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    Per Cristo (Prima parte di: Dire Dio ai giovani)


    Juan E. Vecchi, DIRE DIO AI GIOVANI, Elledici 1999



    Ripartire dal Vangelo

    La fede cristiana, si ripete oggi più che mai, non è primariamente adesione a una dottrina religiosa, a un sistema morale o a un insieme di pratiche di culto. E tanto meno la quintessenza di tutta l'esperienza religiosa, purificata, dell'umanità.
    È l'accoglienza di una persona. Consiste nel conoscere Gesù Cristo e accettare l'avvenimento di salvezza per ciascuno di noi che in lui e con lui ha avuto luogo dentro la storia umana. Conoscere, secondo il senso evangelico, significa rivolgere l'attenzione, comprendere, lasciarsi penetrare dall'ammirazione, amare, unirsi in profonda amicizia, fidarsi. In tal senso Gesù dice ai suoi avversari: «Voi non conoscete me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio» (Gv 8,19).
    Mettersi di fronte a Cristo e al suo mistero può dare oggi l'impressione di perdersi in un oceano. Ci sono innumerevoli saggi teologici anche di divulgazione, documenti ufficiali, testi di celebrazioni liturgiche e racconti di visioni o esperienze mistiche. Ci sono le rappresentazioni della pietà popolare, per non parlare dei romanzi e ricostruzioni storiche accettabili o arbitrarie, i film, i musical, le discussioni critiche, i talk show e altre simili.
    Giovani e adulti si interessano della figura di Cristo. Ma di immagini di Cristo ce ne sono tante e così diverse. Quello che rimane nella memoria di ciascuno dipende dalle preferenze, dalle scelte di vita, dal cammino cristiano che fanno, dalla situazione esterna e interiore di ciascuno.
    La verità della persona e dell'avvenimento di Gesù va oggi incontro a rischi tipici della nostra cultura e dello stato odierno dell'evangelizzazione.
    Il primo e più evidente è la perdita della memoria, la disinformazione. Le frange di giovani e adulti, ai quali di Gesù non si è parlato in modo sufficiente, vanno aumentando. Gesù va sparendo non solo dall'orizzonte della cultura e dell'organizzazione sociale, ma anche dalla coscienza e dalla mentalità personale. Non è che non se ne senta parlare. Non lo si considera determinante oggi. O ci si accontenta di qualche fugace emozione di passaggio. La precomprensione «postsalvifica», il non sentire bisogno di salvezza o credere che di fatto essa non si dà al di fuori delle possibilità umane, considera i limiti degli individui e le piaghe del mondo inevitabili o, comunque, affida il loro superamento a soluzioni tecniche. Non ci sarebbe bisogno di qualcuno che ci salvi o nessuno potrebbe farlo.
    Il secondo rischio è l'interpretazione frammentata e soggettiva della persona e dell'avvenimento di Cristo che lo sradica dalla concretezza storica. Alle immagini ormai rientrate del Cristo «rivoluzionario» o «poeta semi hippy», sono succeduti i Gesù caleidoscopici che si compongono conformemente alle preferenze di ciascuno. A volte, pur salvandone la storicità, si riducono le sue dimensioni: egli appare così come oggetto di esperienze religiose disincarnate o soltanto come maestro e modello dei valori umani che oggi ci stanno a cuore; e tutto a misura di consumatore, nel mondo delle idealizzazioni manipolabili, dei miti e delle realtà virtuali, senza preoccupazione di un confronto con prove.
    Il terzo rischio è più raffinato; appartiene alla sfera del pensiero religioso e non di rado si ispira a una buona intenzione: trovare il punto di incontro tra le religioni, eliminare l'opposizione fra di esse, individuarvi i semi di verità e dunque scoprire nuove vie di dialogo in clima di vicendevole valorizzazione e tolleranza.
    È l'equiparazione di Cristo ad altri maestri religiosi in quanto portatori di saggezza e quindi «mediatori di salvezza». In qualche caso si afferma il suo carattere di riferimento principale o punto di arrivo dell'esperienza religiosa. Comunque il cristianesimo viene allineato ad altre esperienze di Dio. Unico sarebbe il piano di salvezza, ma diverse e complementari le vie per raggiungerla.
    Per quanto riguarda coloro che sono «cristiani», incombe il pericolo del «già sentito», dello «scontato» per cui Cristo non provoca più meraviglia né si cerca di conoscere ulteriormente «l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo, che è più grande di ogni conoscenza» (Ef 3,18-19). Ne segue una specie di «esaurimento» della grazia e dell'energia che proviene dall'incontro con Gesù.
    In questa situazione lo sguardo va rivolto in primo luogo alla storia di Gesù di Nazaret. Essa fu il tema centrale della predicazione degli Apostoli e il nucleo generatore della riflessione successiva su Cristo. Questa, sradicata dalla storia, è meno che teoria o dottrina: si ridurrebbe a pura elucubrazione mitica.
    La pietà popolare che esprime la fede della Chiesa, ha ancora nella storia la via principale per comprendere l'opera e il messaggio di Gesù, proprio perché riflette vivacemente le situazioni umane e le illumina con un annuncio, un linguaggio e dei gesti che sono alla portata degli umili e dei poveri.
    Quasi tutte le grandi tradizioni spirituali hanno rivolto lo sguardo sulla storia di Gesù per provocare alla conversione, alla riforma della vita, all'azione cristiana e all'identificazione con lui. Possiamo ricordare, a mo' di esempio, le «contemplazioni» che gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio dedicano ai misteri della vita di Gesù, dalla nascita fino alla risurrezione, con l'impiego di tutte le potenze della persona e secondo i passaggi che portano a una comprensione adeguata e a una interiorizzazione duratura. Possiamo ricordare quella narrazione plastica, così immediata all'immaginazione e al sentimento popolare di Francesco di Assisi, che ha la sua manifestazione nella diffusione dei presepi.
    La storia di Gesù si trova nei Vangeli. Essi la trasmettono come realmente accaduta in un determinato tempo, spazio e contesto socio-politico e religioso. Anzi presentano addirittura le caratteristiche di una biografia secondo i canoni e i criteri del tempo in cui furono scritti.
    Hanno però una particolarità: si propongono come annuncio, rivelazione. Attraverso i gesti, parole, adesioni e contrapposizioni, solidarietà e persecuzioni, azioni e reazioni di Gesù e riguardo a Gesù, Dio manifesta le condizioni e le strade della salvezza definitiva, offerta ad ogni persona e al mondo.
    Per questo la narrazione evangelica non è semplice informazione, ma autentica comunicazione della fede, attualizzazione degli eventi salvifici, interpellanza esistenziale, invito a operare secondo quello che la salvezza consiglia.
    Ciascuno dei Vangeli mette a fuoco la persona di Gesù da una prospettiva propria. Tutti insieme, in forma complementare, propongono i contenuti della fede, le condizioni, le conseguenze sulla vita, i frutti e i percorsi per crescere nella comunione con Gesù. «Se la storia di Gesù raccontata da Marco può preparare i catecumeni alla conversione, la storia riproposta da Matteo offre ai neobattezzati il modo più adeguato per vivere la sequela di Gesù. Il Vangelo di Luca e gli atti degli Apostoli formano un sussidio per tutti i fedeli a intraprendere una vita di testimonianza evangelica e missionaria. Infine la storia di Gesù raccontata da Giovanni costituisce per i cristiani maturi un vero e proprio manuale di spiritualità cristocentrica e trinitaria» (A. Amato).
    La lettura dei Vangeli va liberata però dalla leggerezza e dall'arbitrarietà. La prima impedisce di cogliere la vera portata del testo. Sfuggono i significati delle espressioni, la portata degli eventi e il contesto in cui tutto è avvenuto. L'arbitrarietà porta a inventare significati, all'insegna della fantasia, del gusto o dell'interesse. Il senso letterale invece, cioè quello che il testo intende dire, è la radice di qualsiasi altro senso e applicazione valida. Per questo la Lectio viene ripetutamente raccomandata persino ai giovani. «Nei vostri gruppi, carissimi giovani – leggiamo nel messaggio in occasione della XIII giornata della gioventù – moltiplicate le occasioni di ascolto e di studio della Parola del Signore, soprattutto mediante la Lectio divina: vi scoprirete i segreti del cuore di Cristo e ne trarrete frutto per il discernimento delle situazioni e la trasformazione della realtà».
    Va aggiunto che il Vangelo si deve avvicinare con un grande desiderio di luce e di verità e in atteggiamento di preghiera. Così facevano coloro che si accostavano a Gesù per chiedergli una grazia.

