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    A te Dio Padre (Terza parte di: Dire Dio ai giovani)


    Juan E. Vecchi, DIRE DIO AI GIOVANI, Elledici 1999




    Credo in un solo Dio

    Nel terzo anno di preparazione al giubileo il nucleo della riflessione è stato su Dio Padre. Il tema provoca e, più di quanto non lo faccia la riflessione sul Figlio o sullo Spirito Santo, solleva il pensiero o la questione su Dio: la credenza, l'interrogativo, il dubbio, la negazione, le immagini umane di Dio. Ciò perché il Padre è l'origine e il principio dentro la Trinità e verso l'esterno. È Colui che genera. E il primo che si rivela nella storia degli uomini. E Colui che invia il Figlio. Da Lui procede lo Spirito. A Lui è attribuita la potenza, che è la possibilità di tutto il resto. A ragione nel Nuovo Testamento ogniqualvolta si dice Dio, senza aggiunte, ci si riferisce al Padre.
    La Tertio Millennio Adveniente pone la riflessione dell'ultimo anno per il giubileo in rapporto col secolarismo: il prescindere da Dio nell'organizzazione della vita sociale, il relegarlo nel privato, l'irrilevanza della ricerca obiettiva su di lui, il disinteresse verso il significato di una sua eventuale presenza nella nostra vita (cf n. 52). Collega pure tale riflessione al dialogo con le grandi religioni, in particolare con l'ebraismo e l'islamismo (cf n. 53) . Con esse ci si trova nell'accettare l'esistenza di Dio e un suo certo rapporto con il cosmo e la storia degli uomini.
    Congetturare, scorgere e concludere che Dio esiste, e comprendere che cosa tale esistenza significa per noi non è stata una ricerca facile per l'umanità. E non lo è ancora con le sole forze della ragione. Eppure non è stata mai abbandonata né considerata indifferente. Alcuni identificarono il divino con le forze sconosciute della natura o con le energie misteriose dell'uomo. Non arrivarono a percepirlo come persona. È un filone non assente nella galassia religiosa di oggi: magia, occultismo, animismo e simili ne sono quanto meno indizi. Ciò indica che impronte di Dio sono rimaste nella materia e pure nel pensiero e nel cuore umano.
    Il nostro secolo XX si è caratterizzato per l'esclusione di Dio dal pensiero e dalla vita e, in particolare, per la violenza rivolta ai credenti di varie fedi. Basti ricordare l'ateismo organizzato e violento. Ci vorrebbe un'intera enciclopedia per raccogliere affermazioni, teorie, orOnizzazioni, nomi, fatti e misfatti di queste posizioni. Per non pochi ancora Dio è indefinibile, quasi un plasma, un'energia. Anch'essi colgono una briciola di verità: Dio non può essere afferrato da categorie umane. Il nostro parlare su di lui è sempre per analogia. Quello che sperimentiamo di lui è «ineffabile», difficilmente esprimibile con linguaggio umano.
    Per questo, ma non solo, oggi è frequente costruirselo a piacere. Non interessa sapere chi è, ma come lo sento e come serve al mio caso. Eliminato il riferimento a una verità assoluta, Dio viene configurato a misura di sentimenti, desideri o bisogni e, in alcuni casi, di esperienze involontarie.
    Se vengono accantonate la ragione e la rivelazione su Dio, salta e viene vanificato il discorso sul Padre. Dio è infatti il soggetto del quale si «predica» la paternità. Non si può fare a meno di rilevare l'importanza di ciò da un punto di vista catechistico e pastorale. Come si può infatti parlare ai giovani di Gesù, oltre l'umano ammirevole, quando mancano rappresentazioni e interrogativi religiosi di base? Tanto più che oggi il rapporto tra fede e ragione è rimosso da molti.
    La Bibbia documenta il percorso dell'uomo verso la conoscenza di Dio, a tentoni, nel buio, per strade impervie e con bussola precaria. Mostra il fascino dell'uomo di fronte alle forze della natura, la sua perplessità davanti alla voce della sua coscienza, gli interrogativi che solleva la sua storia. Racconta lo svelamento o rivelazione su Dio che l'uomo ha sperimentato. Non principalmente attraverso una «esposizione concettuale» o «una dottrina», ma come una esperienza all'interno di un avvenimento storico.
    L'avvenimento è la Pasqua: l'esodo dall'Egitto e l'alleanza del Sinai nell'Antico Testamento; la morte e risurrezione di Gesù nel Nuovo.
    L'esperienza umana che vi si fa è di liberazioni molteplici nel nome di Dio, per grazia sua e per essere suoi; di passaggio dalla morte alla vita, di espansione di questa vita fino alla pienezza e all'eternità, di cammino verso tutto ciò con la solidarietà e la compagnia di Dio. Sono avvenimenti che non si possono dimenticare o mettere in secondo piano senza tradire la memoria che dell'esperienza di Dio hanno l'umanità e la Chiesa.
    Alla luce di queste esperienze e avvenimenti si sono letti gli inizi del mondo e quanto in esso avviene. Sono infatti la sigla, il segno del farsi presente di Dio nell'umanità, del suo rapporto con la vicenda dell'uomo. Se Cristo non fosse morto e risuscitato e i discepoli non ne avessero avuto l'esperienza, nemmeno ricorderemmo le espressioni con cui si dichiarava Figlio di Dio; e la sua stessa preghiera, il Padre Nostro, se venisse ricordata avrebbe un significato non diverso da quelle che abbiamo ereditato da altri pensatori o capi religiosi.
    Nell'esodo e dopo di esso, attraverso il ministero dei profeti, Israele imparò per tutti noi che Dio è sommo e unico. E al di sopra della natura e dei poteri costituiti nel mondo. Da essi si distacca: è trascendente; in un altro ordine, santo. Né potenze umane né forze della natura hanno il minimo da minio su di lui. L'uomo d'altra parte lo sperimenta come datore della sua vita, alleato gratuito e inatteso, e anche come giudice ultimo dei suoi atti e intenzioni. Ancora oggi noi confessiamo questa verità: credo in un solo Dio Padre Onnipotente. L'espressione si riempie oggi di nuovi significati, se consideriamo gli «assoluti» che hanno preteso o pretendono di sottomettere l'uomo o in cui egli pone l'ultima speranza: il denaro, la tecnologia, il mercato, lo stato.
    Così Israele imparò pure che egli è Creatore del cielo e della terra: principio primo, termine ultimo. Amore libero e fecondo, gratuito e universale. Nessuno poteva obbligarlo a dare l'essere. Di niente si poteva servire per dare origine alla vita. Noi dunque veniamo da lui e verso di lui ci muoviamo.
    È il Dio che si comunica all'uomo: ha parlato e parla. Avvenimenti e vita umana hanno dei sensi che li trascendono e l'uomo se ne rende conto tanto più quanto più fa spazio al pensiero di Dio. Si rivela attraverso persone con una particolare missione storica di liberazione e illuminazione. Paolo dirà che i gentili quando non si erano convertiti adoravano dèi muti. I profeti accuseranno gli idoli di essere senza parola né messaggio, senza suggerimenti né stimoli. Il Dio di Israele è colui che ha mosso i Padri, che ispira i profeti, che parla al popolo, che in sogni e visioni indica strade possibili specialmente negli snodi della storia.
    E il Dio che educa e fa crescere: il Pastore che conduce ad acque cristalline e a prati erbosi, che non consente all'uomo di fermarsi ma mostra orizzonti verso cui camminare, che accompagna stimolando ad avanzare, che richiede fedeltà all'alleanza nel quotidiano e in inattese rotture col passato verso imprese impossibili.
    È un Dio che raduna e unisce, crea solidarietà e armonia. L'ordinamento del caos e la creazione del genere umano come una famiglia unica sono una prima manifestazione. Convoca gente dispersa e la rende un popolo. Vuole la salvezza di tutti, anche di coloro che al presente non riescono a riconoscerlo.
    Per tutto questo di lui si afferma che è Padre. Si sente la sua paternità nel fatto che dà la vita, la conserva, la sviluppa, impegna la sua potenza a favore di essa, la porta a pienezza richiedendo la responsabilità e la collaborazione dell'uomo.
    Paolo ad Atene credette necessario partire da un discorso su Dio e la divinità invocando la ragione e proponendo la fede nella rivelazione per introdurre la missione di Gesù Cristo. È un itinerario, insieme ad altri, ancora fecondo e necessario per una giusta comprensione della paternità di Dio.

    «Mostraci il Padre»

