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    Coscienza



    I temi negati dell’educazione /12

    Mario Pollo

    (NPG 2013-02-36)


    Alle radici della cultura dell’occidente, in particolare nelle correnti di pensiero dello stoicismo e nel neoplatonismo, la coscienza è fatta coincidere con l’interiorità, intesa come colloquio dell’anima con se stessa. La coscienza, come voce interiore è considerata sia la fonte dei principi alla base del comportamento retto, sia il luogo in cui la persona, facendo tacere i rumori della realtà esterna, può ricercare la verità.
    Questa concezione, in seguito assunta e diffusa da S. Agostino, è stata culturalmente dominante sino alla comparsa nel cuore della modernità delle varie forme di relativismo morale.

    LA TRASFORMAZIONE DEL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA MODERNITÀ

    Uno dei principali pensatori a cui può essere ascritta la diffusione di questo relativismo fu certamente de Montaigne, il quale, riprendendo un tema caro agli scettici, sosteneva che quella che era chiamata «voce della coscienza» non fosse nient’altro che l’insieme delle opinioni e dei principi dominanti negli ambienti sociali in cui le persone sono cresciute e che hanno, quindi, interiorizzato nella loro infanzia. Queste persone, secondo de Montaigne, hanno poi dimenticato questa esperienza e pensano, quando ritrovano dentro di sé queste opinioni e questi principi, che essi siano naturali e non derivati dall’esterno.
    Questo tipo di riflessione è stato ulteriormente sviluppato da Locke nella sua polemica nei confronti dei Platonici della scuola di Cambridge.
    Dopo l’emersione del relativismo morale, tuttavia, la concezione della coscienza come voce interiore non scompare ma sopravvive all’interno del pensiero cristiano-cattolico, oltre che in quello di alcuni filosofi, in particolare in quello di Kant che, nella Critica della ragion pratica, la colloca al centro della sua concezione etica. Per lui, infatti, la voce interiore della coscienza, in contrasto con le inclinazioni sensibili da cui è affetto, comunica a ogni uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche culturali e intellettuali, l’assoluto valore della legge morale.
    Oltre a relativizzarne i contenuti morali, la modernità ha riformulato lo stesso significato della parola «coscienza». Infatti, la filosofia moderna, da Cartesio in avanti, attribuisce alla coscienza il significato di «consapevolezza soggettiva» di se stessi e dei propri contenuti mentali.
    Nel ventesimo secolo poi, in particolare con Husserl, la coscienza viene sempre intesa come coscienza di qualcosa, avendo sempre e comunque un oggetto come termine di riferimento.
    Non solo. Alla concezione dell’interiorità come luogo di accesso alla verità è contrapposta quella proveniente dalle scienze empiriche, che sono ritenute le sole in grado di offrire una conoscenza non illusoria. In seguito a questo ruolo assunto dalle scienze empiriche l’introspezione, come via di conoscenza della psiche umana, è contestata non solo dal comportamentismo, che afferma che solo i dati oggettivamente osservabili contribuiscono alla conoscenza della psicologia umana, ma anche dalla psicoanalisi che afferma che la conoscenza della genesi dei fenomeni psichici sfugge alla normale consapevolezza del soggetto.
    Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo la coscienza, nel suo significato moderno di consapevolezza soggettiva di un oggetto, ha assunto un ruolo sempre più centrale sia nella filosofia della mente sia nella ricerca scientifica di orientamento cognitivo e neuronale.