    Ritratto di Gesù

    Molti si sono cimentati nel tracciare un identikit di Cristo: la sua figura fisica, psicologica-morale, spirituale. Certo non mancano per farlo dati nel Vangelo. I Vangeli parlano dello sguardo di Gesù, del suo modo di proporre i messaggi, del suo rapporto con i discepoli e amici, della sua compassione e del suo pianto, della sua comprensione e tolleranza, della sua preghiera, della sua libertà totale messa a servizio di un'immensa capacità di amare: una figura eccezionale che portava prima a farsi delle domande e poi alla confessione degli Apostoli: «Chi è questo che comanda i venti ?» (Lc 8,25), «Tu sei il Figlio di Dio» (Mt 16,16).
    Tutti però finiscono col riconoscere che il Vangelo non si preoccupa direttamente di fare una presentazione fisica, morale, spirituale di Gesù. Lo mostrano invece che «agisce e insegna». Ci fanno ascoltare i suoi insegnamenti, contemplare i suoi gesti, percepire le sue preferenze nel contesto della sua preoccupazione fondamentale: il Regno di Dio. «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle sinagoghe, predicando la buona novella del Regno e curando ogni malattia e infermità» (Mt 9,35; Mc 6,30).
    Consacrato dallo Spirito, egli porta «il lieto messaggio ai poveri, proclama la liberazione ai prigionieri e il dono della vista ai ciechi, libera gli oppressi e annuncia che è arrivato il tempo nel quale il Signore sarà favorevole» (cf Lc 4,16-19).17
    Il Regno di Dio lo occupa totalmente e sembra dare unità e senso a quanto i nostri occhi riescono a cogliere in lui e di lui. Egli lo annuncia spinto da una energia interiore che promana dalla presenza dello Spirito e con una libertà assoluta riguardo alla propria parentela, ai poteri, ai propri interessi. Lo muove l'amore al Padre, che l'ha consacrato e inviato, e la compassione per gli uomini.
    Ma che cosa è il Regno? È una realtà lungamente annunciata e attesa prima di lui, che ha nel tratto della sua esistenza storica il momento di rivelazione e compimento, e che viene lasciato come missione alla sua Chiesa fino alla fine dei secoli. È la presenza di Dio che, accolta dall'uomo, ne illumina il cammino e lo invita alla comunione con sé.
    È dunque la chiave per comprendere e far emergere un significato accettabile di Gesù, nella vita personale, nella cultura e nel mondo di oggi: lui non è solo l'amico dell'anima e l'oggetto delle nostre preferenze spirituali, come lo potrebbe essere un autore, un maestro, un artista. Il Regno lo strappa al soggettivismo, allo spiritualismo e lo immette nella storia concreta e drammatica del mondo.
    Il Regno infatti è annunciato con riferimenti a beni che le persone legittimamente desiderano: pace, riconciliazione, perdono, liberazione dai mali, gioia, pienezza; ma il suo segno e dono totale e definitivo, è la vita.
    Il Regno consiste nella vittoria della vita sulla morte. È la garanzia che Dio ci offre in Cristo che la vita prevarrà e non in maniera miserevole o precaria, ma nella sua pienezza di possibilità.
    Il Regno è l'energia che ci viene donata per annunciare la vita, batterci per essa, scoprire dove viene calpestata sotto pretesti sottili, creare spazi nei quali la si possa godere e sviluppare; è soprattutto la rivelazione che la vita risiede in Dio e da Dio ci viene data come grazia, che nella comunione con lui trova il suo senso e la sua pienezza. «Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). «La Parola che dà la vita esisteva sin da principio. Noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Vi annunciamo la vita eterna che era accanto a Dio Padre e che il Padre ci ha fatto conoscere» (1 Gv 1,1-2).
    Per questo il Regno si manifesta attraverso la liberazione dal male fisico, psichico e spirituale che assedia l'uomo; una liberazione non solo materiale a breve scadenza, ma totale e definitiva, comunque non semplicemente virtuale o intenzionale. «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vita, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11,4-5).
    Le guarigioni fisiche, le liberazioni dai demoni e le conversioni dei cuori non vengono operate da Gesù per provare la sua divinità. Sono invece segni della natura, energie e attualità del Regno. Insegnare, illuminare, guarire, risuscitare, ridare dignità e perdonare, liberare da mali, da dipendenze, pregiudizi, condizionamenti personali e sociali restano i gesti tipici del suo annuncio, della sua pedagogia e della sua impresa.
    Nel racconto evangelico vengono rilevate circostanze, atteggiamenti, azioni, attenzioni sulle quali fissare lo sguardo perché riguardano strettamente il Regno. Non vanno svaporati né rinchiusi nell'ambito puramente religioso, più di quello che lo stesso Vangelo non faccia. Ci indicano invece le condizioni, i protagonisti, le disposizioni, i valori che consentono al Regno di allargarsi e diffondersi. Sono per noi come «lezioni» su che cosa, come, perché, dove riferirci a Cristo e annunciarlo.
    Il Regno è certamente una realtà spirituale, interiore, un qualcosa che raggiunge il cuore e l'anima: «Il Regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21). Ma è anche corporale ed esterno. Si esprime nello stile di vita e nell'impegno per eliminare ciò che impedisce di vivere da persone umane e persino di riferirsi al Padre; perciò riguarda la destinazione dei beni materiali, l'impiego del proprio corpo, l'uso delle proprie qualità e competenze. Per questo suoi cittadini sono i poveri, i puri, coloro che cercano la giustizia e coloro che patiscono persecuzioni.
    Il Regno interpella certamente le persone singole, ma simultaneamente illumina i rapporti tra di esse, tra i gruppi sociali, tra le nazioni, tra i ruoli, tra le organizzazioni e i loro destinatari: propone un modo di concepire e realizzare la convivenza in termini di solidarietà aperte, non esclusive, di amore universale.
    Raggiungendo la convivenza ad ogni livello, il Regno di Dio coinvolge anche le strutture in cui i rapporti si cristallizzano. Mette la radice di ogni possibile cambiamento nella conversione a Dio, ma comprende, in tale conversione, la nostra maniera di vivere e agire nel mondo.
    La polemica sul tempio e il conflitto con la classe dirigente sono paradigmatici, così come Io sono le risposte a Pilato e il silenzio di fronte a Erode: vengono rispettate le funzioni e i soggetti, ma non i patti di potere tra di essi, le tradizioni e norme che producono dipendenze.
    Gesù è venuto a dare testimonianza della «verità». È la forma profetica e dirompente, insieme a quella costruttiva e trasformante del Regno. Esso infatti provoca a un cambiamento radicale: «Il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete alla buona novella» (Mc 1,15).
    Comporta un ribaltamento anche nella convivenza umana. Ha da vedere col cuore, ma non di meno con le tasche e con le banche; sottomette a giudizio la vita privata, ma anche i poteri pubblici. Gesù ha un atteggiamento, una valutazione e un giudizio sul denaro, sul potere, sul prestigio, sulle solidarietà secondo che siano conformi o meno al cuore di Dio e al bene dell'uomo.
    Oggi, di fronte alla privatizzazione della fede e del Vangelo, alla separazione tra pubblico e privato, tra soggettivo e strutturale, tra religioso e secolare, questa grazia ed esigenza totale del Regno è quanto mai indicativa.
    Una regola dovrebbe guidare la nostra contemplazione di Cristo attraverso i Vangeli: non staccare mai la persona dalla missione. Lui non lo fa. Spiega se stesso a partire dalla volontà di Colui che l'ha mandato a compiere l'opera di salvezza. E ciò per non fare della potenza più grande della storia umana solo «una amicizia personale», il confidente della nostra solitudine.

    L'incontro con Cristo

    «Ci sentiamo impegnati ad offrire alle nuove generazioni la possibilità di un incontro con Cristo». Tale è il proposito dichiarato dal documento Con il dono della carità dentro la Storia (n. 38).
    L'incontro con Cristo è il punto di snodo dell'educazione alla fede. Ad esso si mira, da esso si riparte: il fatto, la qualità, il seguito dell'incontro. La parola è quanto mai concreta per esprimere l'inizio, l'esperienza e la natura della fede. Ha abbondante riscontro nei vangeli.
    Questi si soffermano a raccontare gli incontri di Gesù con le persone più diverse: quelli che sarebbero diventati gli apostoli, la samaritana, Nicodemo, l'adultera, Zaccheo, Marta e Maria, il giovane ricco, i discepoli che camminavano verso Emmaus. Non solo vi accennano, ma riportano i gesti minimi e le parole di Gesù, così come le reazioni più profonde dei suoi interlocutori.
    La prima mossa è sempre di Gesù. Egli si fa avanti e cerca l'incontro. Entra in una casa, si avvicina al pozzo, dove una donna va ad attingere acqua, si ferma davanti a un esattore, volge lo sguardo verso chi si è arrampicato su un albero, si aggiunge a chi sta percorrendo un cammino. Dalle sue parole, dai suoi gesti e dalla sua persona sprigiona un fascino che avvolge il suo interlocutore. È ammirazione, amore, fiducia e attrazione.
    Per molti il primo incontro si trasformerà in desiderio di ascoltarlo ancora, di fare amicizia con lui, di seguirlo. Si sederanno attorno a lui per interrogarlo, lo aiuteranno nella sua missione, gli chiederanno di insegnare loro a pregare, saranno testimoni delle sue ore felici e dolorose. In altri casi l'incontro finisce con un invito a un cambio di vita.
    Gli incontri del Vangelo raccontano la fede. Ci dicono come nasce e cosa è. È l'autorivelazione di Gesù: «Il Messia sono io che parlo con te».
    Gesù si manifesta attraverso gesti e parole. Chi si è incontrato con lui lo conosce, non solo secondo il commento e la valutazione della gente, ma personalmente. Fa l'esperienza della sua saggezza e della sua bontà. La vita allora comincia a cambiare nelle sue prospettive, sentimenti, abitudini e progetti. La dimestichezza con Gesù e le sue rivelazioni porterà a riconoscerlo e confessarlo Figlio di Dio.
    L'incontro, e quello che in esso accade, è misterioso e incomprensibile come l'amore umano: ma più ancora. Gesù medesimo afferma che nessuno viene a lui se il Padre non lo attira. Ai discepoli dice: «Non siete stati voi a scegliere me. Sono io che ho scelto voi» (Gv 15,16). Così l'incontro non appare come un caso né come abilità delle persone, ma proprio come dono di Dio.
    Per ciascun giovane la fede personale ha inizio nel momento in cui Gesù gli appare come colui da cui attingere un senso per la sua vita, al quale rivolgersi in cerca di verità, attraverso il quale capire il rapporto con Dio e interpretare la nostra condizione umana.
    L'incontro momentaneo non basta. Cresciamo nella fede man mano che questo incontro diventa conoscenza personale e adesione permanente.
    Ci si imbatte spesso con qualcuno che racconta di aver fatto una «esperienza» religiosa. E si vede che essa ha lasciato un ricordo grato. Qualche volta però non ha seguito. La fede non è solo sentimento, fascino o ammirazione per Gesù Cristo. Come l'amore umano non è la «cotta». Nel.clima di soggettivismo che respiriamo, questa confusione è sempre in agguato. Ci accontentiamo dell'attimo intenso e fuggente.
    Il primo entusiasmo è certamente una grazia. Ma la fede è tale quando essa approda alla accoglienza della persona di Gesù nella propria vita, alla fiducia nel suo insegnamento, al cambiamento degli atteggiamenti secondo le sue indicazioni.
    Questo lascia capire il Vangelo nei racconti sulla fede. Lungo le rive del Giordano Giovanni vede passare il Signore: sente la chiamata e sperimenta il sussulto. Lo segue, coltiva la sua amicizia, si sente amato e ricambia. Gesù diventa per lui una compagnia indispensabile. Non riuscirebbe a concepire la sua esistenza senza di lui. Ne diviene discepolo prediletto. Ecco che cosa è accoglienza: è riferirsi a Gesù per orientarsi e scegliere, è desiderio di risentirlo, è andare verso di lui, rinnovare l'ammirazione, assumere il suo progetto.
    A Pietro, che per tutta la notte aveva pescato invano, Gesù propose di buttare la rete. Forse un dubbio balenò nella mente dell'esperto pescatore: buttare la rete ancora una volta dove non avevano preso niente? e in pieno giorno? Ma Pietro si fidò: «Sulla tua parola...». La fede comporta fiducia in quello che Gesù indica e promette: una fiducia che si traduce nelle scelte di vita.
    Nella cittadina di Gerico Zaccheo, conquistato da Gesù, lo accoglie in casa. Alla luce delle sue parole e dei suoi gesti intuisce quanto sia meschina una vita consegnata al denaro, senza pietà. La rinnega, promette di non rubare e di restituire, quattro volte tanto, ciò che aveva sottratto. La fede comporta il cambio di criteri, gusti e rapporti.
    Molti hanno ascoltato una volta Cristo con ammirazione, come le folle che volevano farlo re. Parecchi l'hanno incontrato e non si sono preoccupati di coltivare la sua amicizia. Alcuni, raggiunti singolarmente da lui, anche tra i più vicini, non l'hanno accolto. Non tutti si sono fidati del suo giudizio, del suo equilibrio mentale (è fuori di sé!), delle sue capacità (non è costui il figlio del falegname?), della sua saggezza (noi abbiamo la legge!), della sua rettitudine (ha un demonio!). Pure oggi si dice: è fuori dal mondo, è un idealista, predica l'impossibile, è una creazione della Chiesa, è un personaggio mitico.
    La fiducia riguarda tre ambiti in cui l'uomo gioca tutte le sue forze: la felicità, la verità, il bene: insieme determinano la «vita» e la «salvezza». Quale senso si dà all'esistenza, come si pensa, come si agisce. Su tutto ciò, di fronte alla molteplicità di proposte e ai margini di incertezza, il giovane credente dice: «Tu solo hai parole di vita eterna».
    L'accoglienza di Gesù porterà ad un cambiamento di mentalità e a un orientamento nuovo della vita secondo il codice della felicità proclamato da Gesù, le beatitudini: la povertà, la pace, la purezza del cuore, la giustizia, la misericordia. Conforme ad esso imparerà a giudicare i beni materiali, l'amore umano, l'uso del corpo, il rapporto con simili e dissimili, gli avvenimenti, il progetto di Dio su di lui.
    Insomma: un cambiamento che ha bisogno di bussola, accompagnamento, verifiche e appoggi.
    Provocare l'incontro, prepararne l'occasione e fissare un appuntamento è oggi una delle preoccupazioni della pastorale giovanile. Non diventa sempre facile. Il luogo privilegiato dell'incontro è la comunità cristiana. Ma sovente tra di essa e la maggioranza dei giovani si dà una distanza fisica e psicologica. D'altra parte le attese su Cristo, che giacciono nell'animo dei giovani, sono quanto mai varie. Oggi si diffondono immagini superficiali e incomplete, da consumo, musical, talk-show o maglietta. C'è nell'aria una sfilata di personaggi che porta a ridurre il rapporto con tutti a simpatia sentimentale. Ci si attende qualche cosa di sensazionale. La sovrabbondanza di messaggi, la scarsità di tempo e le tendenze odierne del linguaggio rendono ardua un'esposizione sistematica di quello che la riflessione cristiana offre su Gesù.
    Ma tutto questo non è definitivo. Lo Spirito e il Padre muovono ogni giovane verso Cristo. Egli susciterà sempre un fascino e una energia che vanno sostenuti e motivati.
    Il pastore educatore prova dunque tutte le vie che portano verso l'incontro: la testimonianza dei credenti che bisogna collegare con la presenza di Cristo in loro; la riflessione sulla vita, i suoi interrogativi, le sue aspirazioni che l'educatore aiuterà ad individuare, chiamare per nome, interpretare e portare a confronto con la storia e la parola di Gesù; le esperienze di valori, situazioni e rapporti che svelano nuove dimensioni; l'annuncio diretto che ha una eloquenza interna capace di toccare la mente e il cuore.
    L'incontro è un «momento» da non bruciare, ma neppure da ritardare.
    Anche l'educatore deve fidarsi di Cristo e del giovane.