    «Mostraci il Padre», chiese Filippo, in un momento in cui Gesù aveva incominciato un discorso sul Padre (Gv 14,8). E aggiunse: «Questo ci basta». L'espressione alquanto misteriosa intendeva che l'incontro personale o un'immagine visibile avrebbe risolto ciò che le parole non riuscivano a tradurre; o forse Filippo esternava un desiderio ardente che Gesù, con le sue spiegazioni, aveva provocato in lui. Gesù gli risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre?» (Gv 14,9). Per «vedere» il Padre bisogna dunque guardare nella fede l'esistenza di Gesù, i suoi atteggiamenti nei confronti di Dio, i suoi gesti verso l'uomo.
    Gesù però mostrò il Padre ai discepoli anche attraverso parole e insegnamenti. Doveva decodificare una immagine che essi avevano nella mente e costruire un'altra in base alla nuovissima esperienza dell'umanità, l'Incarnazione. L'immagine che i discepoli si erano fatta raccoglieva - è vero -quanto di saggio tramandava la tradizione religiosa del loro popolo. Andava però purificata perché gli uomini l'avevano contaminata in molte maniere: mettendola a servizio del potere civile e religioso, legandola ai riti più che alla vita, facendola garante di un sistema sociale che opprimeva i deboli, dividendo l'umanità tra quelli che erano «figli di Dio» e quelli che non lo erano. Oltre che di una pulitura, l'immagine di Dio aveva bisogno di un restauro sostanziale. Bisogna rifarla. E ciò non significava semplicemente ritoccare un ritratto, una rappresentazione di Dio, ma rinnovare i rapporti con lui.
    Come è il Padre di cui Filippo voleva vedere l'identikit o la foto? Gesù lo presenta come potenza di vita. Nel Padre questa ha avuto origine e trova la sua permanente sorgente: «Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26) . Il Padre porta la vita verso la pienezza in coloro che, cercandola, si avvicinano a lui. Dà il gusto e la possibilità di comunicarla. «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5,21). Sopra tutti i titoli gli va bene dunque quello di «il Vivente». Gesù stesso riceve la sua vita umana e divina da. lui e grazie a lui la dà ai suoi: «Come mi ha mandato il Padre che è il Vivente, e io vivo grazie al Padre, così colui che si ciba di me anch'egli vivrà grazie a me» (Gv 6,57). La sua potenza di vita arriva a risuscitare i morti, a mantenere in vita per l'eternità coloro che a lui si affidano chiamandoli a una comunione con lui: è il Dio non dei morti ma dei viventi.
    Questa potenza di vita non è ingegneria biologica, ma amore fecondo. La paternità non è in lui una qualità che si aggiunge alla divinità, ma la costituisce internamente e interamente. E Padre, Madre, alleato, socio, amico, protettore fedele, difensore e vindice: insomma quanto noi possiamo immaginare a proposito della donazione di sé e dell'attaccamento viscerale alle sue creature. Amore e vita vanno in lui di pari passo. Ama donando la vita, dona la vita per amore. Gesù lo ripete con affermazioni veloci, semplici e toccanti: il Padre vi ama (Gv 16,17).
    Per questo il Padre opera sempre nel mondo (cf Gv 5,17). Non sta a guardare e ad attendere. Prende l'iniziativa. È come un contadino che vigila il suo campo, come un vignaiolo che cura la sua pianta (Gv 15,1). Il campo sono tutti gli uomini e ciascuno in particolare. Su di essi, indipendentemente dalla loro bontà o malizia, fa sorgere il sole e fa piovere (Lc 5,45), provvede cioè quello che sostiene e diffonde la vita, lo splendore e la gioia che essa porta.
    Egli conosce i nostri bisogni prima che noi glieli raccontiamo (Lc 6,8) ed è disposto a concedere quanto di buono e necessario gli uomini gli chiedano (Lc 7,11). Più ancora quando si accordano come fratelli, perché vuole la nostra pace e la nostra concordia (Mt 18,19).
    Desidera che nessun uomo o donna si perda (Mt 18,14), ma che raggiunga la felicità e il proprio destino. Soffre per coloro che smarriscono il senso e le strade della vita. È misericordioso: prende in considerazione e ricompensa tutti gli sforzi di bene che gli uomini fanno: l'elemosina, la preghiera segreta e quasi implicita, l'invocazione di aiuto, il digiuno volontario e la fame sofferta con pazienza.
    La sua misericordia si manifesta soprattutto nel perdono. Stranamente sente più gioia per chi dopo aver fatto il male, si riscatta e torna, che per novantanove di coloro che credono di poter esigere qualcosa perché credono di non aver mancato. Si sente meglio con i peccatori che con i giusti. Difende i piccoli, le vedove, le prostitute, i poveri, gli indifesi, gli oppressi, gli ignoranti. E capace di farsi capire da questi e ad essi spiega cose difficili: «Io ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21). Perciò fa saltare le categorie e le abitudini su cui si regge questo mondo.
    Ha poi doni eccelsi, straordinari per gli uomini. Uno, singolare e unico, è il suo Figlio che egli «consegna» per la salvezza del mondo. E ciò dopo che aveva tentato altre vie e inviato altri messaggeri per ricondurre gli uomini alla sua conoscenza e amore. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio, perché chi crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 4,16). Il Figlio non è un regalo «collettivo», inviato ad un «genere umano» nel quale non si distinguono le persone. Ha il carattere di un dono personale: un invito, una sfida, un richiamo, un incontro per ciascuno di noi, da cui egli si attende pure una risposta, un sentimento, una adesione personale.
    Inoltre, nell'assenza fisica di Gesù il Padre manda lo Spirito Santo, il Consolatore, che rimane sempre in noi e con noi (Gv 14,16.26). Esso è memoria, luce, calore e bussola. Crea e ravviva in noi la consapevolezza della presenza e dell'amore del Padre e ci dà il gusto di corrispondergli. «Non vi lascerò soli, orfani» (cf Gv 14,18).
    La potenza di vita e di amore, doni del Padre, si orientano verso la realizzazione di un disegno per il mondo e per ciascuno di noi: riportare ogni cosa alla bellezza e finalità originali, trasfigurate dalla presenza e forza di Cristo; fare di ciascuno di noi suoi figli veri e autentici fratelli. Bel sogno e stupendo progetto proprio di un Padre senza pari!
    Di fronte a tutto questo i discepoli si guarderanno dal riconoscere qualcuno sulla terra come «padre» ultimo e definitivo. In un solo Padre, quello del cielo, essi si specchieranno. Da lui riceveranno i tratti filiali, imparando la misericordia, il perdono, la generosità.
    Gesù parlava volentieri di Dio, Padre di tutti. La sua parola lo rendeva vicino, riscaldava il cuore, apriva un nuovo panorama sulla divinità. Ma la vera nuova rivelazione del Padre la fa quando parla di sé dicendosi «il Figlio», e chiama Dio «il suo Padre». L'articolo indica una singolarità esclusiva. Nessuno è figlio come lui e di nessuno Dio è Padre come di lui. È il Figlio unico e diletto (Gv 1,14.18; 3,16.18), che è con lui sin dal principio, che con lui ha creato il mondo ed è destinato come Parola e Sapienza divina a manifestare completamente il Padre. Così sappiamo che nel mistero insondabile della divinità, nella sua potenza di vita e di amore Dio genera un uguale a sé, dà tutto se stesso ad un altro, da sempre. Dio è quello che si dona! Non lo sapevamo, non potevamo saperlo fino a che non avessimo una «rivelazione». La rivelazione è Gesù. Tra lui e il Padre si dà l'unità perfetta di volontà (Gv 5,30) e di azione, mutua intimità di conoscenza e di amore (5,20.23), vicendevole desiderio di glorificazione (12,28), esistenza dell'uno dentro l'altro. «Chi vede me vede il Padre», perché il Padre è in me e io nel Padre.
    Tale è l'immagine e la storia del Padre che Filippo voleva vedere. Per l'immaturità dell'intelligenza e della fede (non aveva ancora ricevuto lo Spirito!) egli non riusciva ad entrare nemmeno nella logica delle parole di Gesù. È questa anche la condizione nostra come «pellegrini». Perciò non è male tornare costantemente a guardare e riascoltare Gesù per «capire» chi è e come opera il Padre.

    «Era davvero figlio di Dio»

    Così disse l'ufficiale romano alla vista della morte di Gesù (cf Mc 15,19). Forse aveva sentito le sue parole: «Padre, perdonali» (Lc 23, 24), «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46). Può darsi che sapesse del reato per cui i sommi sacerdoti avevano condannato Gesù: «Si dichiarò figlio di Dio» (cf Gv 10,33). 0 forse è stata una sua conclusione, da conoscitore dei condannati, davanti all'innocenza, alla dignità di Gesù di fronte a una morte violenta, al suo atteggiamento verso i carnefici, al suo gesto di offerta.
    In altri un miracolo aveva motivato la confessione che Gesù era il figlio di Dio. Il centurione fu mosso dalla vista della morte. Fa impressione che un funzionario romano in quella circostanza non abbia fatto piuttosto un commento «a caldo» sulle pretese regali di Gesù. E che invece abbia raccolto la voce che lo diceva figlio di Dio.
    Egli, ispirato dallo Spirito, espresse la fede della Chiesa: nella morte, donandosi per noi, Gesù rivela che Dio è amore, e che in quanto tale è suo Padre nell'eternità e nella storia umana. Il suo rapporto filiale nel tempo inizia con la disponibilità a fare la volontà del Padre e l'invio al mondo, passa attraverso la maternità verginale di Maria, cresce durante la sua vita, e ha il momento più eloquente nella morte. La consegna di sé nelle mani del Padre per il mondo porta con sé la risurrezione a una vita nuova.
    Nessuno può sapere che cosa voglia dire che Dio è nostro Padre finché, per la fede, non ha capito in quale senso Gesù è il Figlio e come egli è vissuto da Figlio in questo mondo. Certo, i testimoni rimasero stupiti di come Gesù parlava di Dio e trattava con Dio: confidenza singolare, linguaggio affettuoso pur nel riconoscimento dell'infinita potenza, adesione totale alla sua volontà e ai suoi progetti, conversazione frequente ed esclusiva, conoscenza senza pari, accesso libero a lui, partecipazione totale al suo potere, condivisione dei suoi sentimenti, esperienza diretta del Padre, capacità di rivelazione e di racconto su chi è e come opera il Padre, identificazione: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (Gv 10,30).
    Del Padre d'altra parte afferma che lo genera, lo consacra, lo invia, lo muove e sostiene, lo consegna alla morte, lo risuscita e lo fa sedere alla sua destra. Il Padre è il filo conduttore del Vangelo. Senza di lui la buona novella per la vita dell'uomo svanisce. Vivendo da Figlio, Cristo rivela il Padre.
    Per gli educatori, chiamati a condividere con i giovani la fede, è importante approfondire alcuni aspetti della sua esperienza filiale.
    Il primo è il rapporto, il sentimento, l'apertura del cuore, la fiducia, l'affidamento. In Gesù era vivo, caldo, radicato, messo a fondamento dell'esistenza, invariabile di fronte alle diverse vicende della vita. Era la sicurezza della fedeltà del Padre, cantata nella Bibbia, ma vissuta da lui in forma singolare. Egli vede il Padre presente nei piccoli, nella natura che ospita passeri e gigli, lega il seme alla terra, contiene il sole e i cieli.
    Lo vede al lavoro nel mondo e nella storia. Percepisce l'azione del Padre nelle intuizioni degli uomini, nella loro fede come in quella di Pietro. Scorge la sua potenza nei propri miracoli e nella forza salvifica delle proprie parole. Da lui si sente protetto. E comprende il suo amore universale anche nell'agonia, nella sofferenza e nella morte.
    Vive nel Padre, gli è immanente. Il Padre è sempre dentro di lui, e non semplicemente come un pensiero: «Il Padre è in me e io sono nel Padre» (Gv 10,38); «Non credi che io vivo nel Padre e il Padre vive in me?» (Gv 14,10).
    Tale inabitazione produce una misteriosa conoscenza e intimità di amore: «Il Padre ama il Figlio e gli fa vedere tutto ciò che fa» (Gv 5,20); «Il Padre mi conosce e io conosco il Padre» (Gv 10,15). Porta ciascuno di essi a cercare la «gloria» dell'altro, a far conoscere, a rivelare, a mettere in rapporto di amore, a raccontare l'altro. «Padre, l'ora è venuta; manifesta la gloria del Figlio, perché il Figlio manifesti la tua gloria» (Gv 17,1).
    Il rapporto ha una espressione totale nella missione: il Padre affida a Gesù la salvezza del mondo e Gesù la assume con totale adesione e determinazione. Ciò esprime l'unità col Padre, l'amore per lui. Gesù ne è cosciente e lo sottolinea con affermazioni che non lasciano posto al dubbio: sono stato mandato... sono venuto per annunciare il Vangelo, per chiamare non i giusti ma i peccatori, per cercare di salvare chi era perduto, per servire e dare la vita in riscatto. Tutto si ricollega alla volontà, al disegno, al mandato ricevuto dal Padre.
    Non solo Dio, mandando suo Figlio manifesta la sua paternità verso di lui e verso gli uomini, ma Gesù, interpretando bene e portando a termine la missione, rivela il suo essere Figlio. Attraverso di essa quindi, noi uomini veniamo a conoscere anche l'aspetto essenziale del mistero intimo del Dio unico.
    Oltre al rapporto che comprende tutto l'essere, e alla missione che spiega l'esistenza terrena di Gesù, è utile contemplare un altro tratto filiale: la lode, l'invocazione, il trattenersi col Padre: la preghiera. I vangeli parlano abbondantemente della pratica e degli insegnamenti di Gesù al riguardo, così come della richiesta dei discepoli: insegnaci a pregare (cf Lc 11,1).
    Ha molto da vedere con la sua missione. Tutti i momenti importanti di questa sono segnati dalla preghiera. Nella preghiera, durante il battesimo, ne viene pubblicamente investito: «Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì... vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio...» (Lc 3,22). Un lungo periodo di preghiera nel deserto gli dà il senso della missione e la forza per resistere alle tentazioni che la vorrebbero orientare in direzione diversa da quella che il Padre vuole. Così per la scelta dei discepoli mette nelle mani del Padre la decisione e gli affida coloro che sceglierà. Molti miracoli sono preceduti o accompagnati da un gesto orante: la moltiplicazione dei pani, la guarigione del cieco nato, la liberazione dai demoni, la risurrezione di Lazzaro.
    L'ultima grande preghiera è un testamento, uno sguardo sulla sua esistenza: raccoglie i motivi della sua vita e della sua morte, la sua critica al mondo, la sua totale disponibilità per il disegno del Padre, l'amore ai suoi, la preoccupazione per l'unità e perseveranza di tutti coloro che partecipano alla sua azione di salvezza, il suo proposito di fedeltà.
    La preghiera nell'orto e sulla croce è l'accettazione di avvenimenti, apparentemente avversi, come provenienti dalla volontà di Dio piuttosto che dalla malizia degli uomini. Con essa consegna la vita nelle mani del Padre.
    La preghiera di Gesù appare così come un atteggiamento costante, interno, che si manifesta in espressioni spontanee di gioia, di ringraziamento, di invocazione, di disponibilità, di riflessione. Sullo sfondo di tutte queste espressioni c'è una sola parola, Padre: «Ti benedico, Padre» (Mt 11,25) . Per il Padre ci sono anche tempi e luoghi adatti per una conversazione tranquilla: i monti, il deserto, la notte, i luoghi solitari, la compagnia di pochi amici. La sua preghiera più continua e autentica però è la vita che si snoda secondo la volontà del Padre e al servizio degli uomini.
    È il cammino indicato anche a noi per crescere come figli: riconoscimento della presenza del Padre nella nostra vita, senso di una missione nel mondo, desiderio di comunione con lui.

