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    Esperienza morale

    e laicità

    Armido Rizzi  

    Da qualche anno il dibattito italiano sulla laicità ha assunto un carattere tanto meno serio quanto più acceso. Le ragioni sono diverse; credo che la principale vada individuata nell'uso strumentale del termi­ne, comunque in funzione di cattiva retorica, invece che a partire dalla domanda: che cosa significa?

    Quando si affrontano argomenti come, per esempio, libertà, natura, e ormai anche laicità, il primo passo da fare è quello della «pulizia» semantica: in qua­le delle sue accezioni intendiamo usare il termine? Diversamente, esso è come un contenitore vuoto, che ognuno riempie di quel contenuto (di quei contenuti) con cui si trova in sintonia o in dissintonia, a seconda che voglia sollevarlo conte una bandiera o brandirlo come un randello. Oggi la laicità è una bandiera che tutti sventolano (magari precisando che di «sana laicità» deve trattarsi, non di «laicismo»). Ben vengano dunque quegli articoli, quei dossier di riviste. quei convegni, che, ormai consapevoli della deriva retorica del termine, cercano di mettere ordine, individuando e differenziando ambiti di applicazione (per esem­pio, il rapporto Chiesa-Stato o quello fede-ragione, o ancora il dibattito su diritto naturale e diritto positivo, sul carattere assoluto o relativa della verità); oppure mettendo in luce la tradizionale, sebbene rigida differenza tra laїcité alla francese, centrata sull'idea di nazione impermeabile e imparziale nei confronti di tutte le religioni, convinzioni e ideologie, e quella all'inglese, che offre ospi­talità alle differenze culturali[1] anche nello spazio pubblico.

    Accanto a queste accezioni, giocate su opposizioni (o almeno distinzioni) che si sono imposte dentro determinati contesti storici e ambiti geografici, mi pare se ne possano proporre due che hanno invece una portata intrinsecamente (cioè di principio) universale. 

    a) La laicità come uso corretto della ragione, come ragionevolezza del discorso. E cioè appropriatezza del linguaggio, correttezza dei ragionamenti, verifica - o falsificazione - delle ipotesi. Come si vede, si tratta di una laicità che possiamo chiamare formale, perché riguarda il metodo del discorso, non i suoi oggetti, ma che è la condizione - sotto qualunque cielo e in qualunque tempo - di rapporti non alterati da fraintendimenti, illusioni e inganni (magari involontari ma comunque capaci di falsare la comunicazione). 

    b) la seconda accezione di laicità dotata di valore universale fa riferimento all'esperienza morale, l'esperienza immediata – la coscienza - di un vincolo al bene, di un senso dell'esistenza. Questa esperienza è patrimonio dell'umanità di tutti i luoghi e tutti i tempi, e dunque anteriore alla distinzione tra "religioso" e "laico". La sua anteriorità strutturale ne fa un elemento che definisce l'umano come tale, l'uomo come essere morale. Non siamo più nell'ambito formale o metodologico, ma varchiamo la soglia di quanto vi è di più sostanziale: quell'autonomia di principio dalla religione come da qualunque altra figura umana oggettivata, sia essa ragione filosofica o scientifica, visione del mondo o sistema di valori o ogni altra rivendicazione di priorità. In una parola: la morale così intesa appartiene all'ordine dell'esperienza prima che a quello del discorso.

     

    1. La «forma» della morale 

    Per essere affascinati da un brano musicale non è necessario conoscerne l'autore, l'epoca della composizione, i giudizi che lo riguardano. Dire «che bello!» è formulare un giudizio che esprime una forma di conoscenza originaria, ante­riore e indipendente da qualunque informazione a suo riguardo. Lo stesso vale, ovviamente, per un brano poetico, per una pittura, scultura o architettura, per una realizzazione complessa in cui queste arti «col-ludano». Possiamo definire questa forma di conoscenza «assiologica»[2]: essa coglie il valore di una realtà, quel valore che qui chiamiamo «estetico» e che consiste in quella sua auto-manifestazione che ci strappa l'esclamazione di meraviglia.

