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    A 40 anni

    dal Concilio Vaticano II

    Un lungo tirocinio verso

    un nuovo tipo di cattolicesimo

    Gilles Routhier


    Non è facile costruire un quadro capace di leggere in un insieme coerente i 40 anni che ci separano dal concilio Vaticano II. Si potrebbe optare, come ha fatto il cardo Ratzinger, per una prima soluzione che consiste nel dividere questo arco di tempo e nell'organizzarlo in periodi o fasi. Ci sarebbe così stata una prima fase di euforia, durata fin verso il 1968, seguita da un periodo di disillusione (1970-1980), e infine gli anni '80 che rappresentano un momento di sintesi e di equilibrio (1).
    Ispirandosi a questo primo modello, H.J. Pottmeyer tenta di organizzare i dati in un modo dialettico, presentando il periodo della recezione del Vaticano II come un unico movimento organizzato in tre fasi che tendono verso una sintesi: una prima fase di entusiasmo e di fioritura, fase in cui si sarebbero espresse le forze innovatrici, sarebbe stata seguita da una fase di delusione o di reazione, più favorevole alle tendenze conservatrici, 'per concludere poi con una terza fase la sintesi, che aprirebbe una nuova tappa della recezione e con sentirebbe di riprendere in un insieme più coerente gli apporti principali delle due fasi anteriori (2). Questo schema di lettura di Pottmeyer influenzerà grandemente i punti di vista di W. Kasper (3) e di A. Anton (4).
    Pur essendo abbastanza seducente, questa ricapitolazione del periodo postconciliare non sembra tuttavia rendere sufficientemente ragione della complessità della realtà, anche se risulta essere alla moda una lettura in termini dialettici, ovvero binari, dell'evoluzione del cattolicesimo nel corso degli anni che sono seguiti al concilio. Se è vero che si possono rilevare delle tendenze maggioritarie che agiscono in un momento o nell'altro, ci sembra che forze progressiste e conservatrici non abbiano agito per epoche successive ma siano intervenute contemporaneamente lungo tutto l'arco del periodo che ci separa dal concilio, lungo tutti questi 40 anni. Di conseguenza, la dialettica messa in luce dal professore di Bochum non agirebbe solamente secondo un asse diacronico, ma anche in modo sincronico.
    Rinuncerò pertanto a leggere il divenire del cattolicesimo dopo il Vaticano II ricorrendo allo strumento della periodizzazione (5) sforzandomi di presentarne una lettura dialettica. Opterò piuttosto per considerare il postconcilio come un periodo di tirocinio, non ancora terminato, dentro il quale una nuova figura di cattolicesimo tenta di istituirsi. Questo processo di istituzione di un nuovo tipo di una nuova figura di cattolicesimo ovviamente non è senza tensioni e senza periodi di avanzamento e di regressione, persino senza conflitti.

    1 UN CONFLITTO DI INTERPRETAZIONI

    1. Tre interpretazioni globali

    Occorre ammettere che questa interpretazione del dopo concilio nei termini di un periodo di tirocinio, dove si mette in atto un tentativo di istituire una nuova figura di cattolicesimo, riposa su un'ipotesi: il carattere epocale del concilio Vaticano II (6), ovvero un concilio che permette al cattolicesimo di entrare in una nuova fase della sua storia.
    Al momento della sua celebrazione, parecchi osservatori hanno sottolineato che il concilio Vaticano II operava una cesura nella storia del cattolicesimo; e questa cesura si definiva non tanto in rapporto al passato prossimo (il pontificato di Pio XII) come invece si è detto di sovente (7), quanto piuttosto in riferimento a un passato molto più remoto. Per R. Rouquette (come pure per Congar) il Vaticano II segna la "fine della Controriforma", cioè arriva a chiudere la lunga fase del cattolicesimo che si era aperta col concilio di Trento. Sempre secondo questo autore, il voto dell'Assemblea conciliare al termine della discussione sul De fontibus revelationis aveva assunto una portata che superava il semplice rifiuto di uno schema: "Si può affermare che con questo voto del 20 novembre si chiude l'epoca della Controriforma e si apre un'epoca nuova, imprevedibile nelle sue conseguenze, per la cristianità" (8). Si mette fine cioè a un modello di cristianesimo basato sulla polemica antiprotestante e che si appoggiava su di una apologetica concepita come un armamentario per dimostrare che il cattolicesimo è la vera religione e per opporsi a tutti i suoi rivali.
    Da parte sua M.D. Chenu ha parlato, a proposito del Vaticano II, della fine dell'era costantiniana (9) o, come anche altri hanno ugualmente sottolineato, della fine dell'epoca di cristianità (10). Come si può ben vedere, anche questa prospettiva introduce il Vaticano II nel lungo periodo, come un evento epocale. Se si scegliesse di adottare una simile prospettiva di lettura, saremmo portati a pensare che il cristianesimo ha conosciuto tre grandi epoche, dal momento della sua nascita: la Chiesa si sarebbe inizialmente pensata come un gruppo minoritario dentro l'Impero, prima di acquisire lo statuto di religione di Stato, giungendo ad annodare il suo destino con quello degli Stati e delle nazioni, mescolando così bene il Vangelo con il temporale e immergendosi così tanto nel mondo da arrivare a perdere la propria identità. Questo tempo di cristianità corrisponde a ciò che normalmente definiamo come l'epoca della "civiltà parrocchiale», l'epoca in cui tutti gli abitanti di un paese erano cattolici, l'epoca in cui lo spazio pubblico esibiva il proprio carattere religioso, il cristianesimo si sentiva a casa propria in tutte le sfere della società. Il concilio Vaticano II, immaginando in un modo nuovo la Chiesa nel mondo contemporaneo e riflettendo sulla Chiesa a partire dalla categoria di sacramento di salvezza tra le nazioni, arriverebbe a chiudere quest'epoca di cristianità (o l'era costantiniana) per fare entrare la Chiesa in una nuova tappa del suo pellegrinaggio.
    Altri infine, M.D. Chenu (11) e K. Rahner (12) in particolare, hanno visto nel Vaticano II il passaggio della Chiesa cattolica a un nuovo paradigma, quello della "Chiesa a dimensione mondiale», cambiamento di paradigma così forte da non essere comparabile che con quello che è avvenuto una sola volta nella storia, il passaggio dal giudeo-cristianesimo al pagano-cristianesimo. Se Chenu aveva intuito questa prospettiva già dal 1962, senza dubbio è K. Rahner che approfondirà meglio la portata della dimensione mondiale dell'evento conciliare, dimensione che in parecchi avevano notato già all'epoca della sua celebrazione (giornalisti, padri conciliari, esperti). Mi limito a portare come prova di questa percezione le parole del cardo Garrone, per il quale il Vaticano II è il momento in cui prende forma una nuova coscienza dell'universalità e della cattolicità della Chiesa:
    La Chiesa vive oggi quella che si potrebbe chiamare l'esperienza fisica della sua universalità. Fino ad oggi credevamo in questa dimensione, la proclamavamo nel nostro Credo; ora invece, grazie al confluire di molte cause, la vediamo realizzata in modo sensibile. Popoli lontani, che per noi non erano che un nome su una cartina, una espressione della nostra memoria, assumono un volto conosciuto e ci appaiono molto vicini; erano un paese, ora sono degli uomini. Improvvisamente comprendiamo in un modo concreto e brutale cosa significhi che Gesù Cristo è il re dell'universo, perché questo universo è qua, sono i nostri occhi. E allo stesso tempo la Chiesa misura con una sorta di stupore i confini reali di questo regno: Haiti, Goa, il Katanga, il Kuwait non sono più realtà estranee ma degli uomini per i quali Cristo è morto (13)
    Rahner andrà più lontano nella sua interpretazione di questo dato. Egli è convinto che nel concilio Vaticano II "la Chiesa ha proclamato, anche se in un modo ancora incoativo e poco chiaro, il passaggio da una Chiesa occidentale ad una Chiesa universale in un senso che, fino a oggi, si è verificato per la prima ed unica volta allorché la Chiesa dei giudei divenne la Chiesa dei pagani [.. .J. Noi viviamo oggi per la prima volta nell'epoca di una cesura tale che si può verificare solo nel passaggio dal giudeo-cristianesimo al paga no-cristianesimo» (14). Altrove egli scriverà: “Mi sembra che il concilio sia il primo atto nella storia in cui la Chiesa mondiale ha cominciato ad attuarsi ufficialmente come tale. Nel corso dei secoli XIX e XX la Chiesa è passata lentamente e come a tastoni dalla condizione di una Chiesa mondiale potenziale a quella di Chiesa mondiale attuale, è diventata da Chiesa europea occidentale - con esportazioni europee in tutto il mondo - una Chiesa mondiale che è presente in tutto il mondo con vari gradi di intensità, e precisamente non solo più come merce europea-nordamericana. Essa possiede dappertutto un clero indigeno ormai diventato cosciente della propria autonomia e responsabilità, e ha agito per la prima volta in maniera storica chiara durante il concilio nell'ambito della dottrina e del diritto. Il concilio è stato un concilio della Chiesa mondiale, anche se con ciò non può essere contestato il peso ancora massiccio e preponderante delle Chiese regionali europee e nordamericane. La dimostrazione più semplice di questo dato di fatto evidente e unico sta qui: il soggetto di questo concilio - a differenza di tutti i precedenti, non escluso il Vaticano I - è stato un episcopato proveniente da tutto il mondo e non semplicemente, come nel Vaticano I, un episcopato di vescovi europei esportati (15).
    Queste tre interpretazioni globali - e non sono le sole (16) - situano il concilio Vaticano II nella grande storia e tentano di darne una interpretazione teologica.
    Se queste tre interpretazioni corrispondono alla realtà, si può facilmente comprendere le tensioni che simili rotture o svolte hanno generato, in un sistema di un'ampiezza e di una complessità come quello della Chiesa cattolica. Non si abbandonano di sicuro pratiche secolari in un giorno; non si superano in un istante gesti e pratiche che si sono ormai trasformati in riflessi condizionati, tale è il loro grado di assimilazione; non ci si separa in un sol colpo da una mentalità che ci abita... In altre parole: nessun sistema è in grado di metabolizzare una simile svolta solamente in dieci anni. Per riprendere l'unica analogia credibile agli occhi di Rahner, il passaggio dal giudeo-cristianesimo al pagano-cristianesimo non è stato vissuto senza problemi e senza crisi. Pietro, dopo aver fatto molte resistenze prima di accettare, ha dovuto in seguito spiegarsi di fronte a quelli di Gerusalemme, riguardo alla sua visita da Cornelio. E Paolo a sua volta ha dovuto rendere conto del suo modo di comportarsi tra i pagani e con loro. Come si può intuire, di sicuro non sono mancate crisi, tensioni, conflitti, e «scismi».

