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    Se vuoi offrire ragioni di vita ai giovani, parti da qui (cap. 2 di: Animatore: dalla parte delle ragioni di vita)


    Domenico Sigalini, ANIMATORE: DALLA PARTE DELLE RAGIONI DI VITA, Elledici 2004

     

    Punti di non ritorno per la pastorale giovanile

    Il filo
    Per chi si avventura nella animazione dei giovani è utile sapere che cosa si sta sognando nel panorama della pastorale giovanile. È un punto di vista personale che fa sintesi di alcuni anni di esperienza e che può essere un buon punto di partenza da approfondire. Il tema è trattato in termini magisteriali nel terzo volume della collana, “Per una pastorale giovanile al servizio della vita e della speranza” di Riccardo Tonelli. A quello rimando per l’impianto generale e gli approfondimenti. Qui sbilanciandomi sull’operatività, cerco solo di offrire alcuni spunti operativi per una persona che si vuol dedicare ai giovani. Non si pretende di dettare legge, ma di esprimere una sensibilità. A questo riguardo ogni diocesi ha definito una specie di progetto o si è data tre o quattro punti fermi che sono diventati prassi. A quelli è meglio riferirsi in un corso per animatori e usare questi come sollecitazioni e esplicitazioni di quanto nella diocesi o nella congregazione religiosa è prassi generalmente condivisa.

    Atteggiamenti di fondo di una chiesa che annuncia ai giovani Gesù, il Signore della vita

    Il nodo principale della pastorale giovanile non sta nel servizio o ufficio o commissione di pastorale giovanile, ma nella comunità. Un ufficio ha ragione di esistere non solo se porta i giovani alla Chiesa, ma se porta la chiesa ai giovani.

    1. È una Chiesa che orienta tutta la sua attenzione (pensiero, azione, sentimenti, progetti…) sul giovane vivo, sulla sua vita con lo stile con cui il Concilio guardò all’uomo (cf discorso di Paolo VI in chiusura del Concilio).
    Non stiamo a guardarci l’ombelico, a guardare i nostri gruppi, le nostre organizzazioni, come possiamo collaborare, le riunioni del consiglio pastorale, le assemblee o le presidenze, le attività stabili della vita della parrocchia come se fossero il fine della nostra esistenza o della nostra presenza di chiesa, ma i giovani, le loro domande, la loro sete di Dio, i tradimenti che si perpetrano nei loro confronti, le involuzioni e le aspirazioni, i sogni di mondo pulito e in pace e le frustrazioni… A questo orientiamo tutto il resto. Per loro abbiamo forse costruito un oratorio, per loro si sono inventate tante strutture, per loro i genitori spendono la loro vita, per loro facciamo commissioni, coordinamenti.

    2. È una Chiesa che ritrova il centro del suo essere credente e la sua passione incoercibile in Gesù Cristo, come sorgente dell’operare, pensare, essere.
    Facciamo di tutto per contemplare il volto di Dio in Gesù e lo supplichiamo di concederci la grazia di innamorarci perdutamente di Lui; vogliamo diventare degli specialisti, conoscitori della sua vita, della sua parola, della sua decisione radicale di donare la vita; vogliamo mettere il naso nei suoi affari peggio delle iene, non vogliamo solo curiosare a casa sua, ma stare con Lui, dimorare. Sentiamo rivolto a noi pressantemente quell’invito del vangelo: venite e vedrete. È Gesù che motiva ogni nostra fatica, ogni tempo che dedichiamo ai giovani. In Lui troviamo ragioni di vita da giocare e da proporre. Sappiamo che le ragioni di vita non si depositano mai, o sono vive o non ci sono, non sono mai archiviabili, non esistono in biblioteca, non le puoi trovare neanche su Internet, te le devi sempre costruire, cercare, attendere, invocare, aspettare. Ti devi prendere in mano la vita ogni giorno, tu con la tua ingenuità e la tua debolezza. Gesù è una persona che ti invade la vita, che vuoi ascoltare e seguire, con cui lottare e stare in compagnia. C’è una vita di preghiera, di ascolto della Parola; ci sono momenti importanti in cui ti “ritiri sul monte a pregare”, ad affidare al Padre la tua vita. C’è una esperienza di salvezza che sta solo nella chiesa e che devi abitare.

    3. L’avventura della salvezza è una avventura che condividiamo, che otteniamo per noi mentre ne facciamo dono a loro. Non ci salviamo senza di loro, la Chiesa non è chiesa se lascia perdere i giovani.
    Ci appassioniamo ai giovani sia più piccoli, sia coetanei, quale che sia la loro scelta di vita o di fede; non smettiamo di pedinarli nei loro percorsi, di amarli nei loro pregi e difetti, non abbiamo paura di correre il rischio di perderci per non perderli. Non ci dividiamo mai tra vicini e lontani, non diremo mai: noi e loro, siamo convinti che tanti messaggi di Dio per la nostra salvezza sono stati deposti solo nella loro vita. Noi non ci percepiamo meglio di loro, ma con loro vogliamo farci salvare da Dio.

    4. Nessuno è un outsider, un isolato, un single in cerca di anime solitarie, ma siamo una comunità. È solo la Chiesa che può donare salvezza, felicità piena, anche se entro fragilità impensabili.
    Amiamo senza condizioni la chiesa, come la strada unica e vera per incontrare Gesù, per avere il suo perdono, il suo corpo e il suo sangue, la sua parola, la sua grazia. Non ci interessa se ha qualche ruga di troppo; è quella che le abbiamo procurato noi, come a nostra madre. Non vogliamo costruirci delle comunità gruccia, cui appendere le nostre attese, in cui possiamo anche star bene tra di noi, ma vogliamo dedicarci a lei anche nelle contrade più impossibili e le famiglie più ostinate.

    5. Non siamo né talebani, né anonimi, ma portatori di una esperienza che convince per quello che riusciamo a viverne e a farne percepire la grandezza.
    Vogliamo rendere disponibile la gioia di vivere per tutti i giovani non solo entro appartenenze confessionali, ma nei percorsi della vita quotidiana, dalla scuola allo sport, dal lavoro alla notte, dal volontariato allo stare a fare niente tutta sera. Siamo una Chiesa che non è preoccupata di portarli a messa, ma di renderli felici e di aiutarli a conoscere la vera fonte della felicità che per noi è il Signore della vita, Gesù. Desideriamo avere a messa giovani felici, che celebrano con noi la gioia di una vita bella riscoperta anche con fatica, anche dopo tutte le balordaggini in cui vengono facilmente intrappolati.

    6. Ogni pastorale giovanile è convergenza di carismi, di qualità, di doni, gamma diversificata di provocazioni, proposte, spinte, competenze e intuizioni; il soggetto è la Chiesa, lo spazio di azione e di collaborazione il mondo.
    Sentiamo irresistibile il desiderio di condividere con altri questa passione. Da soli non riusciamo nemmeno a immaginare di essere in grado di rispondere a noi stessi, alle provocazioni di tutti, alle nostre crisi quotidiane, alle nostre pigrizie, alle lune che ci assalgono periodicamente, ai nostri stupidi abbarbicamenti agli orsacchiotti di pelouche, che ancora popolano le nostre stanze. Sentiamo il bisogno di metterci assieme tra giovani, adulti, ragazzi, educatori, preti, suore, genitori… nessuno è autosufficiente nel sostenere il rischioso mestiere di vivere.

    Le strategie [1] più condivise

    1. Annuncio, prima che catechesi

    Il fragile rapporto con la Chiesa di tanti giovani più o meno praticanti, l’insignificanza che riveste per molti la fede professata, esige un impegno di “primo” annuncio. La media delle nostre comunità cristiane è capace di offrire buoni spazi di formazione a chi cresce legato quasi naturalmente alla vita della parrocchia. È il caso della catechesi settimanale, dei gruppi di oratorio, di Azione Cattolica e di altre associazioni, dei gruppi di adolescenti e di giovani. La fatica dell’educare è sempre grande, ma con un buon impianto progettuale e una conversione della comunità si possono ancora crescere bene dei cristiani. Non sono d’accordo con chi butta a mare tutta l’attività educativa delle nostre parrocchie, dei nostri oratori e delle nostre associazioni. La nostra debolezza però si evidenzia quando dobbiamo fare proposte a cristiani che vengono a chiedere di ricominciare a vivere la fede. I giovani, almeno la maggior parte li colloco in questa categoria. Per loro non siamo sufficientemente attrezzati. Si direbbe che facciamo ancora una pastorale di conservazione e non di missione. Già nella comunità cristiana esistono esperienze di movimenti che affrontano questo tema, ma senza “tirarsi dietro” la comunità cristiana, creando cioè delle appartenenze parallele.
    Non siamo all’anno zero circa l’attenzione ai non praticanti. Esistono parecchie esperienze già avviate a livello parrocchiale e interparrocchiale, che vanno dalla assolutizzazione del primo annuncio, alla rinnovata evangelizzazione, alla attenzione progettuale agli adulti per una fede adulta e pensata in occasione della iniziazione cristiana dei bambini, alla proposta radicale di alcuni movimenti. L’Azione Cattolica stessa, che è una associazione di base, appassionata all’esperienza diocesana e parrocchiale sta studiando modelli formativi che vadano oltre la catechesi e che si sporgano sul versante della prima evangelizzazione.