    Per quanto riguarda la filosofia della mente vi è stato il tentativo di mettere a fuoco il concetto di «coscienza fenomenica» o «esperienza conscia», dove l’essere coscienti equivarrebbe allo sperimentare sensazioni come il dolore, i suoni, i colori, ecc. La coscienza fenomenica verrebbe, cioè, sperimentata quando un essere agente produce un dato effetto, fa provare qualcosa.
    Nelle neuroscienze è in corso la ricerca di una teoria capace di spiegare come sono emerse le basi neurali della coscienza. Questa teoria, tra le altre, dovrebbe risolvere due questioni importanti e delicate: quella della causalità della coscienza e come un meccanismo neurale possa implicare uno stato soggettivo cosciente.
    Per quanto riguarda il problema della causalità della coscienza, in altre parole della capacità della coscienza di produrre azioni sul piano concreto materiale, si contrappongono due diverse concezioni. La prima è quella che sostiene che la coscienza è solo un epifenomeno e, quindi, privo di qualsiasi possibilità di produrre conseguenze materiali. La seconda, invece, sostiene la possibilità e capacità della coscienza di produrre degli effetti sul piano materiale.[1]
    Per quanto riguarda la possibilità della coscienza di produrre effetti, Edelman sostiene che sono le basi neurali della coscienza e non la coscienza stessa a produrli. In questo terreno di ricerca oltre ai lavori di Edelman sono di grande importanza quelli di Koch e di Crick.
    Occorre dire che non tutti i neuroscienziati condividono il tentativo in atto di spiegare la coscienza attraverso i meccanismi neurali. Ad esempio, Reiss afferma che affermare che la coscienza è costituita da neuroni è lo stesso che dire che una cattedrale è composta di pietre, mattoni, vetro, legno, ecc.. Cosa indubbiamente vera ma che però non spiega la «cattedrale», che appartiene ad un altro ordine di realtà e che trascende quella dei materiali con cui è stata costruita.
    Lo stesso Edelman in un libro, edito in Italia nel 1993, sosteneva una posizione simile quando scriveva:
    «La nostra incapacità, come scienziati, di fornire una spiegazione della coscienza individuale non è più misteriosa dell’incapacità di spiegare perché c’è qualcosa e non il nulla. Forse un mistero c’è, ma non è un mistero scientifico».[2]
    E come rileva Ravasi:
    «Ed è proprio all’investigazione di questo mistero che si dedicano la religione e la teologia con criteri propri e con l’esperienza di fede e di riflessione specifica, consapevoli anch’esse di non esaurire ciò che per definizione è inesauribile come il mistero».[3]
    Il tentativo di ridurre la coscienza a un fenomeno neurale è la manifestazione del fatto che:
    «Viviamo in un’epoca di crescente entusiasmo per il cervello. Soltanto la preoccupazione di trovare un gene per qualunque cosa compete oggi con il diffuso ottimismo che circonda le neuroscienze. Percezione, memoria, piacere o dispiacere, intelligenza, morale… il cervello è considerato l’organo responsabile di ogni cosa. Si crede comunemente che persino la coscienza, il Santo Graal della filosofia e della scienza, sarà presto fatta oggetto di una spiegazione neurale».[4]

    In questo succinto itinerario del pensiero filosofico e scientifico intorno alla coscienza nella modernità è emerso come essa si sia trasformata da voce interiore comune a tutti gli uomini nella consapevolezza soggettiva di se stessi e della realtà, esterna e interna.