    2. Il postconcilio come periodo di crisi

    È da ammirare la lucidità di dom O. Rousseau che, poco tempo dopo l'annuncio da parte di Giovanni XXIII dell'intenzione di convocare un concilio, ha avuto parole che si potrebbero qualificare nei termini di «guastafeste», dentro un contesto in cui si erano subito manifestate le speranze e le attese più inimmaginabili all'idea di tenere un concilio. Egli sottolineava - siamo nel 1959 - che non era il caso di gioire troppo in fretta, né di fare prova di una eccessiva dose di ingenuità, di fronte a questo annuncio. Questo grande conoscitore della storia dei concili metteva in guardia nei confronti di un ottimismo sin troppo facile, caratteristico di quel periodo, ricordando che i concili erano stati spesso seguiti da crisi profonde che avevano lacerato la Chiesa. Questa voce è stata poco ascoltata, in un momento in cui si preferiva sperare che le cose cambiassero. Bob Dylan cantava in quegli anni The times, they are changing, ed erano più numerosi coloro che preferivano affidarsi alle sue parole che a quelle di dom Rousseau.
    La mia ipotesi è dunque la seguente: il postconcilio si caratterizza non solo come un periodo di crisi e di tensioni, ma anche come un tempo incerto e di apprendistato, di tirocinio. Spesso se ne parla utilizzando la categoria interpretativa della crisi, senza sviluppare troppo il senso teologico di questo concetto, e accordandogli spesso la sua determinazione sociologica (17). La crisi è sicuramente ciò che appare in modo più manifesto. Ma si tratta però soltanto della parte emersa e visibile di un iceberg, e questo termine nasconde sicuramente fenomeni ancora più profondi. In senso teologico, la recezione di un concilio è un tempo di crisi, cioè un tempo di scelte e di decisioni, un momento in cui si è obbligati a prendere opzioni decisive. Da questo punto di vista si tratta, nel senso forte per la Chiesa, di un tempo di prova; utilizzando un anglicismo, la Chiesa è sottoposta a un test, cioè a una prova. È per questo che si tratta di un tempo incerto, un tempo dove nulla è già giocato, un tempo di apprendistato, di tirocinio.
    Non riusciremmo a rendere conto di tutto questo periodo facendo ricorso soltanto al concetto di crisi nel senso descrittivo del termine, come si parla della «crisi della fede» nel sinodo del 1967, o della crisi del clero a partire dal 1968. La Chiesa entra veramente in un periodo di crisi, nel senso teologico del termine, cioè in un periodo in cui è obbligata a fare delle scelte, a optare in favore di una direzione o di un'altra. E ovviamente questo atteggiamento non va da sé, perché scegliere è sempre lacerante e chiede spesso delle rinunce esigenti. Nel caso che ci interessa in questa nostra analisi, mettere da parte abitudini secolari non può essere farro senza esitazioni, resistenze, retromarce... E simmetricamente iniziare a prospettare l'ingresso in una nuova figura del cattolicesimo o l'istituzione di un nuovo tipo di cattolicesimo è una operazione esigente, molto più di quanto si possa immaginare a prima vista.
    Se c'è stata, e come abbiamo visto molti lo ritengono (e c'è del vero in questa osservazione), una fase di euforia seguita a sua volta da una fase di disillusione, ciò è dovuto al fatto che si è osato pensare che un simile passaggio a un nuovo paradigma si potesse compiere senza che fosse necessario pagare alcun prezzo. In realtà un prezzo è stato pagato, e anche elevato, poiché l'abbandono di un modo di pensare e di vivere richiede quella che possiamo definire senza esitazione come una vera conversione, concetto sempre più alla ribalta negli studi sulla recezione (18). Se c'è stato un momento euforico (ingenuo), è stato quando si è creduto che il concilio avesse provocato un cambiamento irreversibile, e che ormai si trattasse solamente di cavalcare l'onda potente messa in moto dai testi conciliari.

    3. Il sogno di una facile applicazione

    Come mi è capitato di mettere in luce in altri testi, in riferimento al tema della collegialità episcopalele, durante il concilio si scommetteva sul fatto che il rinnovamento messo in moto dall'evento conciliare si sarebbe prolungato nel tempo successivo, e che il periodo postconciliare avrebbe perfezionato e completato l'opera necessariamente incompleta del concilio. Si aveva una fiducia assoluta nelle possibilità offerte dalle acquisizioni conciliari, come se la storia avesse dovuto svilupparsi secondo un percorso lineare, senza discontinuità né ritorni al passato. Come se tutto ciò dovesse appartenere all’ordine della necessità, si pensava che l'avvenire non avrebbe potuto che «perfezionare" e portare a compimento le virtualità delle affermazioni conciliari sulla sacramentalità dell'episcopato e sulla collegialità. Erano in molti a ritenere che un'apertura dottrinale dovesse essere seguita dalla traduzione di questa dottrina a livello del diritto e delle istituzioni. Così, all'inizio del terzo periodo del concilio, Congar notava:
    «Se, come noi lo riteniamo, un accordo favorevole è stato raggiunto (sulla sacramentalità della consacrazione episcopale che introduce in un Corpo il nuovo ordinato), avremo sostituito a una struttura giuridica, dominata dalla "monarchia" papale, una struttura sacramentale fondata direttamente nell'azione di Cristo, dentro la quale il papa si situerà, certo come primo e come depositario dell'autorità suprema, nella comunione di un Corpo costituito sacramentalmente. Se questa dottrina verrà messa in pratica, molte cose cambieranno, e da cima a fondo» (20).
    Stando al teologo domenicano, il postconcilio avrebbe dovuto permettere, come egli scriveva nel mese di ottobre del 1963, di «tradurre nei fatti questa struttura in qualche sorta dualista di una autorità allo stesso tempo monarchica e collegiale". Insisteva sul fatto che sarebbe stata soprattutto la vita della Chiesa, le iniziative, le forme che essa avrebbe fatto nascere a determinare la struttura e il volto concreto di questa collegialità il cui nome stesso, una volta ben spiegato, sarebbe stato assunto tra quei termini decisivi e celebri attraverso i quali si riassume l'opera dei grandi concili dottrinali (21). Ottimismo ingenuo! In ogni caso il postconcilio non si sarebbe presentato come un percorso piano e in discesa. Retrospettivamente, non si può che dare ragione ai commentari delle ICI che guardavano con distanza l'euforia seguita al voto del 30 ottobre 1963:
    Degli entusiasti vi vedono la “rivoluzione di ottobre”. Alcuni annotano che il concilio ha avuto un punto di non ritorno proprio in questa decisione (ma ne avrà altri). A Bruxelles, il card. Suenens afferma che il 30 ottobre è una data decisiva nella storia della Chiesa. La battaglia dei Dodici è stata vinta - ma poi dirà cose ben diverse, rileggendo l'episodio nel 1969, ndr -. Restano ancora tutte da scoprire, ed è ciò che tempera l'ardire di coloro che guardano il concilio se non dall'esterno almeno da lontano, quali saranno le conseguenze che deriveranno da una tale vittoria, per la riforma della Chiesa" (22).
    Se c'è stato un periodo di euforia, questo non inizia alla fine del concilio, ma già nel 1962, e poi in particolare nel 1963, nel momento in cui la maggioranza riesce a ribaltare il corso della preparazione del concilio. Tuttavia, già nel 1964 il clima è differente, e questo terzo periodo è dominato dalla minoranza che è riuscita a organizzarsi e a cambiare completamente strategia (23). Come afferma Grootaers essa si adopera ormai per limitare la portata delle varie decisioni e per neutralizzarle il più possibile, svuotando le in pratica della loro sostanza (una collegialità che non riesce a trovare modi concreti di esercizio, ad es.), o a contenere le spinte riformatrici impedendo il più possibile l'apertura di nuovi fronti.
    Si è spesso detto che la recezione di un concilio si identifica con la sua efficacia (24) e questo non senza motivo. Come nota G. Alberigo: «L'efficacia del concilio [di Trento] si gioca tutta nell'applicazione dei decreti disciplinari (25). È allora che essi sono guardati non come un sapere astratto o una lettera morta, ma come una ispirazione vivente per tutto il corpo ecclesiale (26). È allora che acquisiscono una vera autorevolezza e autorità.
    Rifacendoci a questa regola, che vale per il Vaticano II come per gli altri concili, siamo in grado ai nostri giorni di tracciare un primo bilancio, pur lontano dall'essere esaustivo o definitivo. Un primo esame della situazione potrebbe portare ad affermare che lungo tutto il periodo postconciliare si è tentato di ridurre la portata effettiva dei suoi decreti, impresa che, occorre ammetterlo, era già stata avviata durante il concilio stesso. A discarico di un simile comportamento. Occorre dire che le circostanze nelle quali è cominciata la recezione del concilio non erano certamente favorevoli. È ovvio che il mutamento di paradigma comporti sempre la rottura di tutta una serie di equilibri: si tratta quindi di un passaggio pieno di rischi, delicato. Nel periodo postconciliare la Chiesa ha conosciuto una rottura di equilibri a tutti i livelli: gran parte del suo diritto era diventata obsoleta, al punto che si è potuto parlare, almeno in certi settori dell'azione ecclesiale, di vacatio legis. Risultavano decostruite anche pratiche che riguardavano il culto e la liturgia, l'organizzazione e l'azione pastorale, l'esercizio del governo ecclesiale, la morale... A questi cambiamenti/decostruzioni sul piano delle pratiche corrispondevano modificazioni/destrutturazioni a livello simbolico. Due ambiti della simbolica cattolica - ai quali ne aggiungeremo un terzo – possono essere giustamente analizzati come esempio chiarificatore di tutta questa situazione: la liturgia e la catechesi (27).

    4. Nuovi universi simbolici

    4.1 La liturgia

    La liturgia - e tutte le forme di espressione artistica implicate - è un bell'esempio di questo processo di decostruzione. È questo infatti il luogo per eccellenza nel quale la Chiesa si esprime, si simbolizza, si manifesta, come afferma Sacrosanctum Concilium. La liturgia è un luogo istituente fondamentale per la Chiesa. Modificare la liturgia vuoI dire, immediatamente, arrivare a toccare il sistema simbolico del gruppo cattolico; vuoI dire introdurre delle modificazioni nell'idea di Dio, del prete, della Chiesa. La liturgia si rivela come il primo luogo in cui la Chiesa si esprime mettendo se stessa in scena e non è un caso che il Vaticano II abbia cominciato da una presa di posizione sulla liturgia, che gli ha permesso di rafforzare la riflessione ecclesiologica che si sarebbe sviluppata in seguito (28).
    Il passaggio a una nuova concezione della Chiesa si esprime in primo luogo in questa teologia orante che è la liturgia, prima di concettualizzarsi e di dirsi attraverso discorsi razionali. Non è perciò sorprendente che, immediatamente dopo i grandi concili di riforma, la liturgia si veda trasformata in un significativo campo di battaglia in cui, finché il confronto non sia terminato, si misurano i diversi modi di comprendere i ministeri, l'unità e la cattolicità della Chiesa, la partecipazione di tutti alla vita della Chiesa, le concezioni della Chiesa come popolo di Dio o come assemblea gerarchica e ineguale, le relazioni della Chiesa con il mondo e con gli altri cristiani... Non c'è dunque da stupirsi delle resistenze che verranno opposte su un punto o sull'altro ancora oggi alla SC, o i tentativi di revisione dell'insegnamento di questa costituzione (dal momento della sua promulgazione sino a oggi) perché la liturgia resta un luogo simbolico per eccellenza in cui sono formate le mentalità, modellate le spiritualità e forgiate le rappresentazioni cristiane; e un luogo dove sono rappresentati, messi in scena i rapporti tra i cristiani, e tra i cristiani e il 10Oro Signore.