    A questa prima forma di conoscenza se ne affianca un'altra che possiamo dire "nozionale". Essa ci offre un insieme di nozioni che suscitano in noi interesse in quanto vengono poste in relazione con la precedente, potendo sia arricchirla sia dilatarla attraverso il confronto con esperienze affini.

    Anche la conoscenza morale si presenta articolata in due modalità e mo­menti: come assiologica e come nozionale. Quando dico «è giusto/non è giusto-(«è buono/cattivo», «è bene/male»), il significato del termine «giusto» e affini non viene desunto da conoscenze previe, ma scaturisce dalla percezione di un valore. Tale valore, però, non appartiene all'ordine estetico, non investe un'ap­parizione interna al mondo dei fenomeni, ma è l'inspiegabile manifestarsi di un mondo «altro». Esso non si riferisce a qualcosa che «è» (come la bellezza natu­rale o artistica), ma a qualcosa che «deve/non deve essere»; cioè l'azione umana, in una sua modalità segnata da un giudizio previo («devo/non devo - in prima persona - agire in questo modo»).

    Prevengo l'obiezione: non è mai esistito alcun consenso universale su quali siano le azioni giuste e quali ingiuste. Basta uno sguardo a volo d'uccel­lo sulla storia passata per avvertire come il giudizio sul giusto/ingiusto sia stato così differenziato secondo le diverse «culture» da permettere una ben povera spigolatura di punti convergenti (secondo Lévi-Strauss, l'unico «non devi» uni­versale sarebbe quello dell'incesto). Questa obiezione sbaglia il bersaglio. Qui non stiamo parlando dei contenuti dell'esperienza morale, ma della sua forma, cioè della sua intenzionalità costitutiva, del significato di «giusto/ingiusto»: è questa l'universalità su cui si deve portare, in partenza, l'attenzione.[3] L'innega­bile e profonda differenza tra culture diverse quanto ai contenuti morali non fa che confermare la loro comune e radicale convinzione che esiste un mondo del­la moralità come imperatività dei comportamenti; e che questo mondo è alto) rispetto a quello dell'esperienza empirica.

    D'altronde il discorso sul passato trova a sua volta conferma in una rapida constatazione sul presente. Chi afferma oggi la totale relatività dei valori morali dovrebbe coerentemente rinunciare a ogni lotta, per esempio, contro le discrimi­nazioni e/o le violenze: verso gli stranieri, le donne, i disabili, gli omosessuali, gli aderenti a religioni diverse. Che cosa nobilita questa lotta, riscattandola da espressione di interessi di parte (di qualsiasi parte o motivazione) a segno di una convinzione di «altra» qualità? È questa la convinzione morale, che nasce (la quella conoscenza assiologica che è dotata di evidenza intrinseca anteriore - strutturalmente anteriore - a ogni ricerca di spiegazione, inter-tirchi/ione. giustificazione. F quella che chiamiamo coscienza nell'accezione qualificata del termine, quale appare in formule come la voce della coscienza o l'obiezione di coscienza. 

    Origine dell'esperienza morale 

    A questo punto si può affacciare la domanda: qual è l'origine di questa esperienza? Da dove viene, se essa non appartiene al mondo dei fenomeni? Ed è quando si cerca di rispondervi che fioriscono le spiegazioni/interpretazioni (che rilevano della conoscenza morale «nozionale»); esse possono essere ricondotte a due fonti: il «mito» e il «logos». Il primo narra di un'origine meta-umana: il divino (o il sacro), che viene custodito e amministrato dalle religioni; il secondo, di un'origine che è dentro il mondo dell'uomo ma si manifesta al di là delle sensazioni e della loro organizzazione, in una profondità che, per essere raggiun­ta e sondata, esige un severo scavo della ragione.