    «Maestro, dove abiti?»

    «Maestro, dove abiti?» (Gv 1,38) fu la domanda dei due discepoli ai quali Giovanni il Battista aveva presentato Gesù. Capivano che avrebbero potuto trovare Gesù nelle piazze, sulle strade o nella sinagoga, come capitava a tutti. Lì però non avrebbero potuto andare a fondo nella conoscenza della sua persona, del suo pensiero, del suo progetto. Tanto meno avrebbero potuto coltivare un'amicizia. Gesù lo si poteva trovare in qualsiasi posto, ma ce n'era uno in cui dimorava come fosse casa sua e si esprimeva come in famiglia. Non era un luogo materiale. Era una compagnia, una missione da svolgere assieme, un segreto vitale da illuminare e condividere.
    Questo luogo è la Chiesa: la comunità dei suoi seguaci e discepoli. Ci si può imbattere in Gesù in molte situazioni a cui ci espone la vita: la ricerca sincera della verità, la lettura personale del Vangelo, la sofferenza dei poveri, l'esperienza della gratuità e del servizio, la conoscenza dei suoi testimoni, gli avvenimenti del mondo che sollevano interrogativi fondamentali o ammirazione. Dopo la Risurrezione, Cristo riempie col suo Spirito il mondo e la storia. Ma lo scambio fugace di sguardi e parole sfocia in conoscenza vera e profonda soltanto se andiamo dove egli abita. Alla Chiesa Gesù dice: «Io sono con voi fino alla fine dei secoli» (Mt 28,20). Alla Chiesa dice pure: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16). Alla Chiesa dice: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1 Cor 11,24).
    Della Chiesa si sente parlare in modi e con toni diversi. Questo influisce sul senso di appartenenza che i giovani riescono a maturare. Alcuni ne parlano con affetto quasi fosse la propria famiglia, anzi la propria madre. Sanno che in essa e da essa hanno ricevuto la vita spirituale. Anche se ne conoscono limiti, rughe e persino scandali, ciò tuttavia appare secondario di fronte ai beni che essa porta alla persona e all'umanità in quanto dimora di Cristo e punto di irradiazione della sua luce: le energie di bene che si manifestano in opere e persone, l'esperienza di Dio mossa dallo Spirito che appare nella santità, la saggezza che ci viene dalla Parola di Dio, l'amore che unisce e crea solidarietà.oltre i confini nazionali e continentali, la prospettiva della vita eterna.
    Altri ne trattano con distacco quasi fosse una realtà che a loro non appartiene e di cui non si sentono parte. La giudicano dall'esterno. Quando dicono «la Chiesa», sembrano riferirsi soltanto ad alcune delle sue istituzioni, a qualche formulazione della fede o a norme di morale che non vanno loro a genio. La Chiesa appare come un soggetto anonimo sul quale si generalizza come «il Quirinale, il Campidoglio o Palazzo Chigi». È l'impressione che si ricava nella lettura di alcuni giornali.
    Si sbagliano proprio in quello che costituisce la Chiesa: il suo rapporto, anzi la sua identificazione con Cristo. Per molti, questa è una verità non conosciuta o praticamente dimenticata. Non manca chi la interpreta come una pretesa della Chiesa per monopolizzare la figura di Cristo, controllarne le interpretazioni e gestire il patrimonio di immagine, di verità, di fascino che Cristo rappresenta.
    Per il credente invece questo è il punto fondamentale: la Chiesa è continuazione, dimora, presenza attuale di Cristo, luogo dove egli dispensa la grazia, la verità e la vita nello Spirito. «Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza, di carità, come un organismo visibile. La sostenta incessantemente e per essa diffonde su tutti la verità e la grazia» (LG 8).
    È proprio così. La Chiesa vive della memoria di Gesù, rimedita e studia con tutti i mezzi la sua parola estraendone nuovi significati, riattualizza la sua presenza nelle celebrazioni, cerca di proiettare la luce, che si sprigiona dal suo mistero, sugli avvenimenti e sulle concezioni di vita attuali e assume e porta avanti la missione di Cristo nella sua totalità: annuncio del Regno e trasformazione delle condizioni di vita meno umane. Soprattutto Gesù ne è il capo che attira i singoli, li unisce in un corpo visibile e infonde energie nelle comunità.
    Il 1997 era dedicato alla meditazione su Cristo. Si è detto che il cristianesimo non è la religione del testo scritto o del libro tramandato, ma della persona e della comunità, dunque della verità vissuta nel tempo: della persona di Cristo, della persona dei fedeli, delle persone degli uomini da salvare. I Vangeli sono nati nella Chiesa e suppongono la sua esistenza. Per entrare nel mistero di Cristo siamo dunque invitati a conoscere la Chiesa, a viverci dentro e a farne l'esperienza, a cogliere la sua realtà misteriosa e la sua dimensione visibile, a saper discernere quanto di essa si afferma o si scrive.
    Ciò ci porta a due serie di considerazioni.
    La prima tocca le attese dei giovani riguardo alla Chiesa. Mi riferisco a quelli che se ne interessano. Bisogna dire che le attese corrispondono, quasi spontaneamente, alle dimensioni della Chiesa, sottolineate in questi ultimi anni: comunione, missione, mistero. C'è dunque quasi una vicendevole corrispondenza tra Chiesa vera e gioventù.
    Comunione vuol dire incontro con persone significative, possibilità di dialogo e di confronto, condivisione di esperienze valide e di prospettive di vita, aggregazioni utili a se stessi e agli altri, sguardo comprensivo verso le altre esperienze religiose, attenzione verso le parti sofferenti del mondo, interesse per i lontani geograficamente, psicologicamente o religiosamente. Missione significa proposta di impegni, coinvolgimento in iniziative di sollievo e liberazione dovutamente motivate, profezia di valori fondamentali dimenticati dalla società come la pace, la solidarietà, il senso della vita portato dal Vangelo.
    Mistero vuol dire senso della presenza di Dio, avvicinamento a Cristo senza incrostazioni, esperienza di spiritualità, apprendimento della preghiera, lettura degli avvenimenti e dei segni alla luce della speranza, coscienza della trascendenza.
    La seconda serie di considerazioni va sulla pedagogia o cammino per far maturare nei giovani una appartenenza adulta e fondata alla Chiesa. Il criterio che guida tale cammino è far incontrare le attese dei giovani con la realtà della Chiesa e andare oltre, fino all'atto di fede in essa. Una prima attenzione va rivolta a qualificarne l'esperienza. Essa è sottomessa all'usura e alla abitudine. L'obbligo di starci non regge. Sta qui la ragione del distacco o abbandono di molti, sovente deprecato. Non si sente più la relazione che intercorre tra l'esperienza di Chiesa e la propria vita.
    L'esperienza si qualifica con l'apertura a nuove espressioni e con l'approfondimento delle motivazioni di fede riguardo a tre dimensioni indicate sopra. La comunione deve passare dalla semplice presenza al rapporto personalizzato con membri, responsabili e testimoni della comunità, alla partecipazione e coinvolgimento attivo nella vita della comunità e al riferimento sentito con chi questa comunità convoca e unisce: Cristo. La missione deve camminare verso visioni più ampie fino a comprendere il mondo, per prendere coscienza delle situazioni umane in cui si sente l'urgenza della salvezza, portare verso la comprensione e accettazione delle condizioni della salvezza offerta da Cristo. Il mistero richiama a fissare lo sguardo con più profondità sul significato della presenza di Cristo nell'umanità, sul punto di arrivo a cui è chiamato l'uomo e l'amore personale che presiede la sua esistenza.
    Sovente critichiamo l'espressione: Cristo sì, Chiesa no. Essa riduce Cristo a un ricordo storico o a una dottrina e intende la fede come un consumo soggettivo senza preoccuparsi di penetrare nel mistero della vita e del mondo.
    Ma c'è da domandarsi se tante volte il germe di questo scollamento tra simpatia per Cristo e senso della Chiesa non sia una catechesi mancante in cui la presentazione della Chiesa è rimasta al di sotto dell'esperienza umana del soggetto; di conseguenza questo ha trovato significati vitali, più vicini e adeguati, in altri cerchi e aggregazioni.
    Oltre a qualificarla dal punto di vista della rispondenza al soggetto, l'esperienza di Chiesa va ricondotta al suo fondamento. Il Vangelo è ricchissimo di prospettive e stimoli. Tutti i quattro Vangeli presentano non solo alcuni episodi e detti che riguardano la Chiesa, ma addirittura una prospettiva ecclesiale nell'insieme e in ciascuno dei brani. Nati nella comunità, esprimono e raccontano una fede vissuta comunitariamente.
    È evidente che lo sguardo su Cristo non deve fermarsi alla sua persona circoscritta nel tempo, ma deve spaziare sul suo mistero presente e operante nella storia.
    Il discorso su Cristo non andrebbe mai staccato da quello sulla Chiesa, quasi si potesse avere un accesso a lui senza la mediazione di questa: una mediazione non imposta per la volontà dell'uomo, ma interna alla natura stessa dell'incarnazione nel tempo.
    Ciò dovrà portare ad una comprensione matura delle due «nature» della Chiesa: quella umana e quella divina, senza separazione né confusione e quindi alla corretta valutazione dei suoi limiti che non intaccano sostanzialmente la sua mediazione.
    La nostra fede in Cristo rimane poverissima se non si inserisce sempre di più in quella della Chiesa: anzi appare vuota.