    4.2 La catechesi

    La catechesi (più della teologia (29), benché le due pratiche appartengano al medesimo insieme, quello delle rappresentazioni e del discorso legittimante) è un altro luogo simbolico capitale. La catechesi intesa come luogo di formazione che dà parola all'esperienza e che forgia le rappresentazioni, è un altro vettore importante, e non può certo sorprendere il fatto che il concilio Vaticano II abbia conosciuto la sua battaglia dei catechismi, sia ai vari livelli locali o nazionali come al livello della Chiesa tutta intera e universale. Il paradosso in questo caso è che il Vaticano II, contrariamente a quello di Trento, non si è occupato molto di catechesi (30). Tuttavia, poco tempo dopo la sua chiusura, la «battaglia dei catechismi» infuriava, cominciando dall'Olanda, prima di esplodere in diversi paesi. Si potrebbe costruire un itinerario della recezione del Vaticano II seguendo questo filo, il dibattito attorno alla catechesi, avendo come punto di partenza la prima esortazione postsinodale di Giovanni Paolo II sulla catechesi (1978), le conferenze del cardo Ratzinger sulla catechesi (1983), la proposta del sinodo del 1985 di redigere un «catechismo o un compendio di tutta la dottrina cattolica», la pubblicazione del catechismo della Chiesa cattolica nel 1992, nel giorno che commemorava il trentesimo anniversario dell'apertura del concilio, la seconda edizione, del Direttorio Generale della catechesi, gli interventi maggiori della Congregazione del clero, sotto la direzione del card. Castillon Hoyos, e in particolare le diverse manifestazioni (continentali e romane) in occasione dei dieci anni di pubblicazione del catechismo, che condurrà alla pubblicazione di un compendio dello stesso catechismo (31).
    Come a Trento, anche al Vaticano II - ma si potrebbero portare altri esempi - la celebrazione di un concilio è seguita dalla riforma della liturgia e dell'insegnamento; e come all'indomani di Trento, sono i nuovi rituali e i/il nuovi/nuovo catechismi/catechismo che forgeranno le nuove mentalità. Oggi ci si può domandare se la nuova liturgia e la nuova azione catechetica uscite dal Vaticano II abbiano fatto sviluppare un'altra rappresentazione della Chiesa tra i cattolici; se abbiano permesso di costruire la Chiesa a livello locale; e, ultimamente, se la liturgia e la catechesi uscite dalla riforma conciliare abbiano forgiato una nuova spiritualità, visto che è a questo livello di profondità che si registra la piena recezione di un concilio, ovvero nel momento in cui le spiritualità, le rappresentazioni e le mentalità ne sono toccate. Queste domande sono troppo vaste per trovare una risposta soddisfacente in questo studio, non essendo l'oggetto principale di questa riflessione. Esse meritano tuttavia di essere poste, e una storia delle mentalità non potrà risparmiarsi un simile lavoro.

    4.3 Il governo

    Un terzo universo simbolico, probabilmente piÙ difficile da cogliere, è quello che si sviluppa a partire dalle pratiche e dal funzionamento degli organismi nel settore del governo ecclesiale. Entrano in questo terzo universo simbolico, tipicamente canolico, la figura del Papa e di Roma, la figura del parroco e della parrocchia (come luogo di un rapporto tipico tra il pastore proprio e i suoi fedeli), e così di seguito. Questo universo simbolico è esso stesso, in un certo senso, destrutturato, in seguito sia alla riforma della Curia, sia all'affermazione della collegialità che colloca in un contesto piÙ ampio l'esercizio del primato, alla costituzione delle Conferenze episcopali che potrebbero potenzialmente essere considerate come un contraltare a una figura centralizzata della Chiesa... A livello diocesano, la rivalutazione della figura del vescovo, la valorizzazione di un sistema di consigli e il rilancio dei sinodi diocesani pongono in termini nuovi la questione del rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale e Chiesa locale-altre Chiese. A livello parrocchiale, infine, la concezione della parrocchia come comunità di fedeli, l'evoluzione della figura del parroco, l'affermazione della corresponsabilità, l'emergere di nuovi minisTeri (diaconato, ministeri laicali), l'apparizione di consigli e comitati vari, sono tutti elementi che provocano una rimessa in questione di tutte le varie rappresentazioni classiche. Non ho fatto altro che enumerare un certo numero di fenomeni senza pretendere di farne un inventario esaustivo; ma si può benissimo indovinare, dietro questo primo inventario, l'ampiezza di un fenomeno che non tocca solamente il livello organizzativo, ma che condiziona profondamente anche le rappresentazioni, l'immagine stessa della Chiesa.

    5. Una recezione in un contesto che è mutato

    Questo processo di uscita dal paradigma precedente (la cristianità, l'era costantiniana o una Chiesa europea) che implica una vera decostruzione/destrutturazione (e non semplicemente una riforma, come invece è avvenuto a Trento) accade proprio mentre il mondo sta vivendo una mutazione profonda. Nei fatti, nel momento in cui la Chiesa cattolica non è più in possesso dei suoi equilibri fondamentali in ragione del mutamento nel quale è entrata, una crisi culturale di grande ampiezza, che si manifesta anzitutto nei paesi anglosassoni prima di attraversare il continente (Francia, Germania, Italia) spazza l'occidente. In questo momento, la Chiesa cattolica è fragile, non potendo più contare sui suoi baluardi, costruiti nel corso degli ultimi secoli, e non è ancora in possesso di nuove figure in grado di garantire nuove forme istituzionali (pratiche, simboli, modi di vita, riferimenti) che la mettano almeno in grado di resistere a questa ondata che la sta investendo.
    Al sopraggiungere della tempesta che ha sferzato l'occidente e toccato tutto il mondo - solitamente si situa questo momento nel 1968 - la Chiesa cattolica non aveva ancora sperimentato quale potesse essere la nuova figura del ministero presbiterale, della vita religiosa. Non si erano ancora messe a punto le forme liturgiche e le pratiche dei sacramenti richieste dal Vaticano II. Le pratiche, le forme, i costumi, il diritto, le spiritualità e le mentalità che potevano corrispondere al «cattolicesimo conciliare non erano ancora state pienamente elaborate, poiché tutto questo richiede tempo e non può risparmiarsi lunghi periodi di sperimentazione. Tutto era ancora in cantiere, dalle regole alle costituzioni delle congregazioni e degli istituti religiosi alle ratio studiorum per la formazione dei futuri preti, passando per le istituzioni che garantivano il governo delle diocesi. Si era ancora in questo periodo ad experimentum (nella liturgia, nella catechesi, a livello della vita religiosa e di quella presbiterale, per limitarci a questi aspetti) quando una forte ondata arrivò a scuotere l'occidente. I vecchi schemi che sostenevano la vita cristiana erano in parte smantellati o in via di esserlo, e i nuovi in via di costruzione. Tutto l'edificio era in ricostruzione, e così la tempesta ha avuto effetti eleva stanti. Le nuove forme del pensiero cattolico (la teologia postscolastica) e le forme della vita spirituale erano in piena elaborazione, ma erano ancora troppo fragili per reggere una simile onda d'urto. Di fronte a un tale stato di cose, molti ebbero paura.
    La reazione più radicale, portata avanti da mons. Lefebvre, tirò le conclusioni della sua opposizione al concilio e si irrigidì in un progetto di restaurazione che avrebbe esercitato un rilevante influsso sul cattolicesimo, senza tuttavia riuscire a cambiare la direzione del processo in corso. Ci furono altri che provarono paura; ed è sufficiente vedere, scorrendo le loro biografie, il trauma causato dagli avvenimenti del 1968 in personalità come Ratzinger e Lustiger, per non prendere che due esempi, o, su di un altro piano, don Giussani. Per costoro, tutti legati in un modo o in un altro al mondo studentesco in cui si stava elaborando una nuova cultura, il liberalismo e la rivolta correvano il rischio di spazzare via tutto. Non si era più all'epoca di «abbattere i bastioni... Occorreva piuttosto serrare i ranghi per salvare il salvabile.
    Dal 1969, anno particolarmente movimentato, teologi e osservatori che avevano partecipato al concilio cominciano a suonare l'allarme. È il caso di Danielou (32), di de Lubac e di Maritain. Nel 1970, a Bruxelles, il convegno di Concilium riunisce per l'ultima volta tutti coloro che avevano partecipato alla sua fondazione. Da questo momento in poi i diversi gruppi andranno ciascuno per la propria strada. Ciò che non era che latente emerge ormai in un modo evidente e quasi ostentato. La recezione del Vaticano II avrà ormai due versanti.. Due nebulose vanno costituendosi, la prima attorno a Schillebeeckx (Küng, Metz), e la seconda attorno a Balthasar (de Lubac, Ratzinger, Wojtyla, Lustiger) (33) mentre alcuni uomini che hanno segnato il concilio stanno ormai per ritirarsi (Congar, Chenu, Rahner).
    Si potrebbe rimpiangere il fatto che il concilio Vaticano II non abbia avuto il tempo di far maturare tutti i suoi frutti, in ragione del gelo precoce che ha bruciato il raccolto (se mi si permette questa immagine). Insomma, il periodo necessario di incubazione e di maturazione indispensabile (che suppone forme di sperimentazione che chiedono un tirocinio, comportando tentativi ed errori) è stato decisamente troppo breve perché portasse tutti i suoi frutti. In effetti, non si può istituire una nuova figura di cristianesimo se non si dispone in modo adeguato del fattore tempo. Peggio ancora, il sentimento antiistituzionale era così forte in questi anni da impedire l'istituzionalizzazione delle intuizioni anche forti che stavano emergendo. Questa incapacità di istituzionalizzare ciò che stava germinando avrà degli effetti a lungo termine. Il carattere immediato e spontaneo dell'esperienza avrà la precedenza sull'istituzione.
    Si potrebbe allora avanzare l'ipotesi che, quattro anni dopo la fine del concilio, il destino era ormai segnato. Non essendo riuscito a istituire una nuova figura del cattolicesimo, il Vaticano II non sarebbe riuscito a p011are tutti i suoi frutti. Certo, c'è tutta una serie di nuove istituzioni uscite dal Vaticano II: la riforma liturgica è lì per mostrarcelo. Tuttavia, questo movimento non è riuscito ad arrivare sino al termine del suo percorso. Nel nuovo clima di paura, lo stile che va imponendosi è sicuramente più quello del ripiega mento che quello dell'apertura e dell'espansione.