    Vi sono innegabili e rilevanti differenze interne a ognuna delle due fonti; ma c'è una originaria diversità. Mentre il logos dà effettivamente risposta a una domanda previa, il mito contiene un'affermazione che anticipa ogni domanda in quanto narra un'esperienza: l'esperienza religiosa come svelamento di quel di­vino da cui scaturisce l'esperienza morale. La religione — ogni religione — por­ta in grembo la morale come principio normativo della vita umana, così come porta in grembo la visione della natura come principio regolativo della vita co­smica; istituisce due modalità di ordine: l'ordine cosmico come armonia di ciò che è e l'ordine morale come obbligazione a ciò che deve essere. Non si può dubitare del fatto che la religione è stata storicamente all'inizio, e che il logos è nato come sua secolarizzazione.[4] Questa priorità genetica non equivale però a una rivendicazione di verità: la secolarizzazione può essere letta (ed è stata letta) come un fatto di legittima e necessaria autonomia o come un'adolescenziale presunzione.

    Il punto focale, per il nostro discorso, è un altro: una morale senza reli­gione non equivale necessariamente a una morale senza Dio (senza divino); a definirla è il mancato riconoscimento di Dio. Il quale potrebbe essere fonda­mento della coscienza morale in forma anonima; potrebbe esserne il fondamen­to ontologico senza che questo esiga che ne sia il fondamento gnoseologico. E la ragione è il carattere di esperienza, sopra brevemente descritto, che della co­scienza morale è costitutivo. Il credente - di qualunque religione - deve distinguere, dentro la propria professione di fede religiosa, tra la percezione del giusto/ingiusto come istanza assoluta di condotta di vita e l'attribuzione di questa istanza al divino (e più specificamente al Dio in cui egli crede). Se le due cose sono saldate in unità nella sua personale esperienza e in quella dei fratelli di fede (il «devi» come volontà di Dio, sua voce, suo comando), non lo sono neces­sariamente in ogni esperienza morale. Da parte sua il «laico» deve distinguere tra le ragioni che egli riconosce come convalidanti la sua esperienza morale dentro e in Irsuta di una celia visione del mondo, e la necessità che altri - e in particolare l'uomo religioso - condividano questa sua visione per avere un'espe­rienza morale autentica.

    Le distinzioni di fatto esistenti all'interno dei due fronti - e cioè tra le religioni e tra le visioni «laiche» - non sono che specificazioni di quella enunciata: tra l'esperienza morale come conoscenza assiologica e il mito e il logos come conoscenza nozionale. Potremmo anche esprimere questa distinzione primaria nel seguente modo: l'esperienza morale è la res (la cosa in sé), le sue, interpretazioni sono i nomina: nomi che qui non sono pure convenzioni linguistiche bensì espressioni simboliche della res; espressioni di cui l'uomo - animal symbolicum - non può fare a meno.

    Il richiamo al Concilio Vaticano II non è di prammatica. Nel n. 16 della Costituzione pastorale Gaudium et spes si trova una formulazione eccellente di quanto finora detto. Da un lato si dice: «L'uomo ha una legge scritta da Dio den­tro al suo cuore», perché «la coscienza è il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio»; dall'altro: «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali». Come a dire che c'è un ecumenismo più ampio di quello tra le religioni, ed è l'ecumenismo morale.[5]

     

    2. Il contenuto 

    Il problema del contenuto dell'esperienza morale non si può risolvere de­duttivamente; la distinzione tra forma e contenuto è irrinunciabile quando si vuol riflettere su questa esperienza, ma non va intesa come possibilità di sganciare l'una dall'altro. Proprio lo statuto di esperienza salda i due in un'uni­tà originaria: non c'è un giudizio vissuto d'esperienza morale (è giusto/ingiusto) che non investa un certo tipo di azioni, e non c'è un tipo di azioni che possa assurgere al livello morale senza essere investito dall'«è giusto/ingiusto».

    Ma se la realtà di fatto è, sul piano dei contenuti, il pluralismo delle posi­zioni quali appare nell'innegabile pluralità delle culture, come realizzare quella unità di principio che è come data in anticipo - nel senso di richiesta - dall'esperienza morale? Come evitare che questa esperienza diventi o una forma vuota di contenuti, o un assemblaggio di contenuti senza forma morale? Per di più questa unità di principio oggi più che mai incalza per diventare unità reale. in forza di un legame di tutto il Pianeta non solo estensivo ma qualitativo: la compresenza di più culture - di più complessi di contenuti morali - sullo stesso territorio.