    Scelte indispensabili e possibili

    * Lui, lo possono incontrare.
    Ogni uomo cerca sostanzialmente di essere felice. Tutti vogliono stare bene. Se c’è qualcosa che interessa a tutti è di poter essere contenti, di dare risposta a tutte le domande che salgono dall’esistenza, dal mangiare al bere, al sentirsi di qualcuno, alla soddisfazione dei propri desideri o istinti. La vita è un gioco di domande, di esigenze, di desideri, di passioni, di sete e di fame di qualcosa, di sogni e di visioni positive per la propria vita. Si inizia da bambini con un forte istinto della sopravvivenza, poi si cresce con l’istinto della conservazione e della identità, poi si comincia a ragionare e si diventa più esigenti, si scopre che la nostra umanità non ha bisogno solo di soddisfazioni materiali, ha bisogno di progetti, di relazioni, poi nelle relazioni scoppia l’amore che scombina tutti gli altri desideri e crea una nuova unità, una nuova idea di felicità e così si continua.
    Ma, “la vita non è una nave tranquilla che scivola da sola verso il porto della felicità. Su di essa in ogni momento siamo impegnati noi come timonieri, con la responsabilità di definire la rotta. A noi tocca decidere quale esperienza fare dell’amore, come affrontare i giorni della solitudine, che tipo di felicità ricercare, che senso dare ai nostri insuccessi, come investire le nostre qualità a favore della vita di tutti, che direzione dare all’economia, alla scienza, alla politica. Anche quando incrociamo le braccia e ci lasciamo portare dalla corrente, non smettiamo di essere noi i responsabili della nostra vita. Tante persone ci possono aiutare, nessuno ci può sostituire nel rischioso mestiere di vivere[2].”
    Molti hanno incontrato Gesù e si sono lasciati affascinare da Lui. Qualcuno ha fatto il Nicodemo, è andato di notte da lui. Era assillato da domande profonde sulla vita. Incapace di trovare qualcuno che lo aiutasse, molto chiuso nella sua posizione sociale, da non osare mettersi come tutti alla ricerca. Nicodemo non riesce più a tenersi dentro tutto; è stufo marcio, non ce la fa più a vivere da solo e va da Gesù.
    Dove sta il segreto della vita? Come posso avere vita piena? C’è ancora una possibilità di non lasciarci morire il cuore? A chi posso alzare lo sguardo per avere davanti qualcosa, qualcuno per cui vivere? La vita è proprio fatta di continui adattamenti? Mi hai messo in cuore un desiderio così grande e non mi posso adattare alle luci artificiali. I laser che vedo penetrare la notte, indicano con precisione una direzione, ma si perdono nel nulla. C’è qualcuno che sa puntare il laser non solo nella direzione giusta, ma anche su un obiettivo giusto?
    Ma che direzione indica il laser di Cristo? Indica la croce. Sembra un controsenso, ma se guardi alla croce trovi la strada della vita. Se nei tuoi sogni appare la croce, non cancellarli stanno diventando realtà.
    A queste parole i due pellegrini di Emmaus non avevano fatto molto caso e credevano che dopo aver scoperto Gesù, dopo aver provato entusiasmo per Lui, la strada sarebbe stata in discesa. Invece Lui l’hanno fatto fuori come tutti i loro sogni. I giovani sanno solo sognare, per loro è una condizione essenziale per rendere sempre più umana la società. In una società disillusa e scettica che non crede ai sentimenti, che educa al narcisismo, che punta tutto sul successo e sulla carriera, qualcuno crede ancora all'amore, al voler bene.
    Hanno con sé telefonini con cui si mettono in contatto con tutti gli amici lasciati a Gerusalemme. Ogni tanto lanciano un messaggio a Giovanni, il più giovane degli apostoli, che li informa di tutte le novità che compaiono in Internet, alla TV. Il cellulare continua a rimandare lo stesso messaggio: nella tomba non c’è più, le donne insistono nel dire che l’hanno visto, ma chi ci crede?
    Tra un messaggio e l’altro si aggiunge al loro cammino un pellegrino un po’ strano. Colto, comunicativo, attento, curioso. Hanno le cuffie e il walkman, hanno registrato tutto di Gesù con il loro DM1 e gli fanno ascoltare le parole che li aveva entusiasmati. Lui ascolta si toglie le cuffie, loro spengono il cellulare e si appassionano alla sua pazienza nell’aiutarli a capire il significato della vita. Si scalda loro il cuore. La parolaccia più brutta, che non avevano mai voluto dire e che ora continuano a ripetere brucia dentro le loro anime. Non si deve più dire “ormai”. Basta usare l’imperfetto. Che è questo speravamo?

    * Riconsegna della nuova vita intuita alla propria coscienza verso una comunità abitabile ancora prima che accogliente.
    Il tratto fondamentale della proposta è di riconsegnare alla dignità della coscienza del giovane una risposta credibile alle domande della vita, un incontro personale con il Signore, una riconduzione di ogni riflessione alla personale capacità di accogliere, far diventare propria, oltre ogni appartenenza di comodo o copertura di altri. In questo momento la comunità deve essere abitabile, non invasiva, attenta a creare condizioni, non a soffocare, a togliere libertà di ricerca, a massificare. Ogni cammino di nuovo incontro con Cristo, soprattutto dopo una appartenenza alla chiesa nella fanciullezza piuttosto sociologica e poco personale, da cui ci si è allontanati e che non si vuol più ritrovare, deve far emergere il massimo di attenzione alla libertà della persona, una nuova ricollocazione nella Chiesa da persona responsabile, all’altezza della nuova posizione sociale e relazionale che un giovane si è nel frattempo creato. A questo riguardo l’esperienza associativa è molto adatta, direi necessaria a creare corresponsabilità, spazi di crescita e di santità esigenti, attenzione al cammino particolare di ciascuno. La comunità cristiana di base ha bisogno di articolarsi in termini di responsabilità di spazi di crescita, che vedono nel presbitero la guida, ma non il “proprietario” del cammino di crescita.

    * Radicalità e trasgressione, come proposta esigente e che contrasta con il politicamente corretto. È necessario vincere a tentazione di fare sconti, di ridurre al minimo, di adattare, sia nel proporre il vangelo, sia nel presentare la vita sacramentale, sia nell’indicare le grandi mete, sia nell’offrire passi calibrati per raggiungerle, sia nel proporre la bellezza della vocazione al matrimonio, sia nell’offrire spazi di ricerca e di decisione per la verginità per il Regno, sia nel chiamare al servizio esigente della carità, sia nel proporre impegni e responsabilità sociali. Occorre sporgersi verso visioni utopiche della vita, la chiesa deve imparare a sognare di più con gli uomini d’oggi come ha fatto Cristo. Il Papa ce lo ha riconfermato. Il sogno è il primo approccio alla radicalità delle scelte. La radicalità è imparentata con la trasgressività, cioè con quell’atteggiamento che soprattutto il giovane prova nel sentirsi quasi braccato dalla vita, dall’adulto, dalle strutture, da volerle infrangere per desiderio di libertà, di vita più autentica. È un atteggiamento che spesso non è capito, sotto cui si nascondono anche debolezze e ingenuità, ma va colto nella sua tensione positiva, capace di ridare al vangelo la sua forza dirompente, che spesso nella vita concreta è stata mortificata. In questo senso Gesù è un “trasgressivo”, un giovane che non si adatta all’idea di Dio che i benpensanti del tempo imponevano, al tempio come borsa valori, all’uomo come strumento della legge e non soggetto di un dialogo con Dio. Tante decisioni controcorrente di Gesù sono apprezzate dai giovani, come boccate di ossigeno in una società del politicamente corretto.
    La categoria del sogno è forse la più indicata nell’aiutare un giovane, soprattutto nella fase adolescenziale per aprigli nuove prospettive. La proposta religiosa è più legata al sogno, alla poesia che alla pura razionalità. Il sogno è sinonimo di libertà, di intuizione, di vedere prima e lontano, di tenacia contro ogni avversità o difficoltà, di non adattamento, di superamento della gravità dell’essere, di superamento dei paletti, di speranza, di vocazione, di progetto, avere la bocca fino alle orecchie dalla meraviglia, l’amore e le sue sorprese.

    * L’annuncio deve avere la dignità di tutti i linguaggi e gli spazi del suo vivere.
    I modi comunicativi ed espressivi dei giovani sono molteplici: musica, arte, poesia, linguaggio della corporeità, sport, natura, immagini, sequenze narrative, relazioni amicali, affettività, ritualità, razionalità, studio, ricerca, servizio, sogno… Sono altrettante strade che devono essere abitate, aiutate a esprimere il meglio di sé anche nella esperienza religiosa.
    Ogni luogo è adatto ad essere teatro o scenario dell’annuncio e ciascuno con la sua modalità specifica e la sua originalità.

    * I momenti più decisivi della vita del giovane, ambiti privilegiati di proposta cristiana.
    Elenco qui di seguito alcuni momenti tipici della vita di un giovane che possono essere anche le esperienze più interessanti in cui incarnare l’annuncio:
    - la ricerca di lavoro: rimettergli in mano le decisioni della vita e offrire motivi di speranza.
    L’esperienza del periodo di incertezza per il proprio futuro vede il giovane piuttosto adattato al consumismo, incapace di osare, in attesa degli avvenimenti. È il periodo più felice per aiutarlo a prendersi in mano la vita;
    - la vita affettiva e la decisione di costruire una famiglia: offrire linee di sicurezza e una visione più profonda del vivere.
    La prospettiva del matrimonio è occasione di grande ripensamento del proprio vivere. La lenta transizione all’età adulto è più segno di una difficoltà che acquiescenza all’andazzo generale o decisione di non impegnarsi. Il fatto religioso è visto come una chance nuova nella propria progettualità;
    - il confronto con il limite e la finitezza della vita.
    L’esperienza del dolore e della morte è fin troppo presente nel mondo giovanile, ma manca assolutamente la capacità di elaborare il dolore. L’esperienza di fede non è un risposta automatica, ma ha qualcosa di importante da dire al riguardo;
    - la solitudine e la novità in nuove situazioni di vita (emigrazione per lavoro, per studio…).
    Esistono momenti nella vita di un giovane in cui perde le sue fasciature, le stampelle su cui si reggeva. È costretto a uscire dal branco e ad affrontare la vita da solo. Spesso questo tempo si consuma nella solitudine, che può diventare l’anticamera della disperazione o l’inizio di una vera formazione della coscienza;
    - l’impegno per le situazioni di bisogno, povertà, solidarietà (volontariato).
    Molti giovani acquisiscono profondità di riflessione a contatto con il bisogno degli altri, assunto come misura anche solo di una stagione della propria vita. È un momento privilegiato di invocazione anche religiosa.

    2. Contemplazione, prima che etica

    La fede cristiana è contemplazione o è azione? È stare a pregare, fare belle liturgie o rimboccarsi le maniche, sporcarsi le mani per cambiare il mondo? È sentirci rapiti in estasi, magari ascoltando musiche che hanno il potere di tirarti fuori dal caos in cui vivi o è buttarsi dentro ancora di più per fare ordine al caos e renderlo abitabile per tutti?
    Sono domande che hanno percorso la storia della vita cristiana. Le hanno proposte anche a Gesù in una maniera inconsueta, non all’interno di una disputa di studenti della legge, ma nell’intimità di un’amicizia. Marta e Maria erano due sorelle che accoglievano spesso Gesù al ritorno dalla sua predicazione; abitavano poco fuori di Gerusalemme. Gesù aveva bisogno di sentirsi tra amici, di gustare la bellezza di una accoglienza.
    Marta dice: c’è qui Gesù: chissà come è stanco, quanta voglia avrà di riposare, di mangiare qualcosa. Voglio che si senta proprio a suo agio in casa mia. E si da’ da fare: rassetta, prepara, pulisce, riordina. Diventa il centro di una organizzazione.
    Maria dice: finalmente c’è qui Gesù: avrà bisogno di compagnia. Io ho bisogno di lui. Quando passa di qua non è mai sufficiente il tempo per stare a sentirlo, a guardarlo, a intuire e lasciarmi invadere dalla sua bontà, dalla sua calma, dalla sua pace e serenità.
    Seduta ai piedi di Gesù, dice il Vangelo, ascoltava la sua parola. Certo star lì ad ascoltare non riempie nessun piatto, non rende nessun servizio di ospitalità. Le due sorelle hanno concezioni diverse della vita. Gesù puoi dirimere la questione? Puoi dire a Maria di darsi una mossa, puoi farle capire che Dio lo si ascolta impegnandosi per gli altri?
    Marta, Marta ti agiti e ti fai tirare di qua e di là da tutto; senza badarci con la tua agitazione occupi tutta la scena, ti metti al centro, sei tu che detti a me le condizioni della mia visita, che centri tutto attorno alle tue esigenze. Tanto Maria che io dovremmo badare a te!
    Il problema non è contemplazione o azione, ma chi è il centro della vita. Maria ha scelto Gesù.[3].