    6. L'apparizione dei movimenti

    Paradossalmente, all'inizio degli anni Settanta sarà il movimento carismatico (e i movimenti che ne sono derivati), movimento che non si era intravisto durante il Vaticano II, che, senza permettere una vera uscita dalla crisi, permetterà tuttavia \'istituzione di una nuova figura del cattolicesimo, sia sul piano liturgico che in quello dell'uso della Bibbia nella vita cristiana, passando attraverso il rinnovamento della vita religiosa e della formazione al ministero presbiterale e al suo esercizio. A prima vista, il movimento carismatico mette in avanti una figura più egalitaria della Chiesa, una figura meno clericale e anche meno giuridica. Su questa base, si potrebbe pensare che questo movimento vada incontro alle critiche formulate da mons. De Smedt al primo schema sulla Chiesa rapidamente dibattuto nel dicembre 1962, nella prima sessione del concilio. È dunque in questo quadro dell'influsso carismatico, dei movimenti e delle fondazioni che l'accompagnano, che si sviluppa una nuova figura di cattolicesimo, figura che assume alcuni tratti conciliari ma che si ricollega anche a forme di pietà e a schemi intellettuali preconciliari.
    Mi sembra sempre più chiaro che gli anni 1969-1972 sono cruciali e che è qui che si realizza un rovesciamento nella recezione del Vaticano II. Non si passa da un periodo di euforia a uno di disillusione, come si è detto spesso. Si passa piuttosto da una riconfigurazione "liberale" del cattolicesimo postconciliare, riconfigurazione portata avanti soprattutto dai grandi ordini religiosi, i domenicani in particolare, a una riconfigurazione più "integrale” (34) che si appoggerà alla galassia carismatica che sta emergendo. Di conseguenza il concilio Vaticano II si adagerà dentro un letto che non era stato preparato dai suoi padri. Lo si metterà dentro una forma non così omogenea con quella originale. L'evoluzione del cardo Suenens, che ha saputo cavalcare tutte le onde, è un po' l'emblema del percorso della Chiesa cattolica: legionario di Maria prima del Vaticano II, crociato della corresponsabilità negli anni postconciliari, ambasciatore del rinnovamento carismatico dagli anni Settanta in poi.

    7. L'inizio di una nuova ermeneutica del concilio

    Siamo in grado ormai di formulare un'ipotesi interpretativa: l'indebolimento della Chiesa cattolica, causato dalla destrutturazione in atto delle differenti sfere del suo sistema simbolico nel corso degli anni immediatamente successivi al concilio, non l'aveva preparata a far fronte alla crisi culturale che non aveva visto arrivare. Questa situazione avrebbe provocato una reazione in cui si sarebbero alleati gruppi diversi con motivazioni altrettanto eterogenee. Come al concilio, dove la maggioranza era in realtà un gruppo assai composito (35) e i motivi che avevano spinto a votare a favore dei vari schemi erano parecchio differenti, così ora in questo postconcilio si creano alleanze tra gruppi assai diversi, che perseguono degli obiettivi ben differenti. Alcuni (come ad es. mons. Felici) si erano dati come obiettivo quello di limitare la portata delle riforme conciliari. Altri invece, legati all'opera conciliare, hanno temuto che si volesse dare a essa una portata che andava ben aldilà delle intenzioni originarie. Hanno perciò scelto di fare del Vaticano II una lettura che scegliesse la continuità piuttosto che la rottura, una lettura del concilio alla luce del magistero papale e delle forme di vita cristiana del XIX e della prima metà del XX secolo, piuttosto che una lettura del magistero conciliare alla luce degli elementi nuovi che lo stesso concilio aveva introdotto. Si è temuto che lo sforzo di una nuova istituzione del cristianesimo attraverso nuove pratiche, lo sviluppo di nuove forme di pietà e di espressione della fede e la costruzione di un nuovo sistema simbolico finissero col rompere la continuità dell'identità cattolica. È stata perciò scelta l'opzione in favore di una riaffermazione di quella identità cattolica di cui si voleva assolutamente scongiurare la dissoluzione.
    Comunque stiano le cose, la linea di confine tra le diverse correnti sembra costruirsi attorno al rapporto da tenere col mondo e la modernità; ed è l'interpretazione della Gaudium et Spes - più che la se che viene rimessa in questione (36). Se Maritain temeva un «mettersi in ginocchio di fronte al mondo" (85), Ratzinger pensava che lo schema XIII, che egli aveva combattuto in modo tenace durante il concilio, rappresentava per i padri conciliari un modo di riconciliare la Chiesa col mondo col rischio di indirizzarsi verso un «accomodamento ingenuo al mondo" (433), verso un «abbraccio col mondo” (436). Se le cose vengono lette in questo modo, ogni tentativo di cooperare col mondo (424), di dialogare con esso (425), di «consenso col presente" (426), di collaborazione con il mondo (426), di solidarietà con il mondo a rischio di giungere sino a una sorta di «ubriacatura dell'adattamento" (429) alle culture, rappresenta un'impresa già viziata in partenza. La Chiesa, se non vuole disperdersi dentro il mondo, confondersi con esso o addirittura identificarsi a esso (432), non deve assolutamente abbandonare la sua posizione di critica nei confronti del mondo e delle sue culture. L'adattamento al mondo non può in alcun modo rappresentare una via di salvezza per la Chiesa, visto che il mondo moderno (la scienza, la tecnica, l'idea di progresso sulle quali si basa) non può certo rappresentare un ideale da perseguire. Perché allora volersi adattare a un mondo che sta fallendo e che lotta per la sua sopravvivenza, un mondo che aliena l'uomo e riduce in miseria popolazioni di interi continenti? Più ancora, ogni adattamento è un'impresa votata al fallimento, poiché la Chiesa in questa impresa arriva sempre in ritardo, cercando di non perdere un treno che tuttavia non è lei a condurre, tentando in tutti i modi di salire a bordo dell'ultima carrozza di un treno che corre già a grande velocità.
    Sostanzialmente il disaccordo tra teologi che erano appartenuti alla maggioranza conciliare si condensa attorno a due interpretazioni molto differenti del cristianesimo e della Chiesa nel mondo e nella storia. Se un primo gruppo è maggiormente sensibile a leggere i segni dei tempi presenti dentro il mondo (57), un secondo preferisce un approccio kerigmatico che annuncia al mondo la verità del Vangelo, verità alla quale il mondo non può giungere in modo indipendente, da solo. Questo secondo gruppo rimprovera al primo di ridurre l'economia cristiana a una semplice esplicitazione di ciò che il mondo conosce già in maniera inconsapevole, senza la proclamazione del Vangelo e senza la rivelazione. Si teme la riduzione della teologia ad antropologia; una riduzione del cristianesimo a un semplice umanesimo; una riduzione della salvezza alla liberazione; una riduzione della prospettiva del Regno all'avvento di un mondo nuovo.
    Questo stesso gruppo temeva ugualmente che l'«aggiornamento" conciliare, privato dell'appoggio a una solida base dottrinale, sfociasse alla fine in una concessione allo spirito del mondo, un liberalismo e un lasciar fare senza spiritualità e privo d'intelligenza (38). Insomma, come nel 1944 ne Il dramma dell'umanesimo ateo, de Lubac teme fortemente un cattolicesimo debole e fiacco, senza spiritualità vigorosa e che ha paura dell'intelligenza, un cattolicesimo che non ha nulla da dire né da portare al mondo. Per riprendere le categorie di Maritain, questo gruppo si autodefinisce allo stesso tempo come «antimoderno» e «ultramoderno», smarcandosi da un mondo che ha mancato i suoi obiettivi e si è incamminato verso la sua rovina.
    In modo naturale, un gruppo di cattolici nostalgici, a disagio nel mondo attuale, arriverà a ingrossare le fila di questo drappello, aggregandosi così al nucleo originario e portando elementi non sempre in linea con le prese di posizione espresse da questo nucleo che, richiamandosi al concilio (al ..vero concilio») e desiderando essergli fedele, mette al primo posto del suo programma una decisa opposizione al mondo (rifiutando quindi l'adozione da parte della Chiesa dei valori e delle procedure democratiche, il riconoscimento dentro la Chiesa del ruolo e dello statuto che le società democratiche riconoscono alle donne, l'accettazione di un pluralismo ideologico e religioso, per non portare che tre esempi).
    Balthasar, che nel 1952 aveva invitato la Chiesa ad ..abbattere i muri artificiali della paura», riprende lo stesso tema attualizzandolo. Per lui, ormai, il muro da abbattere non è più la teologia scolastica, ma la teologia moderna che riduce il cristianesimo a politica o a un umanesimo, impedendogli con ciò di annunciare al mondo il puro Vangelo.