    Battezzati in Cristo

    Ogni anno, la prima domenica dopo l'epifania, si celebra il battesimo di Gesù. Il Papa ha preso l'abitudine di amministrare, in tale circostanza, il battesimo ad una ventina di bambini. È un modo efficace di ricordare l'importanza di questo sacramento nel percorso della vita cristiana e la stretta unione che c'è tra il nostro battesimo e quello di Gesù. La televisione diffonde le immagini nello stupendo scenario della cappella Sistina e quasi ci trasmette la commozione che si riflette sui volti del Celebrante e dei presenti.
    Anche in circostanze meno solenni e pubbliche, il battesimo di un bambino impressiona e commuove. Si sente che la vita è un dono di Dio, oltre quello che l'uomo può produrre e quello che si vede. C'è un principio, una energia interiore e profonda, inafferrabile dietro il pianto, lo sguardo, l'adagiarsi nelle braccia della mamma. Nel bambino ricomincia l'avventura dell'intelligenza, della coscienza, dell'anima umana.
    Le parole della celebrazione riportano ad un'altra dimensione, nascosta ma reale: nella vita non c'è solo un prodigio biologico, c'è il mistero di Dio che chiama la persona a partecipare della sua pienezza.
    Se il battesimo di un bambino emoziona, quello di un adulto provoca a pensare. Che cosa avrà mosso una persona matura a compiere quello che agli occhi di molti sembra solo un costume religioso? Per arrivarci ha dovuto considerare attentamente quello che la fede dà ed esige, e decidersi a vivere da cristiano e a presentarsi come tale.
    Chissà quante volte avrà soppesato il pro e il contro. Se poi ha deciso, sarà profondamente convinto che il battesimo determina una differenza sostanziale anche riguardo alla condizione umana.
    Per entrambi, bambino e adulto, è importante scoprire sempre di più il significato del battesimo e risvegliarne le energie. Esso non è totalmente compiuto col solo rito, così come la vita non finisce, ma comincia col concepimento e la nascita.
    Infatti il battesimo è la comunicazione della vita nello Spirito, una specie di DNA del seguace di Cristo, un gene da sviluppare durante tutta l'esistenza.
    A qualcuno può dare l'immagine di una cerimonia di purificazione, di promessa o di ammissione in una associazione. Tutto questo c'è. Gesù però, nel dialogo con Nicodemo, ha parlato di una «nascita» dall'alto, da acqua e da Spirito (cf Gv 3,5).
    Il dono del battesimo può rimanere rachitico o produrre un cristiano doc. Per questo segniamo con una lapide, quasi fosse la casa natia, il fonte battesimale dove è stato battezzato un santo o una persona di rilievo nella Chiesa. Riconosciamo che lì ha avuto inizio la loro santità, il loro carisma o la loro missione cristiana.
    L'incontro con Cristo provoca alla fede. Il battesimo esprime la risposta positiva all'invito e la scelta di vivere conformemente ad esso. Innesta inoltre la fede individuale in quella della Chiesa. Così la fede viene piantata sulla terra abitata dalla pienezza di Cristo e può diventare completa, sicura, condivisa.
    Inizia allora la nostra trasformazione interiore e la nostra crescita in Cristo, perché partecipiamo al mistero della sua vita, morte e risurrezione. Non solo leggiamo il racconto di questi misteri, ma ne prendiamo parte, quasi ci abitiamo dentro ed essi agiscono dentro di noi.
    Il battesimo richiede la fede. E viceversa. La fede richiede il battesimo e l'ingresso nella comunità cristiana per consolidarsi, svilupparsi, verificarsi, portare «molto frutto».
    Il Vangelo racconta il battesimo di Gesù come un avvenimento importante per lui e per noi. La Chiesa lo celebra come una delle maggiori manifestazioni di Gesù, insieme a quella fatta a tutti i popoli della terra attraverso i Magi e a quel «primo segno» della trasformazione dell'acqua in vino di fronte al quale i discepoli credettero in lui (cf Gv 2,11). In Oriente la si unisce anche alla manifestazione massima, quella della Risurrezione.
    Il battesimo è un punto di avvio e come la sintesi anticipata di tutta la vicenda di Gesù. Dà inizio al suo ministero e preannunzia la morte e risurrezione.
    Con esso Gesù assume pubblicamente la sua e la nostra umanità, bisognosa della misericordia di Dio. Si incorpora al movimento religioso-penitenziale più sincero del suo tempo per valorizzarlo, dargli nuovo significato e rivelare le nuove dimensioni della conversione che intendeva proporre.
    In tale circostanza però ha luogo un avvenimento misterioso. Viene rivelata la condizione di Gesù: egli è il Figlio di Dio; Dio si fa sentire come suo Padre. Egli è inabitato dallo Spirito che ha guidato e guiderà la sua vita.
    Allo stesso tempo viene investito pubblicamente di una missione singolare, che esigerà risposta da parte di coloro che si avvicineranno a lui. Ciò è espresso nella predilezione che Dio manifesta per lui: «Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). E viene rafforzato dall'invito-comandamento di ascoltarlo, rivolto ai presenti. Gesù diventa allora pastore del popolo, profeta, inviato da Dio.
    Nel vangelo ci sono altre parole che mettono il battesimo ulteriormente a fuoco per ciò che riguarda la conoscenza della persona di Gesù e la partecipazione alla sua vita.
    Di lui Giovanni il Precursore dice che battezzerà nello Spirito Santo. Agli apostoli, che si disputano i posti nella sua comunità, domanda se si sentono di ricevere il battesimo con cui egli stesso sarà battezzato, intendendo per tale la sua morte (cf Mc 10,38-39). Con queste due espressioni si entra nel senso più profondo che Cristo dà al battesimo. E che troveremo nelle sue ultime parole quando agli apostoli inviati a tutto il mondo dirà: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16).
    Non basta la fede vaga, individuale, poggiata sulle proprie forze. Ci vuole il discepolato, la sequela, il coinvolgimento, la comunione. E questo ha luogo mediante una grazia: il Padre che attira a Cristo, la luce dello Spirito Santo che ci fa confessare la sua divinità, la vita che sgorga dalla comunità che si sente unita e segue Cristo. Il battesimo invoca, esprime e realizza tale grazia.
    Uno dei Vangeli, quello di Giovanni, ne farà una allegoria lungo tutto il racconto della vita di Gesù con il segno dell'acqua, che sin dall'inizio nella Bibbia significa l'elemento misterioso dove nasce e palpita la vita.
    Il segno dell'acqua comincia proprio col battesimo di Gesù (cf Gv 1,29-34), continua nelle nozze di Cana (cf Gv 2,112) , entra nel dialogo con Nicodemo (cf Gv 3,5), ha un grande sviluppo nell'episodio della Samaritana (cf Gv 4,1-42), viene ripreso ampiamente nel miracolo della piscina di Siloe (cf Gv 5,1-18) , ha un punto altissimo nella promessa dell'acqua viva (cf Gv 7,37-39), e via via fino all'acqua che insieme al sangue nasce dal costato di Cristo sulla croce.
    Il battesimo immette nella vita di Cristo, soprattutto nel mistero della sua morte e risurrezione. Siamo immersi, sepolti, secondo una bella espressione di S. Paolo, in Cristo (cf Rom 6,4; Col 2,12) . Non si tratta dunque di un'adesione esterna, ma proprio di un con-vivere, co-agire, com-patire, con-morire, con-risorgere insieme e quasi dentro di lui, all'interno della sua grazia che opera nella storia.
    Nel battesimo di Gesù è raffigurato il nostro. Egli è il Primogenito di molti fratelli (cf Rom 8,29) . Come Gesù è stato proclamato figlio di Dio, così noi per lui siamo costituiti in un rapporto filiale col Padre. Come nel battesimo Gesù fu abitato visibilmente dallo Spirito Santo, così anche a noi lo Spirito ci è dato fino a diventare suoi templi. Come nel battesimo Gesù comincia la sua esistenza e missione messianica, così il cristiano entra a far parte della Chiesa ed è inviato al mondo a testimoniare il primato di Dio e la forza dell'amore.
    Un nuovo essere viene generato con possibilità nuove. Alcuni segni della celebrazione indicano quello che consentirà lo sviluppo di tale vita. Si viene abilitati ad ascoltare la parola di Dio conformemente al senso di Cristo e dello Spirito. Per questo il sacerdote compie il gesto di aprire le orecchie. Si consegna la preghiera «Il Padre Nostro». Non sono solo parole da ricordare a memoria. Lo Spirito crea nel nostro cuore sentimenti di figli per cui le parole scaturiscono con verità e amore. Si consegna il simbolo della fede della Chiesa che plasmerà il nostro modo di pensare cristiano. La veste bianca significa che ci rivestiamo di Cristo e siamo come lui pieni di grazia e di verità. Il lume che ci è consegnato viene acceso dal cero pasquale. La luce di Cristo ci guiderà, ed essa dobbiamo cercare.
    Il battesimo è dunque determinante nell'orientamento della nostra esistenza. Non solo. È determinante per una conoscenza adeguata di Cristo. Per il battesimo lo si conosce per connaturalità, per comunicazione interna, per partecipazione alla vita.
    In ogni epoca della vita bisogna dunque riappropriarsene per rinnovare il senso dell'identità cristiana, per progredire nella saggezza che viene dagli insegnamenti di Cristo e sperimentare la gioia del nostro essere con lui.