    Ci sembra che soltanto il dialogo tra le coscienze morali possa dare una risposta non effimera e, soprattutto, non labile o solo apparente. Il dialogo tra le coscienze è altra cosa dal dialogo tra le forze politiche operanti nello Stato de­mocratico (o «laico»). Queste puntano alla ricerca di compromessi (è la condi­zione di un principio di maggioranza che non voglia diventare dittatoriale); ma che cosa distingue un buon compromesso da uno cattivo, se non la presenza dell'istanza del bene morale, del «giusto», che permette di giudicare una solu­zione almeno come il «minor male possibile»? La convinzione che le leggi dello Stato democratico possano costituire un magistero etico autosufficiente veniva già sottoposta a un dibattito critico in Germania negli anni '60; ma essa si è fatta via via più insostenibile nei decenni successivi con l'imporsi sempre più ampio di quella mutazione antropologica che introduce di fatto e di principio una nuova fondazione del pluralismo morale: l'individualismo libertario. «Di fatto», per l'incremento pratico di questa libertà, sollecitato dall'offerta vertigi­nosa di nuovi beni di consumo dei quali poter disporre liberamente; «di princi­pio», per la promozione a diritto di questa voracità. 

    Dall'individualismo libertario all'amore verso chi è nel bisogno 

    Sul primo aspetto esiste una letteratura abbondante;[6] il nostro interesse si rivolge qui al secondo. Proponiamo rapidamente il confronto tra due testi, di­stanti una decina d'anni l'uno dall'altro. Nel discorso per la festa di Sant'Ambro­gio 1997 il cardinal Martini ha trattato il tema della gratuità come stile di vita.[7] A un certo punto ha inserito, a modo di parentesi antitetica, una lunga conside­razione sulle «derive pericolose del presente e del futuro». 

    «Pur vivendo una stagione che sembra fatta apposta per rafforzare i contrasti, si può dire che sul terreno delle ideologie - e anche spesso dei comportamenti - tutti tendano più o meno a pensare e ad agire allo stesso modo [...]. Cadute le grandi ideologie, i diversi filoni si stanno come implicitamente accordando sull'esaltazione delle ragioni dell'individuo e sulla difesa degli interessi di gruppo. Le diffe­renze tra le grandi visioni della vita e le conseguenti tendenze della politica consistono oggi tutt'al più nel considerare l'individuo come soggetto di libero e non sindacabile esercizio del potere economico, oppure nel considerarlo, sia pure nel quadro di una generica solidarietà sociale, come soggetto di libero e non sindacabile espletamento di comportamenti etici.

    «V'è chi, in nome della morale, si oppone a posizioni libertarie sull'etica individuale, e fa notare che non si può dare libero spazio a comportamenti anomali nel campo, per esempio, della sessualità, dell'ostensione ed esaltazione della violenza, della tossicodipendenza, ecc., senza dover pagare le conseguen­ze anche sociali con fatti abnormi di cui siamo stati testimoni negli ultimi tempi. I ,a corrente di opinioni che ragiona così, e che vien detta perciò conservatrice e moralistica, non si rende conto tuttavia che una deriva liberistica in campo eco­nomico e sociale ha le stesse matrici che essa deplora nei comportamenti morali individuali.

    «Dalla medesima matrice di una cultura individualistica dei diritti priva­ti nascono dunque sia le forme libertarie (chiamate progressiste) che vorrebbe­ro legittimata ogni forma espressiva dell'agire del singolo, dalla droga alla li­cenza di qualunque sperimentazione sugli embrioni, sia le forme istituzionali proprie di un mondo che si dice conservatore [...]. A tutt'e due le forme del pensare e dell'agire è comune il rifiuto del primato della gratuità sul posses­so, dell'essere sull'avere». 

    Il secondo testo è comparso quest'anno nella rivista internazionale di teolo­gia Concilium; ne è autore un docente di storia cinese moderna presso l'univer­sità di Shangai, Xu Jilin. 