    La fede deve dare gusto al vivere

    Gesù è prima di tutto vita in abbondanza, ha preso sul serio i bisogni dell’umano, il desiderio di star bene con la propria corporeità, con la propria mente, nel vasto mondo delle relazioni, nelle esperienze affettive. Sa che cosa c’è nel cuore dell’uomo, il suo desiderio di sentirsi riconciliato con il proprio essere profondo, spesso frantumato, senza che tutto questo sia frutto di un merito, ma solo per bontà e tenerezza. Gesù conosce il bisogno del cuore dei giovani. Allora la missione prima della comunità ecclesiale è esistenziale prima che kerigmatica, deve andare al cuore della vita prima che pronunciare assiomi.
    Evangelizzare non è ricondurre a delle credenze, fare entrare in un sistema, ma dare pace alla vita complessiva nella sua globalità, così da poter dire: “va in pace”. Queste parole le abbiamo costrette a fare da conclusione ai funerali, ma sono invece il mandato di ogni giorno per ogni uomo.
    La domanda che i giovani di oggi hanno di Cristo esige che ci siano testimoni veri che non recitano, ma che raccontano che portare lo zaino della vita, non da eroi, ma in compagnia di un Salvatore:
    - non è una assicurazione contro gli infortuni, ma toglie sicuramente dalla disperazione;
    - non sazia, ma al contrario scava ancora più in profondità dentro la fame e la sete;
    - non fa del cristiano uno che ha qualche merito in più nell’amore, nell’essere cittadino, nel comportamento, ma un povero diavolo che si rimette in sella solo perché si sente un povero diavolo, guarito dal sogno della autorealizzazione.
    In una società del merito, Cristo è la chiave di volta del sentirsi figli di Dio e del vivere da fratelli. È insomma il richiamo a dare alla fede la caratteristica della contemplazione. Siamo chiamati ad offrire il gusto della vita con la stessa forza e impegno con cui proponiamo l’amore tra i fratelli. Questo esige di vivere al cospetto di Gesù, prima di inventare regole.
    Gesù non è un talismano o qualcuno che dobbiamo mettere sulla bilancia per vedere che vantaggi mi possono venire dalla fede in lui, dalle preghiere, dalla vita cristiana.
    Qualche sparata giornalistica supportata da ricerche ancor più serie ci avverte che la preghiera fa bene al cuore, che se vai a messa tutte le domeniche abbassi la percentuale di morte per infarto, che chi segue un codice morale ha più salute. Abbiamo proprio ridotto la fede in Gesù alla pubblicità di un prodotto: ti allunga la vita.
    Ma Gesù è bello perché è lui, è affascinante perché è lui. Non è un talismano portafortuna, non è una vetrina da rompere in caso di incendio o di pericolo, non è strumentale a nessuna nostra piccola o grande pretesa. Si può star bene anche senza andare a messa alla domenica, si può essere buoni anche senza essere cristiani, si può campare fino a cent’anni senza pregare, si può vivere di ingiustizia tutta la vita e farla franca.
    Ma la bellezza di Gesù è un’altra cosa, il suo amore è al di sopra di ogni immaginazione, la gioia che dà non è paragonabile a nessuna cosa al mondo, la sua Parola è una spada che penetra in profondità, la sua vita è pienezza, i suoi sogni sono l’eternità, il suo sguardo è forza, i suoi sentimenti una compagnia, il suo volto è uno squarcio di cielo, le sue mani sono sostegno.

    Giocandosi non il superfluo, ma il necessario

    La vita è proprio un fiume lento che scorre, al centro ci siamo noi, una barca portata dalla corrente. Non è detto che vada automaticamente verso il porto della felicità, anche se la direzione è quella. Ogni barca segna con la sua stazza le onde, colora il fiume, gli obbedisce, ricama con originalità il suo percorso, si aggrega, si accompagna o cozza contro le altre. È una festa o una battaglia, una regata o un ingorgo a seconda della volontà di convivere o di dominare.
    Sulla sponda di questo fiume mi piace pensare Gesù, che dopo aver fatto anch’egli il suo percorso nel grande fiume della vita sta a guardare le nostre vite che scorrono.
    A Gerusalemme, Gesù un giorno siede a guardare un fiume di persone che passano davanti al tesoro del tempio. È un punto obbligato. Quando vai alla presenza di Dio non puoi andare a mani vuote; certo porti te stesso, ti vai ad affidare a lui. Sai che la tua vita è nelle sue mani, hai un cuore, una intelligenza, un progetto: lo metti lì perché lui ne sia il custode, ma vuoi esprimere questo dono, questo amore con un segno. Davanti al tesoro passa il ricco commerciante di pecore: ha guadagnato molto e non può non far cadere nei grandi vassoi monete d’oro sonanti: è una sorta di investimento per i prossimi commerci o contratti. Arriva l’esattore delle imposte, firma un assegno e lascia cadere in maniera visibile: tutti devono vedere ondeggiare questa ricca “piuma” di soldi che va ad arricchire il tempio; arriva l’agricoltore che ha da poco venduto il raccolto e fa risuonare anche lui le sue monete. Arriva l’industriale, ha un codazzo di televisioni, che lo riprendono nel gesto solenne di aprire un portafoglio; tutti devono vedere: lui lo fa solo per dare esempio. La gente ha bisogno di immagini sane, di fotografie esemplari, di vedere dove sta e chi è il benefattore. Prima di andar via lascia una piccola lapide, a perenne memoria.
    Nel trambusto spunta una vecchietta, le televisioni spengono i riflettori, fa due o tre passi incerti e lascia cadere due spiccioli: non si vedono, non fanno rumore, nessuno li nota: per lei sono tutto quello che ha e lo dona a Dio, lo mette a sua disposizione. È povera, è sola, non ha futuro: il suo solo futuro è Dio, la sua vita è tutta in lui e per lui. Domani? È nelle sue mani. Dio non le farà mancare niente.
    Gesù è li che guarda, non s’è lasciato incantare dalle televisioni, dal numero di zeri, dalle cifre dei ricchi, dal suono ammaliante dell’oro. Di fronte a Dio non ci si fa rappresentare dal superfluo, ma solo dal necessario. Non vuole stabilire un contatto con le tue cose, ma con te. Non devi fare offerte, ma essere una offerta.

    3. Comunicazione e relazione, prima che trasmissione e organizzazione

    In genere quando si parla di linguaggi relativamente a cose di fede si pensa di essere giunti finalmente alla concretezza e quindi alla soluzione del problema. Il ragionamento è di questo tipo: oggi è difficile parlare di fede ai giovani, la fede è questo e quest’altro, noi ci siamo convinti che bisogna tornare a proporla e ci siamo preparati, ora c’è il problema del come, cioè dei linguaggi. Ridotto così il problema sembra a quello che deve affrontare una mamma quando deve far ingoiare la medicina al figlio. Gli fa solletico sotto la gola, quello apre istintivamente la bocca e lei, con un guizzo felino, gli infila in bocca una cucchiaiata di medicina. La trasmissione della fede purtroppo è ancora vista secondo il modello idraulico della bottiglia e dell’imbuto e i linguaggi sono questione di imbuto o dintorni. Proviamo a dare invece alla parola trasmissione, piuttosto infelice come termine nella cultura contemporanea, il significato di un grande dono che Dio, tramite la comunità cristiana, fa ad ogni giovane e a non caricarlo di nessuna valenza metodologica. Il problema dei linguaggi si colloca correttamente tra due domande importanti che ci si devono fare sempre: che cosa offre di grande, di determinante, di significativo la Parola di Dio alla vita del giovane? Che cosa offre di bello, di concreto, di genuino, di nuovo la vita del giovane alla Parola di Dio perché possa farsi carne nella sua vita? Oppure anche che cosa offra di desolante perché possa trovare purificazione e salvezza? È evidente che se la Parola è vista come non importante o significativa per la vita di un giovane la ricerca dei linguaggi è la banalizzazione, l’adattamento alle mode, la ricerca di indice di gradimento, la selezione di quello che secondo l’educatore si pensa che interessi al giovane. Se invece la vita del giovane è vista solo come un vuoto da riempire, un indifferente cui non interessa minimamente la bellezza di Gesù, un materialista che sa solo affogarsi nel cibo o nello sballo, uno che si appiattisce nel presente, senza una minima capacità di sogno o di domanda allora il linguaggio deve rimanere difficile, in un certo senso punitivo, ma soprattutto selettivo e impositivo.
    Dopo aver contemplato a lungo il volto di Gesù, dopo aver dato con grande impegno alla nostra vita una dimensione mistica, dopo essersi lasciati cambiare da Dio, il passo successivo è di leggere tutto quello che nella vita del giovane è offerto alla grazia di Dio come strumento di comunicazione. Questo lo posso dire linguaggio.
    Allora colgo che i giovani sono innamorati della bellezza e vedo nel linguaggio artistico una grande possibilità di cui l’Italia è largamente dotata. Ogni comunità cristiana ha i suoi volti di Cristo su cui le generazioni che ci hanno preceduto hanno puntato sguardi di gioia, di paura di implorazione, ha le opere che hanno detto la semplice fede e la stessa conversione in essi provocata. Il campo dell’arte è molteplice, va dalla pittura, alla scultura, al teatro, al film, alla musica, alla danza, alla espressione artistica della corporeità. I giovani amano la musica, la musica è un veicolo di contenuti, di esperienze, di modi di pensare e vivere, di messaggi profondi e coinvolgenti. I giovani la usano sempre per esprimere la loro vita, la potrebbero usare per esprimere la fede, purché non sia sempre aborrita, ignorata, disprezzata, ma accolta e promossa con discernimento.
    I giovani sanno sognare, coi loro sogni sanno pensare un futuro diverso, non è vero che sono appiattiti sul presente. Hanno il dono della immaginazione e l’immaginazione crea in loro visioni di umanità più giusta, più solidale. Se l’adulto non confondesse la trasmissione della fede con il tenere i piedi per terra, ma con la capacità di intercettare i sogni di Dio, avremmo a disposizione un altro linguaggio, imparentato con le vite dei santi, con i gesti coraggiosi controcorrente di Gesù e di tanti che lo hanno seguito.
    I giovani esprimono una forte accentuazione personale della fede, non diventano cristiani per tradizione o per trattamenti di massa. La personalizzazione non è l’anticamera del relativismo, ma della formazione della coscienza.
    I giovani riescono a dare sentimento anche al ghiaccio, a strappare emozioni anche dalla disgrazia. La strada dei sentimenti e delle emozioni non è opposta al linguaggio della fede.
    I giovani hanno una forte sete anche di razionalità, non vanno abbandonati al fondamentalismo o al “se ci stai bene, altrimenti libero di fare quel che vuoi”. Alla componente razionale della fede non si arriva soprattutto con lezioni, ma con il linguaggio della scelta educativa.
    Il linguaggio della radicalità è quello che il papa usa più spesso. Non fare mai sconti sul vangelo, soprattutto se chi lo annuncia si fa misurare ogni giorno da questa buona notizia.