    IL MONDO COME NUOVO ORIZZONTE DELLA CHIESA

    Nonostante le esitazioni che abbiamo appena descritto, e pur facendo continuamente sia dei passi avanti che dei passi indietro, questo periodo del postconcilio ha visto la Chiesa impegnata a vivere quei tirocini che sono richiesti dal fatto di stare diventando una Chiesa a dimensione mondiale. Considerato nella sua qualità di evento, il Vaticano II ha permesso al cattolicesimo di accedere a un nuovo livello di autocoscienza, avendo fatto sì che la Chiesa sperimentasse questa apertura mondiale. Sono testimoni di questo fatto non solo il mondo della comunicazione che osserva il concilio, ma soprattutto gli appunti dei vescovi che vi partecipano. Nella sua qualità di avvenimento, il Vaticano II istituisce la pratica di una Chiesa che si vede mondiale, e rappresenta il punto di avvio di un processo ancora incompiuto di rovesciamento di un modo centralizzato di governare la Chiesa cattolica (39). Come ogni concilio, il Vaticano II rappresenta un momento in cui l'orbis invade e prende possesso dell'urbs, sospendendo le regole abituali di governo, secondo le quali è piuttosto l'urbs che dirige e regge l'orbis. Al momento del Vaticano II, il cattolicesimo fa il suo ingresso quindi in un lungo processo - non ancora compiuto - che potrebbe potenzialmente essere portatore di un rovesciamento di tendenza nel governo centralizzato della Chiesa cattolica.
    Se esaminiamo i documenti, possiamo trovare nel corpus conciliare parecchi elementi che consentono di immaginare un modo di governo decentralizzato della Chiesa cattolica. In particolare, come ormai è risaputo, si trova questo enunciato programmatico nel secondo capitolo di LG:
    Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva (LG 13).
    Questo enunciato conoscerà un ampio sviluppo nel documento Orientalium Ecclesiarum, e si troverà disseminato in parecchi altri documenti del Vaticano II che faranno spesso riferimento ..alla disciplina propria», agli ..usi liturgici specifici», e al ..patrimonio teologico e spirituale originale» di queste Chiese (40). Ancor più, si affermerà che la diversità nella Chiesa, lungi dal nuocere alla sua unità, la manifesta», la mette in valore (OE 2) (41) quando essa è vissuta nella comunione. È così che sarà resa sempre più manifesta la vera cattolicità e apostolicità della Chiesa» (UR 4). Nel Vaticano II, la Chiesa cattolica ritrova la sua cattolicità.
    Nella sua concezione dell'unità, il Vaticano II include una riflessione sullo statuto della diversità resa manifesta attraverso le tradizioni proprie, la disciplina particolare, gli usi liturgici specifici e il patrimonio teologico e spirituale proprio riconosciuto ad alcune Chiese particolari (LG 23; OE 3, 5-6; UR 14-17). Ecco quattro categorie a partire dalle quali è possibile esaminare il cammino compiuto dalla Chiesa cattolica, nel tentativo di imparare a diventare una Chiesa realmente a dimensione mondiale.
    Prima tuttavia è utile ritornare un attimo sul valore riconosciuto alla diversità o alle particolarità che, lungi dall'essere viste come anomalie, sono lette come un tesoro per !'insieme della Chiesa che in questo modo accoglie le ricchezze delle nazioni. È così che la Chiesa latina riconosce di aver pescato in questo tesoro molti elementi della sua liturgia, della sua tradizione spirituale e del suo diritto (UR 14). La Chiesa tutta intera riceve allora ciò che è stato elaborato nelle Chiese locali; e ciò che una volta era patrimonio della Chiesa orientale, il Vaticano II lo considererà come "patrimonio di tutta la Chiesa di Cristo» (OE 5). Ciò che era particolare (disciplina propria, costumi liturgici particolari, tradizioni teologiche e spirituali distinte) può dunque arricchire la cattolicità e costituire un tesoro per tutte le Chiese.
    Il Vaticano II Utilizza questo linguaggio non soltanto nei confronti delle Chiese orientali, viste in questo modo come una sorta di marginalità creatrice o l'eccezione che conferma la regola. In Ad Gentes 19 si può leggere infatti: “In queste giovani Chiese [...] la fede è oggetto di insegnamento catechistico appropriato, trova la sua espressione in una liturgia rispondente all'indole del popolo, e viene introdotta, grazie ad un'adeguata legislazione canonica, nelle sane istituzioni umane e nelle consuetudini locali.
    Ci troviamo ancora una volta in presenza della trilogia liturgia-insegnamento-disciplina canonica, mentre il quarto elemento (la tradizione spirituale propria) in questo testo non è richiamato. Le giovani Chiese, in contatto con le nuove culture, sarebbero in grado di dare al Vangelo l'opportunità di attualizzarsi dentro nuove forme. Secondo la prospettiva conciliare, grazie a uno scambio di doni tra le Chiese (AG 19-23), "le tradizioni particolari insieme con le qualità specifiche di ciascuna comunità nazionale, illuminate dalla luce del Vangelo, saranno assorbite nell'unità cattolica» (AG 22). Prendere sul serio questa dinamica di scambi tra le Chiese conduce a riconoscere che la teologia, le espressioni della fede, le tradizioni liturgiche e le sensibilità spirituali, come il diritto, non si elaborano solamente a partire da organismi centrali del governo ecclesiale, né dalla sola volontà del legislatore, ma si elaborano a partire dall'esperienza delle Chiese, esperienze vissute e raccontate nel dialogo tra le Chiese.
    Il Vaticano II, inteso sia come avvenimento che come insegnamento, ci permette di intuire che cosa sarebbe una Chiesa a dimensione mondiale, pienamente a suo agio nel vivere la sua nota della cattolicità. Avanzo tuttavia l'ipotesi che negli anni che sono seguiti al concilio, in ragione degli sviluppi prodigiosi nel campo delle comunicazioni, a una ecclesiologia della decentralizzazione sia corrisposta una tecnologia che favoriva la centralizzazione; mentre, prima del concilio. a una ecclesiologia della centralizzazione corrispondeva una tecnologia della decentralizzazione. Così, paradosso davvero curioso, grazie alla televisione e a internet oggi disponiamo dei mezzi per condurre una politica di centralizzazione, se l'idea ci dovesse piacere; e, in verità, delle forze centralizzatrici sono già effettivamente all'opera, pur non avendo preso una decisione esplicita di camminare in questa direzione.

    1. Il munus sanctificandi: la liturgia

    Come ho già sottolineato sopra, la costituzione sulla liturgia avrebbe aperto la strada alla riflessione conciliare che sarebbe seguita. Per quanto ci interessa ora, i padri conciliari, rovesciando un movimento secolare che consisteva nel concentrare a Roma la direzione della disciplina liturgica (42), decidevano, con parecchie riserve è giusto segnalarlo -, di affidarne la responsabilità alle conferenze episcopali (43). Si tratta qui probabilmente di una delle innovazioni più notevoli della Sacrosanctum Concilium, se confrontata con la Mediator Dei (44). Nel Vaticano II si comincia a ragionare, benché ancora in un modo un po' timido, non più di un regime di concessioni o di indulto (45) come era il caso in particolare durante il pontificato di Pio XII, ma di un regime di adattamento alle culture sorto l'autorità delle conferenze episcopali o, meglio, "delle diverse assemblee di vescovi legittimamente costituite su di un determinato territorio» (Sc 22, §2) (46). Elemento assai poco sottolineato nei commentari alla costituzione sulla liturgia, questo articolo 22 §2, collocato in testa alle "norme generali», e chiamato a regolare la "restaurazione della liturgia» costituisce un riferimento costante nella continuazione del testo; e, eli fatto, questo articolo ha il carattere realmente strutturante tipico di una norma generale, in questo caso la prima (47).
    Occorre anche ricordare che l'allargamento delle competenze delle conferenze episcopali in materia di adattamento della liturgia alla sensibilità e alle culture locali, in modo da renderla più conforme alle tradizioni e ai costumi dei diversi popoli, era una preoccupazione avanzata soprattutto dai non-occidentali (48) in conseguenza del fatto che il movimento liturgico aveva beneficiato, spesso si tende a dimenticarlo, del rinnovamento missionario, oltre che del movimento biblico, patristico ed ecumenico. Questo allargamento era rivendicato da mons. D'Souza (Nagpur-India), nei suoi interventi del 27 ottobre e del 7 novembre 1962 (49), e vivamente incoraggiato dai mons. Rugambwa (Tanzania) e Tatso Doi (Tokyo) (50). L'intervento di D'Souza è forse il più critico, con la sua denuncia della prassi di certi minutanti alle dipendenze della Congregazione che potevano con un solo tratto di penna rifiutare, attraverso un non expedire, ciò che un gruppo di vescovi aveva valutato in modo dettagliato in conferenza episcopale e che avevano giudicato essere la posizione più adatta in quelle circostanze. Egli dubitava in modo forte della capacità degli esperti romani di riconoscere e di comprendere i problemi con i quali erano chiamati a confrontarsi i popoli delle terre di missione, i loro usi, le tradizioni, le culture e le aspirazioni spirituali di queste popolazioni. Per lui, come per il suo collega il card. Gracias (51), la responsabilità degli adattamenti liturgici doveva essere affidata alle conferenze episcopali. In maniera generale, ci si dispiaceva del fatto che lo schema si limitava ad autorizzare le conferenze episcopali a fare delle proposte in materia, riservando alla Santa Sede la responsabilità del giudizio finale. Parecchi si erano rifatti ai bisogni pastorali propri delle loro regioni per far valere la necessità di consultare degli specialisti delle rispettive culture locali, nel momento della revisione dei libri liturgici (52). Per loro era del tutto evidente che gli esperti delle terre di missione dovessero essere ammessi tra gli incaricati della revisione dei testi liturgici, poiché, più di altri, conoscevano i tratti specifici delle culture locali.
    Non potendo estendere ulteriormente la nostra indagine, ci accontentiamo di indicare che il Vaticano II ci permette di immaginare un governo decentralizzato della liturgia. L'esperienza, cominciata il giorno dopo l'adozione della costituzione, avrebbe evidenziato in fretta tutte le difficoltà derivate da una simile inversione di tendenza; e un bilancio di questi 40 anni di rinnovamento liturgico meriterebbe davvero di essere fatto sotto questo aspetto. Questo bilancio, se si vuole veramente trarre profitto dall'esperienza e dare il via a nuovi tirocini, dovrà indicare le difficoltà e le problematiche che un tale funzionamento decentralizzato ha generato. Non ci si potrà stupire tuttavia del fatto che un tale rovesciamento di prospettiva richieda del tempo per entrare a regime e chieda di potersi basare su delle prassi sperimentate. Dirò semplicemente, concludendo questo paragrafo, che non sono rimasto sospreso dalle misure sollecitate in questo campo dall'istruzione Liturgiam authenticam. Collocata nel solco del motu proprio Apostolos suos (53) che tocca la questione specifica del munus docendi delle conferenze episcopali, l'istruzione rappresenta su un altro terreno (il munus scmctificandi, questa volta) un tentativo simile di limitare l'autorità della conferenze episcopali. Se si vuole giungere a limitare il ruolo delle conferenze episcopali, si sarebbe dovuto, un giorno o l'altro, affrontare la questione alla radice; e l'origine dell'affermazione dell'autorità delle conferenze episcopali si trova nella costituzione sulla liturgia.
    Già all'inizio degli anni Ottanta del XX secolo il cardo Ratzinger anticipava, con una buona dose di preveggenza, le conseguenze di un tale esercizio delle competenze delle conferenze episcopali, quando scriveva, nel testo a cui ci siamo già più volte riferiti: “Se la conciliarità in quanto nuova forma della cattolicità aveva !'intenzione di internazionalizzare le tendenze nazionali, ciò voleva dire che le tendenze delle differenti chiese particolari avrebbero assunto un carattere determinante, e che la linea da seguire non poteva più essere indicata da una istanza centrale unica"' (54).