    Il Salvatore Risorto

    L'impegno per l'evangelizzazione e il Regno porta Gesù alla passione e alla morte. E l'avvenimento centrale della sua esistenza. Ci fa capire il suo identificarsi filiale con la volontà del Padre, ci dà la misura del suo amore per gli uomini e della sua solidarietà con la condizione umana. E la prova dell'Incarnazione e, nel vangelo di Giovanni, il momento della glorificazione.
    Colpisce l'estensione che la narrazione della passione e della morte di Gesù ha in ciascuno dei Vangeli. Nella predicazione primitiva era il nucleo dell'annuncio presentato come racconto, nella concretezza del suo accadere. Disse Pietro ai suoi ascoltatori: «Gesù di Nazaret era un uomo mandato da Dio per voi. Dio gli ha dato autorità con miracoli, prodigi e segni. Quest'uomo, secondo le decisioni e il piano stabilito da Dio, è stato messo nelle vostre mani e voi, con la complicità di uomini malvagi, lo avete ucciso inchiodandolo ad una croce» (At 2,22-23).
    Anche nei simboli della fede, antichi e in quello che noi recitiamo, la passione e la morte costituiscono il cuore della confessione: «Patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto». La croce sarà dunque, insieme alla gloria, una delle chiavi per comprendere nella fede chi è Gesù, che cosa e attraverso quali vie opera nell'umanità.
    Gli evangelisti raccontano la passione e la morte facendo vedere che le cause sono non in un decreto fatale, extraterrestre, ma nella storia concreta degli uomini, mentre il significato e il valore salvifico si radicano negli atteggiamenti di Gesù che trascendono la volontà e le intenzioni degli uomini. Le due cose vanno tenute in conto nella dovuta gerarchia se si vuole fare della persona di Gesù una rivelazione nella storia.
    Il suo insegnamento e i suoi gesti verso i poveri, gli esclusi, le donne, le istituzioni e le esagerazioni legali apparivano come delegittimazioni agli occhi di coloro che detenevano denaro, potere e prestigio. Gli evangelisti fanno vedere il crescendo delle opposizioni, la cecità delle persone legate in sistemi da conservare. Gli avversari si avvalgono delle possibilità di manovre, collusioni, leggi e pretesti, così come della infedeltà dei discepoli per eliminarlo, pensando di allontanare un pericolo per lo statu quo sociale, politico e religioso.
    E una rappresentazione di quello a cui l'evangelizzazione va incontro, della profondità a cui deve arrivare per sanare e trasformare. Ci ricorda il passaggio, ormai famoso, dell' Evangelii Nuntiandi: «Si tratta di raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno di salvezza» (EN 19).
    Gesù però vince la morte con l'amore: si offre al Padre in obbedienza alla missione affidatagli di dare la vita ad ogni persona, in testimonianza estrema per il Regno di Dio, per la salvezza di seguaci e avversari, in solidarietà totale con gli uomini.
    Lo sguardo, che i Vangeli ci suggeriscono, non trascura il tessuto delle circostanze e cause storiche e allo stesso tempo si concentra su Gesù, nel drammatico svolgersi della sua esistenza umana.
    Non è possibile pensare l'evangelizzazione del mondo senza uno sguardo sulla passione e morte di Gesù come culmine del suo impegno per il Regno e per la vita. A ragione la riflessione cristiana sulla Croce ha percorso i secoli sin da S. Paolo. È indispensabile anche nella spiritualità della risurrezione, non solo come garanzia di veridicità del fatto ma come sua spiegazione. La via crucis è un tutt'uno con la via lucis e viceversa.
    Nell'esperienza del Risorto «si aprono gli occhi» dei discepoli ad una nuova comprensione dei fatti e detti di Gesù. La risurrezione rende universali la presenza e la potenza di Cristo che si erano manifestate, in forma circoscritta, durante la sua vita mortale. Non vi sono più limiti di tempo e di luogo. Si tratta di un avvenimento reale e storico, sebbene abbia bisogno della fede per essere accolto e compreso.
    Egli è il Vivente, il Salvatore, il Redentore dell'uomo. Ciò viene proclamato nelle forme concise del kerigma primitivo, nelle confessioni di fede più sviluppate, nelle narrazioni che riguardano le manifestazioni del Risorto ai discepoli.
    Questi testimoni ci invitano a fissare lo sguardo sul mistero di Cristo che pervade la storia.
    La Risurrezione infatti non riguarda solo Gesù e i contemporanei, quasi fosse una riscossa personale sui suoi avversari o un sostegno alla fede dei discepoli. Interessa ogni uomo, il genere umano in tutto il suo divenire: la storia dell'umanità con l'intreccio di accadimenti, realizzazioni e prese di coscienza che chiamiamo cultura; riguarda il cosmo.
    Nell'universo e nella storia si illumina un disegno eterno di Dio, viene rivelato il loro traguardo e configurazione ultima, si fa presente la forza trasformante del definitivamente risorto.
    È il caso di riascoltare gli inni e i passaggi cristologici delle Lettere di S. Paolo. Una ispirata traduzione al nostro contesto e pensiero della stessa visione la troviamo nella Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II.
    Essa proietta la luce della Risurrezione sull'esistenza umana: «Cristo, per tutti morto e risorto, dà all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l'uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi» (GS 10).
    Lo applica alla storia e alla cultura: «Con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra, tuttora opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra» (GS 38).
    Da ultimo ne illumina il senso per l'universo: «Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l'umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l'universo. Passa certamente l'aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo però dalla rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà in modo sovrabbondante tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella debolezza e nella corruzione rivestirà l'incorruzione» (GS 39).
    La Risurrezione di Gesù rappresenta il compimento di tutte le promesse di amore indefettibile e di vita, fatte da Dio sin dall'inizio dell'umanità e portate in grembo da questa in millenni di speranza, ma anche di sofferenza, di morte e prevaricazioni.
    La presenza del Risorto si manifesta nell'azione trasformante dello Spirito, la cui effusione produce doni, eloquenza, energia di evangelizzazione e generosità di servizio nella comunità cristiana. Si esprime anche nel nuovo stile di vita instaurato dalla comunità dei discepoli: avere un solo cuore e un'anima sola e mettere tutto in comune affinché tra di loro non ci fossero discriminazioni, dipendenze, privazioni, segregazioni. È un modo con cui intendono superare i segni di morte: la solitudine, la miseria materiale estrema e la mancanza di ragioni per vivere.
    A tale vita è collegato l'impegno attivo a servizio del mondo circostante e lontano. Gli apostoli illuminano il senso della vita, guariscono ammalati dalle proprie infermità, liberano gli oppressi dagli spiriti maligni. La guarigione dello storpio del Tempio, realizzata da Pietro e Giovanni (cf At 3,1-10), riproduce emblematicamente il gesto di risurrezione: prendendolo per mano lo mettono in piedi per farlo camminare da solo. Il Vangelo è parola, ma è anche amore e trasformazione della realtà.
    «Contro ogni tentativo di evaporazione nel mito, l'interesse rivolto alla vita terrena di Gesù intende mantenere la sua rivelazione radicata nella storia; poi, contro ogni tentativo archeologizzante che si limiti a ricordare il passato, si esprime muovendo da una convinzione: colui che è vissuto, è ancora vivo e parla ai cristiani dell'epoca attuale» (X. LéonDufour).
    Il nostro sguardo si fissa sul Salvatore Risorto. Siamo chiamati a contemplarlo mediante la Parola, a scorgerlo nella vivacità della comunità ecclesiale, nei movimenti storici che vanno dietro ai beni che essa instaura e compie, nel cuore delle persone che si aprono a Dio e al prossimo, negli aneliti dei giovani, nella pietà del popolo.