    L'eredità e il lavoro dei figli: il Regno

    Nel Padre Nostro Gesù ci fa chiedere: «Venga il tuo Regno» (Mt 6,10; Lc 11,2). Del Regno Gesù parlò molto. Anzi fu il tema della sua predicazione e l'obiettivo del suo operare. Lo spiegò, lo annunciò e si diede a costruirlo e diffonderlo. Lo chiamò sempre Regno di Dio. A volte anche «Regno dei cieli». Non intendeva con questo dire che era campato per aria, in mondi invisibili; ma seguiva l'abitudine del suo popolo di non utilizzare, per rispetto, il nome di Dio. Che il suo Regno fosse, per dono, anche nostro, lo disse ai suoi discepoli: «E piaciuto al Padre darvi il suo Regno» (Lc 12,32).
    Che cosa fosse il Regno gli apostoli non lo capivano molto. Pensavano infatti a lottizzarne tra di loro posti e cariche. L'espressione l'avevano sentita molte volte perché era familiare alla loro tradizione. Sapevano che si trattava di un grande intervento di Dio in favore del suo popolo: liberazione da tutti i mali e salvezza totale e per sempre. Ciò doveva avvenire perché singoli e popolo accoglievano Dio, riconoscendone la signoria su tutto.
    Gli apostoli se ne aspettavano un'inaugurazione solenne e folgorante. Gesù lo paragonò ad un lievito, a un seme, a un tesoro nascosto in terra. Lo cercavano fuori, e Gesù disse che guardassero anche e principalmente dentro se stessi. Il cuore dell'uomo infatti è il primo spazio dove si fa sentire. Lo pensavano come qualche cosa che Gesù doveva organizzare o conquistare. Egli invece afferma che il Regno di Dio si fa presente nella sua persona. Con lui si rivela, irrompe nella storia, ci raggiunge e ci include. Lo credevano una selezione dei buoni, anzi dei migliori. Gesù invece lo descrisse come un campo in cui ci stanno tutti, quelli che somigliano al buon grano e quelli che ci sembrano o sono veramente erba cattiva; come una rete che prende ogni pesce, quelli commestibili e quelli velenosi. Pensavano che era già preparato; domandavano dunque quando si sarebbe instaurato. Invece Gesù disse che era come una semina da fare, un terreno da coltivare, un vigna da far fruttificare. Pensavano che in esso si poteva vivere tranquilli; e invece Gesù spiegò che in esso c'era bisogno di perdono, di comprensione; che non tutti erano prodigi per genio o santità, ma ognuno «rendeva» secondo le proprie possibilità e il suo tempo. Il Padrone, però, alla fine dava a tutti il massimo salario per pura generosità. Anzi ci voleva addirittura decisione e sforzo per instaurarlo e appartenervi: «Il Regno soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Andava dunque guadagnato senza che, per questo, perdesse il suo carattere di dono.
    Non solo ne parlò e diede le spiegazioni necessarie a far luce sulla natura e caratteristiche del Regno, ma ne mise le fondamenta, ne diede dei segni, mostrò quali beni comprendeva e come lo si doveva costruire. All'insegna del Regno di Dio egli ignorò la discriminazione tra credenti e non credenti, e tutti considerò chiamati e invitati al banchetto. Nel nome del Regno eliminò la distinzione sociale, senza sminuire la responsabilità personale, tra «giusti» e peccatori, e tutti considerò amati dal Padre, bisognosi della sua misericordia. Chiamò Matteo, collaboratore dei dominatori, ad essere apostolo; andò a mangiare a casa di Zaccheo, accettò il profumo della donna peccatrice e disse parole di incoraggiamento all'adultera. Nel nome del Regno ignorò la situazione di inferiorità delle donne chiamandole pubblicamente al suo servizio e seguito, le ammise come discepole e permise loro di «sedersi ai suoi piedi» (cf Lc 10,39); le inviò come prime annunciatrici della Risurrezione.
    I segni del Regno che egli pose furono quelli di liberare dai demoni, accogliere e guarire i malati, restituire la vita ai morti, moltiplicare il pane così che ce ne fosse per tutti, illuminare la coscienza con la parola, perdonare i peccati, donarsi totalmente nella predicazione, nella passione e nella morte.
    Nemmeno oggi per molti il Regno di Dio è comprensibile. Qualcuno pensa che si tratti di un'espressione simbolica senza riferimento prossimo alle cose con cui abbiamo a che fare nella vita quotidiana; che influisce sì nei buoni sentimenti e nel comportamento «religioso», ma che non ha peso sulle azioni con cui gli uomini costruiscono il mondo, né trasforma le condizioni di vita. Ciò apparterrebbe alle organizzazioni che contano, quelle che dispongono di potere, denaro, conoscenze scientifiche, strumenti tecnologici.
    La dizione «dei cieli» viene preso dunque proprio nel senso in cui non lo intendeva Gesù. Secondo lui il Regno è in questo mondo, sebbene non solo. Non è un territorio fisico, ma una «rete» formata da tutti coloro che desiderano alcuni beni, cercano di realizzarli nella misura del possibile e ne sperano da Dio il compimento.
    Chi faccia parte di questo Regno e quali siano i beni che lo caratterizzano è detto nel discorso più famoso di Gesù: quello della montagna. Nelle beatitudini, dopo aver presentato alcune «categorie» di persone, egli ripete: di essi è il Regno dei cieli o, direttamente, saranno chiamati figli di Dio. Chi sono questi che portano i segni dei «figli di Dio», ai quali è affidato l'eredità e il lavoro del Regno? Sono «i poveri di spirito», cioè coloro che non si soddisfano con i beni materiali, e quindi non li accumulano; desiderano altri beni, in particolare la conoscenza e l'amore di Dio. Perciò non si attaccano al possessso di nulla, ma mettono ogni cosa a disposizione dei fratelli. Sono gli uomini e le donne «pacifici»: quelli che non lasciano entrare in se stessi sentimenti di odio o distanza e non cedono all'istinto di eccessiva difesa di fronte alle offese, ma cercano invece di costruire rapporti di accoglienza e solidarietà, favoriscono la concordia e si fanno mediatori di riconciliazione.
    Cittadini del Regno sono i puri o retti di cuore: coloro che non collocano egoisticamente se stessi, il proprio piacere al centro di tutto, non cedono all'inganno e mettono la sincerità e l'onestà a fondamento del lavoro e dei rapporti. Sono i misericordiosi, cioè coloro che sentono compassione di fronte ai dolori e alle miserie altrui e si danno da fare per alleviarli con spirito generoso, gratuitamente. Sono coloro che si battono serenamente per la giustizia anche a costo di persecuzioni e cattive interpretazioni, e restituiscono bene per male; i pazienti che perseverano nelle opere e imprese di bene anche di fronte alle difficoltà.
    Così i figli a cui Dio Padre ha dato in eredità il Regno estendono lo spazio dove se ne applicano le leggi e se ne diffondono i beni: la speranza, la pace, la misericordia, la giustizia, la rettitudine, l'accoglienza di Dio, l'amore. Tutto ciò è mescolato con l'opposto, coabita gomito a gomito, con la violenza, la prepotenza, il menefreghismo, il disinteresse, il disprezzo della persona. Eppure non si confonde con tutto questo, non viene sommerso o neutralizzato dalla presenza anche capillare del male: ne è più forte. Ha un suo tessuto o collegamento misterioso capace di creare uno spazio umano visibile, nel quale si può abitare, perché crea nuovi rapporti sociali e propone traguardi anche temporali. Il Padre vi dimora come nella sua casa. Si può persino vedere il suo volto paterno riflesso nella realtà che i beni del Regno presentano.
    Chi può dire che le categorie elencate sopra non esistano oggi o che il loro operato non influisca sulla nostra esistenza nel mondo? E chi può negare che i beni del Regno sarebbero più estesi se molti altri lavorassero con la medesima intenzione e determinazione?
    Il Regno è la sintesi di tutti i beni che possono rendere vivibile questo mondo. È dono e compito, eredità e terreno di conquista di coloro che si sentono figli di Dio. Convoca e collega dunque ogni seme di buona volontà diffusa sulla terrra. Si estende oltre i confini visibili della Chiesa, che è però il suo segno e strumento principale. Uno degli interrogativi più cruciali e fecondi che questo fine secolo pone ai cristiani è per quale ragione molti di coloro che volevano costruire una società più giusta hanno visto nel cristianesimo una remora, «oppio» per coloro che dovevano riscattarsi, una «difesa» ad oltranza di quanto si era consolidato a svantaggio dei più. Forse la dimensione storica del Regno, relativa eppure indispensabile, non unica eppure realissima, è stata dimenticata o ridotta a dimensioni individuali o solo formalmente «religiose».

