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    Chi sono e perché sono capitato qui? (cap. 5 di: Animatore: dalla parte delle ragoni di vita)


    Domenico Sigalini, ANIMATORE: DALLA PARTE DELLE RAGIONI DI VITA, Elledici 2004

     

    L’animatore dei giovani: identità e vocazione

    Il filo
    Chi sarà in grado di mettere in sequenza originale tutto quanto abbiamo detto finora? Chi sarà quell’eroe che, sapendo di che morte deve morire, sarà capace di scommettere su se stesso, sui giovani, sul superamento delle sue personali difficoltà? Sono domande che scoraggiano, ma l’esperienza di tante persone che si mettono a fianco dei giovani mi fa dire che Dio dà a molti una beata incoscienza, ma che in realtà è la consapevolezza della propria debolezza, così da avere la certezza che Dio compie miracoli con la nostra povera, ma sincera disponibilità Cominciano allora a descrivere chi è l’animatore. Partiamo da alcuni elementi fondamentali, che possono sembrare troppo esigenti, ma hanno almeno la pretesa di tenere alta sempre la meta.

    Identità personale

    L’educatore dei giovani è una persona matura che sa dare unità alla sua vita. Ha una sua "maturità psichica" che poggia su un'identità ben definita, sulla stabilità e sull'autonomia, sulla capacità di allocentrismo. Insomma, è una persona fondamentalmente in pace con se stessa, equilibrata, con vivo senso dell'ottimismo e buon grado di autorevolezza. La ricerca scientifica, com'è noto, parla di "scarsa funzionalità psichica dell'educatore", quando costui possiede una personalità narcisistica oppure ha un troppo basso concetto di sé, è vittima di forti stati ansiosi e carente di competenza comunicativa, non riesce a entrare in contatto con il proprio vissuto e dimostra un basso livello di tolleranza alla frustrazione.
    Per questo l’animatore:
    - riscopre la sua ricerca e le sue domande di senso e dà consapevole fondamento alla sua crescita e al suo impegno personale entro una visione di fede;
    - vive una profonda passione per la vita, per l’uomo e per i valori e in tal modo si apre a tutte le domande di vita dei giovani, anche quelle più deboli;
    - acquisisce uno stile di apertura che lo rende disponibile all’ascolto, al dialogo, alla comunicazione;
    - esprime chiarezza, coerenza, equilibrio nella testimonianza per offrisi al giovane come compagno di viaggio.
    Esistono quattro "virtù" che caratterizzano lo "specifico ethos professionale "dell'educatore:
    * l'autorevolezza. L'educatore autorevole si presenta con una dimensione di stabilità e di oggettività. Funge da pietra di paragone sulla quale l'educando si misura. D'altro canto, la perdita della coscienza dell'autorevolezza porta a due estremi negativi: la rinuncia, da parte dell'educatore, alla sua tipica funzione di guida oppure "l'autocrazia pedagogica", coincidente con un autoritarismo di tipo assolutistico;
    * l'eros pedagogico. È una forma di amore tutto teso a risvegliare le potenze spirituali del giovane. Si fonda sulla consapevolezza secondo cui la relazione educativa è l'orizzonte dentro il quale devono diventare esperienza le qualità che fanno bello e maturo lo spirito dell'uomo;
    * il tatto pedagogico. Si tratta, anche in tal caso, di un "habitus" indispensabile per il rapporto educativo. A motivo di questo "tatto" si giunge ad individuare, volta a volta, la risposta adeguata al bisogno di crescita umana e spirituale del soggetto. È, dunque, componente fondamentale dell'arte dei grandi educatori;
    * lo humour pedagogico. Va inteso innanzitutto come senso del limite, cioè della non onnipotenza dell'educatore. È ricco di verità più che di certezze. Questo induce perciò l'educatore ad avere sempre uno "sguardo compassionevole" su di sé. Si tratta, ancora, di una virtù che tutela dai rischi del pedantismo e del perfezionismo.
    A questo riguardo mi piace ricordare le risposte che degli adolescenti hanno dato alla domanda: che tipo di educatore ti piacerebbe avere.
    Eccole:
    - che sia capace di ridere di sé;
    - che sappia usare il suo mito, se ce l‘ha;
    - che parli di sé e non di altro o degli altri;
    - che abbia qualcosa di vero da vendere.
    L’autoironia al giovane serve perché è la chiave della sincerità del rapporto, della necessità di sentire l’animatore non tanto attaccato ai suoi punti di vista che vede come un assoluto, ma attento al fatto che si propongano per la forza che si portano dentro
    Voler vedere un mito significa volere riconoscere nella vita dell’animatore una attrazione per poterla seguire, uno slancio, una utopia che aiuta ad affrontare la quotidianità. Quante ragazze hanno vissuto con difficoltà il loro diventare adulte perché non riuscivano ad immaginare nella vita della mamma un ideale, non sempre perché la mamma non lo incarnasse, ma perché era disprezzato dalla società e considerato alla deriva ineluttabile dall’adulto.
    Sentire l’animatore mettere in gioco la sua vita, i suoi sentimenti, le sue ricerche, i suoi tentativi di affermazione, le sue paure è la prima condizione per sentirsi dentro un afflato umano, è andare oltre il virtuale e il talk show che imperversa come surrogato del rapporto umano.
    E infine il volere “qualcosa di vero” significa che il giovane ha bisogno di verità, le falsità in cui si imbatte sono troppe, ha attorno a sé troppi che lo strumentalizzano, che non gli dicono la verità, che lo imboniscono o per pietà o per subdolo inganno. È molto interessante anche quel “vendere”. Come a dire: tu sai che io voglio la verità, ma non venirmela a dire con la storia della filosofia, con le frasi fatte, dall’alto della tua supponenza, dentro i luoghi aridi dell’insegnamento asfittico. Se vuoi incantarmi, a me devi farla giungere in maniera entusiasta, perché ti scoraggerò migliaia di volte nel dirmela, mi sembrerà sempre falsa, mi sembrerà una “pizza”, avrò sempre il sospetto che tu lo faccia per dovere. Hai visto ancora un ambulante quanto si dà da fare per collocare la merce? Non è la sua capacità di ingannare che mi interessa, ma la creatività che ci mette per incantare. Ecco vorrei essere incantato dalla verità.