    Mentalità e pratica cristiana

    La mentalità, il pensare secondo la fede, è oggi uno dei punti più impegnativi e compromessi. Eppure è parte irrinunciabile del credere.
    Su ogni questione importante il cristiano deve confrontarsi con opinioni diverse alle quali conseguono scelte pratiche. Esempi quotidiani sono la solidarietà e il sistema economico, l'amore e la sessualità, il matrimonio e la famiglia, la bioetica e la paternità-maternità responsabile e, più a monte, la libertà e la coscienza, il senso della vita e la condizione umana, il bene e il male.
    Le difficoltà per giungere ad una valutazione coerente di fede su tali questioni risiedono nella loro complessità e nel fatto che coinvolgono il comportamento. Anche la molteplicità di pareri, appoggiati da corrispondenti argomenti, ci sconcerta e ci rende insicuri. Disorienta pure l'idea, sottesa in molti messaggi, che un comportamento si giustifichi dalla sua diffusione.
    Incide però in forma determinante lo scarso approfondimento della fede: ignoranza religiosa, si dice in parole povere. Occupati da molte esigenze, stimolati da molteplici proposte, trascuriamo di applicare la luce della fede alle questioni che sfidano la vita. Così le espressioni religiose stesse possono svuotarsi di valore perché non hanno alla base una fede sufficientemente consapevole e motivata. Per i giovani questo rischio incombe ancora di più. Sono conosciuti i rischi della socializzazione religiosa che riesce a fare la famiglia, l'incidenza non definitiva che ha la prima catechesi e l'allontanamento che avviene sulla soglia della gioventù. La fede, l'affidarsi a Cristo, comporta un modo di pensare e valutare la realtà, la natura, le persone che ci stanno attorno, l'uso del denaro, la finalità del piacere, l'impiego del corpo, il senso del lavoro e simili.
    Il Vangelo di Giovanni è attraversato da un motivo: la luce. Gesù è la luce del mondo e di ogni uomo che viene a questo mondo. Gli dà il senso del valore e della vita. Poiché è il Verbo, secondo cui tutto è stato creato, insegna a guardare le cose e la storia dalla prospettiva giusta.
    Nel Vangelo lo vediamo intento a istruire i discepoli. Egli accetta il titolo di Maestro e lo è realmente, non solo delle verità religiose, ma del modo giusto di giudicare gli avvenimenti e realtà quotidiane: la dignità di ogni persona, il rapporto con le autorità, il pagamento delle tasse, la natura del potere, le solidarietà legittime o chiuse, le felicità vere e quelle ingannevoli.
    Lo scarto tra sfide della cultura e mentalità di fede va colmato con una riflessione religiosa adatta alle diverse fasi della vita. Essa oggi non è un optional, uno scomparto culturale trascurabile, ma necessità vitale per sopravvivere da credenti.
    Al primo catechismo della fanciullezza deve seguire una nuova e più seria formazione che aiuti a far luce sugli interrogativi che si vanno affacciando all'orizzonte di una identità in formazione. La Chiesa sta vivendo oggi due fatti significativi. Il primo è la diffusione dei catechismi che ripropongono in forma organica il contenuto della fede: c'è quello della Chiesa cattolica, quello dei giovani, quello degli adulti. È una lettura che prende: somiglia ad una conversazione in famiglia sugli interrogativi reali.
    Il secondo è il moltiplicarsi delle opportunità di formazione per gli adulti: studio di problemi, riflessione di fede, lettura del Vangelo, approfondimento teologico, giornate di ritiro. Anche nella pastorale giovanile ciò va diventando uno dei capisaldi. Ed è di buon auspicio rilevare l'abbondanza di «scuole», corsi e collane per le diverse categorie di giovani interessati o impegnati. La fede è luce e sostegno quando viene responsabilmente applicata alle situazioni. Si rafforza quando viene riflettuta e comunicata attraverso la testimonianza e la parola.
    Contemporaneamente al maturare della mentalità, va seguita la pratica della vita. Alcune parole di Gesù ci allertano sulla autenticità della fede. «Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno, ma chi fa la volontà del Padre» (Mt 7,21). E riferendosi agli scribi: «Fate quello che dicono, ma non imitate quello che fanno» (Mt 23,3). L'opposizione dire-fare è evidenziata anche nella parabola dei due servi: quello che dichiara di essere disposto ad andare, ma non si muove e quello che si rifiuta in un primo momento di obbedire, ma poi adempie.
    In molte altre circostanze Gesù indica sentimenti e comportamenti conformi al Regno: perdonare, donare gratuitamente, non giudicare, aiutare chi è caduto sulla strada, dare il superfluo. La fede comporta un giudizio pratico sul valore delle diverse scelte. Oggi tale giudizio non è senza difficoltà. Spesso convivono nella stessa persona giudizi ideali corretti con modi di agire discutibili.
    Chi sono i credenti e come li si distingue? Quale fosse il credo dei primi cristiani, i pagani non lo capivano granché. Vedevano però il loro stile di vita: si amavano gli uni gli altri come fratelli indipendentemente dalla nazionalità, colore e condizione sociale; lo dimostravano mettendo in comune i beni in modo che nessuno patisse miseria; partecipavano alla preghiera insieme. Poco tempo dopo, la lettera di un testimone a un pagano interessato al cristianesimo, di nome Diogneto, rilevava che socialmente i cristiani non si distinguevano dagli altri: essi partecipavano alla vita della città, si muovevano nelle piazze e nei mercati come gli altri, vestivano e lavoravano come il resto dei cittadini. Individuava però alcuni segni per scoprirli: «meravigliano tutti per il loro modo di stare insieme che ha dello straordinario; adempiono con lealtà i loro doveri di cittadini; si sposano come tutti e hanno dei figli, ma non abbandonano i neonati; sono uomini, ma non agiscono seguendo il proprio interesse; obbediscono alle leggi dello stato, ma con la loro vita vanno oltre la legge; sono poveri, ma arricchiscono molti».
    La fede è culto e religione, ma non solo. Ci sono verità, espresse imperfettamente in proposizioni, cui assentire; ma non come fine a se stesse. Il tutto tende a trasformare la vita: i sentimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti, le abitudini, affinché corrispondano alla nostra realtà di figli di Dio, fratelli di Gesù, uomini e donne abitati dallo Spirito. La pastorale dunque guarda simultaneamente all'una e all'altra.
    Quando lo scriba chiese una delucidazione teorica o dottrinale su chi doveva considerare suo prossimo, Gesù glielo spiegò presentandogli un modo di agire e gli diede il consiglio: vai e comportati allo stesso modo. Vivendo ciò che già si è appreso si va comprendendo il resto.
    Un programma completo per la vita del credente lo propone Gesù nelle Beatitudini. Le pronunciò in uno scenario stupendo che ancora oggi ci impressiona: il monte, il verde pendio, il lago, il sole terso e caldo che per la configurazione del terreno arriva dappertutto, l'orizzonte: un'immagine toccante della luminosità e trasparenza della vita.
    Disse parole gravide: povertà, purità di cuore, verità in parole e opere, fame e sete di giustizia, misericordia, pace, resistenza nel bene, fiducia in Dio.
    Ad esse aggiunse promesse di beni che sono oltre il desiderio umano: il regno dei cieli, il possesso della terra e dei cuori, la visione di Dio, il compimento del desiderio di felicità, la gioia definitiva che nessuno può togliere.
    Le beatitudini sono l'annuncio di un dono che opera già in chi si affida a Dio. Quando si accoglie la sua presenza, nascono in noi i beni, i desideri, gli atteggiamenti proclamati nelle beatitudini. Essi conformano il volto e l'anima di chi è nato da Dio. Allo stesso tempo propongono un impegno nella vita e nella storia: rendere reali e dare visibilità ai beni annunciati, scommettere sul loro valore per la felicità propria e degli altri. In essi la persona può trovare quello che il suo cuore cerca, e la storia il suo punto di consistenza e il suo compimento.
    Dono e impegno producono felicità: durante l'esistenza terrena come in seme, ma sufficiente per dare senso e gusto alla vita; al termine di questa secondo le dimensioni di Dio e della natura umana.
    Le beatitudini esprimono il culmine dell'amore e della gratuità da parte di Dio e da parte del credente. Se ne è parlato come di una proposta senza limite, aperta infinitamente verso il di più. Il giovane ne capirà la portata un po' alla volta meditando altri passi del vangelo.
    Il paradosso cristiano consiste nell'affidarsi ad un'apparente debolezza per cercare un bene duraturo, nell'accettare una provvisoria sconfitta per un eterno trionfo. È infatti debolezza per la mentalità corrente la povertà intesa non solo in senso materiale, ma come capacità di dare spazio ai progetti di Dio piuttosto che ai propri. Sembra sconfitta la mitezza e lo spirito di pace quando nel mondo prevale la durezza contro i concorrenti, gli avversari, i diversi. E follia mettere da parte se stessi per cercare solidarietà e condivisione con gli ultimi, pensando che da loro riceviamo più di quello che doniamo.
    D'altra parte la gente rimane stupefatta quando incontra chi sa realizzare tutto ciò. Ha trovato uno che ci crede!

    «Lo riconobbero nello spezzare il pane»