    2. Il munus docendi: la teologia, la catechesi e il ministero d'insegnamento dei Vescovi

    Seguendo !'insegnamento del concilio, relativo agli sforzi da sostenere per riuscire a dire in forme nuove il Vangelo, saremmo portati a credere che l'emergere di problematiche inerenti al passaggio a nuove culture, lungi dal costituire una minaccia per l'annuncio del Vangelo o un pericolo per la vitalità della fede (GS 62), può invece «stimolare una più accurata e profonda intelligenza.. della fede. Questa nuova intelligenza della fede, che domanderà «nuove indagini anche da parte dei teologi.. è un invito a cercare «modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini del nostro tempo.. (GS 62). In questo contesto, diventa necessario “che, nell'ambito di ogni vasto territorio socio-culturale, [...] venga promossa una ricerca teologica di tal natura per cui, alla luce della tradizione della Chiesa universale, siano riesaminati fatti e parole oggetto della rivelazione divina, consegnati nella sacra Scrittura e spiegati dai padri e dal magistero ecclesiastico. Si comprenderà meglio allora secondo quali criteri la fede, tenendo conto della filosofia e del sapere, può incontrarsi con la ragione, ed in quali modi le consuetudini, la concezione della vita e la struttura sociale possono essere conciliati con il costume espresso nella rivelazione divina. Ne risulteranno quindi chiari i criteri da seguire per un più accurato adattamento della vita cristiana nel suo complesso (AG 22).
    Dopo il concilio, gli adattamenti della riflessione teologica e delle forme di catechesi alle diverse aree culturali sono stati oggetto di numerose messe in guardia, così come gli sforzi di rinnovamento della teologia che, sia nel primo mondo che nelle giovani Chiese, hanno conosciuto parecchi problemi. Non penso sia necessario rifarne ora l'inventario. Malgrado tutto, dei passi avanti sono stati registrati; e si può affermare che la Chiesa oggi sperimenta e fa esperienza reale di cosa significhi anche in questo campo non essere più semplicemente latina (55). Anche la fondazione della rivista Concilium aveva avuto come obiettivo quello di testimoniare questa universalità della Chiesa, universalità che si era manifestata in modo ancora incoativo durante il Vaticano II. Pensata in modo ancora largamente neo-colonialista da Schillebeeckx (56), questa universalità è concepita in modo decisamente più positivo da Rahner e Congar. Per il primo «la rivista deve essere internazionale nel senso forte del termine, senza distinzione di paesi piÙ o meno favoriti»; Congar desiderava espressamente che Concilium permettesse alla teologia non soltanto di superare il suo eurocentrismo, ma di uscire dal suo "esclusivismo latino». È questo il motivo che lo portò a premere perché fossero ammessi anche teologi rappresentanti delle Chiese orientali e protestanti.
    Il lancio di questa rivista che è lungi dall'essere senza difetti, e che non sarebbe sfuggita alla tentazione di costituirsi nel ruolo di magistero parallelo, finirà con lo spaventare diversi ambienti. Mons. C. Colombo, molto vicino a Paolo VI, farà sapere a Rahner e Schillebeeckx che per il Vaticano è fuori questione che H. KUng divenga il responsabile della sezione ecumenismo. Nel gennaio 1964, comunicherà a Schillebeeckx, dopo una conversazione con "le più alte autorità», di aver ricevuto dal segretario di Stato notifica orale di tre condizioni poste alla pubblicazione della rivista, tra le quali l'allargamento dei diversi comitati attraverso l'integrazione di rappresentanti della «teologia romana». Quasi da subito infatti si temeva che Concilium, proprio in ragione del nome che portava, apparisse come un organo ufficioso del concilio, un direttorio dei teologi pronto a orientarne la recezione, un magistero dei teologi "della periferia» che si erano così sostituiti al «magistero della teologia romana» che aveva dominato la prima parte del XX secolo.
    Forse, ai fini della nostra riflessione risulta più importante comprendere gli sforzi messi in atto per limitare la competenza delle conferenze episcopali nel campo del munus docendi. Se si vuole comprendere Apostolos suos, occorre risalire all'anno 1982 e alla pubblicazione di tutta una serie di lettere pastorali sulla pace, a firma delle conferenze episcopali USA, francesi, svizzere...(57). Dato significativo, le diverse conferenze episcopali non assumevano lo stesso punto di vista, la stessa posizione in riferimento alla questione della deterrenza nucleare; la conferenza episcopale USA assumeva la posizione più radicale, una posizione che superava lo stesso magistero papale su di una materia così delicata. Per i vescovi USA «la questione che si pone ai cattolici non è tanto di sapere se è loro lecito eseguire l'eventuale ordine di fuoco sulle città del nemico, perché questo è vietato senza alcuna ambiguità. La questione è di sapere se è loro permessa anche la sola minaccia di una simile azione, che essi sanno non avere il diritto di eseguire». Tutto il problema morale della deterrenza è là, ben riassunto da questa frase del documento dei vescovi USA: «Una nazione ha il diritto di minacciare di fare qualche cosa che non ha il diritto di fare? Ha il diritto di possedere delle armi che non ha il diritto di utilizzare?» (58). Violentemente attaccata dalla Casa Bianca, questa posizione è stata pure contestata da qualche teologo europeo. Prese di posizione così diverse e plurali davano la sensazione di un certo disordine, cosicché il 19 e il 20 gennaio 1983 rappresentanti delle conferenze episcopali USA ed europee vengono convocati a Roma, nel tentativo di armonizzare le loro rispettive posizioni, adeguandole a quella romana. Nel resoconto di questa riunione (59) è possibile trovare questa affermazione del cardo Ratzinger, secondo la quale «una conferenza episcopale in quanto tale non possiede un mandatum docendi. Esso infatti appartiene o al singolo vescovo o al collegio dei vescovi riunito intorno al papa» (60). Si ha qui la prima contestazione del munus docendi esercitato dalle conferenze episcopali. Una simile affermazione provocò una reazione immediata negli Stati Uniti. A. Dulles si affrettò a pubblicare un articolo critico nei confronti di questa posizione, sulla rivista dei gesuiti statunitensi «america!” (61). Ciononostante, il problema ormai era stato posto.
    Il problema resta sostanzialmente congelato sino al sinodo straordinario del 1985. In quell'occasione assistiamo a una critica verosimilmente orchestrata nei confronti delle conferenze episcopali. Alla vigilia dell'apertura del sinodo, dopo che la Commissione teologica internazionale aveva pubblicato un documento che rileggeva in modo molto restrittivo lo statuto teologico delle conferenze episcopali (62), il card. Ratzinger ripropone la sua posizione del 1983 nel suo libro-intervista con Messori. L'intervento del card. Hamer, in occasione del concistoro precedente l'apertura del sinodo, va nella stessa direzione (63). Finora non si è posta molta attenzione al fatto che, sei mesi prima dell'apertura del sinodo, un editoriale della Civiltà Cattolica aveva ripreso un certo numero di critiche rivolte alle conferenze episcopali, citando studi di Balthasar, Maritain, de Lubac, Gouyon et Hamer. Il risultato è che il loro munus docendi viene apertamente contestato (64). Critiche simili, ma ancora più esplicite, vengono l'i proposte qualche mese più tardi da H.U. von Balthasar in un articolo pubblicato dal quotidiano «Avvenire (65).
    Il seguito della vicenda è più conosciuto, ovvero la raccomandazione dell'assemblea sinodale, nonostante diversi interventi dei padri sinodali in favore delle conferenze episcopali, a studiare la natura e lo statuto teologico delle conferenze episcopali. Viene perciò messo in funzione tutto quel processo che condurrà ad Apostolos Suos, che incidentalmente prende una posizione molto simile a quella contenuta nei modi Siri-Carli, e trasmessa da Paolo VI alla Commissione incaricata di redigere il decreto conciliare Christus Dominus (66). Uno di questi modi riguardava le conferenze episcopali e intendeva precisare il fatto che le loro decisioni, che alla fine non potevano che essere degli auspici, non avrebbero avuto realmente valore che dopo la loro ratifica da parte della Santa Sede (67). Più di trent'anni dopo il Vaticano II si ritorna perciò a una posizione rifiutata dalla commissione conciliare competente in ragione del fatto che essa non era conforme alla posizione dell'assemblea conciliare.
    Tutta questa vicenda ci mostra come non sia facile per la Chiesa cattolica vivere quei tirocini che l'aiutino a diventare realmente una Chiesa a dimensione mondiale, secondo forme che possono essere anche diverse rispetto all'adozione di un governo centralizzato. Ovviamente, e nessuno intende negarlo, l'emergere di posizioni contraddittorie sostenute dalle diverse conferenze episcopali non poteva non essere letto come un vero problema e domandava una soluzione. L'ingresso in un nuovo paradigma non avviene mai senza difficoltà e senza tensioni; di fronte a questi problemi si corre tuttavia il rischio di ripiegarsi su posizioni conosciute e familiari, piuttosto che tentare di immaginare soluzioni nuove.

    3. Il munus regendi: il governo della Chiesa e l'elaborazione della sua disciplina

    All'avvio della riforma del diritto nella Chiesa cattolica si realizza una apertura simile a quella conosciuta durante il concilio, nei confronti dei costumi, della diversità di situazioni, di tempi e di luoghi, perfino di culture. Nel sinodo del 1967 il dibattito si era spinto sino a ipotizzare la possibilità di più codici:
    Un solo codice per turca la Chiesa? O due o più ancora: uno per la Chiesa latina e gli altri per le Chiese orientali? Tesi opposte, difese con uguale ardore portano a concludere che la tesi di una codice unico non è ancora matura. Quasi tutti si trovano d'accordo sull'opportunità di elaborare una legge fondamentale della Chiesa, da porre come preambolo al codice" (68).
    Alla fine, oltre ad adottare il principio di sussidiarietà, si adottò anche questo principio: «Che il codice sia unico per la Chiesa latina, ma che permetta, o perfino esiga, degli statuti particolari, che rispettino la molteplicità di situazioni, di tempi e di luoghi (69).
    Una prima lettura mi porta a credere che questa seconda preoccupazione sia andata perduta durante il lavoro di stesura del codice, come è accaduto al principio di sussidiarietà, che alla fine non ha avuto un grande influsso sulla revisione del codex (70). Si è preferito ricorrere all'utilizzo di leggi-cornice per riconoscere la diversità di contesti e circostanze (71). È sufficiente tutto questo? Il rimpianto H. Mueller affermava che la Chiesa riconosce la diversità prevedendo delle disposizioni giuridiche differenti per la Chiesa d'occidente e per la Chiesa d'oriente; e tuttavia constatava che "per tutta la Chiesa latina vale come sempre solo un CJC unitario, che unifica, uniformandole, la costituzione e la vita delle Chiese locali spesso fino nei dettagli e si limita, solo puntualmente e in occasioni per lo più meno importanti, con leggi-cornice ad assegnare o concedere alle autorità delle Chiese locali la competenza legislativa (72).
    Un esame più approfondito ci permetterebbe di vedere come anche per questa dimensione si stia assistendo a un movimento di flusso e di riflusso. Di tentativi ne sono stati fatti, un diritto particolare (consuetudinario può anche emergere (73) laddove, in altri campi, si è cercato di limitare il potere di iniziativa delle Chiese locali (74). Siamo ancora in pieno tirocinio, e non ci è ancora possibile tirare conclusioni definitive.

    CONCLUSIONE

    Dopo il Vaticano II, la Chiesa cattolica è innegabilmente entrata in un nuovo periodo della sua storia. Questo passaggio non avviene senza problemi e dolori; e uno sguardo un po' più ampio ci permette di osservare che, per certi versi, la Chiesa cattolica se la sta cavando bene - se non addirittura meglio di altre Chiese (75). Uscire dall'epoca di cristianità, chiudere l'esperienza della Controriforma e diventare una Chiesa a dimensione mondiale (il che significa coniugare insieme cattolicità e unità) rappresentano una sfida di grande portata. Una simile sfida non la si risolve in un sol giorno, né pensando di potersi risparmiare difficoltà e tensioni.
    In questa marcia della Chiesa alcuni denunceranno abusi e passi falsi, altri retromarce e ritorni al passato. Mi sembra giusto concludere con le parole di Chenu che, a proposito della crisi modernista, parlava di una crisi di crescita, di fronte alla quale non era il caso di allarmarsi.
    Malgrado la gravità della situazione, si trattava in verità di una crisi di crescita dentro la Chiesa, e di conseguenza, per un organismo sano, di un fatto naturale. Senza dubbio, questa crisi era accompagnata da qualche sintomo di intossicazione e di un certo squilibrio funzionale, fenomeni che richiedevano una reazione di difesa. Erano tuttavia dei disturbi passeggeri; e soprattutto erano il rovescio di una operazione spirituale di grande rilievo e di immensa fecondità. [...] Era già capitato al cristianesimo occidentale di vivere simili situazioni, a più riprese, secondo i cicli della cultura 76).