    Figli dello stesso Padre

    Il pensiero del Padre porta verso la fraternità tra gli uomini. Questa è ben fondata e feconda quando la si riporta a tale fonte. I sentimenti umanitari vaghi, da soli, anche se utili e importanti, non sono sufficienti a realizzarla in forma totale e duratura.
    Si sa che, dal 1778, in dichiarazioni solenni si è proclamata la fraternità. Gli stessi che l'hanno sancita hanno poi però creato prigioni per gli oppositori o hanno conquistato terre sottomettendo i nativi come fossero di una diversa specie biologica.
    Era una fraternità selettiva. La schiavitù ha tutta una storia che arriva fino a noi. E non sempre è stata il risultato soltanto di «comportamenti» individuali. Sovente risponde a «principi»: un tempo erano di natura filosofica, poi sociale; oggi possono essere di natura economica (ad esempio, la concorrenza senza regole).
    La fraternità, come viene presentata dal Vangelo, non nasce da un accordo sociale tra gli uomini, ma dal loro essere e dalla loro origine. Essi procedono tutti da Dio, da lui sono stati creati nell'amore, come una famiglia. Hanno davanti a lui, e così dovrebbe dunque essere di fronte ai propri simili, la medesima dignità e i medesimi diritti.
    Al fatto della creazione si aggiunge quello dell'Incarnazione. Facendosi uomo, il Figlio di Dio ha assunto in sé l'umanità tutta come la si ritrova in ciascuno dei suoi membri. Non ha preso una natura umana collettiva e anonima; ma, come afferma il Concilio Vaticano II, «ha unito a sé, in un certo senso, ogni uomo». Per cui è vera la consegna: «Ogni uomo è mio fratello». Gesù esprime la stessa verità quando parla del «Padre vostro».
    Oggi questa verità della fede si trova come una gemma tra le scorie. Brilla più che mai nella mente e nel desiderio di tutti, perché si intuiscono i frutti di pace che una sua realizzazione potrebbe portare.
    Le dichiarazioni sono quanto mai chiare e frequenti, eppure ci sono ancora traguardi minimi da raggiungere, che vengono perseguiti con convinzione da gruppi minori, i volontari, ma non determinano ancora il cammino dell'umanità. Non tutte le parti di questa hanno accolto le conseguenze minime della «fraternità»; e quelli che l'hanno sancita «nei principi» sovente la ignorano nella pratica.
    L'esperienza della paternità di Dio deve suggerire oggi molteplici espressioni di fraternità: espressioni immediate, cioè di pronto intervento, e pensate per il lungo termine, come semi di una grande solidarietà futura da costruire; verso i prossimi e i più lontani. Conviene agire e incoraggiare ad agire allo stesso tempo sulle situazioni concrete e sulla cultura, sulla realtà e sulla mentalità; da soli, a piccoli gruppi, a rete e in vaste organizzazioni a livello mondiale. Lo sviluppo futuro di un'esistenza più conforme alla «fraternità» è infatti questione di assistenza, di cultura e di pratica, di cuore, di intelligenza e di organizzazione sociale secondo i parametri che il mondo attuale, globalizzato e complesso, richiede.
    Il bisogno di dàre «fondamento», oltre i poteri del mondo, ad una cultura e ad una pratica della fraternità, si sente con particolare urgenza in alcuni ambiti.
    Riguardo alla persona, la paternità di Dio ci porta a riconoscerne la dignità e dunque a purificare la mente da ogni discriminazione creata dal denaro, dalla condizione sociale, dall'istruzione, dalla cultura e in qualche parte dall'ordinamento politico (privilegi per ragione di religione, cittadinanza o appartenenza etnica).
    In ciascun contesto c'è un bisogno urgente «di aria nuova» riguardo al riconoscimento del valore di ciascun essere umano. Non senza ragione si continua ad insistere sui diritti umani, quelli cioè che vanno oltre qualsiasi ordinamento giuridico e affondano le radici nella natura. Di alcuni pregiudizi non sono liberi né le cosiddette persone «istruite», né i contesti culturalmente avanzati. Il trattamento dell'immigrazione ce ne dà un esempio.
    Conviene mettere a tema e dare il nome attuale ai fenomeni che sfidano tale riconoscimento e intraprendere con i giovani azioni pacifiche, ma esemplari. Tali fenomeni infatti costituiscono il tessuto del nostro quotidiano e sfidano la consistenza della fede.
    Nell'ambito sociale e politico il «solo Dio Padre Onnipotente» ci dice che la verità accolta dalla coscienza è la prima e suprema voce da sentire e seguire: la fraternità suggerisce di imparare la pratica della libertà assunta personalmente e rispettata negli altri; di non piegarsi di fronte a chi vorrebbe fare da padrone (propaganda, consensi generalizzati, modelli di vita e di consumo), livellando tutti nella mentalità e nei costumi; di essere personalmente responsabili dei criteri che si socializzano attraverso le leggi e critici di fronte alle imposizioni del mercato, dei sondaggi predisposti, del monopolio dei media, di saperci aiutare con le mediazioni autorevoli: fratelli, non sudditi e tanto meno schiavi.
    Allo stesso tempo suggerisce di rinsaldare l'appartenenza e la solidarietà nella comunità civile nella quale è possibile una realizzazione più completa della fraternità. Il disimpegno pratico, la «atomizzazione» individualistica nel sociale, il ripiegamento nel solo «»privato» vanno decisamente corretti.
    Nell 'ambito dei beni naturali e di quelli che l'uomo produce, Dio, Padre mio e degli altri, porta all'uso ragionevole, al rispetto e alla condivisione. Il creato è l'abitazione di tutti, è patrimonio dell'umanità. Non va sequestrato e sfruttato come una miniera personale. Non è facile applicare questa visione rispettosa e questo diritto universale. Siamo in tempi di privatizzazioni, di concorrenza e di concentrazione di potere economico. La mentalità, nostra e dei giovani, va però spinta anche su questa linea: usare con ragionevolezza i beni prodotti, collaborare ad una distribuzione fraterna, vivere con sobrietà per poter condividere, preservare, godere di beni diversi dai consumi.
    Il senso di uguaglianza filiale e di solidarietà fraterna porta a privilegiare coloro che sono in maggiore necessità, le povertà di diverso genere, in particolare quelle estreme o «mortali». Gli esclusi dalla tavola dell'umanità non siano rimossi dalla coscienza dei giovani; moltiplichiamo le iniziative piccole medie ed estese, accompagnandole con una conversione culturale circa un progetto accettabile di convivenza: la civiltà dell'amore fraterno.
    Nell' ordine religioso la paternità universale di Dio porta ad educare alla visione ecumenica. Tutti i cristiani, di diverse confessioni, sono solidali in una fede e nella coscienza di una condizione: essere figli in Cristo. Ciò costituisce un fattore di unione e solidarietà capace di incidere in aspetti fondamentali della convivenza umana.
    Discorso analogo si può fare riguardo al rispetto e dialogo interreligioso. Ormai ci si trova dappertutto con gente di diverse religioni. L'incontro non può che essere nel segno dell'accoglienza. Questo richiede consapevolezza del dono della fede che abbiamo ricevuto, comprensione e apprezzamento di quello che di religioso è maturato negli altri, capacità di rapporto e collaborazione, offerta schietta della propria esperienza, liberazione da ogni sentimento di supremazia o di ogni rigidità, interesse per cause comuni.
    Va rilevato il peso che sta avendo il «fondamentalismo» religioso nella «divisione» interna dei popoli, nella negazione dei diritti essenziali della persona, in fatti sanguinosi e come «pretesto» o arma politica. Nel dialogo e nella cultura mondiale i cristiani si fanno araldi del primato dell'amore che è sempre accogliente e comprensivo, e porta insieme la verità e il bene.
    Insomma la paternità di Dio e la nostra condizione di figli in Cristo non è solo un'indicazione da prendere in considerazione nella concezione del vivere personale e sociale, e quindi dell'educazione alla fede: è il progetto completo di una maturazione autenticamente cristiana, l'origine e il punto finale al quale dunque ritorniamo continuamente per Cristo e nello Spirito Santo.