    Dimensione vocazionale

    L’animatore svolge un servizio in virtù non tanto di un impeto volontaristico quanto piuttosto di una disposizione vocazionale: il fare educazione è per lui il modo concreto di collaborare all'edificazione della comunità. È una dimensione che fa parte del progetto di esistenza credente con cui si vuol vivere la propria vita. Assumersi per la propria esperienza di fede la dimensione dell'annuncio come fondamentale e capace di fare unità nel proprio vivere, crescere e credere. Diventa allora realizzazione di sé come cristiano adulto. Riempie della sua forza di attrazione tutta l'organizzazione dell'esistenza. Definisce l'atteggiamento di base con cui ci si rapporta alle persone. È la risposta a un progetto di Dio sulla vita personale. Diventa non più un favore che si fa a qualcuno, ma una esigenza profonda del proprio essere.
    C'è differenza tra vocazione e prestazione d'opera. La vocazione non è l'organizzazione ordinata di alcune prestazioni, l'intelligenza applicata al servizio, l'efficienza del guardare in un'unica direzione, ma una reinterpretazione della tua vita a partire da chi tu sei, da quello che la realtà ti chiede, dalla chiamata di Dio che ti fa crescere. È la costruzione di una vita, è dalla parte dell'essere e non del fare.
    Se è una vocazione, la sua attuazione diventa una testimonianza e deve averne tutte le caratteristiche.
    Per questo:
    - impara a scoprirsi chiamato da Dio a essere educatore alla fede;
    - compie un suo cammino spirituale anche con la compagnia di una guida spirituale;
    - ha attitudine a farsi e a darsi un progetto di vita personale e a saperlo indicare ai giovani;
    - per nutrire tale vocazione occorre avere a disposizione strumenti adatti: una vita parrocchiale intensa, un rapporto globale con la comunità cristiana vasta e articolata, un tirocinio severo. Una vita associativa che si pone in una parrocchia come uno dei luoghi in cui si possono maturare vocazioni al servizio della comunità cristiana, gli diventa quasi necessaria;
    - si specializza a livello pedagogico e cura gli aspetti relativi a conoscenze, competenze e abilità. Quanto alle prime, è ovvio che l'educatore deve essere fornito dell'indispensabile bagaglio d'informazioni di carattere psico-pedagogico. Circa le competenze, si allude principalmente a quella relazionale/comunicativa, che presenta l'esigenza di una progressiva maturazione delle fondamentali attitudini all'ascolto, al dialogo, all'accoglienza, nonché l'avvertenza a comprendere il nesso delicato tra comunicazione e metacomunicazione. In riferimento alle abilità, si vogliono chiamare in causa innanzitutto quelle concernenti le fasi della programmazione educativa, la dinamica di gruppo e le specifiche tecniche di animazione.