    NOTE

    1. Cf. J. RATZINGER, Les principes de la théologie catholique: esquisse et matériaux, Paris, Téqui, 1982, 428-438. Si tratta della ripresa di un testo pubblicato originariamente con il titolo “Der Welrdiensr der Kirche. Auswirkungen von '”Gaudium et Spes" im letzten Jahrzehnr, Communio 4 (1975) 439-454.
    2. Cf H.J. POTTMEYER, “Vers une nouvelle phase de réception de Vatican II. Vingt ans d'herméneutique du Concile., in La réception de Vatican II, a cura di G. ALBERIGO e J.P. Jossua, Paris, Cerf, 1985,48-52. È la ripresa più elaborata di un discorso che aveva già presentato in Continuité et innovation dans l'ecclésiologie de Vatican II., in Les Eglises après Vatican II, cum di G. ALBERIGO, Paris, Beauchesne, 1981,92-93.
    3. Cf. W. KASPER, La tbéologie et l'Eglise, Paris, Cerf, 1990, 411-412.
    4. Cf. A. ANTON, La recepcion" del Concilio Vaticano II y de su eclesiologia, Revista Espanola de Teologia 48 (988) 299-318. Si veda anche La reception" del concilio Varicano II y de su eclesiologia, a los veinte anos de su conclusion y de cara al tercer milenio de la Iglesia., in EI Misterio de la Iglesia, T. II, 1045-1180.
    5. Come d'altronde ho tatto in un articolo di prossima pubblicazione: cf G. ROUTHIER, La périodisation, in Réceptions de Vatican Il, a cura di G. ROUTI-IIER, Leuven, Peeters, 2005.
    6. Su questo tema si veda G. ALBERlGO, Critères herméneutiques pour une histoire de Vatican II, in À la veille du Concile Vatican II. Vota et réactions en a cura di M. LAMBERIGTS e C. SOETENS, Leuven, Bibliothek van de Faculteit der Godgeleerdheic! von de K.U. Leuven, 1992, 12-23.
    7. Sarebbe davvero interessante vedere in quale misura il Vaticano II ha ripreso le posizioni di Pio XII. Un simile studio, mai compiuto per quanto mi risulta, ritengo ci poterebbe a conclusioni che ci porrebbero veramente sorprendere.
    8. Cf R. ROUQUETTE, La fin d'une chrétienté. Cbroniques I (= Unam Sanctam, 69a), Paris, Cerf, 1968, 259. Rouquette aveva utilizzato questa espressione per la prima volta in Études 96/316(963) 104.
    9. Cf M.D. CHENU, La fin de l'ére constantinienne, in Un concile pour notre temps, Paris, Cerf, 1961, 59-87.
    10. Si veda il titolo del lavoro di Rouquette appena citato. Chenu nelle sue riflessioni ha spesso assunto questa prospettiva di lettura.
    11 Cf M.D. CHENU, Un concile à la dimension du monde, in L'Évangile dans le temps, Paris, Cerf, 1964, 633-637 (pubblicato precedentemente in Témoignage chrétien nel 1962).
    12.
    13. ICI, 1 febbraio 1962.
    14. Cf K. RAHNER, Interpretazione teologica fondamentale del concilio Vaticano lI, in ID., Sollecitudine per la Chiesa. Nuovi Saggi VIII, Roma, Paoline, 1982, 360.
    15 K. RAHNER, Il significato permanente del concilio Vaticano lI.., in ID., Sollecitudine per la Chiesa, 364. Si veda anche L.A. TAGLE, La partecipazione extra europea al Vaticano II e l'interpretazione storica e teologica del concilio, Cristianesimo nella sto….
    16.
    17. Su questo tema, l'opera da segnalare è senza dubbio quella di D. PELLETIER, La crise catholique. Religion, société, politique en France (1965-1978), Paris, Payot & Rivages, 2002.
    18. Si veda G. ROUTHIER, La réception de Vatican II Une décennie de travaux et perspectives pour la recherche, Oecumenica Civitas 3/2 (2003) 169-192.
    19. Cf G. ROUTHIER, Sacramentalité de l'épiscopat et communion hierarchique: les rapports du sacrement et du droit, in Le ministère des éveques au Concile Vatican II et depuis, a cura di H. LEGRAND e C. THEOBALD, Paris, Cerf, 2001, 49-74.
    20. ICI 203 (01.11.63), 3.
    21. ICI 204 (15.11.63), 3.
    22. ICI 203 (01.11.63), 3.
    23. Cf J. GROOTAERS, Deux versants de l'action des opposants au renouveau conciliaire, in Actes et acteurs à Vatican 11 (= Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensum 129), Leuven, Peeters - Leuven University Press, 1998, 186-222.
    24. La focalizzazione della discussione sulla questione della recezione nella determinazione della validità di un insegnamento dottrinale ha spesso lasciato troppo in ombra e poco sviluppato questo altro aspetto capitale, ovvero il legame tra recezione ed efficacia di un concilio. Cf ad es. Y. CONGAR, La réception comme réalité ecclésiologique, RSPT 56 (1972) 374.
    25. G. ALBERIGO, La "réception" du concile de Trente par l'Église catholique romaine", Irenikon 58/3 (1985) 319.
    26. Mueller nota che “ciò che non è recepito non diviene effettivo e così resta senza efficacia e di conseguenza fittizio, come mostra in modo efficace il decreto di unione del concilio di Firenze.” (H. MUELLER, Rezeption und Konsens in der Kirche. Eine Anfrage an fie Kanonistik, Oesterrisches Archiv fuerr Kirchenrecht 27 [1976] 15). Mueller ha ripreso più di recente questa idea nel suo saggio “Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale”, in Chiese locali e cattolicità, Atti del Colloquio Internazionale di Salamanca, Bologna, EDB, 1994, 353-377. In maniera analoga, A. Houtepen nota che “la validità di una legislazione non dipende totalmente dal consenso o dalla volontà del popolo, ma senza un tale consenso nessuna legge può alla fine tenere (A. HOUTEPEN, Reception, Tradition, Communion, in Ecumenical Perspetciues on Baptism, Eucharist and Ministry (= Faith and Order Papers 116], a cura di M. THURHIAN, Genève, 1983, 145). Infine, L. Boff afferma che “l’autorità dei concili presieduti dal papa fonda la legittimità e la validità dei decreti, ma la loro efficacia dipende dalla loro accoglienza. Cf. L. BOFF, "Eine kreative Rezeption der II. Vatikanums aus der Sicht der Armen: Die Theologie der Befreiung, in Glaube im Prozes, a cura di E. KUNGER e K. WITTSTADT, Freiburg, Herder, 1984, 642).
    27. Per l'identificazione di questi ambiti si vedano le analisi sulla recezione di Calcedonia nella Chiesa d'occidente: nella spiritualità (393-395), nella sua liturgia (395396) e nella pietà (396-397), come pure nella teologia (397-411), in A. GRILLMEIER, The Reception of Chalcedon in the Roman Catholic Church, The Ecumenical Review 22 (1970) 383-411. M. Krikorian utilizza le stesse categorie: recezione teologica (395-399), recezione spirituale (vita spirituale e vita liturgica) (399-401).
    28. Si veda al riguardo G. ROUTHIER, Orientamenti per le studio del Vaticano II come fatto di recezione, in L'Evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, a cura di M.T. FATTORI e A. MELLONI, Bologna, Il Mulino, 485-499.
    29. Occorrerebbe scrivere tutto un paragrafo sul rapporto tra dottrina e teologia nel Vaticano II. Ci limitiamo a richiamare in modo sommario che durante i lavori della Commissione centrale preparatoria i Vescovi rifiutarono l'elaborazione di un nuovo testo della professione di fede o di una versione amplificata (includente elementi dell'enciclica Pascendi e di Humani Generis) del giuramento antimodernisra (cf Acta et documenta concilio oecumenico Vaticano II apparando, series secunda, II/I, 495-523). La questione della dottrina e della professione di fede ritornano immediatamente dopo la chiusura del concilio, portate avanti dalla Congregazione per la dottrina della fede, e conducono alla pubblicazione nel 1967 di una nuova professione di fede (AAS 59 [1967] 1058); sono poi riprese nel sinodo straordinario del 1967 (si veda il rapporto del card. Seper), dove si parla abbondantemente della “crisi di fede”, per arrivare all'anno della fede che conduce alla professione di fede di Paolo VI (30 giugno 1968). È invece più tarda la reintroduzione di una professione di fede (989), integrata anche nel Codice di diritto canonico. Ma per abbordare adeguatamente la questione del rapporto Vaticano Il-teologia avremmo bisogno di uno spazio ben più ampio.
    30. Cf M. SIMON, Un catéchisme uniuersal pour L'Église catbolique: du Concile de Trente à nos jours (= Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium 103), Leuven, University Press - Uitgeverij Peeters, 1992.
    31. Su questo tema si veda la lettera al cardo Ratzinger del 2 febbraio 2003.
    32. Si vedano, nel corso di questa annata, gli articoli su L'Osservatore Romano- firmati da Journet (che pubblica parecchi interventi anche su France catholique.), Felici, Danielou, Ciappi, tutti intenti a sostenere una concezione minimalista della collegialità episcopale. Si veda anche, il 6-7 luglio 1969, l'intervista a Danielou pubblicata su La Croix.. “Bisognerebbe essere ciechi per non vedere i problemi, così si esprime. Nel mese di agosto, in una intervista a Famiglia Mese. aggiunge: Il pericolo attuale non è tanto l'eccesso quanto l'assenza di autorità. Di nuovo, in settembre, alla vigilia del sinodo straordinario dei Vescovi, Famiglia Mese pubblica un'intervista al cardo Danielou.
    33. Entrambi gli elenchi contengono alcuni dei nomi che appaiono presenti nei comitati di redazione delle due riviste ormai in concorrenza.
    34. Queste due categorie non sono proprio le più adeguate a esprimere i termini del problema in questione. Le utilizzo non essendo riuscito a trovarne di migliori
    35. La maggioranza a favore della libertà religiosa, per es., era un gruppo assai compositi: vescovi statunitensi, Vescovi dei paesi dell’Est, Vescovi che temevano gli atti confessionali islamici, Vescovi che avevano sofferto la mancanza di libertà religiosa (irlandesi, vescovi dei paesi scandinavi) ecc.
    36. Si veda ad es. J. MARITAN, Le paysan de la Garonne, Paris, DDB, 1966; J RATZINGER, Les principes de la théologie Caltholique, Paris, Téqui, 1984 (originale tedesco 1982), 423ss (che fanno parte di un articolo sulla CS già pubblicato in precedenza, come detto nella nota l di questo studio).