    4. Missione, prima che sicurezza, e non conservazione

    Diceva il Papa ai giovani di AC: “Voi stessi siete i testimoni singolari di questo nostro tempo in permanente evoluzione: il mondo giovanile, i vostri amici, gli ambienti nei quali vi muovete sono in continuo cambiamento. Impegnatevi, perciò, a comunicare il Vangelo in questo contesto di mutamenti profondi, imparando a "superare i confini abituali dell'azione pastorale, per esplorare i luoghi, anche i più impensati, dove i giovani vivono, si ritrovano, danno espressione alla propria originalità, dicono le loro attese e formulano i loro sogni".[4] Da soli è difficile, insieme si può: è proprio questo il sostegno che può giungervi dalla vostra Associazione”.
    A Castelgandolfo il 27 agosto 2000 aveva detto: “Abbiate premura anche dei tanti giovani che non frequentano la comunità ecclesiale e che si riuniscono sulle strade e nelle piazze, esposti a rischi e pericoli. La Chiesa non può ignorare o sottovalutare questo crescente fenomeno giovanile! Occorre che operatori pastorali particolarmente preparati si accostino ad essi, aprano loro orizzonti che stimolino il loro interesse e la loro naturale generosità e gradatamente li accompagnino ad accogliere la persona di Gesù Cristo”.
    Se guardiamo le forze che una parrocchia o una associazione o un movimento o un gruppo hanno si direbbe che non è il caso di aggiungerne altre. Talvolta però vediamo che rimaniamo sempre in meno. È possibile progettare una iniziativa di missionarietà all’anno fatta assieme, dove si possono unire le forze eccezionali di tutti per fare un servizio nuovo, una cattedra per i non credenti, un percorso di fede del tutto originale in occasione della preparazione al matrimonio che dura un anno, una attenzione agli studenti che vagano in città tutto il pomeriggio in attesa del bus per tornare a casa, un informagiovani sul lavoro, sulla ricerca di alloggi, dove le persone vengono incontrate non schedate, sulla musica come linguaggio espressivo di sé, sulla conoscenza seria della Parola di Dio, magari via Internet, sulla possibilità di offrire un giudizio morale sui fatti più importanti e shoccanti che capitano?
    Difficoltà: ma noi dobbiamo prima formarci! Occorre far diventare formativo questo tragitto, a partire dai punti di vista originali che ogni associazione si porta dentro.

    - Ripensare figure nuove di animatori o operatori di pastorale giovanile.
    Non solo per provocare, ma perché ne sono convinto, io abolirei tutti i corsi per animatori di gruppo e li chiamerei corsi per animatori tout court, senza portafoglio. È troppo comodo pensare di finire in un gruppo e isolarsi lì a fare l’educatore: i luoghi di ritrovo dei giovani sono sfidati a diventare i nuovi spazi educativi. Se lì costruiscono i loro ideali, maturano le loro scelte, rispondono alle loro domande anche profonde, con spontaneità, possibilmente lontani dagli occhi degli adulti e di qualsiasi organizzazione, è importante che giovani e adulti che abitano questi spazi siano all’interno di essi capaci di offrire ragioni di vita e di speranza, farsi punti di riferimento informali. Non si fa un buon servizio ai giovani come comunità cristiana se prepariamo solo animatori di gruppo. Se i giovani che si vogliono incontrare non sono solo nei gruppi e nelle associazioni, ma sono anche quelli delle piazze e dei pub, della strada e del muretto, della festa e dell’incontro straordinario, dello spazio di aggregazione (leggi: oratorio o centro giovanile) e dello sport, del giorno e della notte, se si è allargata l’esperienza di contatto deve moltiplicarsi anche la figura dell’animatore. Si deve andare in cerca di una nuova generazione di animatori che non sognano immediatamente di “finire” in un gruppo, ma che devono star vivi su tutto il territorio, se vogliono intercettare i giovani e offrire loro ragioni di vita: si tratta allora di genitori, di professori, di professionisti (baristi, musicisti, cantautori, gestori di discoteca, giornalai), di religiosi e religiose, di presbiteri che vogliono riprendere a dialogare coi giovani, di assessori alle politiche giovanili, di datori di lavoro, di responsabili di associazioni professionali, di allenatori sportivi, di proprietari di palestre, di personale scolastico non docente, di operatori nel settore non profit, conduttori di consultori… Solo che il corso per animatori è ancora fermo a preparare giovani per l’animazione di gruppo.
    Sicuramente non si intende abbassare il tono di una proposta forte sia culturale che religiosa, non si intende fare il verso alle mode, nemmeno però pensare che tutto quanto viene dalla cultura della notte, dai muretti, dai concerti, dai pub in cui si fa musica dal vivo, da squadre di calcio, da compagnie del tempo libero, da gruppi e band musicali, da bande di motorini, da gruppi folcloristici sia tutta zizzania da evitare e da dimenticare quando si prega, quando si fa catechesi, quando si educa a rispondere con generosità alla vocazione al matrimonio, alla vita consacrata, alla vita tout court. In questa affermazione ci sta sia la necessità di un intervento educativo non formale, sia la consapevolezza che ogni discorso che si fa per intercettare i giovani sulle strade della vita quotidiana non può fare a meno di una struttura istituzionale alle spalle che da una parte prepara e sostiene l’azione.
    I nostri spazi aggregativi devono diventare ambienti di progettazione, di preghiera, di invio e di accoglienza assolutamente attenti e ben impostati. Se la parrocchia o il suo centro giovanile si impegna per gli spazi informali, non può essere uno spazio chiuso. Deve organizzarsi in maniera che la missione sia pratica quotidiana, sia scritta nel progetto delle sue attività. La missione cambia lo stesso stile interno dell’oratorio. I giovani che vanno oltre i confini devono poter contare su una parrocchia ben definita e viva, che li aiuta, li sostiene, crea interazioni con l’esterno, raccordi con il pubblico; devono avere alle spalle una comunità che prepara e accompagna.
    L’associazione può tentare anche qualcosa di più: essere ponte tra l’istituzionale e l’informale, cioè deve essere in grado di farsi spazio di aggregazione spontanea che vive rapporti con altri spazi aggregativi non ecclesiali e soprattutto con i giovani nei loro molteplici spazi.

    - Creare spazi di aggregazione ecclesiali per dialogare con i giovani.
    Richiamo l’intervento del Papa alla Chiesa di Albano: “Investite, dunque, valide energie pastorali a favore della gioventù, promuovendo luoghi di aggregazione dove i giovani, dopo aver ricevuto la prima iniziazione cristiana, possano sviluppare in un gioioso clima comunitario i valori autentici della vita umana e cristiana…”[5] Ai giovani di Roma, riuniti per la celebrazione della XVI GMG del 2001 in Piazza S. Pietro ha detto espressamente: “Rilanciate gli oratori, adeguandoli alle esigenze dei tempi, come ponti tra la Chiesa e la strada, con particolare attenzione per chi è emarginato e attraversa momenti di disagio, o è caduto nelle maglie della devianza e della delinquenza”.
    Da qui si deduce che una comunità cristiana non può offrire ai giovani solo l’aula della celebrazione eucaristica o di catechismo, non farebbe il suo dovere con i giovani di oggi.
    Certo, spazio aggregativo è prima di tutto non una costruzione, ma un tessuto di relazione e voi lo offrite anche molto bene, ma molti giovani non riescono a entrare nel vostro giro e invece si sentono di frequentare ambienti meno esigenti dal punto di vista affettivo, ma necessari per fare i primi passi di una scelta alternativa alla vita consumistica, allo sballo, alla devianza. La comunità cristiana deve poter essere una casa abitabile. Ridare volto accogliente e dialogico al vostro oratorio. È un vero spazio di aggregazione o una compagnia che permette solo a qualcuno di goderne?

    - Favorire interazioni con il territorio.
    Da qualche tempo la vita giovanile è oggetto di attenzione e di cura da parte di molte amministrazioni comunali, la stessa scuola si attrezza meglio per offrire spazi di aggregazione e progetti di formazione. In certe città le famiglie si aggregano per offrire spazi protetti ai figli preadolescenti. Alcune amministrazioni istituiscono Centri di Aggregazione Giovanile, centri sportivi…. Noi non possiamo tirarci fuori perché abbiamo il fine di evangelizzare. Il rapporto tra educazione ed evangelizzazione è molto stretto e nessuno è autosufficiente nell’offrire al giovane una visione globale della vita. Si tratta di partecipare ai tavoli di tutti, con la nostra identità, ma anche con la consapevolezza che dobbiamo offrire la nostra competenza educativa per far crescere giovani più consapevoli della grandezza della vita e capaci di rispondere anche alla domanda di Dio che si portano dentro, non per nostra iniziativa, ma perché Dio ce l’ha messa e nessuno la fa emergere.

    5. La figura di giovane credente che sogna la pastorale giovanile

    È possibile sognare che tipo di giovani sarà capace di formare una comunità cristiana che li accoglie così?