    Esperienza di fede

    L'educatore dei giovani alla fede fa di Cristo il centro e il riferimento della sua persona, delle sue relazioni e dei suoi progetti; modella la sua vita sul vangelo fino a diventare testimone e guida equilibrata e autorevole dei giovani verso Gesù. Gli operatori di pastorale giovanile non possono essere mediocri e non occorre che siano eroi, ma devono saper essere persone con un centro con la capacità di orientare sempre la vita all'essenziale: Gesù Cristo appunto.
    I nostri sforzi sono pane e acqua. Pane e acqua sono forse sufficienti per sopravvivere, ma non per fare festa. Solo quando c'è lui, il vino della festa, allora si manifesta la gioia della vita.
    Mettere Lui al centro, non significa essere risparmiati dall'affrontare la vita con la nostra creatività e libertà, con la nostra voglia di avventura, ma viverla con un altro sapore, più profondo, più pieno. "Sono venuto perché abbiano la vita in maniera piena." Non basta il sapere, non è sufficiente l'aver provato e l'essere convinti, è necessaria sicuramente la testimonianza, occorre approfondire i valori cristiani dell'esistenza e centrare la vita su Gesù Cristo.
    Tutto questo non dipende dal livello della cultura colta, ma dalla passione con cui si vive l'esistenza e dalla conoscenza della cultura diffusa, dei modi di vivere, dei modi di pensare e delle aspirazioni sincere dell'uomo, dei suoi problemi quotidiani.
    Per questo:
    - vive un rapporto costante con la Parola e ha una conoscenza personale ed ecclesiale di Gesù Cristo che incontra nella preghiera personale e comunitaria;
    - sa leggere la sua esperienza e l’esperienza quotidiana dei giovani alla luce del vangelo;
    - è capace di annunziare con passione e in modo coinvolgente Gesù Cristo, aiutando a centrare e progettare su di lui la vita quotidiana dei giovani.

    Collocazione ecclesiale

    Sente di essere amato e accolto da una comunità per la quale vive il suo servizio educativo in profonda appartenenza e comunione, aiutando i giovani a sviluppare nella chiesa le domande, le ricchezze e le disponibilità che vengono scoperte e maturate. La maturità richiesta, a tale livello, all'educatore implica: partecipazione attiva alla vita della comunità cristiana locale; senso della missionarietà, da intendersi come comunicazione dei valori evangelici negli stili "feriali" della relazione con i giovani; vita spirituale adeguatamente sostenuta e autonoma. A scanso di equivoci è meglio descrivere bene questa appartenenza ecclesiale che è dentro una comunità concreta, ma al cospetto dell'universo.
    Ormai viviamo al cospetto dell'universo, siamo cittadini del mondo. Non ci bastano la nostra pianura o le nostre valli o il nostro campanile; dobbiamo farci carico dei destini dell'umanità. Abbiamo il mondo in casa e facciamo i cristiani con stile da sacrestia, da persone accerchiate, quasi ultimo baluardo di qualcosa che è destinato a morire con noi. Oppure assolutizziamo talmente le nostre quattro cose da non cogliere l'orizzonte su cui il Vangelo deve distendersi. L'imperativo dell'annuncio è precedente a qualsiasi difesa interna. Di fronte ai grossi problemi dell'uomo seguiamo l'impulso della fuga, il bisogno di un tepore materno. Siamo capaci di chiamare fedeltà alla vocazione un qualsiasi settarismo. Oggi non esistono più spazi sacri da coltivare, alternativi a quelli della storia comune. Il messaggio del Vangelo per essere ascoltato ha bisogno di fare chiarezza sui problemi della sopravvivenza del mondo, della vita del genere umano. Il problema della pace, del sud dell'universo, del commercio delle armi, dei debiti del terzo mondo, della convivenza di culture e razze diverse, della interdipendenza, della solidarietà, delle solitudini degli uomini, del rispetto di ogni vita umana, del valore della religione per l'uomo, dell'equilibrio di una adesione alla fede... sono terreno di confronto, di dialogo, di proposta. Fare chiarezza non significa che dovremo diventare i pacifisti o gli ecologisti o i terzomondisti (anche se non guasterebbe averne qualcuno di più), ma che dobbiamo educarci a una umanità più profonda, a una risposta più radicale al vangelo per farlo diventare principio innovatore in queste realtà. Molti giovani vivono studiano e lavorano a livello europeo, non pochi fanno trasferte nel terzo mondo, con internet si collegano con altri mondi; tra di noi conviviamo con altre culture, razze e religioni. Per cogliere queste dimensioni o per non isolarle agli entusiasmi giovanili, devono diventare punti di vista normali della visione di chiesa. Altrimenti non si è capaci di aprirsi alle grandi questioni morali e sociali del nostro tempo e si riduce il proprio servizio alla Parola di Dio a forme puramente interiori di adesione e di culto.
    Per questo:
    - si sente a servizio della comunità cristiana, esercita un ruolo non in proprio, ma in una qualche misura conferitogli dalla comunità cristiana. È investito dunque in una sorta di "mandato";
    - stimola nel progetto espresso nella chiesa locale atteggiamenti di accoglienza e di servizio verso i giovani, perché siano soggetti attivi nella chiesa e le loro risorse siano valorizzate.