    Una delle esperienze gratificanti che ogni pastore porta con sé è il ricordo della trasformazione che la conoscenza e il tratto con Gesù ha prodotto nei giovani, frutto finale di una successione di momenti e di una convergenza di mediazioni che non hanno niente di meccanico ma che sono state saggiamente predisposte secondo una pedagogia della fede.
    Gesù abita certamente nella Chiesa. In essa ci viene incontro. In essa possiamo andare a trovarlo nella fede. Ma lo «stare con lui nella chiesa», come luogo di aggregazione religiosa, non ci dà una conoscenza sufficiente della sua persona e del suo mistero se non ci lasciamo raggiungere personalmente dai suoi gesti salvifici.
    C'è, nel vangelo di Luca, un episodio che, letto una volta, ci rimane per sempre nell'immaginazione. Ci ritorniamo volentieri perché è magistralmente raccontato, pieno di accenni che sembrano parlare della nostra esperienza di fede: è l'episodio dei discepoli di Emmaus (cf Lc 24,13ss).
    I due discepoli camminano, allontanandosi da Gerusalemme, che simbolicamente è il luogo dove avvengono i «fatti della salvezza», quegli eventi che portano luce, speranza e vita agli uomini: lì Cristo è morto e risorto e si è manifestato già agli apostoli. Lì si raduna e si sta formando la comunità del Risorto, proprio nel cenacolo dove il Signore celebrò l'ultima cena e istituì l'eucaristia. Lì, a Gerusalemme, viene loro promesso e riceveranno lo Spirito Santo.
    I due discepoli prendono una direzione che li porta fuori, lontano da questo spazio. È come dire che non si occuperanno più dei fatti che vi sono accaduti e delle persone con cui condividevano attese e convincimenti riguardo a Gesù. Ma soprattutto essi vivono ancora nel passato, nei giorni della morte e dell'umiliazione di Gesù che pesa su di loro. Ignorano che è già spuntato il tempo della risurrezione. Non conoscono il Cristo risorto che già si è manifestato ai loro compagni. Perciò la loro fede è triste e fragile, al punto di svanire lasciando solo il ricordo di una speranza frustrata.
    Gesù si unisce a loro, ma essi non lo riconoscono. Si fa raccontare la loro esperienza e ascolta le loro frustrazioni. Le illumina e scioglie aiutandoli a capire il senso degli avvenimenti con la luce della Parola di Dio.
    Essi sentono che qualche cosa cambia dentro di loro: arde il loro cuore mentre egli va snodando le sue spiegazioni. Ma ancora non riescono a identificare il pellegrino con il Gesù che avevano visto e ascoltato prima. Non gli passa nemmeno per la mente che potrebbe essere lui, talmente sono fissati sulla tragedia della sua morte.
    Quando arrivano al villaggio dove erano diretti lo trattengono e lo invitano a restare con loro. Si mettono a tavola. Gesù prende il pane e pronunzia la preghiera di benedizione. Spezza il pane e comincia a distribuirlo. Allora i loro occhi si aprono e riconoscono Gesù. Lui sparisce fisicamente; rimane però fra di loro e dentro di loro in una relazione tanto misteriosa quanto sentita. «Resta con noi Signore!» era stata la loro preghiera.
    Capita in altri episodi del Vangelo che i discepoli riconoscono Gesù risorto, non quando egli «appare» anche a porte chiuse e nemmeno quando incomincia a parlare; ma quando compie un gesto di comunione o di perdono. Questi gesti sono così propri ed esclusivi di lui che nel momento in cui li accenna «gli occhi dei discepoli si aprono».
    I giovani, come noi, trovano Gesù nella comunità ecclesiale. Nella vita di questa però ci sono momenti nei quali egli si rivela e si comunica in modo singolare: sono i sacramenti, in particolare la riconciliazione e l'eucaristia. Senza l'esperienza che ci sta in essi, la conoscenza di Gesù risulta inadeguata e scarsa, fino al punto di non consentire di distinguerlo tra gli uomini come il risorto Salvatore.
    Infatti c'è chi, pur condividendo la vita sociale e gli ideali della chiesa, colloca Gesù soltanto tra i grandi saggi, tra i geni religiosi; forse lo considera come la realizzazione più alta dell'umanità che influisce su di noi per la profondità, della sua dottrina e per il suo esempio di vita. Manca però l'esperienza personale del risorto, del suo potere di dare la vita, della comunione in lui con il Padre.
    A ragione si dice che i sacramenti sono memoria vera di Gesù: di quello che egli compì e opera ancora oggi per noi, di quello che significa per la nostra vita: riaccendono quindi la nostra fede in lui per cui lo vediamo meglio nella nostra esistenza e negli avvenimenti.
    Sono pure rivelazione di quello che sembra nascosto nelle pieghe della nostra esistenza, per cui ne prendiamo coscienza: nella riconciliazione scopriamo la bontà di Dio all'origine e come tessuto della nostra vita; alla sua luce ne valutiamo il suo decorrere e cerchiamo di costruirla in un modo nuovo.
    Sono energia, grazia trasformante perché comunicano la vita di Cristo risorto e ci innestano in essa; ci danno consapevolezza non teorica, ma vissuta della sua portata, dimensioni e possibilità.
    Sono profezia, pegno di una promessa di comunione e felicità che ci è stata fatta e a cui ci affidiamo. Nella riconciliazione ci si aprono gli occhi e vediamo quello che possiamo diventare secondo il progetto e il desiderio di Dio; ci viene ridato lo Spirito che ci purifica e rinnova. Si è detto che è il sacramento del nostro futuro di figli, anziché del nostro passato di peccatori. Nell'eucaristia Cristo ci incorpora alla sua offerta al Padre e rafforza la nostra donazione agli uomini. Ci ispira il desiderio e ci dà la speranza che entrambi, amore al Padre e ai fratelli, divengano una grazia per tutti e per tutto: annunziamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, vieni Signore Gesù.
    Quello di Emmaus è il cammino attraverso il quale ogni discepolo giunge ad una conoscenza trasformante di Cristo: l'incontro, la parola, l'invocazione, l'esperienza sacramentale. Da quest'ultima si riparte per ricomprendere con maggiore profondità e vivere con maggiore concretezza l'incontro e la parola. Nella preparazione al battesimo della chiesa antica i catecumeni erano portati fino alla comprensione e al desiderio dell'eucaristia attraverso l'istruzione catechistica. Ma, arrivati all'eucaristia, rileggevano da essa tutto il mistero cristiano: dalla parola al sacramento, dal sacramento alla parola.
    Forse qui va individuato uno dei punti deboli per cui la conoscenza di Cristo non raggiunge nei giovani «l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità...» (cf Ef 3,18) capaci di reggere le prove e di trasformare la vita.
    Oggi si pongono dunque delle domande su come iniziare i giovani in forma efficace ai sacramenti, in particolare alla riconciliazione ed eucaristia. Non è difficile rilevare un allontanamento, una stanchezza prematura e persino una certa definitiva disaffezione. Già nell'analisi di questi fenomeni si nota una differenza non trascurabile tra gli addetti ai lavori: chi li attribuisce alla forma della celebrazione che giudica lontana dalla sensibilità giovanile; chi mette le cause nei temi che si abbordano o affiorano nella celebrazione che non corrisponderebbero alle domande sentite dai giovani; chi sottolinea il linguaggio troppo dottrinale o teorico che non attinge la vita.
    Le correzioni poi a tali cause prendono linee diverse: a volte sembrano cedimenti o adeguamenti superficiali; altre volte migliorano con saggezza la mediazione pedagogica ma forse non vanno oltre.
    Le cause predette hanno certamente una loro incidenza. Gli itinerari e adeguamenti sono pure parte di una soluzione. Ma nel fondo la questione va risolta in altre sedi: una meditazione continuamente approfondita del mistero pasquale di Cristo come chiave interpretativa della sua missione e della nostra esistenza, che rafforzi il rapporto di adesione e di fede con lui; un confronto sulla luce della persona di Cristo con i problemi di significato e di valore che la vita e la cultura pongono oggi ai giovani per far emergere la rivelazione e il dono di cui egli è fonte e portatore. In una parola, attivare e portare verso maggiore profondità il circolo formato dall'incontro, la parola, l'invocazione e il sacramento proprio come suggerisce l'episodio di Emmaus.
    Espressioni giovanili ritagliate secondo il criterio e la sensibilità liturgica sono utili e necessarie. Allo stesso tempo i giovani debbono entrare nel cuore dei gesti e delle parole che la chiesa ha custodito gelosamente e ha arricchito per secoli perché sono carichi di memoria e significato evangelico e corrispondono alla realtà di grazia che essa vive, vuole esprimere e comunicare.
    Mistagogia è una parola non comune: ma comunque chiave nella pastorale giovanile. Significa iniziare, introdurre nel Mistero.

    Icone di Gesù per l'educatore

    Evangelisti e comunità cristiana hanno approfondito la riflessione sul mistero di Gesù, nel tratto della sua esistenza visibile e nel suo prolungamento attraverso la storia umana, avvalendosi dei «nomi» attribuitigli. Sono denominazioni o appellativi carichi di significati storici e dottrinali che aiutano ad esplicitare le dimensioni e i contenuti di salvezza dell'evento di Cristo. Sono carichi pure dell'esperienza e della vita della Chiesa perché comprendono, insieme alle attese del popolo di Dio compiutesi in Gesù, letture fatte dai cristiani alla luce della Parola e in particolari circostanze storiche. I nomi che più sentiamo sono: il Cristo, il Signore, il Messia, il Figlio di Davide, il Re di Israele, il Redentore, il Figlio dell'uomo.
    Ci sono alcune rappresentazioni di Cristo che attirano particolarmente l'attenzione degli educatori e pastori. Possono ispirare la loro spiritualità e plasmare la loro prassi perché riportano atteggiamenti, preoccupazioni e cammini educativi di Gesù Maestro, nel compito di illuminare e guidare popolo e discepoli.
    Una di esse (e principale) è quella del Buon Pastore. Ha antecedenti lontani, ricorrenti e chiari nella Bibbia. Viene ricamata dai profeti, poeti, saggi e storici che scrissero pagine impareggiabili su Dio Pastore del popolo eletto. In quanto tale, libera il suo «gregge» dalla schiavitù e lo guida attraverso il deserto, lo conduce ad acque tranquille e a terre verdeggianti; lo corregge, ma gli fa sentire il suo amore e la sua vicinanza; lo purifica e lo attira a sé, lo fa diventare comunità umana consacrata a lui, capace di accogliere e trasmettere le sue promesse, lo spinge sempre verso nuovi traguardi di saggezza. L'immagine di Dio Pastore viene cantata nella preghiera, soprattutto nel salmo 22: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza». Ci sono coloro che in nome del Pastore supremo debbono curare il gregge che rappresenta il popolo. Sono i re. Spesso però appaiono venali, trascurati, sfruttatori, irresponsabili. Sono i cattivi pastori contro cui tuona tra gli altri il profeta Ezechiele. Di fronte ad essi e per sostenere la speranza dei poveri Dio promette che invierà un Pastore capace di realizzare il suo amore per gli uomini.
    Gesù, con un aggancio messianico, rivendica per sé questo nome e questa condizione: «Io sono il Buon Pastore» (Gv 10,14). Davanti alla gente stanca, dispersa e affamata «si commuove perché gli sembrano «pecore senza pastore». Egli assume gli atteggiamenti e i compiti del Pastore. Vuole donare a tutti, vicini e lontani, sapienti e umili, la pienezza della vita rappresentata nelle acque cristalline e nei prati erbosi; ama e raggiunge ciascuno singolarmente nella loro situazione vitale. Per questo dà tutto se stesso nel quotidiano della missione e nell'offerta suprema sulla croce; fa conoscere ai suoi la sua voce, prega il Padre per loro con fiducia e affetto, insegna
    ro a pregare con parole vere e tenere. Pensa a coloro che ancora non si sono avvicinati a lui e si propone di radunare tutti in un unico ovile. Non è da trascurare il collegamento tra il tema del Pastore e quelli della vita e della Croce.
    C'è un'altra immagine che si addice a chi si occupa di educazione: è quella di Gesù amico dei giovani. È stata magistralmente commentata da Giovanni Paolo II nella lettera ai giovani e alle giovani del mondo (31 marzo 1985). Egli riprende e quasi filma Gesù nel momento della conversazione con il giovane che si è avvicinato a lui per consultarlo. Interlocutori, tema e sviluppo del dialogo sono quanto mai significativi per chi si occupa dei giovani. È da meditare la domanda sulla vita eterna come archetipo e radice di tutte le domande giovanili. Sono ispiranti i passaggi del dialogo in cui Gesù invita il giovane a dirsi perché si è rivolto lui con la domanda sulla vita, rimanda alla sua coscienza educata dai comandamenti una prima risposta, e poi lo sfida a una maggiore quasi incalcolata generosità mediante la sua sequela. E tutto ciò dopo averlo avvolto in uno sguardo di attenzione e amore (cf Mt 10,11-21).
    Il Vangelo manifesta in altri passaggi l'amore di Gesù per i giovani. Li guarisce da malattie mortali (cf Gv 4,46-54) , li libera dai demoni (cf Mt 17,14-18), gli restituisce la vita su richiesta di coloro che vogliono loro bene, come si vede nella risurrezione del figlio della vedova di Naim (cf Lc 7,14) o in quella della figlia del capo della sinagoga Giairo (cf Lc 8,49-56). I gesti in questa ultima sono delicati ed espressivi: «Egli prendendole la mano, disse ad alta voce: Fanciulla, alzati. Il suo spirito ritornò in lei ed ella si alzò all'istante» (Lc 8,49-56).
    Del giovane, Gesù descrive con verismo il desiderio di libertà, autonomia e felicità nella parabola del figlio! prodigo, il figlio più giovane. Fa vedere la piega che può prendere la sua vita sotto la spinta dell'inesperienza, le risorse del cuore che rimangono sane, la voce che risuona nel cuore, la gioia del Padre al ritorno.
    Un ragazzo pone nelle mani di Gesù i cinque pani e i due pesci (cf Gv 6,1-15) per la moltiplicazione con cui sazierà migliaia di persone: è un segno della povertà generosa di cui si avvale il Signore. Gli apostoli lo individuarono e lo segnalarono. Gesù ispirò e accettò la sua disponibilità a mettere il piccolo tesoro nelle sue mani e a condividerlo.
    Come non ricordare, poi, la scena dei fanciulli che lo circondano e in certo modo disturbano lui e gli ascoltatori, il comportamento più che normale dei discepoli che vorrebbero allontanarli almeno momentaneamente, e l'avvertenza: «Lasciate che i piccoli vengano a me. Di essi è il Regno dei cieli» (Mt 19,14). E collegato a questo, l'avvertimento sugli scandali in cui oggi potremmo vedere gli abusi, lo sfruttamento, il disorientamento e l'infelicità causata dal disinteresse, l'abbandono affettivo e simili.
    Disponibilità, sguardo, accoglienza, attenzione, dialogo, proposta, illuminazione, sfida: è quello che si richiede dall'educatore cristiano e che egli può leggere nell'agire di Gesù.
    Da ultimo gli educatori possono guardare verso Cristo come l'Uomo nuovo. «In lui – afferma il Concilio – trova vera luce il mistero dell'uomo. Egli è l'immagine del Dio invisibile: è l'uomo perfetto, unito in certo modo ad ogni uomo, primogenito tra molti fratelli» (GS 22). È uno sviluppo che si addice al mondo contemporaneo, così teso verso traguardi ambiziosi, tecnici e umanistici, alla ricerca di nuove possibilità di dominio sulla materia e sulla vita, di nuovi spazi da esplorare, nuovi significati da dare alla propria esistenza.
    Si addice anche alla condizione del giovane alla ricerca della propria identità, tra innumerevoli messaggi e proposte di felicità. Gesù gli offre nelle Beatitudini un modello sul quale misurarsi e un filtro critico per valutare quanto il mercato del mondo gli va offrendo. Il suggerimento viene da S. Paolo nella sua antitesi tra l'uomo vecchio che si decade e si disfa nel peccato e nella lontananza di Dio e il Nuovo Adamo che ci riconduce allo splendore della nostra umanità, restituendoci alla figliolanza di Dio.
    La nostra opera educativa è guidata da un'immagine di uomo che si ispira al Vangelo, alle sue prospettive di senso, ai suoi insegnamenti morali e religiosi, ma soprattutto alla persona di Gesù che realizza in forma perfetta la comunione con Dio e la solidarietà con i fratelli, il senso della giustizia e dell'amore, la coscienza di sé e la donazione, il presente del modo e il suo traguardo finale.
    congeniale, a chi si sente simultaneamente evangelizzatore e educatore, attingere da lui i riferimenti guida per la promozione dell'uomo. Siamo convinti infatti che progetti politici, teorie educative e tendenze culturali che si allontanano da lui portano alla deprivazione e a volte alla deturpazione dell'umano. «Il fine della storia umana, il punto focale della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni è costituito da Gesù» (GS 4).