    Laici: giovani che credono in modo nuovo, da testimoni

    Sono giovani che non vanno collocati dentro una logica strumentale ai bisogni di una parrocchia, ma che sono provocati a verificare di continuo la qualità della propria esperienza di fede e non l’efficienza nell’assolvimento di eventuali funzioni. Sono chiamati a farsi carico della non–fede di tanti loro amici: dell’esplicito rifiuto della fede, ma anche della fatica di credere, delle domande che molti rivolgono alla fede e alla vita. Sono giovani che si prendono carico della propria stessa fatica di credere e della rigenerazione della propria fede: ogni giovane per primo infatti ha bisogno di una cura nuova per la propria fede, di mettersi davanti al mistero del Signore e al Vangelo in modo nuovo, ritrovando il sapore della fede e delle parole con cui la si può esprimere.
    In questa prospettiva allora la missione non è qualcosa di più o di diverso da fare; non sono in primo luogo nuove iniziative o nuove strategie, ma un modo nuovo di credere:
    - una fede che si comunica è qualitativamente diversa da quella destinata a rimanere nel chiuso della mia vita;
    - una fede che si comunica non sopporta compiacimenti narcisistici, ma ha al proprio interno, come tratto costitutivo, l’attenzione all’altro;
    - una fede che si comunica deve vigilare sul proprio carattere gratuito: “avete ricevuto gratuitamente, date gratuitamente…”. Dobbiamo condividere per gratuità, vigilando sul rischio che la missione si trasformi in quell’esperienza mondana di portare gli altri dalla propria parte, di convincerli per rendere più forte il proprio punto di vista…;
    - una fede che si comunica si pensa sempre in relazione: all’altro, oltre che a Dio. Dunque una fede che fa i conti con le domande; con i bisogni, con i dubbi… dei nostri fratelli. Per farsi comunicabile, conosce la fatica della ricerca di pensieri, di categorie culturali, di parole… adatti a creare la relazione; per rendersi comunicabile, si mette in relazione con le domande; e nel rispondere alle domande, si ridefinisce. Credo che si possa dire anche per la fede: essa cresce con chi la interroga; cresce con chi la condivide; si fa più ricca con chi la pensa; si fa via via più capace di dire il cuore di Dio a un’umanità che si lascia illuminare dal Vangelo. Non annunciamo la fede che abbiamo, ma abbiamo la fede che annunciamo.

    Giovani laicamente maturi

    Maturi nella loro vocazione e nella consapevolezza di essa; laici capaci di spendere la maturità della loro fede nei loro normali ambienti di vita e dunque voce della loro comunità dove la comunità con le sue strutture non può giungere. Certo se la parrocchia, nella persona del parroco, si sente missionaria solo delle attività che riesce a tenere sotto il suo stretto controllo, allora questa missionarietà dei giovani laici la farà sentire impotente e inefficace. Ma se una comunità ha imparato a credere che ciò che si realizza non è solo quello che passa attraverso la strutturazione delle proprie attività, ma attraverso la maturità della fede dei propri figli, attraverso la loro capacità di condividere il cammino di vita e le inquietudini delle persone di oggi, attraverso la capacità di parole semplici e quotidiane pronunciate davanti alle situazioni e agli interrogativi della vita… allora questa comunità ha enormemente ampliato le sue possibilità missionarie, le ha moltiplicate, ha posto accanto alle persone che fanno parte della comunità senza saperlo o senza volerlo la forza di fratelli che sanno camminare a fianco. Questa è la forza di una comunità missionaria, di un comunità di oggi.
    Una parrocchia che affida il suo essere missionaria alla maturità di fede dei suoi giovani laici è una comunità che allarga indefinitamente le proprie potenzialità missionarie: è un comunità che può raggiungere le famiglie; gli ambienti di lavoro; gli spazi della cultura, della vita amministrativa, della scuola, del tempo libero, della stessa trasgressione e sballo. Che cosa dà consistenza ad un comunità così? Il credere che il suo tesoro è la fede dei suoi figli più giovani molto più e prima delle proprie iniziative; il costruire dei momenti di unità in cui sia possibile raccontare la bellezza e la fatica di questa testimonianza solitaria e dispersa nel mondo (anche i discepoli, dopo essere stati inviati, tornano e raccontano a Gesù che cosa hanno fatto, che cosa è accaduto, com’è andata la missione…); il ritrovarsi attorno all’Eucaristia domenicale come attorno al cuore del proprio essere Chiesa. E questo ovviamente chiede di verificare la qualità delle celebrazioni della domenica.
    Giovani così non hanno bisogno solo di scuole, ma di una esperienza continuativa di riflessione e di partecipazione, hanno da sperimentare la disciplina di un confronto comunitario, devono essere attivati a guardare alla realtà dall’angolatura di ideali ispiratori, dalla esperienza di comunione semplice tra amici, in una associazione o in un movimento.

    Giovani laici che vivono la fede in un territorio

    L’esperienza associativa è assolutamente necessaria per creare responsabilità in proprio e per decentrare, destrutturare la parrocchia verso la vita della gente nel territorio, oggi, soprattutto che il territorio è diventato ancora più determinante per la vita anche di una piccola comunità. Per territorio non si intende solo l’insieme degli spazi geografici, ma il ricco mondo di relazioni che vi si sviluppa. Il termine territorio è troppo povero per esprimere il nuovo mondo di relazioni, le reti di interazione tra le persone e le istituzioni, i nuovi comportamenti della gente, dei ragazzi, dei giovani, degli adulti, gli spostamenti di persone e cose, i tessuti comunicativi, le sfide economiche che caratterizzano uno spazio geografico, umano e spirituale. Non si tratta solo di spazi geografici, ma di modi di vita, di mentalità. Le nostre parrocchie così come sono distribuite e organizzate in questo territorio non sono più in grado di rispondere al bisogno di Vangelo che c’è tra la gente e non riescono più ad essere quel segno levato tra le genti. L’impianto con cui la Chiesa fino ad oggi si è fatta casa di comunione, laboratorio della Fede, scuola di Santità, quale è la parrocchia, non regge a tale trasformazione, a meno che non nasca e venga preparato un laico diverso e un modo di vivere la comunione diverso. Le domande degli uomini sono tante e molto articolate, così che non è possibile rispondere a tutte e bene se non in una nuova comunione comunitaria. Non abbiamo bisogno di altro dalla parrocchia, ma una vita parrocchiale rinnovata, che non distrugge le piccole appartenenze, le comunità più piccole di cui è formata, ma le mette in una comunione evangelizzatrice. Questa operazione non è di tipo organizzativo, ma un vero ripensamento dell’essere comunità cristiana.

    Giovani che non hanno paura di diventare adulti nella fede

    Pensiamo ancora a giovani che non hanno paura di camminare verso quella maturità di fede che permette loro di stare in piedi da soli nei luoghi ordinari della vita; che permette loro quella maturità di dialogo per affrontare con le persone di oggi, con coloro che sono più chiaramente in ricerca… un dialogo aperto e credente sui grandi temi della vita. Credo che oggi una delle forme dell’evangelizzazione sia, oltre che quella della testimonianza della propria personale esistenza e della qualità della propria umanità, quella della capacità di dialogo sui grandi problemi della vita. Faccio qualche esempio: con un amico o un’amica che vive una difficile esperienza affettiva, la cosa più importante non è quella di saperle dire quali sono i principi della vita cristiana sulla sessualità, quanto piuttosto quella di fare una riflessione aperta, problematica… sul progetto di famiglia, sulle relazioni di coppia, sull’amore… senza ricorrere al linguaggio codificato dell’imparato a memoria, ma piuttosto ragionando in termini umani, sapendo narrare il proprio modo di credenti di affrontare le stesse situazioni… Questo richiede una competenza umana che solo un giovane che vuol diventare adulto o un adulto nella fede può avere; richiede una amicizia capace anche di assumersi la responsabilità delle sue posizioni nel momento in cui attraversa con l’altro le inquietudini della sua vita. Per noi che spesso abbiamo ricevuto le risposte senza esserci poste tante domande; per noi che abbiamo ricevuto le risposte del catechismo senza aver sofferto la fatica della ricerca… questo può essere oggi molto difficile. Ma questa è una delle più significative sfide per una fede di giovani laici impegnati e motivati ad essere missionari. Ma qui occorre chiederci: qual è la qualità della nostra riflessione sulla vita e sulla fede da giovani e adulti laici credenti di oggi. E se questa costituisce la chiave per entrare in comunicazione per le persone di oggi, io mi immagino una parrocchia che si impegna a preparare questi giovani, più che ad organizzare grandi iniziative missionarie alle quali parteciperanno sempre le solite persone, e forse anche meno delle solite! È necessario non dare per scontata la fede, non nel senso - anche, ma non solo! - che è necessario coltivare di continuo la propria vita cristiana, ma anche e soprattutto nel senso che occorre un modo nuovo, più problematico e più aperto, di dare profondità, maturità e attualità al proprio cammino spirituale alla propria esperienza di fede. Per tutti, una fede come ricerca, come impegno a mettere di continuo in relazione la fede e la vita quotidiana. Da questa ricerca di maturità e di fede adulta può nascere la decisione di consacrarsi a Dio per la missione, si scopre che è bello essere i sostenitori della fede della comunità.


    ESERCITAZIONI

    1. Fotografie del mondo giovanile

    Vengono qui proposte alcune fotografie che permettono di farci un’idea del mondo giovanile, sapendo che è fotografia da aggiornare continuamente e che quindi presto sarà obsoleta. In nota sono segnate le ricerche sociologiche più importanti, tra queste l’indagine Iard è interessante perché viene rifatta ogni quattro anni. L’intento è di offrire una sorta di schema di informazioni da tenere aggiornate, che in termini essenziali potrebbe essere il seguente:
    1. l’esperienza religiosa;
    2. il rapporto con la società;
    3. la sfida del decidersi per la vita, con tutte le risonanze interiori e le implicanze affettive;
    4. il rapporto con i media e le mutazioni antropologiche indotte;
    5. il mondo del lavoro come prospettiva.
    Confronta i punti di non ritorno della PG con questi elementi di analisi della loro vita.