    La coscienza resistente

    Il fatto che la modernità abbia tentato di «liberare» l’uomo dall’anima e dalla coscienza fondata su di essa, non significa che quest’azione abbia avuto un successo pieno. Infatti, ci sono ancora dentro la cultura sociale dei luoghi di resistenza che, seppur oggi presenti prevalentemente all’interno del pensiero e dell’esperienza religiosa, hanno però alle spalle una consolidata e lunga tradizione che risale all’origine stessa del pensiero filosofico occidentale. Questo fa si che anche persone non cristiane partecipino in questa temperie storica al percorso di riscoperta dell’anima e della coscienza.
    È chiaro però che il luogo in cui la difesa della coscienza, fondata sull’anima, si è maggiormente dispiegata è quello dell’esperienza religiosa cristiana. Non è perciò casuale che il documento conciliare Gaudium et Spes affermi:
    «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore [...]. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore [...]. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria».[5]
    Come si vede il Concilio Vaticano II ha ribadito che la coscienza deve essere considerata il nucleo più profondo e segreto dell’uomo in cui questi può ascoltare la voce di Dio e, quindi, entrare in contatto con la verità.
    Chiaramente questa concezione di coscienza rispetto alla cultura oggi dominante appare residuale, forse anche anacronistica, perché sarebbe seguita solo da persone «non illuminate dal pensiero scientifico».
    Non è perciò un caso che le scienze umane si collochino all’interno della concezione riduttiva della coscienza che, come si è visto, è nata nella modernità ed è giunta alla piena maturità in questo tempo anche grazie alle neuroscienze.
    Occorre a questo proposito rilevare che la svalorizzazione della coscienza nella modernità si è mossa di pari passo con quella dell’anima, che è stata ridotta a simulacro dell’identità personale. Le conseguenze di questa svalorizzazione sono leggibili, ad esempio, nella tendenza, che ha toccato il suo culmine nell’ottocento, che identifica l’Io e non più l’anima con la coscienza.
    Per Hillman si tratterebbe di un vero e proprio anacronismo, soprattutto all’interno di correnti psicologie come quella della psicologia analitica che ha raccolto consistenti prove del fatto che la coscienza si fonda sull’anima e non sull’io.
    Ora, mentre nella tessitura dell’identità personale un ruolo importante è giocato dalla memoria, in quanto consente di legare in un’unica forma esperienze che accadono in tempi e in stati diversi del continuo divenire della persona, nella coscienza invece l’unità è assicurata, come sostiene Hillman:
    «più con le immagini che con la volontà, più con la riflessione che con l’attività ordinatrice, con lo sguardo riflessivo che penetra dentro la «realtà oggettiva» più che con la manipolazione della stessa. Non assimileremmo più la coscienza a una delle sue fasi, al periodo evolutivo della giovinezza con la sua mitologia di eroi in perenne ricerca di cimenti. E nel cominciare a educare la coscienza già nella giovinezza, il dare nutrimento ad Anima ci apparirebbe un fine altrettanto importante del rafforzamento dell’Io».[6]
    Si deve poi osservare che la coscienza fondata sull’io è quella che scambia le ombre della caverna platonica per la realtà, e questo indica chiaramente che essa non merita il nome di coscienza.
    Fuor di metafora, le ombre della caverna, scambiate per gli oggetti che le producono, spesso sono il frutto di un’interpretazione letterale delle esperienze nel mondo sensibile, mentre la vera realtà, che è prodotta dalla coscienza e, quindi, dall’Anima, s’incontra attraverso il mito, i mitologemi dei sogni e le fantasie, ed è leggibile in filigrana nel disegno della vita delle diverse persone.[7]
    L’interpretazione letterale delle esperienze del mondo sensibile è quella proposta dai metodi di ricerca intorno all’uomo che rifiutano la via della coscienza fondata sull’anima.
    C’è da dire che i fautori di questi metodi di ricerca della verità esteriore si rafforzano nella loro convinzione ogni volta che entrano in contatto con coloro che accedono alla verità dell’anima, perché in quelle situazioni accade, come ricorda Socrate a Glaucone, che coloro che sono stati alla luce del sole, ovvero hanno avuto accesso alla verità, quando ritornano nella caverna, vista la loro improvvisa cecità prodotta dal passaggio dalla luce al buio, appaiano meno abili nel discernere le ombre di coloro che sono sempre rimasti nel buio della caverna.
    «Se quell’uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all’improvviso dal sole? […] E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l’abitudine non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire?»[8].
    Oggi, come anche ai tempi di Platone, si è di fronte ad una situazione paradossale prodotta dal fatto che coloro che sono vittime dell’illusione, e sono prigionieri senza saperlo in un regno di ombre, accusino coloro che hanno accesso alla verità attraverso la via dell’anima di essere dei poveri illusi.
    Un motivo per cui la coscienza fondata sull’io non può offrire una consapevolezza piena della realtà è dovuto al fatto che l’io non riguarda la totalità della psiche umana ma solo una parte. La psiche non è, infatti, riducibile all’io perché essa è il centro in cui tutte le dimensioni costitutive della psiche sono condotte a unità, in cui la storia del singolo individuo e della collettività degli appartenenti al suo mondo culturale, che prima di lui sono vissuti e che con lui ora vivono o vivranno, è espressa in una sintesi che rispetta tanto il piano dei valori trascendenti quanto quello dell’utilità biologica.
    La conquista di questo centro, con altre parole, di una coscienza fondata sull’anima, è un processo complesso che richiede un cammino di crescita che può essere ricondotto, almeno in parte, a quello che Jung definiva processo di «individuazione».