    «Mentre la società si fa sempre più secolarizzata e l'origine trascendente dei valori non è più evidente, [la Cina] precipita in una crisi di identità e la società non può più contare su un'etica o su valori comuni.

    [...] Il problema è che l'etica contemporanea, che definisce "cosa è morale", sta crollando nell'incertezza, di pari passo con il graduale appiattimento dei valori morali. Benché i modelli di riferimento della legge e dell'etica definiscano chia­ramente cosa è permesso e cosa non lo è, cosa è onesto e cosa è disonorevole, non avendo un'origine morale e non godendo del supporto di un sistema etico trascendente o storicamente fondato, tali modelli sono solo esterni e coercitivi, e non possono essere interiorizzati in un'autocoscienza come intuizione univer­sale della moralità […] Da qui deriva la seguente situazione: da un lato la legge e i modelli etici sono ovunque, permeano persino i minimi dettagli della vita quotidiana; dall'altro lato non sortiscono alcun effetto, costituendo una parte minima di ciò in cui la gente crede realmente. Al primo segno di debolezza da parte del potere esecutivo, la gente infrange la legge senza scrupoli di sorta. evadendo tutte le relative responsabilità etiche e la coscienza del dovere civico». Di qui, continua l'articolo, «un "rinascimento" delle religioni nell'epoca del secolarismo».[8] 

    Una decina d'anni di distanza, dunque, a cui si devono aggiungere alcune migliaia di chilometri e, soprattutto, due tradizioni profondamente diverse (Oc­cidente e Oriente) e due configurazioni politiche opposte (Stato democratico e Stato totalitario). Eppure, il profilo antropologico è sostanzialmente identico: da un lato «l'individuo come soggetto di libero e non sindacabile esercizio» di condotte comunque egoistiche,[9] dall'altro «la gente [che] infrange la legge sen­za scrupoli di sorta. evadendo tutte le relative responsabilità etiche e la coscien­za del dovere civico». Non basta. La figura positiva dentro cui si staglia per antitesi questa emergenza antropologica è in ambedue i casi una tradizione re­ligiosa, con l'accentuazione della sua forza di fondazione morale.

    Infatti, il di­scorso di Martini sulla gratuità non è una sollecitazione a un'opzionale genero­sità, ma il richiamo e il commento a un testo evangelico (Luca 17, 10) che parla in termini perentori del «dover-fare» come fondamentale criterio esistenziale. «Quanto avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inu­tili". Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

    E il discorso dello studioso cinese sottolinea in duplice direzione la fondazione dei valori morali nella religione attribuendone la crisi all'eclissi dell'«origine trascendente dei valori» (o an­cora: al crollo del «sistema etico trascendente»), e sostenendo di conseguenza (è il tema del suo saggio) che è questa crisi a determinare la rinascita delle religio­ni in Cina.

    Nella religione biblica - dove la dimensione etica assume una centralità che si irradia anche sull'ordine cosmico - il carattere decisamente personale del divino - il Dio di Abramo e di Gesù (più tardi anche di Maometto) - favo­risce il lento emergere di una responsabilità umana altrettanto personale e, dall'altro lato, di una corrispondente figura individuale dell'umano al cui bene­ficio questa responsabilità è rivolta.

    Il «prossimo», non più definito da una co­mune appartenenza etnico-culturale ma dalla sua condizione di bisogno: il po­vero nell'accezione più ampia del termine (l'orfano, la vedova, lo straniero, lo schiavo, ecc.). Così la forma morale nella figura di comandamento dell'amore a Dio (cioè il compiere la sua volontà come valore assoluto) si incarna nel conte­nuto insieme concreto e universale dell'amore a ogni individuo umano in situazione di bisogno. I diritti dell'uomo non trovano voce come principio di rivendicazione soggettiva ma come correlato del comandamento-dovere dell'amo­re a chi è nel bisogno. I diritti sono i bisogni del prossimo percepiti nella luce dei propri doveri.