    La Madre di Gesù

    Bellissima! è la parola che la Chiesa rivolge a Maria nella festa dell'Immacolata: tota pulchra es!
    Una specie di estasi prende la comunità cristiana quando si mette a contemplare Maria. Il nostro sguardo si sofferma felice come davanti a un capolavoro. Cogliamo, secondo l'espressione di Paolo VI, «il pensiero preferenziale che Dio ha avuto con questa creatura; l'intenzione di rivedere in lei l'innocenza primitiva di un essere ideato ad immagine e somiglianza di lui, non contaminato da macchia alcuna».
    E interessante! Gli evangelisti scoprono la vocazione di Maria alla luce del Cristo Risorto. Alla luce di Cristo Risorto ci tramandano la sua figura, ricamano la narrazione degli avvenimenti che riguardano Maria e ne fanno emergere il senso. Da Maria però ripartono per penetrare meglio il mistero di Gesù, soprattutto la portata reale della sua incarnazione: nato da donna!
    Gesù rimane sganciato dall'umanità se non lo pensiamo come figlio di Maria. Non di una donna in generale, anonima. Ma di una donna che nella storia umana ha avuto e ha un singolare rapporto con Dio. Lei non ha.«prestato» il suo seno come luogo materiale dove Cristo prendesse corpo. L'ha accolto nella e con la totalità della sua persona, mente, cuore, volontà, esistenza; ha dato alla luce e aiutato a crescere non solo il corpo ma l'umanità di Gesù figlio di Dio. E l'ha fatto, attenta al mistero che si andava rivelando in lui al ritmo della crescita umana. Per cui continua ad essere la sua Madre, anche sul Calvario quando egli assume, in un'offerta totale, tutti gli uomini come suoi fratelli.
    È sotto ai suoi occhi, con le sue cure, nell'ambiente famigliare da lei costruito da mamma e sposa, insieme a Giuseppe, che Gesù «cresceva in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini».
    Perciò il Vangelo, soprattutto Luca e Giovanni, quando parlano della Madonna presentano un panorama con cinque piani simultanei e intrecciati: raccontano la storia personale di Maria di Nazaret in rapporto al mistero di Cristo; in essa evocano l'umanità tutta che nelle sue aspirazioni desidera Dio e ne sente il bisogno, da «povera» si apre e si affida a lui; ricordano poi il popolo eletto, Israele o la Figlia di Sion, che di queste attese e speranze, per scelta di Dio, fu portatore nella storia umana; in modo particolare raffigurano la chiesa chiamata ad ascoltare l'annunzio della salvezza, a generare nella fede Gesù in ogni epoca e luogo; infine dicono ad ogni cristiano come si vive secondo il Vangelo e ne offrono un modello concreto: lei è la prima, la più perfetta e fine discepola di Cristo.
    Così Maria è lei stessa; ma assume e rappresenta tutti noi. Con lei e in lei noi umanità attendiamo il Salvatore; con lei ci apriamo all'opera dello Spirito, con lei diamo carne al Verbo, con lei accogliamo il mistero della morte e risurrezione di Gesù; quando lei intona il Magnificat, siamo tutti noi, umanità e chiesa, che esaltiamo le opere di Dio nella storia. La sua è la nostra voce; la sua lode è la nostra lode, pura e vera.
    Per questo la chiesa, cioè noi, non si stanca di guardare a lei da diverse prospettive: Donna, Vergine, Sposa, Madre, Piena di grazia sono quelle che presentano i Vangeli. Assunta in cielo, Immacolata, Corredentrice, Mediatrice, Regina, Ausiliatrice e altre simili sono quelle che emersero in una riflessione di secoli, portata avanti insieme da pastori, pensatori, mistici, uomini di azione, semplici fedeli e «popolo».
    «Popolo», sì: inteso come totalità di persone, solidarietà spirituali sentite, immediatezza di intuizione, intensità e genuinità di sentimenti, espressioni spontanee e varie dell'affetto e dell'ammirazione, gesti di fiducia semplice, di speranza e di carità.
    Dove c'è Cristo c'è Maria come a Betlemme e sul Calvario. Dove ci sono i discepoli di Gesù c'è Maria come nel cenacolo. Per questo non si trova tempio cristiano dove non ci sia la sua immagine né terra abitata da cristiani dove non sia sorto un santuario a lei dedicato.
    Sento sempre con ammirazione la storia delle bellissime icone che vengono, ormai con una certa abbondanza, dai nostri fratelli dell'Est europeo. Prima di dipingerle si fa un cammino, quasi una preparazione o apprendimento. Non consiste soltanto nell'acquisire conoscenze e tecniche pittoriche, ma nell'interiorizzare la figura di Maria, nella contemplazione col cuore e con la mente del mistero o fatto che si vuole comunicare. Si guarda, si prega, si interiorizza, si approfondisce, si traccia e dipinge l'icona dentro di noi. L'artista offre non solo un prodotto ma la sua esperienza spirituale.
    Lo stesso siamo invitati a fare noi, educatori e pastori, per avere uno sguardo più reale su Cristo e per dare una risposta più piena al suo annunzio. La TMA, a proposito della riflessione su Cristo proposta per l'anno 1997 come preparazione al Giubileo, riporta l'affermazione della LG: «La Chiesa, pensando a lei pienamente, e contemplandola alla luce del Verbo fatto uomo, penetra con venerazione più profondamente nell'altissimo mistero dell'incarnazione e si va ognor più conformando al suo Sposo» (n. 65).
    Sono molti gli elementi e i percorsi a nostra disposizione per proporre efficacemente ai giovani l'immagine di Maria e radicare definitivamente il rapporto filiale con lei: quotidiani e straordinari, sulla linea «dottrinale» e anche su quella della percezione della bellezza e della valorizzazione dei sentimenti. Ci sono percorsi personali e altri in cui si condivide con fede la devozione popolare.
    Tutti però convergono su alcuni itinerari che danno unità e valorizzano gli elementi singoli. Uno è certamente quello della «lectio» della storia della salvezza: raccontare e «leggere dentro» gli avvenimenti nei quali lei è coinvolta. Le pagine dei vangeli sono preparate proprio per questo, per leggerci dentro il significato, la portata, le caratteristiche originali, le condizioni della salvezza. Nella loro stringatezza trasmettono una lunga meditazione fatta dalla comunità cristiana su Gesù Cristo.
    Tali pagine portano già dentro il percorso «antropologico-esistenziale»: la ricomprensione alla luce della storia di Maria della nostra esistenza umana, quella di sempre e quella che emerge dalle sfide culturali di oggi. Tali sfide non si limitano alla figura della donna, ma abbracciano tutti gli interrogativi che riguardano la persona umana. Il Magnificat ne offre un testo da sfruttare.
    C'è poi il cammino liturgico e della pietà mariana. Celebriamo sempre con lei. Non deve sfuggire e nemmeno diventare rituale la menzione che di lei facciamo in tutte le preghiere eucaristiche: l'eucaristia si celebra sempre «con Maria la Madre di Dio». Le feste del Signore in cui lei è parte del mistero (dal Natale alla Croce fino alla Pentecoste!) uniscono in modo ammirevole la sua memoria alla realtà della chiesa e collegano entrambe al mistero di Dio che irrompe nella storia attraverso la creazione e la redenzione.
    C'è il cammino dell'impegno ecclesiale: il servizio della comunità cristiana e umana ricopia la sua premura nell'accudire Gesù, Elisabetta e il Precursore, gli sposi ai quali si sta per guastare la festa, i discepoli. Ci sono in questi racconti accenni molteplici ad urgenze sentite e alla forma cristiana di servire. È interessante rilevare quanto la motivazione mariana muove nel senso della missionarietà e del coinvolgimento sociale.
    C'è lo sforzo spirituale di configurarsi a lei. Maria non è un «modello femminile» soltanto, come Cristo non è soltanto un modello maschile. Cristo e Maria sono due punti dove
    la vita converge in tutta la sua ricchezza. Senza negare il proprio genere lo trascendono e diventano così universali.
    C'è il percorso di vivere col proprio popolo la presenza di Maria, come tratto di religiosità cristiana e ricchezza culturale, intesa nel miglior senso della parola: comprendere, partecipare e interiorizzare la pietà popolare. Essa ci arriva dalla famiglia, ci penetra mediante i gesti quotidiani di amore e invocazione, ci arricchisce con le devozioni tradizionali, si rafforza nella visita ai santuari, che sono «luoghi» della fede, della speranza e della carità.
    Ma è il cuore che muove e unifica tutto. Chi ne ha fatto l'esperienza, la comunica con passione. La dimensione mariana è perciò determinante nella spiritualità di chi si propone di accompagnare i giovani verso la maturità della fede.


    T e r z a
    p a g i n A


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