    EDUCARE LA COSCIENZA

    L’educazione alla coscienza è declinata dall’animazione culturale nell’obiettivo di abilitare il giovane a costruirsi come centro esistenziale.
    La conquista della coscienza passa necessariamente attraverso la conquista del Sé.
    Questa conquista non si esaurisce nell’acquisizione di un’identità rinchiusa difensivamente all’interno dei confini dell’Io, come la cultura sociale contemporanea propone, perché il Sé nasce, sì, dalla conquista dell’Io, ma si sviluppa in un cammino che ha come meta il suo ricongiungimento con il tutto costituito dal mondo naturale, da quello umano e da quello divino al cui interno abita.
    In altre parole, questo significa aiutare il giovane a costruire un Sé che gli consenta di divenire un centro esistenziale del mondo.
    Il senso di quest’affermazione sarà più chiaro tra breve, dopo aver esaminato le tappe del cammino attraverso cui si svolge la conquista dell’identità fondata sul Sé.

    Il primo passo:
    la conquista dell’identità come risultato dell’integrazione fra separarsi da e riconoscersi in

    Il primo passo verso il Sé è la conquista dell’identità, in altre parole dell’Io. Perché l’identità possa manifestarsi, è necessario che l’uomo acquisisca per prima la capacità di riconoscere la propria separata diversità di individuo, e poi riconquisti il senso della propria unità con il tutto del mondo in cui vive.
    La capacità di riconoscere la propria diversità implica che l’uomo percepisca se stesso come un tutto unitario, nonostante le differenze fisiche e psicologiche che egli esprime nel corso della sua esistenza.
    È una banale constatazione l’affermazione che l’uomo, da bambino, è diverso dallo stesso uomo da adulto, anche se egli si percepisce come la medesima persona. La capacità di cogliere l’unità di se stessi, di là da ciò che appare nei vari frammenti di tempo che scandiscono la storia della vita umana, è ciò che sostanzia il riconoscimento della propria diversità dagli altri uomini e dal mondo in cui si vive.
    L’identità personale è questo continuo farsi e disfarsi dell’equilibrio tra il riconoscersi uguali a se stessi e diversi dagli altri, in tutte le trasformazioni che mettono in crisi l’uguaglianza con se stessi e la propria diversità dagli altri.
    Ogni giorno c’è qualcosa che ci fa sentire di essere differenti da ieri, fisicamente e psicologicamente, e nello stesso tempo, paradossalmente, che ancora più simili a se stessi. In altre parole, questo significa che la propria identità rimane salda e si rafforza nel cambiamento, almeno se si è in buone condizioni di salute psichica o non si vive una fase di regressione personale.

    Il secondo passo:
    verso la conquista dell’integrazione fra coscienza e inconscio personale

    Se l’identità costituisce la prima tappa della conquista del Sé, tuttavia non la esaurisce minimamente, perché questa fornisce all’uomo solo gli strumenti necessari al riconoscimento della propria diversità e della propria solidarietà con il mondo e con gli altri, esclusivamente a livello logico/razionale. Con una battuta si può dire che a questo livello, si riesce ad amare l’umanità in generale ma non il proprio vicino, magari antipatico.
    Il sentimento profondo della propria appartenenza alla natura, del proprio legame mistico con gli altri uomini, contemporanei e non, nasce a un livello più profondo e arcaico della personalità umana. In quella parte, cioè, che dagli psicologi è detta inconscio. Le profonde energie della solidarietà umana, dell’amore e dell’armonia tra se stessi e il tutto, sono generate in quella zona, dove l’anima umana è mistero a se stessa. È bene ricordare a questo proposito che un’identità priva delle risonanze profonde dell’inconscio produce solo una sorta di narcisismo razionalistico e un’ipertrofia dell’individualità portatrice di un senso di estraneità rispetto al mondo.
    La storia della vita umana segue un andamento circolare. Essa inizia, infatti, con la dolorosa conquista del frutto dell’albero della conoscenza – l’Io cosciente – che emancipa l’uomo dall’appartenenza indifferenziata al mondo, per finire con la mistica riconquista dell’unità perduta con il tutto nel Sé, senza però dover più rinunciare alla propria individualità cosciente.
    L’uomo cacciato dal giardino dell’Eden per aver mangiato il frutto della conoscenza, può ritornarvi alla fine della sua vita; solo, però, se sarà stato capace di ricomporre, a un livello più alto, quell’unità tra se stesso e il tutto che la conquista della coscienza ha rotto.