    Ed eccoci allora al punto d'arrivo: chi vuole una laicità a tutto campo - il campo umano tout court - deve assimilare la lezione delle religioni: la neces­sità della formazione della coscienza morale; liberandosi dall'illusione che questo compito possa essere sostituito dall'esistenza ed efficienza dello Stato democratico. Formazione della coscienza significa: a) ripristino del primato del dover-essere nell'autocoscienza teorica e pratica dell'individuo (aspetto «for­male» della morale); b) identificazione dell'amore al prossimo - a ogni indi­viduo umano in condizione di bisogno - come contenuto centrale del dover-essere (contenuto dotato della stessa universalità della forma). Questa formazione esige una conversione (nel senso originario di inversione di rotta): la rinuncia (teorica e pratica) al primato della libertà nell'accezione di arbitrio innalzato a diritto.

    Ma una conversione morale non esige come suo presupposto la conversione religiosa: la lezione delle religioni, e specificamente della religione biblica, è quella che Paolo VI chiamava il loro «magistero di umanità». E che deve ac­compagnarsi alla disponibilità ad accogliere questo stesso magistero quando viene dal mondo «laico». Credenti e non-credenti siamo tutti reciprocamente (lucenti e discenti).[10]

     

    3. Corollari 

    Sul piano storico 

    Quando si parla di secolarizzazione (che è sinonimo di laicizzazione)[11] si intende comunemente l'esilio della religione (nella storia europea: del cristia­nesimo) dalla vita di un popolo, secondo gradi diversi: dallo Stato, dalla cultura, dalla mentalità, dalla coscienza. È il fenomeno iniziato con l'invenzione teorica e con l'attuazione pratica dello Stato laico nel '600, che si è poi dilatato e svi­luppato nei secoli successivi, contribuendo ad accompagnare e in qualche modo definire — assieme ad altri: scienza, economia, filosofia — la modernità. Ma da qualche decennio si parla di postmodernità: un termine che trova la sua giusti­ficazione nell'effettiva novità dei processi che investono i vari ambiti dell'uomo occidentale (e, per dilatazione, dell'uomo planetario). Questa novità ha investito, in maniera sostanziale, anche il campo della secolarizzazione, al punto che si deve parlare di una seconda secolarizzazione, che insieme con la religione ban­disce di fatto la morale affidandola alle prospettive e scelte individuali, e sosti­tuendola a livello sociale-normativo con la legalità statuale.

    Si può dire che questa «de-moralizzazione» sia il frutto necessario, benché tardivo, della secolarizzazione religiosa? La riflessione svolta nella parte teori­ca del nostro discorso non può che approdare a una risposta negativa. La dipen­denza della morale dalla religione, benché sia il fenomeno culturale forse più saldo e costante di tutta la premodernità, non è fondata sulla struttura costitu­tiva della morale stessa, dal momento che questa è una conoscenza assiologica autosussistente: per cogliere e praticare ciò che è «giusto/bene», per cogliere e rifiutare ciò che è «ingiusto/male», non è necessaria l'adesione a un credo re­ligioso (anche se questa adesione rappresenta un contributo robusto sul piano dell'interpretazione). La laicità della coscienza morale è proprio questa ante­riorità, questa autonomia rispetto alla religione (alle religioni) come rispetto a ogni visione del mondo areligioso. Senza dimenticare che essa è pure il primato genetico del dover-essere sui diritti individuali o corporativi: il riconoscimento di tale primato è come la cartina al tornasole dell'autenticità della coscienza morale. 

    Sul piano ermeneutico 

    Che una morale possa esistere senza religione, e più precisamente senza essere figlia di una religione, non significa che una religione possa altrettanto esistere senza morale, più precisamente senza dare vita e parola a una morale. Il rischio di un'enfatizzazione moralistica della religione non giustifica quel­la sua lettura «mistica» che sembra esercitare oggi un certo fascino, arrendevo­le a seduzioni psicologistiche o estetizzanti. Mistica è un altro dei termini dal significato polivalente, e quindi facilmente suscettibile di ingenui entusiasmi o di interessate strumentalizzazioni. Senza affrontare il problema nella sua com­plessità, proporrei due accezioni che, invece di contrapporre morale e mistica, ne colgono e valorizzano l'unità.

