertinenze dell’umano da quelle del divino fuori da commistioni problematiche, a promuovere l’autonomia buona dell’umano e a superare la tentazione consolatoria e rinunciataria dell’esperienza religiosa. Senza misconoscere l’autorevolezza di alcuni teorici della secolarizzazione – si pensi alla profondità del pensiero e alla fedeltà fino al martirio della testimonianza di D. Bohnoeffer (1906-1945) – ci sono forse ragioni per pensare in modo differente rispetto ad essi il legame tra uomo e Dio. La premessa della filosofia come della teologia della secolarizzazione evolve da esigenza di distinzione tra orizzonte proprio dell’umano e orizzonte proprio del divino a postulato di una loro separazione buona. Ci sono ragioni – che progressivamente questo scritto intende esibire – per ritenere che la coscienza religiosa formata alla verità dell’uomo e di Dio non conosca questa separazione; non solo, ci sono ragioni, e forse evidenze storiche, per ritenere che questa separazione equivocamente riconosciuta tenda fatalmente a sfociare in conflittualità. La sfida del pensiero che si interroga sull’esperienza umana di Dio non sta allora nel pensare la separazione tra la libertà creata e la Libertà creatrice, piuttosto sta nel pensare la loro reciproca implicazione come condizione di esistenza religiosa della verità dell’uomo e come condizione di credibilità teologica della verità.


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