    Il terzo passo:
    verso la conquista dell’integrazione fra pensiero logico-razionale e pensiero simbolico

    Dai due passi precedenti è emerso chiaramente che l’identità personale fondata sul solo Io cosciente, anche se è il primo e il più importante passo verso la conoscenza di se stessi, non esaurisce il cammino che l’animazione propone quando afferma di voler abilitare il giovane ad accogliere e conquistare la propria identità personale all’interno della cultura.
    Infatti, la vera identità umana, importantissima in questo tempo di frammentazione, di perdita di radici, di narcisismo dilagante, di valori effimeri e di proposte di senso della vita deboli, è quella che si fonda, oltre che sulla differenza e sul pensiero logico razionale, anche sulla unità generata dal pensiero simbolico dell’inconscio, individuale e collettivo.
    Il pensiero simbolico è quello che si sviluppa tra i rimandi e le suggestioni di quei «di più» di significato che debordano dal senso letterale delle parole, delle immagini e dei segni che disegnano la vita quotidiana delle persone.
    Il pensiero simbolico è la musica che cerca di incantare l’essere umano autocosciente per ricondurlo alla patria da cui proviene: l’unione indivisa con il tutto.
    La coscienza e il linguaggio razionale sono le corde che lo tengono legato all’albero maestro della vita e che gli impediscono di andare a infrangersi sugli scogli della distruzione.
    L’identità si gioca all’interno del conflitto creativo tra questi due linguaggi, tra questi due approcci alla realtà. Sopprimerne uno significa aprire le porte o alla follia dell’autodistruzione, oppure a una vita arida nel mondo immaginario riprodotto dallo specchio di Narciso.
    L’animazione vuole offrire il suo contributo alla costruzione di questa identità, forte e profonda, attraverso la proposta del centro esistenziale.

    COSA INTENDERE PER COSTRUZIONE DEL «CENTRO ESISTENZIALE»

    Il centro esistenziale è la metafora educativa dell’antichissimo simbolo del centro del mondo, al cui interno l’uomo arcaico entrava in contatto con la totalità dell’essere. Con la mediazione dello sciamano, o una figura similare, formato a questo compito dall’iniziazione, dialogava con il suo inconscio e apriva il suo essere terreno al mistero del trascendente; restando però sempre solidamente ancorato alla terra della ragione autocosciente. Egli, infatti, sapeva che se il non iniziato fosse disceso agli inferi, sarebbe morto o caduto in preda alla pazzia.
    Infatti, l’esperienza d’incontro del proprio inconscio, se non controllata, è solitamente distruttiva per l’essere umano.
    Partendo da quest’arcaica suggestione, l’animazione culturale vuole aiutare il giovane a creare, nella sua vita quotidiana, un centro esistenziale che ripercorra, con il linguaggio e i saperi odierni, l’arcaica esperienza del centro sacro del mondo.
    Il centro esistenziale dovrebbe consentire al giovane di fare esperienza della totalità della propria psiche, di entrare, cioè, in un contatto creativo e vivificante con l’inconscio, individuale e collettivo, di aprirsi alla trascendenza e nello stesso tempo di espandere il dominio della propria consapevolezza, e, quindi, della propria capacità di comprensione razionale del mondo.
    L’animazione può contribuire alla creazione di questo centro esistenziale con il lavoro indirizzato a sviluppare la coscienza del giovane, il suo rapporto con la cultura sociale e la solidarietà con gli altri uomini e la natura.

    Il linguaggio e il silenzio

    Lo strumento principale di quest’azione è costituito dal linguaggio, inserito in un’esperienza esistenzialmente significativa di gruppo.
    Il linguaggio è il sostegno della esperienza cosciente, oltre che il fondamento di ogni cultura umana e di ogni esperienza di accesso, da parte dell’uomo, alla zona di mistero della propria persona.
    In altre parole, il linguaggio è la scala che l’essere umano ha a disposizione per esplorare le profondità del proprio inconscio, individuale e collettivo, e per salire al cielo attraverso la contemplazione e la preghiera.
    Il linguaggio esercita questa funzione anche laddove, come nell’esperienza mistica, si fa silenzio. Il silenzio non generato dal linguaggio, infatti, è privo della capacità di evocare significati. Perché il silenzio sia veramente evocativo, è necessario che esso sia un’assenza la cui esistenza è stata, o è, svelata dal linguaggio, che ne segna anche il confine. Il linguaggio è come il segno di una matita sulla carta che crea una forma sia attraverso i pieni che disegna sia con i vuoti che con questa azione crea. Lo spazio bianco di un foglio intonso non esprime alcunché, al contrario di quello all’interno delle linee tracciate del disegno.
    D’altronde, è una banale constatazione che nessun discorso umano sia possibile senza le assenze, senza i vuoti.
    Una musica senza assenze di suoni è un rumore fastidioso continuo, un disegno senza spazi bianchi è un foglio nero, così come una scultura senza vuoti è un blocco di marmo informe. Questo significa che, solo se nasce dal linguaggio, il silenzio può divenire il luogo dell’esperienza dei significati primi e ultimi della vita umana.