    1. La domanda religiosa (personale, insindacabile, diffusa, presente, emotiva, educabile...). Il problema della esperienza di una fede “oggettiva”.
    Il quadro della religiosità giovanile degli italiani è abbastanza stabile[6] in questi 20 anni, anche se diminuisce di qualche punto la frequenza alle pratiche religiose. Siamo ancora all’80% di giovani che credono in Dio e che si rifanno alla esperienza del cattolicesimo, al 41% di pratica religiosa almeno una volta la mese, al 18% di partecipazione ad aggregazioni religiose. Poco meno della metà dei giovani cattolici partecipa a qualche attività parrocchiale.
    La cosa che forse emerge meglio è la estrema personalizzazione del rapporto con Dio e con il fatto religioso. Oggi, contrariamente a qualche decennio fa, i giovani sono tornati a porsi domande religiose. Non è imbarazzante per nessuno dire di credere in qualcosa, di avere una religiosità, di essere curiosi per il trascendente. Non si deve spendere tempo a dire che la religiosità è un fatto positivo per la vita. Non è ancora domanda di fede o di cristianesimo, ma apertura al desiderio di Dio che deve essere ancora educato per divenire esperienza del Dio di Gesù Cristo.
    La domanda religiosa non esige di avere riferimenti istituzionali per essere soddisfatta. Il che significa che fa parte del loro modo di sentire, è tollerata entro tutte le aggregazioni, è perseguita in tutti i modi possibili. I giovani rispondono all’impulso religioso cercando in tutte le direzioni, con la consapevolezza che è un diritto nativo non controllabile. Non si tratta del famoso “Cristo sì, Chiesa no”, quasi ci sia alla base un rifiuto positivo della istituzione, ma della coscienza di navigare in un campo, che, essendo spesso coinvolgente per la insistita e non facilmente eliminabile ricerca di senso, è ritenuto di competenza personale, privata, insindacabile e quindi appartenente alla vita “parallela” rispetto alla società, che ogni giovane si scava per il suo benessere. È una domanda che esige di essere orientata al Dio di Gesù Cristo, come è accolto nella Chiesa, la vera “oggettività” che si invoca. Non è necessariamente l’oggettività che invoca un mondo adulto preoccupato di relativismo e che non si accorge spesso di ritenere oggettivo solo l’ingessatura in cui ha bloccato il vangelo e la vita credente.

    2. La socialità ristretta e le comunità-gruccia.
    Le giovani generazioni danno peso sempre maggiore alle relazioni interpersonali, in particolare a quelle amicali e affettive e a quelle familiari. Non è da oggi solo che questa caratterizzazione fotografa il mondo giovanile, oggi si radicalizza anche in azioni il cui calibro non è la società, ma il piccolo gruppo. Esistono anche valori ideali, ma il luogo dove parlarne, lavorarci sopra è la cerchia ristretta delle relazioni interpersonali; si può fare qualcosa, ma l’ambito di maturazione dell’azione, di progettazione e di coinvolgimento è questa socialità ristretta. È più facile creare una rete di isole che un movimento di massa, una piazza di bancarelle di mercato che un corteo.
    Anche i giovani tendono a costruirsi delle comunità estetiche cui si desidera appartenere, sono comunità di anime solitarie, legate a eventi mondani occasionali o ricorrenti (concerti pop, mostre, partite…) o a problemi (perdita di peso ecc.). Sono una sorta di “comunità-gruccia”, cui le preoccupazioni individuali vengono momentaneamente appese, il cui tratto caratterizzante è l’assenza di responsabilità etiche e di impegni a lungo termine, con la sola presenza di “legami senza conseguenze” [Bauman 69-70]. È comunque una comunità liberamente scelta, da cui si può uscire in qualsiasi momento.
    Anche la vita ecclesiale non può passare indenne entro questa società dell’incertezza, entro questo sfilacciamento della società solidale. È utile domandarsi se la ricerca di comunità estetiche o comunità gruccia possa diventare un fenomeno che si sviluppa anche nella Chiesa. Si sta forse abbandonando un” welfare state” per la chiesa perché troppo oneroso in termini di santità per la vita del cristiano. Forse sta scomparendo nelle progettualità pastorali il laico “comune” che può vivere la sua laicità di alto respiro entro i percorsi della vita quotidiana e della appartenenza alla comunità cristiana tout court. La vita di comunità ecclesiale che si sogna rischia di essere solo quella funzionale ai miei obiettivi. Nel confronto dei giovani il discorso si fa subito concreto. Ci dobbiamo domandare se il bisogno enorme e evidente di figure educative viene soddisfatto solo entro piccole appartenenze che si sviluppano a favore di situazioni di disagio conclamato, o di riserve elitarie oppure se può realizzarsi dentro tutti gli spazi informali della vita dei giovani. Va inventato un welfare state dell’educazione. L’obiettivo di una comunità che crede nel futuro deve sbilanciarsi verso le giovani generazioni e formulare con la loro creatività e corresponsabilità comunità solidali di valori, aspirazioni, sogni, progetti di vita. La comunità più bella in cui possono sperare di approdare o di costruirsi è la comunità ecclesiale. Il nostro impegno è quello di rendere disponibile per il mondo giovanile l’esperienza di fede, non entro riserve confessionali, ma di renderla fruibile nei percorsi della vita quotidiana, culturale, artistica, poetica, musicale, letteraria, amicale, produttiva. Questo esige una coscienza di chiesa, non di gruppo, o di piccola appartenenza o di comunità gruccia.

    3. La lenta transizione all’età adulta.
    Se per passaggio all’età adulta si intende avere acquisito almeno questi cinque elementi: fine del percorso formativo, acquisizione di un lavoro, indipendenza economica dai genitori, creazione di una propria famiglia, esperienza della paternità o maternità, nel mondo giovanile di oggi tale acquisizione diventa ancora più lenta. Non è un fenomeno solo di oggi. È da tempo che si parla in Italia di famiglia lunga. Oggi però siamo in grado di chiarire che il fenomeno non è dovuto principalmente a mancanza di lavoro o di alloggio, o ad allungamento di percorsi scolastici, ma a un condensato di motivazioni psicologiche, sociologiche, famigliari, personali, di identità e di immagine di sé, che caratterizzano la nostra società[7] e che influiscono sulla decisione del singolo in termini di modo di pensare, di cultura. Non c’è uno slittamento globale di tutte le tappe, ma una vera dilazione anche tra l’una e l’altra. Per esempio non è detto che terminati gli studi o trovato il lavoro, l’indipendenza economica e abitativa si decida di fare la nuova famiglia.
    I passaggi sono più lenti tra gli scolarizzati; questo secondo me indica anche che tutto l’impianto formativo è separato dalla vita, dal gusto di vivere, dalla dimensione più umana e coinvolgente dell’esistenza, è astratto, è senza concretezza. Non è l’ignoranza che fa decidere di più di buttarsi nella vita, ma l’astrattezza che fa stare guardinghi e sfiduciati di fronte alle qualità della bellezza dell’esistenza.
    L’influsso dei genitori in questo prolungamento non è secondario, anzi è piuttosto complice.

    4. I due momenti decisionali della vita di un giovane: l’adolescenza e il 25° anno.
    Il sentimento prevalente di molti giovani è di sentirsi inadeguato col bagaglio che ciascuno ha ad affrontare la vita e di vedere sempre nell’adulto un giudizio impietoso che lo aspetta. Questo incide molto sulle decisioni che ciascuno deve prendere. Si sa che gli adolescenti vivono in maniera particolare e delicata la stagione delle decisioni in autonomia, la desatellizzazione dai genitori, la lotta per una propria autonomia e libertà. Proprio per questo si affiancano loro educatori, adulti, insegnanti, famiglia…. Oggi però non è detto che passata la classica età dell’adolescenza i giovani siano più autonomi e definiti. A mano a mano che i giovani crescono si sentono più sicuri emotivamente, ma crescendo aumenta una sensazione di solitudine che ha il punto critico sui 25 anni, dopo questa età aumenta il numero di coloro che sentono di non poter contare sull’aiuto di qualcuno, di non essere apprezzati. Potrebbe essere la volta buona per decidersi, ma questo avviene senza sentimenti di soddisfazione o di felicità.[8]
    Se uno intorno ai 25 anni non ha ancora deciso che cosa fare nella vita farà molta più fatica a prendersi responsabilità; chi invece ci è arrivato prima si sente più responsabile. È una sorta di punto di svolta dell’esistenza. Se a 25 anni il bilancio è negativo, aumenta la sensazione di essere poco capace, poco potente e aumentano i sentimenti di inadeguatezza. A questa età occorre ancora di più avere a disposizione adulti-guida. Sono giovani responsabili, ma soli.
    Senza assolutizzare il 25° anno, una cosa è chiara: dopo l’adolescenza esiste un altro periodo della vita che ha bisogno di una ulteriore presa di coscienza della propria responsabilità, che fa emergere la necessità di prendersi in mano la vita, che funge da salto qualitativo nel mondo delle decisioni e che sembra fungere da ultima spiaggia, almeno per una visione progettuale della vita. Spesso per i giovani coincide con il ritorno all’esperienza di fede o ecclesiale, sia per la fine degli studi universitari, sia per una eventuale decisione affettiva. La comunità cristiana offre una catechesi in gruppi stabili o è costretta a proporre una nuova evangelizzazione, perché non può contare anche su cammini ben fatti nell’adolescenza?

    5. L’identità in una società liquida con conseguenze nella iniziazione cristiana.
    In una società dell’incertezza, che si chiama anche società liquida, la prima sicurezza che ne risente è quella della identità per la costruzione della quale la fatica è improba. L’identità propria che ogni persona ha cercato di costruire a fatica, quando si vede che non è più spendibile o nel lavoro o nel campo degli affetti, diventa un peso e serve di più avere agilità per cambiarla, che forza di resistere. “ La principale e più snervante delle preoccupazioni non è quella di trovare posto all’interno della solida struttura della classe o della categoria sociale e, una volta trovatolo, di difenderlo e scongiurare lo sfratto; ciò che preoccupa è invece il sospetto che questa struttura faticosamente conquistata possa venire repentinamente lacerata o dissolta”[9]
    Se questo è vero, esiste una data che può dire conclusa l’iniziazione? Oppure dice solo che inizia un cammino di confronto progettuale con i dati di fede? Consegno il credo perché è una acquisizione definita o perché sia la traccia identificabile e progettuale di un cammino di crescita, sempre da percorrere, senza decisioni irrevocabili? Esistono e quali sono i punti di non ritorno?