    Condizioni per svolgere la missione di educatore

    - Necessità di una presenza qualitativa dell'educatore. Consta di stili, parole, silenzi, gesti adeguati. I giovani hanno bisogno di "sentire" questa forma di presenza discreta ma intensa, non ingombrante né petulante. Essa si qualifica nel segno dell'accoglienza, dell'accettazione incondizionata, della disponibilità, dell'ascolto, della capacità di orientare.
    - Importanza di una presenza progettuale. L'educatore cristiano non può procedere a casaccio. Ha bisogno di operare secondo un progetto semplice e ordinato. Tutto ciò è condizione per introdurre il giovane a una esperienza di fede secondo itinerari differenziati, che prevedono una pluralità di momenti e situazioni. questi itinerari esigono, di regola, sviluppi nel segno della gradualità, senza peraltro escludere "salti" e "rotture".
    - Irrinunciabilità di una presenza testimoniale. Con parole e opere, l'educatore deve offrire costante testimonianza al giovane della sua decisione di servire il Signore. In qualche misura, questa testimonianza deve farsi "narrazione" (beninteso fuori da ogni narcisismo) della bella avventura -la fede, appunto- nella quale egli è rimasto coinvolto.

    Attenzioni indispensabili

    - Attenzione ai "contesti"
    È l'istanza antropologica e socio-culturale. La dinamica della comunicazione della fede non può mai trascurare il "chi", e il "dove" e il "quando" dell'interlocutore. L'azione pastorale del Signore Gesù resta, anche sotto questo profilo, esemplare e paradigmatica. Certo, occorre procedere con sapiente senso dell'equilibrio. L'attenzione ai "contesti" non deve essere enfatizzata al punto tale da porre in subordine la primigenia forza della Parola da annunciare e testimoniare. In caso contrario, il rischio sarebbe quello di una proposta educativa sbilanciata su un'estenuante quanto retorica "rilevazione dei bisogni giovanili".
    - Attenzione alle "interpretazioni"
    È l'istanza ermeneutica. La Parola, la fede vanno presentate nella loro pretesa esigente di evento ed esperienza che mirano ad intraprendere il senso globale della vita e della morte, del bene e del male, della libertà e della felicità, del dolore e dell'ingiustizia. Non è semplice far comprendere questo agli adolescenti e giovani, "facili ed esuberanti consumatori dell'interpretazione parziale" (S.Pagani). Per giungere al traguardo indicato vi è un complesso lavorio di mediazione culturale, che esige, fra l'altro, capacità di dialogo con le proposte in circolazione diverse da quella cristiana. l'importante è di aiutare il soggetto a persuadersi che l'esperienza credente non è per il "meno" ma per il "più", ossia per la realizzazione della vita in pienezza. Il problema formativo più impellente da affrontare diventa la capacità da parte dell'animatore di mettere in mutua interrogazione le esperienze della vita, dello studio, del tempo libero, del lavoro, dell'economia, della giustizia, delle relazioni tra le persone con il mistero della fede, avvertendo la normatività di quest'ultimo, ma anche l'assoluta necessità che esso ha di incarnarsi effettivamente nella quotidianità. La mentalità di fede è assolutamente indispensabile per questa delicata operazione. Ciò esigerà dei corsi di formazione che abilitino a questo, non fatti solo da lezioni teologiche, ma capaci di smontare e rimontare in linguaggi nuovi la riflessione sulle verità di fede e sul loro significato per la vita del giovane.
    - Attenzione agli "orizzonti"
    La comunicazione della fede non può non misurarsi con gli orizzonti primordiali dell'esperienza adolescenziale e giovanile. Tra questi è indubbio il ruolo centrale da assegnare alla corporeità. Nel cammino di fede occorre educare il soggetto a scoprire il valore polivalente del corpo: segno da decifrare, "linguaggio" da interpretare e anche mistero aperto all'invocazione. Dagli orizzonti più prossimi, a quelli, ancora, legati alla socialità breve e alla vita quotidiana, l'itinerario di educazione alla fede esige un salto di qualità in direzione di prospettive più ampie, capaci di sollecitare senza accendere "corti circuiti" il giovane a cimentarsi, da credente, sugli impegnativi versanti della responsabilità storica, della politica come costruzione della casa comune, della pace e della mondialità.
    - Attenzione "a chi non c'è"
    La sottolineatura vuole indicare l'afflato missionario dell'educatore. È evidente che egli dovrà innanzitutto premurarsi dei presenti. Ma ciò non lo può appagare. L'urgenza di andare oltre i "recinti", "sulla strada" deve abitare in lui. Certo, non per tutti saranno identiche le concrete modalità di attuazione di una simile istanza. Ma comune dovrebbe essere l'ansia d'incontrare "chi non c'è", di comunicargli la Parola, dal momento che, proprio perché "non c'è", ne ha, anche se inconsapevolmente, più bisogno. Ovviamente, quest'ansia missionaria sarà cura dell'educatore coltivarla nei giovani ai quali rende il suo servizio.