    Il centro esistenziale abita un santuario nel tempo

    Fare centro significa ricavare nella propria vita un santuario del tempo. Ricavare cioè dei momenti in cui le leggi della faticosa sopravvivenza, delle ferree necessità, della lotta sono sospese e l’uomo può prendere cura, integralmente, del proprio essere.
    Costruirsi un santuario nel tempo significa manifestare la capacità di rendere attuale, nella propria vita, l’ultimo dono che nel corso della creazione Dio ha fatto all’uomo: il Sabato.
    Il centro esistenziale per l’uomo contemporaneo, collocato all’interno di un itinerario di salvezza lungo la storia, non è più un luogo dello spazio, bensì un luogo del tempo. Il centro della vita non abita più lo spazio dell’uomo ma il suo tempo.
    In questo tempo, anch’esso sacro come il centro del mondo, è possibile, attraverso il linguaggio rigenerato nei suoi significati più profondi, portare avanti la ricerca della totalità nella persona e nella vita umana.

    La crescita della persona verso la totalità

    Il termine «totalità» sta a indicare una vita psichica unificata, in cui coscienza e inconscio sono entrambi integrati, e, quindi, una personalità ricca e creativa.
    Una personalità, cioè, che possiede una coscienza di sé, che conosce la propria relatività e che è perciò in grado di essere autocritica e di tendere alla verità e all’oggettività. Una personalità che non ha più il proprio centro nell’Io ma nel Sé, che sa utilizzare tutta l’energia creativa, tutti i valori e i messaggi che le provengono dall’inconscio, senza per questo rinunciare alla propria libertà cosciente.
    Il Sé qui non indica altro che l’insieme di Io e inconscio nella psiche umana, ovvero il centro vero della totalità. È provato che il centrarsi della psiche intorno al Sé genera una persona umana ben integrata, in grado di percepire la realtà in modo ordinato e coerente, di superare il senso di effimero e di transitorietà legato all’Io e, infine, di percepire in modo vivido ciò che rende l’uomo «fatto a immagine e somiglianza di Dio». L’identità piena e forte, cioè quella fondata sul Sé, l’uomo la raggiunge solo a questo livello di formazione della personalità, di solito nella seconda metà della propria vita.
    Tuttavia, questa ricerca interessa anche l’adolescente, proteso verso la solidificazione e l’espansione dei confini del proprio Io e del proprio potere sulla realtà. Ciò, perché la ricerca della totalità presuppone la formazione di un solido Io e di un’adeguata libertà cosciente.
    Si deve ricordare, come prima detto, che il consolidamento della coscienza è una tappa intermedia, nel percorso circolare che conduce l’uomo a una rinnovata unità con il tutto.
    Lo stesso processo di espansione della coscienza è potenziato dall’obiettivo, cronologicamente successivo, della totalità. Esso, infatti, evita che l’Io s’inflazioni e diventi il luogo di quell’emergente narcisismo che, per tanti versi, segna la società odierna.
    L’adolescente deve poi sapere che la formazione della sua personalità non si esaurisce con la cosiddetta maturità, ma prosegue per tutta la sua, si spera lunga, esistenza. Deve sapere, cioè, che una vita è ben spesa solo se arriva, alla fine, a chiudere il ciclo che prima si è descritto.