    6. L’esplosione dell’immigrazione, la caduta dei confini dell’informazione e i nuovi modelli comunicativi.
    Il dato dell’immigrazione non è più un connotato di emergenza del nostro vivere civile, ma un dato costante e in aumento. Il confronto con molteplici esperienze religiose è al livello dei luoghi di lavoro, di studio, di divertimento, di spazi informali quotidiani della vita. La caduta di ogni confine per l’informazione e la possibilità di collegarsi con tutti esige che la religione che si vive si collochi su un orizzonte mondiale, non protetto, pluralistico, ritenuto praticabile solo se sa convivere con tutti. Gli stessi nuovi modelli comunicativi che ampliano l’approccio virtuale alle esperienze anche personali di vita e introducono la prassi della simulazione come necessaria ad ogni eventuale decisione da assumere esige una collocazione dell’esperienza religiosa nella storia, nella “dimostrazione” della testimonianza, nei rapporti faccia a faccia, nelle dimensioni di una comunità vivibile e sperimentabile. Nello stesso tempo nei giovani esplode una nuova forza che è quella della immaginazione.
    Non è vero che la proliferazione dei mass media riduca l’immaginazione, che i mass media siano l’oppio dei popoli; ci sono prove che dimostrano che invece producono resistenza, ironia, selettività e azione in proprio. L’immaginazione tende a comporsi in forme collettive. Non è il massimo della libertà, ma dove c’è consumo, c’è piacere, dove c’è piacere, c’è azione. Tutto questo crea immaginazione. È l’immaginazione che crea tra le giovani generazioni le idee di vicinato, di nazione, di economie morali, di regole ingiuste, di salari più elevati, di prospettive lavorative all’estero. È una palestra per l’azione e non solo per la fuga, per creare diaspore della speranza. L’annuncio di una verità deve fare i conti con questa immaginazione libera e forse anche destabilizzante. La fede non è più comunicabile entro visioni ristrette e soprattutto “controllate” di vita. È sempre al cospetto del mondo e dell’immaginazione.

    7. La mutazione antropologica delle giovani generazioni tra virtuale, simulazione e superamento dei limiti spaziali.
    Il rapidissimo affermarsi dei mezzi più sofisticati di comunicazione e di espressione che trovano in Internet, ma non solo, la concentrazione più alta di possibilità, ha decisamente operato un cambiamento nella vita dei giovani. Li elenco perché li abbiamo di fronte in maniera concreta:
    - I suoni e la musica: non sono parole, ma per i giovani ancora di più e meglio, soprattutto se diventano ritmi intensi e canzoni di cantautore. Attraverso la musica costruiscono il loro mondo, lo abitano e cambiano il mondo degli adulti. Non dimentichiamo che il cambiamento di mentalità nell’Est europeo della fine degli anni ’80 ha avuto un grande contributo da parte dei concerti rock cui i giovani partecipavano in massa. La musica è il linguaggio più comunicativo, coinvolgente e liberatorio, capace di offrire espressività altrimenti impossibili. Ogni giovane ha la sua discoteca privata di MP3, compra e vende, ascolta, scarica e cancella, si abbona a riviste e le passa, definisce tempi di assoluto isolamento dal mondo con le sue cuffie...;
    - le immagini, non sono parole, ma sono trattate alla stessa maniera, anzi ne velocizzano l’uso e determinano gli accostamenti e le sequenze logiche delle parole. Invadono e imprigionano di più gli adulti che i giovani, ma i giovani non ne possono fare a meno; fanno parte della loro sequenza cognitiva;
    - il fumetto e le varie strisce che creano eroi con cui confrontarsi e dialogare. All’eroe si scrivono lettere struggenti e ci si aspetta una risposta;
    - il giornalino del gruppo. Stanno rifiorendo moltissimi fogli interessanti che permettono ai giovani di dire la loro con coraggio e con serietà; sono capaci di far vibrare per qualche utopia, li abituano a non mollare e a creare alternative all’informazione;
    - la radio. È lo strumento di gran lunga il più utilizzato: crea riconoscimento tra gli amici, forme di linguaggio uguali, capacità di raccontarsi, di sentirsi interpretati, di uscire dall’isolamento;
    - Internet crea città virtuali in cui vivere e news group che si danno appuntamento via Internet in luoghi fisici per vedersi e uscire dalle proprie solitudini. Allarga gli orizzonti, abbatte le barriere, rende possibile tutta l’informazione che uno vuole e tutti i contatti. Collegate a Internet si sono sviluppate moltissimo;
    - la e-mail: è diventata la posta vera, la possibilità di esprimersi e di dire con parole, non troppo regolate dalla sintassi, i sentimenti. I giovani oggi sono ritornati a scrivere e scrivono molto bene, hanno molti sentimenti e ragionamenti da proporre. Con la e-mail rischiano di mettersi in piazza, ma lo fanno con grande bravura. Si possono creare doppia personalità, ma anche questo fa parte delle prove per sentirsi vivo, per scoprire la propria identità;
    - le chat. È un altro mondo di parole concatenate, di reazioni immediate, di botta e risposta, con meno capacità di riflessione, ma sempre con un gran numero di parole dette in libertà;
    - le playstation creano veri e propri piccoli stadi in cui ci si immerge con creatività, si fa amicizia, ci si isola completamente dal tempo e dallo spazio per entrare in un mondo fantastico, simulatore dei propri desideri, stimolante, spesso anche creativo;
    - i cellulari: sono utilizzati dai giovani soprattutto, anche se non solo, per i messaggi sms: usano la tastiera del cellulare più velocemente di una macchina da scrivere Olivetti. Immediatamente deve arrivare una smorfia, o una parola giusta per stare sempre in diretta su tutto l’arco della giornata. Esprimo subito quel che sento e voglio una reazione. Abituano a concentrare e a fotografare;
     la pubblicità; per il mondo adulto spesso è insopportabile, per il giovane è un’altra ricerca di identità, pervasiva, mescolata ai sogni e alle frustrazioni, ai desideri e ai progetti, all’umorismo, che sta diventando una difesa eccezionale dalle delusioni della vita e alla contestazione del consumo;
    - i DVD e DMS, cioè tutta la nuova tecnologia al servizio della riproduzione su disco e su chip di eventi vissuti o in immagini o in audio, o direttamente o in differita. Non si parla più di cassetta audio di 90 minuti, ma di chip che riportano giornate intere, un concerto per esempio, una festa, un evento.

    Conseguenze

    * Interattività: una nuova forma di partecipazione.
    La proliferazione e la qualità degli strumenti di comunicazione di massa hanno ridato ai giovani un nuovo atteggiamento nei confronti della realtà: la voglia di partecipare, la possibilità di intervenire e la gioia di fare qualcosa. Infatti molti di questi adolescenti sono diventati ottimi aiuto-educatori nei vari grest. Sono tornati a scrivere e molto bene, a dire la propria su tutto, a interessarsi di quello che capita senza guardare il telegiornale, a crearsi circuiti comunicativi molto pervasivi. Alla lunga ha permesso loro di venire allo scoperto, di far valere la propria idea, di creare circuiti spesso paralleli al mondo ufficiale, di sentirsi più liberi, anche se in un mondo costruito da altri. La verità presentata come assoluta diventa molto relativa e una parte la può portare ciascuno per costruirla.
    Oggi i giovani partecipano di più, vogliono dire quello che pensano, solo che gli spazi di ascolto o si sono ristretti o sono rimasti troppo vecchi, incapaci di valorizzare questi loro modi di esprimersi e questa novità che essi sono. Niente, nessun valore o dato anche solo informativo entra nella mia vita se io non ho partecipato a costruirlo, a cercarlo, a individuarlo e a farmene un parere con un mio modo personale. Questo mette in crisi il concetto di trasmissione dei valori, delle norme, dei dati di fede. Non crea giovani autosufficienti, ma sicuramente non li puoi pensare passivi o solo recettivi. Una parte della costruzione di una idea, di un contenuto, di una ricerca deve essere fatta da loro. Si è creato uno spazio, che già esisteva, ma che ora diventa più personale, di attività comune. Come a dire: decido io di partecipare, di essere attivo, non sono le tue raccomandazioni o i tuoi schemi.

    * Simulazione: un nuovo modo di provare ad esserci.
    È provare con le immagini, con il virtuale, con la musica, i suoni, con l’interazione tra le fiction inventate ciò che vorresti fosse la realtà; metti quasi a prova virtualmente le tue emozioni, le tue capacità, le tue paure, i tuoi progetti, i tuoi desideri, le tue idee. Queste prove di tipo virtuale sostituiscono o allentano la percezione che è necessario un tirocinio di preparazione, una personalizzazione concreta e una interiorizzazione dei dati in termini vitali e non immaginari. Se devo iniziare una esperienza di impegno anche di carattere affettivo, la prima preoccupazione non è di buttarsi nella mischia e rischiare, ma di farne le prove virtuali. Questo rischia di sostituire l’allenamento dei sentimenti e dei comportamenti, che non sono virtuali; appanna l’importanza del confronto a tu per tu con l’altro, che non è oggetto delle tue manipolazioni. Provo le mie capacità, i miei sentimenti con una playstation o con una pagina web, con una canzone, con una e-mail o con una relazione viva con l’altro?

    * Connessione: l’altra nome della memoria.
    Essa sostituisce il concetto di memoria, di rappresentazione oggi a me di una conoscenza, appropriazione e giudizio globale su un fatto che determina la mia vita. Un giovane su un argomento può non ricordare niente, ma se gli dai in mano una tastiera in un baleno ti sa far vedere dove si trovano tutte le informazioni su tale argomento, quante ne sono le interdipendenze, dove si può approfondire e quanti sono i punti di vista. Alla memoria si sostituisce la capacità di trovare tutte le connessioni che questo fatto ha, la sua vastità, i suoi legami con il mondo intero. È troppo inutile sapere a memoria è più importante sapersi connettere..