    «Guardate i gigli»

    Il senso della Provvidenza è connaturale alla pietà popolare. E ciò perché essa ha di Dio una immagine vera, anche se non sempre ne possiede la dottrina completa. Il povero, anche nella sofferenza, è sicuro che quello che gli tocca è voluto da Dio per il suo bene o per il bene di altri che sono legati a lui. Molti proverbi popolari hanno codificato questa fede: «Non cade foglia che Dio non voglia»; «Dio stringe ma non soffoca». Li sentiamo questi proverbi dalle labbra di pie donne e anche di uomini duri, temprati alla lotta per la vita. Manifestano un convincimento e quasi riassumono una loro esperienza.
    Il senso della Provvidenza è anche la colonna portante di molte spiritualità. Certamente non manca in nessuna. Riporta infatti l'idea astratta di Dio «Padre» alla realtà della nostra esistenza quotidiana, dei rapporti, dei sentimenti.
    Così San Giovanni Bosco sentì i primi accenni alla Provvidenza da sua madre Margherita. Davanti agli spettacoli della natura, ad una notte stellata, al sopraggiungere della bella stagione, al sorgere di una aurora serena o allo spettacolo di un tramonto, Margherita orientava il pensiero dei figli verso la bontà e la bellezza di Dio. Di fronte ai raccolti abbondanti, al caldo e al cibo di cui potevano disporre nelle fredde giornate d'inverno, nei momenti di strettezza risoltisi felicemente, richiamava la cura paterna che il Signore ha di ciascuno.
    Questo seme divenne caratteristica della sua santità. Divenuto scrittore e narratore della storia della Chiesa e dell'Italia, egli vedrà l'intervento provvidenziale di Dio nel cammino del mondo e della Chiesa. Imprenditore di grandi iniziative al quale spesso mancavano i soldi per pagare il pane della giornata, incomincerà le opere e le imprese missionarie nella precarietà dei mezzi sicuro che «il Signore prowederà».
    Soprattutto Dio Padre che previene, prevede e provvede ispirerà la sua volontà di incontro e il suo paterno accompagnamento dei giovani poveri.
    I poveri, le pie donne, Don Bosco: è tutta gente di popolo, erede di una cultura della vita a capo della quale c'è Dio, che della vita si prende cura.
    Accanto a loro ci sono però anche santi dottori. Di S. Tommaso d'Aquino è questo ragionamento: «Crede in Dio colui che crede che tutte le cose di questo mondo sono da lui governate e guidate. Colui invece che pensa che tutto accada per caso non crede che ci sia un solo Dio». Non c'è dunque fede in Dio se non si sente la sua Provvidenza e ad essa non ci si affida. Ciò significherebbe pensare Dio come un padre irresponsabile che mette al mondo una creatura e poi l'abbandona. Per questo i pagani, non potendo spiegare il male, piuttosto che attribuirlo a volontà divina, avevano pensato che sopra gli dèi e gli uomini ci fosse una forza cieca: il fato. Erano logici quando la giudicavano cieca, cioè totalmente slegata, autonoma da qualsiasi saggezza o senno. Infatti assurdo e non credibile sarebbe Dio se creasse e poi abbandonasse.
    La sorpresa più grande è però sentire Gesù: «Osservate gli uccelli del cielo. Non seminano e non raccolgono, non hanno né dispensa né granaio, eppure Dio li nutre... Osservate come crescono i fiori dei campi: non lavorano e non si fanno vestiti... eppure io vi assicuro che nemmeno il Re Salomone, con tutta la sua ricchezza ha avuto un vestito più bello... Perciò non state in ansia nel cercare che cosa mangerete o che cosa berrete» (cf Lc 12,22-31).
    La Provvidenza dunque dice qualche cosa di importante su Dio: egli ama quello che ha creato. Lo ha amato prima di crearlo: come la madre che porta in seno un bambino, l'ama per sempre.
    Contiene anche un'idea del mondo. Esso ubbidisce a un disegno. È stato fatto da un «ingegnere», piuttosto che da uno stregone. Le sue infinite combinazioni non le possiamo seguire tutte ad occhio nudo. A mano a mano però che le apparecchiature ci consentono di registrarle, appare sempre più evidente il principio di «finalità»: ogni movimento ubbidisce ad una ragione. A ciascuna azione corrispondono molte possibili reazioni o risposte. E dopo ciascuna reazione si aprono infinite possibilità di nuovi movimenti.
    La Provvidenza contiene un'idea del mondo umano che è la storia. Questa non va per conto proprio, anche se assume l'andatura della libertà dell'uomo. E come un fiume che scende verso il mare. Può portare molta acqua in qualche tratto e in qualcun altro mancarne, raccogliere degli affluenti oppure dare origine a emissari; contaminarsi, ripulirsi, sommergersi sotto terra; riapparire, allargarsi e contrarsi, buttarsi in un canyon o scorrere lentamente sulla pianura. La legge della gravitazione, della pendenza, del movimento la portano verso la foce. Il tempo non torna indietro e l'acqua non risale la china. All'uomo tocca, anche alla luce della Parola di Dio, conoscere le leggi del progredire della storia, approfittare della sua energia, evitare gli scogli, sfruttare i salti. Essa ha un senso.
    Vita umana, creato, storia sono pure oggi paternamente seguiti da Dio. In noi il pensiero della Provvidenza forse si affaccia meno prontamente. Siamo diventati razionalisti e religiosamente cauti. Non arriviamo d'un salto alla volontà ultima e alla causa prima di quello che accade. Ci siamo abituati a fermarci sulle cause immediate. Non vogliamo compromettere tanto facilmente Dio nelle cose del mondo. L'analisi dei dati è diventata una nostra abitudine. Ci sembra di conoscere le cause dell'abbondanza e della carestia, del lampo e della pioggia, del raccolto abbondante e della desertificazione. E così pure siamo sicuri di scoprire i colpevoli di una guerra tra popoli, le cause di una epidemia non controllata per tempo e persino di un terremoto.
    Si aggiunge la constatazione che alcuni fenomeni indominabili si rivolgono contro l'uomo. Il male, soprattutto quello che cade sugli innocenti, sfida la ragionevolezza. Alla libertà non può infatti essere addebitato ancora nulla. Fu questo lo scandalo che spinse alcuni alla negazione dell'esistenza di Dio. L'incompatibilità tra il male del mondo e l'esistenza di Dio ha ispirato romanzi e trattati interminabili.
    Mi piace una espressione del Catechismo della Chiesa Universale: «Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo verso, una risposta al problema del male» (CCC 309). La risposta completa, infatti, la danno coralmente le spiegazioni dottrinali, le esperienze di vita, il senno cristiano, l'approfondimento della libertà, la coscienza del peccato, il senso del tempo, la consapevolezza del nostro destino, la meditazione della vita e della morte di Gesù Cristo.
    Per ciò i credenti, piuttosto che perdersi in una discussione infinita, «tagliano» i nodi della matassa che non riescono a dipanare con la sola ragione: confrontano gli incidenti di percorso con i grandi doni della vita, della libertà, della apertura della mente alla conoscenza di Dio e della chiamata alla comunione con lui.
    Sono convinti che la creazione, lanciata da Dio con un atto creatore gratuito, è «in stato di cammino», incompiuta e corrisponde agli uomini portarla, insieme al Padre, verso il suo compimento. Considerano questa responsabilità una grazia di Dio che li chiama ad agire, a collaborare, ad essere causa insieme a lui, a diventare collaboratori.
    Sono certi poi che Dio guida tutto verso il bene di coloro che lo riconoscono e lo amano: supera dunque la malizia degli uomini proprio con qualcuna delle mille uscite possibili che un avvenimento umano consente. Ci sono molte prove ed esempi che la Scrittura si premura di raccontare. Giuseppe venduto dai fratelli per invidia e cupidigia, quando li rincontra ormai padrone dell'Egitto, dice loro: «Non siete stati voi a mandarmi qui... ma Dio. Voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire per un bene... per far vivere un popolo numeroso» (cf Gen 45,8; 50,20).
    I cristiani hanno soprattutto davanti il caso di Gesù. Condotto alla morte con condanna iniqua e trattato crudelmente quasi fosse un malfattore, diventa salvezza, luce e risurrezione per tutti coloro che credono in lui.
    C'è dunque un mistero; ma tutte le frecce indicano che va accolto come un mistero di bontà e non di disimpegno da parte di Dio. Mi è sembrata di buon senso la risposta di un giovane in merito: «Non so come è Dio, ma credo in lui. Non può essere che buono. Non so come opera la Provvidenza in ogni caso particolare; ma so che posso fidarmi. La esercita mio Padre».