    ESERCITAZIONI

    1. I motivi per cui voglio fare l’animatore

    Segue un elenco di motivi che possono aver spinto alcuni a impegnarsi nell’educare i giovani. Valutali e vedi i cinque che si avvicinano di più ai tuoi:
    1. Voglio restare giovane.
    2. Me l’ha chiesto il prete.
    3. Ho debiti di gratitudine nei confronti di quelli che hanno educato me.
    4. Questi giovani non li capisco proprio, lavoro con loro e voglio imparare a capirli.
    5. Forse ci scappa un buon posto di lavoro.
    6. Mi fa tanta pena il prete da solo!
    7. Mi voglio sentire utile nella società, in parrocchia…
    8. Ho sempre creduto che se si vuol lavorare con i giovani occorre capirli.
    9. L’animazione mi è sempre piaciuta, perché è viva.
    10. Sono stufo della pastorale del bonsai, vorrei che ci si interessi di tutti i giovani.
    11. La vita dei giovani è sempre stimolante.
    12. Ci sono in giro certi giovani che disperati, possibile che non ci sia nessuno che gli dà fiducia?
    13. Mi piacerebbe riuscire a dare ai giovanissimi una marcia in più.
    14. Ho idea che prima o poi in associazione mi toccherà fare l’animatore e già un po’ lo faccio.
    15. In parrocchia se non fai l’animatore sei nessuno.
    16. Vivo per lavoro con i giovani e sento l’urgenza di essere loro utile.
    17. Il mio comune ha dei progetti, ma mancano persone che li realizzino.
    18. Ho una palestra, una squadretta di calcio, ma questi giovani sono proprio intrattabili.
    19. A scuola ho autorevolezza, ma nel gruppo niente.
    20. La fede deve essere proposta con entusiasmo, la chiesa non è un cimitero.

    2. Che cosa si aspetta il giovane di oggi da un educatore?

    Leggiamo l’elenco che segue e aggiorniamolo.
    1. Un aiuto, discreto e rispettoso, a vitalizzare e dare spessore creativo alle proprie esperienze di giovani: comunicazione, socializzazione, esplorazione, progettazione, immaginazione, avventurosità, movimento.
    2. La costruzione della propria identità come adeguamento del sé alle aspettative proprie e altrui.
    3. L'allargamento dello spazio di vita, della temporalità e del campo conoscitivo sul piano del discernimento.
    4. La valorizzazione delle relazioni tra i coetanei ma anche con gli adulti.
    5. Il riconoscimento di nuove forme di simbolizzazione, di categorizzazione e di confronto sociale.
    6. La maturazione e lo sviluppo della coscienza critica.
    7. La ricerca positiva della corporeità e della sessualità come modalità espressive.
    8. L'acquisizione di abilità concrete per poter ricevere conferme e produrre prestazioni oggettive.
    9. Il bisogno di avventura, di esplorazione del nuovo, come passaggio obbligato per l'emancipazione.
    10. La funzione promozionale, di orientamento, di contenimento dell'ansia di indicazioni prescrittive, confrontate e discusse.
    11. L’approfondimento del senso della vita nella fede.
    12. La capacità di servire gli altri.
    Quali di queste richiesta vedi più urgenti? Che altro chiedono a te i giovani?


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