    1. La svalutazione del luogo geografico.
    Come spazio obbligato per la comunione, per il riconoscimento e la creazione di una sorta di “luogo unico” in cui i giovani preferiscono stare di fronte, contro, o in posizione sghemba nei confronti del resto del mondo. La necessità di una prossimità fisica per avere comunione spirituale o solidarietà amicale o riconoscimento attraverso simboli e linguaggi non c’è più: viene superata proprio grazie a tutti i nuovi strumenti di comunicazione. Lo spazio non ha più l’importanza di prima. Non esiste più luogo separato. Ieri capitava che un legame tra i giovani fosse costituito da alcune convenzioni che si stabilivano in un certo spazio (piazzetta, pub, birreria, discoteca…), da alcune convenzioni comportamentali caratteristiche di quel luogo, da un certo modo di vestire o da informazioni e modi di pensare che erano intercettati solo entro quegli spazi, oggi invece la TV e la rete di Internet rompono questo legame tra collocazione fisica e situazione sociale. I sistemi simbolici vengono comunicati a tutti e c’è una sorta di omologazione. Immaginate come perde potere chi faceva di alcuni luoghi separati come il collegio lo strumento automatico di formazione. La stessa soglia, cioè l’insieme dei gruppetti che stanno sempre ai cancelli o ai bordi del sagrato, quindi non è definita o limitata dalla piazzetta in cui gli adolescenti e i giovani vivono. Sono sempre un piccolo mondo con orizzonti più vasti di quanto pensiamo.
    La vita parallela, gli spazi informali diventano dunque luoghi di formulazione e condivisione della speranza e della decisione.
    In questo contesto però il fenomeno più rilevante di questi tempi è che i ragazzi e i giovani sono disposti a concedere all’adulto e alle sue istituzioni, inventate per farli crescere e inserire nella vita pubblica come scuola, parrocchia, catechismo, famiglia, parte della loro vita, spesso in forma un po’ passiva, tutto il tempo richiesto, ma non certo tutto il loro sentire e la loro carica di energie necessarie per decidersi. Queste energie e questo feeling vengono spostati quasi con una operazione di bonifico bancario sulla vita parallela che si ritagliano nei loro spazi: gruppi, muretti, pub, corsi, spiagge, discoteche, centri commerciali, pizzerie, ville comunali, corridoi delle scuole, cancelli degli oratori, gite scolastiche… e soprattutto la notte. Qui vengono collocate tutte le energie necessarie per decidersi, tutti i tentativi di trovare felicità, tutte le stesse domande di ulteriorità e di religiosità.
    La casa del senso è la vita quotidiana con il suo insieme di relazioni, esperienze affettive, attività del tempo libero. Il senso lo va scoprendo entro i luoghi dell'invenzione della speranza e della constatazione delle delusioni, nel ricamo di percorsi che inventa con la sua motoretta o la sua macchina, nella progettazione delle risposte alle sue aspirazioni che avviene spesso nel gruppo del muretto, nella passeggiata sul corso, ai bordi dei campi da gioco o nei parchi, sui tediosissimi spostamenti in bus per andare a scuola o al lavoro, nelle amicizie di una stagione... Qui nascono e si formulano le ricerche e i primi tentativi di risposta al vivere. Qui affondano in strati impensati della coscienza individuale i perché della vita che non risparmiano nemmeno i più superficiali e distratti. Qui, tra la sopportazione del caos del traffico e la fuga nel proprio mondo veicolato dalle cuffie si affacciano le inevitabili domande di ulteriorità. Che parentela ha tutto questo con il luogo solenne di una celebrazione liturgica o col gruppo troppo ristretto di amici che in parrocchia o nel movimento ha fatto quadrato attorno a se concentrandosi e difendendosi dagli estranei? Assume molta rilevanza quella battuta di Andreoli che dice che i giovani sono in crisi di astinenza da fede e che occorre spacciare la fede, cioè fargliela incontrare nei meandri della vita quotidiana (ritornano i luoghi più impensati di cui parla il documento CEI).
    Gli spazi informali abitati dai giovani possono essere luoghi di annuncio, primi percorsi di evangelizzazione, spazi collegati a una comunità giovanile e adulta che si sbilancia per le proposte forti?

    2. Giovani aggregati alla comunità in gruppi e associazioni e giovani “cani sciolti”.
    Interessante sarebbe ancora fare una analisi di come si vive la fede nei gruppi associati, nelle appartenenze locali, nei movimenti, nelle comunità cristiane anche parrocchiali dove si aggrega ancora un buon 15% di giovani credenti. Esiste però un fenomeno in crescita che è quello dei cosiddetti “cani sciolti” di quei tanti giovani (41%) che frequentano anche seriamente senza appartenere. Così pure non va dimenticata la forza della religiosità popolare che anche tra i giovani è in aumento, sia come appartenenza definita (cfr confraternite) sia come appuntamento periodico. Per certe difficoltà di scarsa attenzione al mondo giovanile, che potremmo definire istituzionali, quelli della religiosità popolare sono spesso gli unici percorsi possibili per dare risposta alla domanda religiosa. Ed è tutta manna rispetto al proliferare in altri paesi cattolici di religiosità strane, settarie e esplicitamente imparentate con la magia.
    L’assenza di molti giovani da qualsiasi percorso di catechesi è solo imputabile a chiusura nella propria solitudine o non risponde al desiderio che questi giovani hanno e che riescono solo a soddisfare in incontri o esperienze più significative?

    3. Il lavoro per i giovani d’oggi.
    Oggi a quasi dieci anni di distanza da quelle intuizioni prima e piccole realizzazioni poi, i giovani sono cambiati nel loro modo di affrontare il primo lavoro, la domanda religiosa non si è mai spenta, l’immaginazione è esplosa, l’essere cittadini del mondo senza confini è esperienza capillare e quotidiana. Ci si può ancora appassionare da educatori a questo mondo giovanile in cerca di lavoro o con cattivi lavori.
    Pur rimanendo profonde differenze ancora tra Nord e Sud, c’è un fatto nuovo, eclatante, che caratterizza questo mondo giovanile: si è passati dalla disoccupazione imperante, quasi proverbiale, dei giovani alla precarietà. Così potremmo definire in sintesi il cambio più importante del mondo del lavoro per i giovani. Se negli anni novanta[10] si poteva dire che il mondo delle occupazioni era come un fortino assediato e impenetrabile, in cui si erano stabiliti soprattutto gli adulti a difenderlo, negli anni 2000 l’esperienza di lavoro appare più diffusa tra i giovani, ma con alcune caratteristiche tipiche: eterogenea, diseguale, parziale. Il lavoro non è più una tappa finale irreversibile, ma una esperienza intermittente: diffusione di periodi di lavoro brevi, orario limitato, lavoro occasionale. Solo il 23% dei giovani non ha mai avuto esperienza di lavoro. Resta sempre costante il divario tra Nord e Sud rispetto all’occupazione[11]. L’esperienza di lavoro saltuario arriva a superare l’80% per i giovani oltre i 22 anni, mentre un lavoro meno precario si ferma al 50% tra i 21 e i 27 anni. Il mondo del lavoro è meno impenetrabile di 10 anni fa.
    Interessante vedere a che cosa i giovani attribuiscono l’aumento di stipendio. Il 70% privilegia la produttività, l’efficienza, la professionalità, la condivisione degli obiettivi, cioè la capacità di soddisfare il cliente o rispondere alle esigenze produttive, gli altri, gli adulti, legano lo stipendio alla fatica, al bisogno, al titolo di studio, all’anzianità. È una visione tendenzialmente individualista, ma non necessariamente egoista o refrattaria a vere solidarietà. La disoccupazione è in diminuzione.
    I giovani disoccupati o in cerca di primo lavoro sono il 10.6% (diminuiti rispetto al 14% del ’96), però qui c’è il massimo di disuguaglianza (3,2% nel Nord-Est e 21.2% nelle isole).
    Le modalità di accesso al posto di lavoro non passano quasi mai dai luoghi deputati allo scopo, ma attraverso i rapporti parentali, amicali. Questo perché in queste economie post fordiste il lavoro assume una natura altamente fiduciaria; non bastano solo competenze astratte, ma anche affidabilità, predisposizione a collaborare, spirito di iniziativa, volontà di apprendere, condivisione dei problemi. Queste non le puoi garantire con pezzi di carta, ma con certificazioni informali. La qualcosa è ben diversa dalle raccomandazioni. Un altro dei motivi per cui è difficile migrare è anche il fatto che essendo il lavoro così flessibile, andare lontano da casa, significa perdere anche la rete di rapporti familiari e amicali e diventare anonimi e quindi aumentare le difficoltà a ritrovare il lavoro successivo al primo che ti ha fatto migrare.
    L’idea che il lavoro è flessibile è ormai entrata nella mentalità e nella pratica. Solo dopo 7-8 anni di lavoro provvisorio si approda a una qualche occupazione. Il posto fisso, con carriera assicurata non c’è più e i giovani non se ne preoccupano troppo. È in aumento l’indice di gradimento per il lavoro autonomo, anche se la differenza con quello dipendente sfuma per il tipo di rapporti di lavoro intermedi o misti.
    Il passaggio dalla disoccupazione alla precarietà ha giovato ai giovani? Oppure ha dato più lavoro e meno giustizia, più possibilità di cambiare e peggiore qualità?
    Si può affermare che al Nord l’abolizione delle barriere dell’entrata nel mondo del lavoro, ottenuta con questi lavori atipici e flessibili, ha rappresentato una occasione di stabilizzarsi dopo un periodo iniziale di precariato; restano intrappolati nella instabilità solo il 6.9 %; al Sud invece dove ci sono meno occasioni, è più alta la quota di lavoratori instabili, sono quasi al doppio di quelli del Nord. Chi resta nella trappola della precarietà è il 20%.

    2. Analisi territoriale

    In base alla descrizione precedente prova a formulare con il gruppo di animatori alcune domande, a scegliere un campionario di giovani e fare una piccola ricerca, possibilmente non nell’ambiente dell’oratorio o della parrocchia. Le domande è meglio che siano aperte e diano luogo a un dialogo.
    Non porterai a casa tanti risultati nuovi, ma imparerai a dialogare di più e ad aprire gli occhi.


    NOTE

    [1] Formulare strategie e non progetti.
    Viene un momento in cui occorre dare gambe ai sogni, offrire alle intuizioni dei canali per orientarsi in qualche direzione. Oggi la parola progetto è troppo indicativa di statiticità, di casella in cui far entrare, di predeterminazione da cui non si può più tornare indietro se si vede qualcosa di meglio… Dire strategie significa forse avere ancora del progetto:
    - l’intenzionalità che ci risparmia dal procedere navigando a vista, di essere vittima di tutti i cambiamenti anche quelli che artatamente la superficialità mette in circolo, ma nello stesso tempo una più acuta lettura delle sfide del tempo;
    - una caratterizzazione forte di conversione al vangelo ogni giorno, sempre capace di stanarci dalle consuetudini del torpore e dalla assuefazione al politicamente corretto;
    - la capacità di rifocalizzare diversamente le risposte o le proposte, di inventare nuove vie.
    [2] Cf CEI, Catechismo dei Giovani, vol. 1.
    [3] Cf D. Sigalini, Questo vangelo mi interessa, AVE, Roma 2003, p. 104.
    [4] Educare i giovani alla fede, in Notiziario della CEI 2/1999, p. 51
    [5] Castelgandolfo, 27 agosto 2000.
    [6] Cf Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2002. cap VI.
    [7] Ibid. p. 27. Alcuni dati per essere concreti:
    Percentuale dei giovani che non hanno ancora raggiunto nessuna tappa che introduce all’età adulta:
    15-17 anni: 93 %
    18-20: 67 %
    21-24: 44 %
    25-29: 19 %
    30-35: 5 %
    Pensando che il superamento di almeno tre tappe indichi un buon avvio allo status di adulto, le percentuali che seguono dicono quanti non le hanno ancora raggiunte:
    15-17: non si pone il problema
    18-20: 98 %
    21-24: 94 %
    25-29: 73 %
    30-35: 35 %
    [8] Cf ibid. p. 61.
    [9] Z. Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna, 2002.
    [10] Giuliano da Empoli, Un grande futuro dietro di noi, I grilli Marsilio ed., Venezia, 1996.
    [11] AA.VV. Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002 cap. III.


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