    Il cielo e la terra

    Apro il giornale di oggi. Immancabile l'articolo che denuncia la devastazione dell'ambiente: il buco dell'ozono, il «niflo», la foresta amazzonica distrutta, Greenpeace che dà battaglia, l'esplosione nucleare su un'isoletta del Pacifico, la circolazione a targhe alterne perché la città è al limite dell'inquinamento, il naufragio di una grande petroliera, fughe di materie tossiche, materiale nucleare sommerso nel mare o venduto a paesi poveri perché lo sotterrino nel loro suolo, moria di pesci nei fiumi, estinzione di specie animali, inquinamento del Tevere o addirittura del Mediterraneo, sventramento della terra per estrarre a velocità commerciale piccole porzioni d'oro o di diamante. E, da ultimo, «terrorismo ecologico» in tempo natalizio.
    Ce ne sarebbe da comporre un dizionario, soprattutto se si aggiungono i congressi internazionali con dispiego di propaganda, le leggi antinquinamento, i piani per proteggere il mondo e l'atmosfera, l'azione idealista delle organizzazioni ambientaliste, mentre chi ha il potere politico ed economico continua a sfruttare le riserve per i propri fini.
    L'uomo teme per la sua casa che è il mondo.
    La Bibbia prospetta, al momento della creazione, un rapporto sereno, quasi idillico tra l'uomo e i diversi ordini dell'universo: l'umano, l'animale, il vegetale; l'ordine celeste, terrestre e marino. Armonia, equilibrio ecologico, uso ragionevole, convivenza, lavoro creativo e gerarchia descrivono questo rapporto. Il mondo abitato dall'uomo è un giardino: egli lo deve coltivare per ottenerne dei frutti. Gli animali ci vivono dentro. Dio vi si trova bene e viene a passeggiare, perché c'è l'uomo che è suo partner e perché l'ambiente è in ordine. Il giardino dato all'uomo è anche la tenuta di Dio.
    Lo scatenarsi delle passioni provoca lo squilibrio e altera questo rapporto. Ci si aggredisce, si strumentalizza, si deturpa. Per molto tempo l'uomo non ha sentito gli effetti veri della sua aggressione al creato. Questo appariva grande riguardo per la popolazione e misterioso per la conoscenza umana. Gli strumenti di cui l'uomo disponeva erano al disotto delle dimensioni e complessità del mondo. L'uomo accettava il ritmo delle stagioni, le lente scadenze delle maturazioni, i limiti della geografia, le leggi della materia.
    Oggi più che mai è da ripensare il senso di quella convinzione di fede che afferma che il mondo e l'uomo sono stati creati da Dio.
    Ciò vuol dire, in primo luogo, che l'uomo e l'ambiente sono «organici», quasi destinati l'uno all'altro; che ci sono leggi interne che assicurano questo rapporto. Esse, ignorate o travisate, si prendono la rivincita.
    La creazione è stata presieduta dalla bontà e dall'intelligenza di Dio. Due cose dunque si escludono: che non abbia nessun ordine, che sia soltanto di un deposito di «cose» e quindi possa essere trattata come si vuole; in secondo luogo che sia l'uomo a darle la finalità ultima alla quale, si suppone, sono collegate quelle intermedie. Oggi, eliminato il riferimento alla verità sull'origine del mondo, l'uomo tende a credere che l'universo non abbia un disegno da rispettare, ma che possa essere sottomesso ai propri fini, qualunque essi siano.
    Nell'ordine del mondo è certamente considerata l'utilità dell'uomo secondo i bisogni della sua vita e del suo destino. Con semplicità la Bibbia afferma che il Signore diede all'uomo tutti i vegetali e le bestie perché se ne servisse. E così pure il mondo, perché lo lavorasse: da gestore intelligente, non da despota. Quando l'uomo smarrisce il suo destino finisce per spogliare o quasi radere la terra. Così, quando crede che la sua felicità si giochi tutta sul possesso dei beni materiali, è quasi matematico che non resista alla tentazione di sfruttare la natura senza rispetto e senza economia. È la storia attuale.
    Disegno iniziale e finalità indicano che la terra è di tutti. Un sistema di «proprietà» non può reggersi se ammette come legittima «l'esclusione» di altri. Si ritorcerà contro l'uomo.
    Saggiamente i beni sono stati distribuiti su tutta la superficie della terra perché i diversi gruppi di persone avessero di che mangiare, con che costruire le case, di che cosa servirsi anche per spostarsi. Quando si respinge questa visione e si cede alla cupidigia, capita, ad esempio, che le terre dell'Africa siano coltivate da compagnie estere per produrre un prodotto «superfluo» a vantaggio di paesi dove si nuota nell'abbondanza, mentre la popolazione del posto è carente del cibo indispensabile; che si estragga il petrolio o l'oro per arricchirsi insieme a gente che vive lontano, mentre quelle del posto vengono compensate con salari da fame. «Terra ricca, gente povera!» si dice. La spoliazione e l'inquinamento vanno di pari passo.
    Ma poi il mondo «creato» e «donato» all'uomo doveva parlare a questi della sua vocazione e del suo Creatore attraverso la bellezza, la luminosità, la fecondità. I salmi sono stupendi a questo proposito. Uno lo ha voluto ripetere un astronauta mentre navigava per gli spazi infiniti: «I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera sua annunzia il firmamento. Un giorno all'altro ne dà notizia; una notte all'altra lo racconta, senza discorsi, senza parole» (Sal 19).
    I monti, le correnti d'acqua, i cedri e altri alberi, le bestie mansuete e quelle feroci, i fiori, le piante coltivate che danno l'alimento (il frumento, l'ulivo, la vite), la luce del mattino e il tramonto, la neve, la brina, il mare sono oggetto di serena contemplazione. La bellezza è sentita e penetra nell'anima. E da tutto viene la conclusione: «O Signore nostro Dio, come è grande il tuo nome su tutta la terra! Se guardo il cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai l'uomo perché ti ricordi di lui? Chi è mai perché tu ne abbia cura? Tutto hai messo sotto il suo dominio: pecore, buoi, bestie selvatiche, uccelli del cielo e pesci del mare e le creature degli oceani profondi» (Sal 8).
    Oggi si cerca una norma, un comportamento comune per il rispetto del mondo che ci liberi dall'avvelenamento collettivo e anche dalla deturpazione dell'ambiente immediato in cui viviamo. La bruttezza e la sporcizia occupano spazi che erano per il diletto dell'uomo. «Ridateci il nostro giardino!», sembra dire l'umanità.
    Ma le norme che si danno sono carenti di fondamento sufficiente: di fronte ad esse l'uomo non si sente obbligato se non in date circostanze, per consenso temporaneo. La previsione di un disastro non riuscirà a fermare quelli che più devastano (che non sono i «selvaggi»!) né ad imporre un criterio comune: mentre si protegge in una parte del mondo, si inquina impunemente nei paesi che non riescono a mettere freno a chi estrae materie prime o si fa beffa delle indicazioni protettive.
    San Francesco di Assisi ha cantato alla natura. Ripetiamo sovente il suo cantico: «Fratello sole, sorella acqua». Ricordiamo l'episodio, quasi mitico, del lupo di Gubbio. Sovente contempliamo il Santo con il volto verso il cielo attraversato da stormi di colombe. È il segno dell'atteggiamento cristiano più profondo.
    Egli ha tentato e realizzato in sé la riconciliazione tra l'uomo e l'ambiente. È partito proprio dalla bontà del Padre Creatore che si riflette sulle creature; sulle creature si è soffermato per cogliere il mistero della loro bellezza, senza rimanerne intrappolato; ha approfittato di quello che esse gli offrivano come dono e ne ha tratto anche utilità materiale e spirituale.
    L'ecologia, il rispetto per la natura, la comprensione delle sue finalità e dei suoi limiti, il gusto della sua bellezza nei grandi panorami e nel piccolo dei fiori, il cogliere il suo rimando sono punti indispensabili dell'educazione alla fede.
    Nella Parola di Dio, nella liturgia, nella storia della santità ci sono principi ispiratori, indicazioni pratiche ed esempi da presentare.

    «Perdonate e sarete perdonati»

    Alle soglie del Terzo Millennio, Giovanni Paolo II ha chiesto perdono: perdono, non scusa. Non un perdono generico, ma per fatti concreti e dopo dovuti accertamenti: insomma, dopo un esame di coscienza.
    Sono pentimenti «significativi» per il secolo che si apre. Uno attiene alle responsabilità dei cristiani nell'olocausto per via dei sentimenti antiebraici. Tende a ricostruire la fraternità religiosa tra coloro che si sentono appartenenti ad un'unica tradizione religiosa. Di riflesso richiama tutti alla vigilanza di fronte alle stragi e al superamento di ogni fondamentalismo.
    Il secondo, che riguarda il caso Galileo, ribadisce la volontà di dialogo sincero con la mentalità moderna e postmoderna. Qualcuno ha creduto che si trattasse di una resa e che la Chiesa cedesse a quella mentalità che si regge su un'etica senza fondamento trascendente (aborto, controllo della natalità, supremazia dei potenti...).
    Il terzo perdono, dopo lo studio sull'Inquisizione, conferma il riconoscimento del primato della coscienza e la libertà religiosa.
    Sono sicuro che Giovanni Paolo II questi perdoni li ha chiesti a Dio, prima ancora che agli uomini, conformemente a quella funzione che ha il Pontefice per l'umanità: «... viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).
    È curioso però che finora nessun'altra istituzione, organizzazione o nazione abbia compiuto un gesto analogo. Esse continuano a sostenere le proprie ragioni per le guerre precedenti e per quelle in corso. Il Cremlino ha steso un manto sul passato. I capi di religioni vicine a quella cristiana, all'interno delle quali si sono dati tendenze e fatti simili, non si sono espressi. Per questi motivi le richieste di perdono hanno provocato reazioni persino all'interno della Chiesa, mentre da parte esterna, ignorante del significato e delle radici religiose di tale gesto, qualcuno pensava ad una vittoria propria e, da vincitore, esigeva ancora di più.
    Oggi abbiamo più che mai bisogno di renderci capaci di perdono e di riconciliazione. La colpevolezza reale, il senso di colpa, la rimozione della colpa, la giusta liberazione da essa plasmano l'anima dell'uomo e danno il tono anche alla convivenza sociale. Al senso di colpa si attribuiscono molti comportamenti strani, persino devianti. Alla rimozione o giustificazione delle colpe si devono alcune gravi ingiustizie che si prolungano.
    Sono collegate alla colpa, al perdono e alla riconciliazione altre esperienze umane. Il perdonare esige e opera una radicale trasformazione interiore. Con alcune persone si deve fare un lungo cammino per rappacificarle prima, perché riescano poi a guardare con occhi nuovi la realtà distorta, perché possano ordinare i sentimenti sconvolti e, da ultimo, perché arrivino a voler perdonare e compiano il gesto di avvicinamento e riconciliazione.
    Alcuni fatti ci danno un saggio del cambiamento tutt'altro che superficiale che produce il perdono accolto: dei delinquenti condannati a morte, trasformati dal perdono, vivono la loro situazione estrema nella pace interiore e nella speranza.
    D'altra parte l'esclusione passionale dell'altro, anche quando esistessero ragioni come l'infedeltà o la vigliaccheria, distrugge internamente chi la coltiva. Chi non perdona o respinge ciecamente fa male a se stesso prima e forse più che all'altro. Nulla ha una forza così devastante della personalità come l'odio o l'avversione alimentata.
    Perdonare è tra gli atti più esclusivi della persona umana, una vera opera d'arte dal punto di vista dell'anima e del rapporto. Gli animali, ha detto qualcuno, non si perdonano perché non ci riescono. Gli angeli perché non ne hanno bisogno.
    Tra gli uomini il perdono è il capolavoro e l'apice dell'amore. E ci riescono quelli che sono in «stato di grazia»: cioè che hanno raggiunto uno sguardo veritiero e sereno su se stessi, hanno colto le dimensioni della responsabilità umana, hanno scoperto la bontà negli altri, hanno imparato a distinguere il bene dal male.
    Ci impressiona quindi, fino a lasciarci quasi in contemplazione del gesto, quando qualcuno, un figlio, una mamma, una sorella gravemente danneggiati per un crimine, pronunciano pubblicamente parole sincere di perdono. È capitato ai funerali delle vittime dei sequestri e delle stragi. Le parole risuonano bene, inquadrate e inserite nell'eucaristia.
    La storia, anche dei nostri giorni, ci va convincendo che chiudere una questione tra persone, gruppi o popoli è più facile che chiedere perdono e riparare. Ma è incomparabilmente meno fecondo. Mette una patina di cera sulle fessure, ma non crea nuovi rapporti, né stabilisce più saldi criteri e accordi di convivenza. Il perdono richiesto, dato e accettato è come il lasciapassare perché la verità entri e faccia il suo effetto sull'anima dell'uomo. Perciò si va affermando il suo valore, non solo individuale, ma per la costruzione della convivenza.
    Sentire il bisogno di chiedere perdono e sperimentare la gioia di essere perdonato è congeniale a chi è entrato nella mentalità del vangelo e condivide l'esperienza di Cristo. Egli ha consigliato di chiedere perdono al fratello: «Se presenti la tua offerta sull'altare e ti ricordi... va' prima a riconciliarti con tuo fratello» (Mt 5,23). Nel momento della morte ha invocato il perdono per i suoi carnefici e anche verso chi accanto a lui veniva condannato, culminando così una vita in cui sovente aveva assicurato a chi gli si avvicinava: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» (Lc 7,48).
    Suggerisce a noi gli stessi gesti e disposizioni quando colloca nella preghiera al Padre la petizione: «Perdona le nostre colpe come noi perdoniamo a coloro che ci hanno offesi» (Mt 6,12).
    «Perdonate e Dio vi perdonerà». La preghiera, senza la volontà di perdono e senza la consapevolezza di averne bisogno, non è accetta al Padre e risulta controproducente per l'uomo perché lo induce all'inganno su se stesso e su Dio (cf Lc 18,9-14). Per questo Gesù dirà a Pietro che nel discepolo la disponibilità a perdonare non ha limiti né misura.
    Le due esperienze sono collegate: chi ha sperimentato la gioia del perdono diventa generoso nel perdonare e supera la resistenza a chiedere perdono.
    Il Figlio, Gesù, ci rivela il cuore di Dio Padre con le parole e i gesti di perdono e di riconciliazione. Da lui e per lui sappiamo con sicurezza che il Padre perdona e accoglie, non soltanto ignora o dimentica. Non solo cancella, ma rinnova e ravviva il rapporto che l'uomo ha con lui. Non solo ripara e ricostruisce ma, con il perdono, dà una nuova ricchezza che assomma positivamente l'esperienza della lontananza e quella dell'incontro. Ridà il suo Spirito. È meglio essere perdonato che non avere bisogno di perdono. Per l'uomo è l'esperienza più convincente che egli possa avere della paternità di Dio.
    Nella parabola del figlio prodigo (cf Lc 15,11-31) la parola «perdono» non appare. Per il giovane forse era pretendere troppo; per il padre sembrava troppo poco. Il giovane pensa al riconoscimento della colpa come a una forma dovuta di umiliazione, temperata dalla speranza nella magnanimità del Padre. Poi scopre che l'amore del Padre lo avvolge, Io colloca più in alto; più di quello che era prima. Il ritorno e la riconciliazione l'hanno portato alla maturità.
    Il Padre non parla: guarda lontano, aspetta, abbraccia, dà ordini, offre spiegazioni a coloro che non comprendono il suo gesto. Fa indossare vesti nuove, migliori delle precedenti, che esprimono anche la sua gioia personale, offre il posto di onore nella casa e se ne gode il finale che è quello a cui più ci teneva: «Questo figlio mio era perduto ed è tornato» (Lc 15,24).
    Il clima di festa, quasi eccessiva, circonda, nel vangelo, il perdono dato e accolto. Profumi costosi sparsi senza risparmio, raduni di numerosi amici, pranzi rumorosi che scandalizzano le persone perbene sono i segni dell'effetto che ha il perdono su chi lo riceve e sulla comunità. Sono anche i segni della «gratuità». Si tratta di qualche cosa di «impagabile». Nessuno si pensa vinto e tanto meno vincitore. Il perdono di Dio e anche tra gli uomini è una grazia.
    Coscienza dell'offesa, perdono, riconciliazione costituiscono un bisogno profondo e un itinerario di maturazione del singolo e dell'umanità. In esso il Padre ci attira, ci attende, ci accoglie, ci insegna.