    Fare proprio il linguaggio dei simboli per aprirsi alla totalità

    Come si è visto, il linguaggio può parlare l’arcana lingua della totalità solo a una condizione: facendo posto ai significati simbolici. Per fare posto ai significati simbolici, il linguaggio deve perciò riappropriarsi della capacità di esprimere e di produrre simboli, immagini e di decodificare i miti che pervadono quasi tutti i racconti e le espressioni artistiche della esistenza umana.
    Il linguaggio deve, cioè, riaprirsi a quei significati nascosti che solitamente sono embricati all’interno delle singole parole, dei singoli segni e delle narrazioni di ogni tipo.
    Significa, ad esempio, scoprire che il dramma di Amleto parla di antiche storie sul rapporto tempo/ universo/uomo e non solo dei tormenti di una coscienza nevroticamente assillata dal dubbio. Infatti, questo dramma è così suggestivo perché, sotto la forma artisticamente perfetta prodotta da Shakespeare, risuona uno dei più antichi miti dell’umanità: quello che cerca di dare risposta al legame misterioso che esiste tra il tempo, la vita umana e il cosmo.[9]
    La tragedia di Amleto racconta una storia sul mistero del Tempo, basta saperla leggere.
    Ma anche se non la si sa leggere, questa storia segreta affascina ugualmente perché, eludendo la coscienza, parla direttamente all’inconscio collettivo di ogni persona che assiste alla sua rappresentazione.

    Apprendere a sottrarre il linguaggio alla vacuità

    La riscoperta dei significati nascosti delle parole non deve fermarsi ai simboli, ma deve andare oltre. Deve varcare la frontiera della separazione tra linguaggio e realtà, per giungere al luogo dove le parole manifestano il loro potere sulle cose.
    È necessario che l’animazione metta in condizione il giovane di sfuggire alla vacuità dei linguaggi contemporanei, che lo isolano dalla realtà, di riscoprire che le parole sono il reale che emerge alla coscienza e il cui ordinamento consente non solo di subire, ma di progettare la propria vita con maggiore libertà.
    Il progetto di se stessi diventa operante quando si padroneggiano, attraverso i linguaggi umani, i nomi, l’essenza cioè della realtà. E sempre stato il sogno di maghi e di cabalisti trovare il nome segreto delle cose, per riuscire a ottenere potere su di esse. Non è necessario però essere maghi, basta riappropriarsi della capacità di parlare nominando cose reali, non importa se oggetti o concetti.
    È sufficiente sottrarre il linguaggio alla vacuità e alla futilità dei discorsi che non rimandano ad altro che a se stessi. Anche questo fa parte della costruzione della coscienza. Infatti, la costruzione della coscienza, nel giovane avviene in concomitanza con il raggiungimento del possesso soddisfacente dei linguaggi che la cultura sociale gli mette a disposizione per controllare e, quindi, per esercitare un rapporto autonomo con la realtà.
    Perché il linguaggio possa divenire veramente un fattore dello sviluppo della coscienza e della identità del giovane, è però necessario che il suo apprendimento sia reso esistenzialmente significativo da un’esperienza relazionale umana fortemente coinvolgente.
    Questo tipo di esperienza può avvenire anche all’interno di un piccolo gruppo.
    È risaputo, ad esempio, che i simboli per svelare qualcosa di sé devono essere inseriti in un rito collettivo, di gruppo.
    Allo stesso modo, perché le parole siano il vero nome delle cose è necessario che il racconto della loro storia avvenga all’interno di una tradizione che fornisca loro la memoria collettiva.
    Infine, perché l’esperienza di solidarietà sociale sia compresa come espressione della riconquista da parte dell’individuo della partecipazione mistica alla totalità, è necessario che l’animazione di gruppo offra al giovane sia l’esperienza di regressione verso la totalità indivisa di un collettivo massificato, sia la successiva conquista, di solito dolorosa, di un nuovo rapporto sociale, fondato sulla non soppressione della libertà, dell’autonomia e, quindi, della coscienza individuale.


    NOTE

    [1] G. M. Edelman, Più grande del cielo, Einaudi, Torino, 2004, p. 4.
    [2] G. M. Edelman, La materia della mente, Adelphi, Milano, 1993.
    [3] G. Ravasi, Breve storia dell’anima, Mondadori, Milano, 2003, p. 308.
    [4] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. XIII.
    [5] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 16: AAS 58 (1966) 1037.
    [6] J. Hillman, Fuochi blu, Adelphi, Milano 1996, p. 55-56.
    [7] J. Hillman, Fuochi blu, cit., p. 57.
    [8] Platone, La Repubblica, Libro VII, 516e -517a.
    [9] G. De Santillana e H. Von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 1983.


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