    Da un lato: proprio la costituzione della morale come esperienza di un «altrove», da cui scaturisce - se ascoltato e obbedito - la vita buona, rappre­senta quello che potremmo chiamare il cuore mistico della morale. Lungo quest'asse interpretativa si può intendere senza fraintenderla la distinzione di Max Weber tra un'etica dell'intenzione (o della convinzione) e un'etica della responsabilità; distinzione che egli stesso non intendeva come contrapposizione ma come necessità di integrazione: 

    «L'etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo»; anche l'uomo che ha la «vocazione alla politica». Ciò che sta a fondo di tutto è quella «sostanza interiore» da non con­fondere, come avviene «in nove casi su dieci», con «sensazioni romantiche»[12]. 

    E' come se in queste righe risuonassero i passi biblici sul «cuore»: sintesi di ispirazione e di azione, di ascolto della Parola e di obbedienza nella prassi.

    Un secondo livello di mistica della morale è quello dell'arricchimento affettivo che spesso accompagna la pratica dell'«amore al prossimo»: è l'obbe­dienza alla voce della coscienza che si incarna non soltanto nella concretezza dell'agire ma nella tenerezza del sentire, che rende dolce la stessa fatica della prima. 

    (da "Aggiornamenti sociali", 11/2008, pp. 651-660)



    [1] Si veda il diverso atteggiamento verso il «velo» delle donne musulmane.

    [2] Dal greco axion: che vale, che ha valore.

    [3] Qui «forma» è intesa dunque in un senso nettamente distinto dal carattere formale dell'universalità metodologica di cui sopra.

    [4] Per la Grecia cfr i lavori dello storico e antropologo francese Jean-Pierre Vernant, tra cui Mito e pen­siero presso i greci, Einaudi, Torino 2001 (ed. or. 1965); più in generale cfr l'idea di Karl Jaspers sul «periodo assiale» nella storia universale: Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1965.

    [5] Le riflessioni qui esposte in forma sintetica mi accompagnano da almeno due decenni e hanno trovato un'espressione più distesa e articolata in diversi saggi, tra cui: Crisi e ricostruzione della morale, SEI,Torino 1992, 99-117; Oltre l'erba voglio. Dal narcisismo postmoderno al soggetto responsabile, Cittadella ed., Assisi 2003, 230-245: Laicità. Un'idea da ripensare, Pazzini, Villa Verucchio (RN) 2004, 37-59.

    [6] Basti ricordare il notissimo Zygmunt Bauman della «liquidità» (rapporti liquidi, amore liquido...), cfr Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 e Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2006; non dimenticare neppure Gerhard Schulze sulla «società del fare esperienze»: Die Erlebnis-Gesel­lschaft. Kultursoziologie der Gegenwart, Campus, Frankfurt-New York 1992.

    [7] Cfr MARTINI C. M., Alla fine del millennio: servi inutili, liberi, umili e grati. Discorso alla città per la festa di Sant'Ambrogio, Milano, 5 dicembre 1997, in ,www.chiesadimilano.it>

    [8] JILIN X, «Crisi spirituale e rinascimento delle religioni nella Cina contemporanea», in Concilium, 2 (2008) 52-54.

    [9] In questo articolo viene ripetutamente posto l'accento sulla dimensione comune ai due orientamenti pur cosi diversi: si tratta di «convergenza silenziosa», «implicito accordo», «medesima matrice, «omologazio­ne dei baricentri».

    [10] Il primato del dovere è affermato da diversi pensatori e profeti del Novecento (ricordo in particolare Gandhi e Simone Weil); e si sta oggi facendo strada, per esempio attraverso una Dichiarazione universale dei doveri dell'uomo (Universal Declaration of Human Responsability, 1997); il cui scopo è di bilanciare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) evitandone un'interpretazione strumentale e fuorviante.

    [11] In Germania il termine più comune per trattare il nostro tema è appunto Säkularisierung.

    [12] WEBER M., «La politica come professione» in ID., II lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1976 (ed or. 1919), 109 ss.

     


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