    «Quando pregate, dite...»

    Le parole hanno una magia. Non risuonano mai nella stessa maniera. E ciò perché si vanno caricando di esperienze umane. Quelle poi che percorrono la storia contengono, quali vasi pregiati, un'esperienza «partecipata» da diverse generazioni. Un ebreo, che da piccolo in tempi di persecuzione si era rifugiato in una casa di religiosi, da vecchio ricordava le parole dell'Ave Maria. Non aveva cambiato fede. Ma i ricordi della fanciullezza, i compagni, i momenti passati in una chiesa cristiana per rimanere nell'incognito, gliele facevano risuonare come «care» e meravigliose.
    Le parole inoltre si riempiono di significato col crescere della nostra conoscenza. Diventano più ricche di contenuto e accrescono pure il loro potere di ispirazione. Una preghiera, anche con le medesime parole, non si ripete mai perché non esprime tanto concetti, ma le grida della vita: San Paolo afferma che lo Spirito produce in noi gemiti inesprimibili (cf Rom 8,26).
    Il Padre Nostro è una preghiera di questo tipo; anzi lo è per antonomasia. Le sue parole arrivano a noi gravide di un'esperienza: quella di Gesù con i suoi discepoli. Risuonano del suo desiderio del Regno, della sua gioia per la presenza del Padre, della fraternità singolare creatasi tra gli apostoli.
    Si è inoltre riempita con le risonanze della vita della comunità cristiana. I santi, i pensatori religiosi l'hanno commentata senza sosta; la comunità cristiana la pronuncia coralmente nelle celebrazioni più diverse: dal battesimo all'unzione ultima, dalla pasqua ai funerali.
    È una preghiera regalata al cristiano nel battesimo come «segno» che è figlio di Dio e come memoria di Gesù. Gli è data in consegna e custodia perché la arricchisca e renda vero il suo senso. Gli viene raccomandata la sua interiorizzazione e recita perché esprime quello che il cristiano è e quello che vuole della vita e della storia.
    Così «donata», «data in custodia» e «raccomandata» si va caricando anche della nostra vicenda personale. Anche noi l'abbiamo detta con commozione e fede in tutte le circostanze che formano il tessuto della nostra esistenza: da bambini, quasi in un gioco di memoria; da adolescenti, in liturgie, campeggi, gruppi e ritiri mentre la nostra fede si irrobustiva. L'abbiamo cantata di fronte a panorami stupendi o bisbigliata in momenti di rischio improvviso. È diventata la nostra invocazione al mattino e alla sera, nelle feste e nei lutti familiari, nei momenti di calma, quasi per fare il punto della nostra vita, e di dubbi per richiamarci alla fede.
    Il Padre Nostro comprende così «tutta la preghiera» della comunità cristiana in una sintesi concentrica. Include tutto quello che conviene dire e chiedere, e la sua prima parola, «Padre», contiene già tutto quello che segue: il nostro essere, i nostri rapporti e sentimenti, i nostri desideri. Santa Teresa e Sant'Ignazio suggeriscono di fermarsi su questa prima parola finché l'anima nostra ne abbia da trarre o da esprimere in affetti, riflessioni e significati.
    La cosa più ammirevole è però la sua completezza evangelica. Vi si trovano «i motivi» fondamentali del Vangelo, quelli che appaiono quasi sempre nei miracoli e nei discorsi di Gesù. Perciò è stata commentata in grossi volumi che non soltanto sviscerano il significato di ogni parola, ma la collocano nel contesto della vita e della predicazione di Gesù.
    È una preghiera di «petizione», e ciò è doppiamente interessante. In primo luogo perché la preghiera di petizione è quella della gente «povera», che si sente bisognosa in molti sensi e si «ricorda di Dio», credendo con semplicità che egli sia disposto a venire in nostro aiuto. Gesù si fa carico di questa nostra povertà, che anche Paolo notava quando affermava che non sappiamo come esprimerci nella preghiera (cf Rom 8,26). Non la svaluta, ma la educa. Ed è interessante, in secondo luogo, perché la preghiera di petizione, tipica della pietà popolare, è stata sottoposta a critica da una certa mentalità purista, quasi fosse espressione di una fede immatura o di una concezione magica di Dio.
    Le petizioni sono sei. Quasi tutti i commentatori ammettono che le due ultime ne formano una sola. Vengono organizzate in due gruppi di tre. In esse - si può dire - affiorano tutti i grandi motivi del Vangelo.
    Il «nome» di Dio sta per Dio stesso, in quanto la sua bontà e gloria si vedono nell'universo, quel Dio che Gesù chiamava suo Padre, al pensiero del quale trasalì ed esclamò: «Ti benedico» (Mt 11,25); colui che l'aveva mandato, che fa sorgere il sole per tutti.
    La prima petizione è la constatazione del bisogno che l'uomo sente di Dio, il bene che all'uomo viene nel riconoscere la presenza di Dio, il riconoscimento della grazia che Dio ci ha fatto nello svelarsi a noi, l'invocazione di non mancarci. Riguarda non soltanto «la gloria di Dio» come culto, onore, rispetto; ma la vita dell'uomo in quanto bisognosa di quella luce e speranza che viene dalla conoscenza e accoglienza di Dio.
    Il «Regno», oggetto della seconda petizione, è tutto il Vangelo. Costituisce il grande annuncio, la promessa e il compito centrale di Gesù e dei suoi discepoli. E da capire; per questo Gesù dedica tempo, saggezza e pazienza a «spiegarlo» con parabole e delucidazioni. E da costruire. Per questo dà ai discepoli indicazioni e mandati espliciti sull'amore, la riconciliazione, la povertà, l'apertura del cuore. Il Regno si regge con il codice delle beatitudini, un'altra sintesi evangelica.
    La volontà del Padre, oggetto della terza petizione, attraversa il Vangelo. È la bussola di Gesù: «Sono venuto per fare la volontà del Padre» (Gv 6,38). Egli, e dietro di lui i suoi discepoli, cercano di vedere questa volontà nei palpiti legittimi della vita e nelle mediazioni poste da Dio stesso, tra le quali una è sostanziale: l'avvenimento di Cristo. Con la chiave di Cristo la intuiscono negli eventi della storia e nei bisogni degli uomini. Gesù la tiene presente nel momento supremo: «Non si faccia la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). E il nerbo di ogni vita spirituale. Il cristiano pure la assume e vi sente la bontà e la paternità di Dio.
    Quello che si chiede per queste tre realtà - Dio, Regno e volontà di Dio - è espresso in una maniera quanto mai stringata: «santificato sia», «venga», «sia fatta». Il breve sviluppo «come in cielo, così in terra» che chiude la prima serie, crea uno spazio, quasi per un respiro. E questo è anche lezione di preghiera.
    Viene poi il tema del «pane» per l'uomo. Chi non ricorda quanto presente è nel Vangelo? Sin dalle tentazioni, nelle quali «Gesù» riprende l'espressione «non di solo pane materiale vive l'uomo» (Mt 4,4), facendo capire che i bisogni del cuore umano sono illimitati, fino all'istituzione dell'eucaristia, con il filo rosso del discorso sul pane di vita che attraversa il vangelo di S. Giovanni e finisce per indicare Gesù stesso in questo dono di Dio che soddisfa la ricerca dell'uomo. Ad esso si collega tutto il discorso evangelico sul «mangiare».
    Segue «il perdono dei peccati». Peccato, debito, remissione ispirano le meravigliose parabole del servo infingardo, quella del figliol prodigo e le altre simili; le raccomandazioni di non andare all'offerta senza aver perdonato, la norma data a Pietro di perdonare sempre e le indicazioni per le comunità dei seguaci (cf Mt 18,21-22), il dono dello Spirito per il perdono dei peccati, il mandato finale di andare a «predicare in tutto il mondo la remissione dei peccati» (cf Mc 16,15-16). È una petizione che riguarda non solo il singolo ma tutto il mondo del quale Gesù, come «Agnello di Dio», toglie il peccato. Chiediamo perdono dei «nostri» peccati, non solo di ciascuno di coloro che recitano la preghiera, ma di tutti insieme, dell'umanità, questa famiglia che desidera essere tale e non ci riesce.
    Da ultimo «la tentazione e il male»: l'interiorità dell'uomo, profondamente toccata dalle passioni, e l'incombenza del fallimento personale insieme alle catastrofi collettive: due temi che percorrono la storia universale e due rischi ai quali Gesù volle sottomettersi per mostrare la possibilità di superarli e darcene la grazia. Le tentazioni nel deserto e la tentazione nell'Orto, quelle molteplici e continue in previsione delle quali raccomandava ai suoi discepoli di vigilare e tenersi pronti, sono capitoli determinanti nella vicenda di Gesù. Collegati ad esse troviamo il male, in mille forme, fino al deicidio. La sua origine è nella separazione dell'uomo da Dio, dalle passioni disordinate, dal demonio. Una cosa però è chiara: Dio lo può vincere, e difatti per noi e in noi lo vince mediante Gesù.
    Nel battesimo ci viene «data» questa preghiera. Il cristiano se la porta come una «lingua», un «codice», una chiave da adoperare e arricchire.

    La Figlia prediletta

    Parole di Maria su Dio o rivolte a Dio ne abbiamo poche: soltanto il Magnificat, se non si contano quelle affidate a Gabriele. In seguito i gesti e le parole di Maria registrati dai Vangeli riguardano tutti e soltanto il Figlio. Nemmeno nell'episodio della perdita di Gesù nel tempio o presso la croce viene documentata una sua invocazione, uno sfogo, un sospiro femminile rivolto al Padre.
    Non è una svista degli evangelisti. È proprio una lezione calcolata, una notizia esplicita. Per Maria, la parola a Dio e la risposta di Dio, vicino e interpretabile, è Gesù. Per lui e nello Spirito, lei raggiunge il Signore con il pensiero e la vita, lo ascolta e lo invoca.
    Nelle sue poche parole mai Maria chiama Dio suo Padre, né se stessa Figlia di Dio. Non glielo suggeriva né consentiva la tradizione religiosa del suo popolo. Ma poi il «Padre» non era stato svelato. Maria è parte di questa rivelazione, come prima destinataria e interprete in solidale unione con Gesù, come in tutte le vicende del Figlio.
    Le immagini più numerose della Madonna sono, senza paragone, quelle che la presentano come Madre. Il presepe ce la mostra accanto al Bambino, molto spesso lo tiene nelle sue braccia, lo guarda mentre egli lavora nella casa di Nazaret, lo segue nella vita pubblica, gli sta vicino nell'ora della croce. La missione ricevuta nell'Annunciazione ha sottolineato fortemente la maternità. E questa è senz'altro il centro. In previsione di essa e attorno ad essa vengono ricamati i privilegi, i racconti e i simboli.
    Eppure l'icona della «Figlia» ha uno sviluppo in lungo e in largo nella Scrittura e nella contemplazione di Maria che la liturgia propone. La «Figlia» di Sion, con cui si nomina la città di Gerusalemme e il popolo di Dio, è la prediletta, e su di essa il Signore diffonde le sue grazie. Nell'immagine prevale il riferimento all'amore sponsale e materno. Ma prima di essere scelta come sposa, viene preparata con tutti i pregi della bellezza, della grazia e della saggezza.
    La Chiesa, per cantare l'amore di Dio Padre verso Maria, fa uso entusiasta di testi come questi: «Ascolta, Figlia, guarda, porgi l'orecchio; dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre... Al re piacerà la tua bellezza» (Sal 44). 0 altri in cui la presenta come una giovane che si avvia alle nozze con vestiti raggianti, stupenda nel volto e ornata di gioielli sì da attirare potentemente lo sguardo e provocare gioia e ammirazione.
    La paternità di Dio nei confronti di Maria ha manifestazioni singolari. Nel momento del concepimento Dio dimostra per lei una specialissima attenzione, doppiamente paterna: verso il suo Figlio eterno che sarebbe nato nel tempo, e verso di lei che avrebbe dovuto darlo alla luce nella storia. In previsione della nascita di Gesù la vuole libera da ogni macchia di peccato. Bisogna ripensare che cosa ciò significa: completa come persona umana, aperta, senza ostacoli o zone oscure a quanto Dio vuole e sa comunicare, incontaminata dal male, libera da brutture e da egoismo.
    Nella festa dell'Immacolata, in cui celebriamo questo privilegio, si proclama il testo della lettera agli Efesini in cui si presenta il disegno di Dio di farci tutti suoi figli. Maria è la primizia, l'eletta. La comunità cristiana rimane quasi in estasi di fronte a questo avvenimento. Non le è stato facile esprimerlo con parole e immagini comprensibili. Vi è arrivata attraverso secoli di meditazione e di contemplazione. Ci sono volute laboriose ricerche e discussioni nelle università, controversie di scuole e di istituti religiosi.
    La Chiesa presentiva qualcosa di insolito e meraviglioso in Maria, un riflesso del tutto singolare della perfezione di Dio; ma non le era facile esprimerlo. Approfondendo la riflessione sotto la guida dello Spirito Santo e con il concorso di tutte le sue componenti (popolo, mistici, teologi, pastori, magistero) , scoprì sempre più nitidamente nella Concezione senza macchia il segno della liberazione da quella potenza maligna che ciascuna persona sente nel fondo stesso dei propri pensieri e tendenze, la nostra divisione interiore, le resistenze davanti ai richiami del bene, il rischio permanente di disgregazione del nostro essere. «Hai preparato il corpo e l'anima di Maria perché fosse una degna dimora del tuo Figlio» dice la Chiesa. Un corpo adeguato che esprimeva uno spirito singolare.
    Maria era allora meno che una bimba. Era nel pensiero del Padre e incominciava a formarsi nel seno di sua madre. Nel momento in cui la chiamava alla vita, Dio Padre l'ha amata come una figlia attesa e prediletta. A ragione la Chiesa canta: «La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d'oro è il suo vestito» (Sal 45,14).
    L'annunciazione avviene quando Maria è ragazza nubile. È da questo momento che il Vangelo ne offre notizia. Con questo ci dice che la sua e la nostra storia vera cominciano quando prendiamo coscienza della presenza di Dio nella nostra vita e accogliamo la missione che egli ci affida. Tra il concepimento e l'annunciazione, Maria diventa responsabile della sua vita, valuta un progetto di matrimonio, è interlocutrice e controparte di Dio nella sua interiorità e nella vita ordinaria. È il momento della «missione». Le parole dell'Angelo e le risposte di Maria riecheggiano i termini con cui la missione verrà data a Gesù e sarà accettata da lui: «Lo Spirito di Dio è sopra di me». Anche per Maria dunque la paternità di Dio non è solo gioielli o privilegi, ma chiamata a partecipare al suo amore per il mondo.
    E anche lei come Gesù dimostra che è figlia accogliendo la volontà del Signore. Cosa non facile! Si vive bene senza responsabilità e senza venir esposti al pubblico, senza mettere a prova i nostri limiti. Qualcuno si perde dietro le parole «sono la serva del Signore», che non indicano una persona che fa le cose per ubbidienza, anche sincera e virtuosa, ma che in fondo desidera un'altra situazione, ma proprio colei che si sente amata, avvolta e corrisponde con passione: innamorata. Servo del Signore è chiamato Mosè e nel «servo» di Jahvè è prefigurato Cristo.
    La missione comincia con la visita alla cugina Elisabetta. Nell'incontro sgorga il Magnificat come da una potente sorgente interiore. Nemmeno in esso Dio è chiamato Padre né Maria si dà altro appellativo che serva. Il suo cantico però si rivolge a Dio esaltando la sua opera nella creazione, riconoscendo la sua bontà e determinazione per l'uomo nella storia della salvezza e ringraziandolo per lo sguardo di generosa misericordia che ha indirizzato alla sua persona. L'anima si riempie di gioia, di ringraziamento, di benedizione. È il segno di un rapporto di vicendevole benevolenza e comunicazione.
    Maria si avvia verso lo stato adulto: autonomia, matrimonio, maternità, responsabilità educativa. La bambina, oggetto dell'amore paterno che le regala un corpo e un'anima, grazie e qualità, adeguate al Messia, è chiamata a decidere l'orientamento della propria vita. Lo fa da figlia come Gesù: riconoscendo il posto principale di Dio nella sua esistenza, assumendo una missione, collegandosi a lui con la preghiera.
    E qui viene un'altra singolarità, più unica che rara: Maria partecipa in forma imprevedibile alla paternità di Dio. Il Padre e lei hanno un figlio in comune: Gesù. Certamente con due generazioni diverse. Dio genera il Figlio dall'eternità e nella divinità. Maria genera la stessa persona all'umanità e nella storia del nostro mondo. Ma è sempre lui, lo stesso Figlio, generato dal Padre e conosciuto da noi.
    Ne segue una maturità tutta sua: la sua partecipazione è disponibile a tutte le sorprese, silenziosa, non protagonista. Dio Padre non ha limiti nella sua inventiva. Il punto culminante è la croce. Nemmeno in questa circostanza si parla di una rivelazione, una voce interiore che passi da Maria a Dio o viceversa. La voce, la parola, la rivelazione è il Figlio presente. Ella partecipa all'offerta, come il Padre che ha dato il suo Figlio per salvare il mondo. È lì che incontra e prega Dio, coinvolgendosi negli avvenimenti salvifici che il Padre ha voluto e disposto per gli uomini.
    La vita ha reso Maria totalmente Figlia, come lo fu la Figlia di Sion, e come lo è la Chiesa: per questo capace di generare come Dio, non solo biologicamente, ma conforme a tutto l'essere dell'uomo come è uscito dalla mente e dalle mani del Padre. E qui viene a proposito un commento: proprio per questa assimilazione al volere, ai progetti, all'amore del Padre verso Gesù e verso il mondo, per la sua partecipazione non simbolica o periferica alla paternità divina, Maria rappresenta per noi il volto «materno» di Dio. E ci riesce molto bene!
    Un ultimo gioiello per questa «Figlia» prediletta di Dio: l'assunzione, la realizzazione «anticipata» della comunione piena. Non era «dovuta» nemmeno dopo i servizi prestati, ma le stava bene come madre di Gesù. La Chiesa lo ha intuito guardando l'esistenza di Maria e la logica magnanima di Dio piuttosto che attraverso testi espliciti in merito. C'è in Maria dunque un «circolo» trinitario: Figlia, Sposa, Madre. Ciascuna di queste realizzazioni colora le altre.


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