    37. Il che non significa una lettura (accoglienza) acritica del mondo attuale. La teologia politica di Metz, o la teologia della liberazione contestano vigorosamente il sistema attuale. Queste teologie tuttavia conservano una profonda inserzione dentro il mondo contemporaneo.
    38. Si veda la lettera di H. de Lubac al card. Léger (18 ottobre 1964, archivi conciliari Léger 1441).
    39. Cf G. ROUTHIER, Vatican II: moment initial d'un processus inachevé d'inversion du gouvernement centralisé de l'Église catholique", di prossima pubblicazione in The jurist, 2004.
    40. Si veda come esempio LG 23; OE 3,5,6, 12, 13, 22; PO 16; UR 4,14, 15, 16, 17.
    41. Si veda anche UR 16: "Una certa diversità di usi e consuetudini non si oppone minimamente all'unità della Chiesa, anzi ne accresce la bellezza e costituisce un aiuto prezioso al compimento della sua missione".
    42. Se i Vescovi avevano liberamente deciso di privarsi dell'autorità di cui avevano goduto in precedenza, affidando al Papa il compito di pubblicare il nuovo breviario e il nuovo messale (siamo nel 1563), non bisogna credere che la decisione venne attuata in modo lineare e senza soluzione di continuità. Occorrerà infatti attendere l'anno 1588, in seguito alla creazione della Congregazione dei sacri riti, perché ogni decisione in materia liturgica sia sottratta alla giurisdizione dei Vescovi. Tuttavia, già prima del Vaticano II Giovanni XXIII aveva concesso di nuovo dei poteri alle assemblee dei Vescovi o Conferenze episcopali. È il caso del decreto che reistituiva il catecumenato, nel 1962, o del Codice delle rubriche del 1960. Le stesse assemblee avevano avuto un ruolo attivo importante nel periodo del dopo guerra, in occasione dei rituali bilingue. Si prenda come esempio la lettera di mons. Furstenberg, internunzio apostolico a Tokyo, pubblicata nella Collectio rituum ad usum Ecclesiae in Japonia, Tokyo, 1958. Cf LG 22 ss.
    43. Alle conferenze episcopali verranno assegnate anche altre facoltà in materia di disciplina locale o di adattamento, lasciando loro ad esempio la decisione di reistituire oppure no il diaconato permanente (LG 29).
    44. MD 58 stabiliva che “al solo Sovrano Pontefice appartiene il diritto di riconoscere e di stabilire ogni usanza che riguarda il culto divino [.. .]; il diritto-dovere dei vescovi è quello di vegliare diligentemente all'osservanza dei santi canoni sul culto divino.
    45. Si è spesso enfatizzata l'inversione delle logiche - che sancisce il passaggio da un regime di concessione a uno di redistribuzione dei poteri - laddove si parla del ministero pastorale dei Vescovi, dimenticando però che Sacrosanctunm Concilum aveva già operato questa inversione di logiche, passando dall'indulto concesso a una nazione o a un gruppo di Vescovi (pratica abbastanza frequente negli anni '40 e '50 del XX secolo) al riconoscimento dell'autorità che compete di diritto alle diverse assemblee dei Vescovi legittimamente costituite su di un determinato territorio.
    46. Territoriales episcoporum coetus: cf SC 22, 38, 128.
    47. Ho registrato non meno di 20 riferimenti a questo numero 22 § 2, dato che rende questo passaggio il riferimento dominante della costituzione. Si trova in un rinvio diretto a questo numero in SC 36, 3; 39; 40, 1; 44; 63b; 77; 110 e 128. Si accenna a esso, senza una citazione esplicita, nei numeri 36, 4 e 40, 2. Infine, si rinvia a dei numeri che conrengono a loro volta un rimando a questo passaggio. È il caso dei numeri 63, 101 e 113, che rimandano al numero 36; dei numeri 54 e 65, che rimandando al numero 40; del numero 113, che rimanda al 54; dei numeri 63, 101 e 113 che rimandano al 63, e del numero 113 che rimanda al 101. Stessa idea al numero 25, al quale si viene rimandati dal numero 128. Si può poi ricostruire la nebulosa semantica attorno ai territoriales episcoporum in coetus legitime constitutos del numero 22. Il termine territorialis, che ricorre per ben 15 volte nei testi del Vaticano II, è citato 12 volte in SC (22, 36, 39, 40, 44, 63, 77, 120, 128). Negli stessi numeri è possibile ritrovare i termini “regioni» (23, 25, 36, 38, 63b, 77, 110, 119, 127), “popolo” (37, 38, 77, 119, 123), e “adattamento” (38, 39, 40, 44, 62, 68, 107, 128). Tutte queste nozioni formano dei campi di significato congiunti. Cf a questo riguardo G. ROUTHIER, La liturgie au prises avec un monde et un Église en mutation, in Colloque sur l'actualité du Mouvement Liturgique (déeembre 2003), Paris, ICP, di prossima pubblicazione.
    48. La nostra storia del Vaticano II è ancora troppo occidentale, e il nostro modo di concepire il movimento liturgico ci conduce troppo di sovente in Germania, Belgio e Francia. Un esame del dibattito in aula sulla SC ci aprirebbe prospettive ben diverse. Per un primo approccio, oltre al mio contributo citato poco sopra, rimando a M. LAMBERIGTS, Die Beitrag Afrikas waehrend der Konzilsdebatte ueber die Liturgie”, in Zeugnis und Dialog. Die katholische Kirche in der neuzeitlichen Zeit und das Il. Vatikaniscbe Konzil. Klaus Wittstadt zum 60. Geburtstag, a cura di W. WEISS, Wuerzburg, 1996,186-207.
    49. AS 1/2, 317-319 e AS 1/1, 497-499.
    50 AS 1/1 323, 333-334. Si vedano anche gli interventi di Silva Henriquez (Santiago del Cile), 324, di J. Landàzuri Ricketts (Lima), 375, e di Maximos IV Saigh, 379.
    51. Si veda il suo secondo intervento (30 ottobre), in favore dell'autorità delle conferenze episcopali, in AS 112 12-14.
    52. Si vedano gli interventi di Vielmo (Cile), Gracias (Bombay) et Ramanantoanina (Madagascar), intervenuto a nome di tutto l'episcopato africano, a nome cioè di 300 Padri: AS 1/1 400-401, 419-420, 553.
    53. La proposizione 28 del sinodo dei vescovi sull'episcopato (2001) proponeva che il dialogo proseguisse tra il Santo Padre e le conferenze episcopali, così da emendare (bollificare) il motti proprio Apostolos suos. Ciò significa che nella sua forma attuale questo documento non è totalmente recepito dai Vescovi, che ne auspicano un perfezionamento...
    54. RATZINGER, Les principes de la théologie Caltbolique, 428.
    55. Come mostra ad es. Le devenir de la théologie catbolique mondiale depuis Vatican II (1965-1999), a cura di J. DORÉ, Paris, Beauchesne, 2000.
    56. Si veda il suo intervento alla riunione preparatoria e alla fondazione della rivista, tenuta a Sarrebruck d;!l 19 al 21 luglio 1963. A suo parere, "la rivista internazionale non si sarebbe dovuta indirizzare tanto [. . .) a un pubblico dell'Europa centrale e del Nord, ma ai vescovi, ai teologi, ai preti e ai fedeli impegnati degli altri paesi, ai quali avrebbe potuto fornire una teologia vivente. ..". Più avanti riprende la medesima idea: la rivista dovrebbe offrire "una teologia scientifica che noi vogliamo far arriva re all'Africa, alle Americhe, all'Inghilterra. .."; e continua "io penso che l'Europa meridionale e settentrionale non abbiano bisogno di una simile rivista" che, nel suo pensiero, è uno strumento educativo, e una testimonianza della responsabilità dei teologi europei verso "i paesi sottosviluppati" (Concilium Archef van E. Schillebeeckx, 1981, KUL Leuven).
    57. CEF, Cagner la paix; NCCB, Peace Pastoral Letter. Si veda anche il testo ecumenico Construire la paix.
    58. Cf F'.X. WINTERS, «Des révolutionnaires malgré eux. Les éveques américains s'opposent à la course aux armemenrs», Études 115/357 (1982) 8.
    59. Cf il breve resoconto di J. SCHOTTE (della conclusione Giustizia e pace), “A Vatican Synthesis», Origins 12 (1983) 692; La Documentation Catholique 24 luglio 1983 n° 1856.
    60. J. SCHO'ITE, «A Vatican Synthesis», 692.
    61. A. DULLES, “The Teaching Authority of Bishops’ Conferences», «America», 11 giugno 1983, 453-55.
    62. Cf COMMISSION THÉOLOGIQUE INTERNATIONALE, «L'unique Eglise du Christ», 5,3, Paris, Centurion, 1985, 38.
    63. Si veda J. RATZINGER - V. MESSORl, Rapporto sulla fede, Cinisello Balsamo, Paoline, 1985, 59-61; J. HAMER, in Synode Extraordinaire: Célébration de Vatican II, Paris, Cerf, 1986, 600-602. Secondo Ratzinger “le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così com'è voluta da Cristo: hanno soltanto una funzione pratica, concreta. [...] Nessuna conferenza episcopale ha, in quanto tale, una missione di insegnamento; i suoi documenti non hanno un valore specifico, ma soltanto il valore del consenso che è loro attribuito dai singoli vescovi [...], perché si tratta di salvaguardare la natura stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di chiese nazionali. [...] Avviene poi che la ricerca del punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione diano luogo spesso a documenti appiattiti, dove le posizioni precise sono smussate...
    64. Cf "Conferenze episcopali e corresponsabilità dei vescovi.., Civiltà Cattolica 136/2 (1985) 417-429.
    65. H.U VON BALTHASAR- V. MESSORI, "Un Papa nutrito di preghiera per questa Chiesa offesa e ferita”, in Avvenire, 1985, 11.
    66. Si veda l'informazione di Prignon, FPRgn 1596 (30.09.65) 3. Congar attribuisce questi modi a Carli: Mon journal du Concile, Paris, Cerf, 2002, voI. II: 729.
    67. Per la lista di questi modi numerati da l a 14, trasmessi su due foglietti, intitolamti Osservazioni sullo schema De pastoralis episcoporum munera, e datata 27 settembre, si veda AS V/3, 388-390. Si può trovare un fascicolo completo relativo a questo episodio negli archivi Onclin a Leuven. Secondo Onclin, l'insieme dei modi doveva servire a far passare questa proposizione che Carli difese apertamente. Dalle indicazioni manoscritte di Onclin, Carli fu il solo a non approvare la posizione della Commissione su questo ultimo modus. Sull'insieme della questione cf J. GROOTAERS, "WilIy Onclin et sa participarion à la rédaction du décret Christus Dominus", in Actes et acteurs de Vatican II, Leuven, Peeters, 1998,443-450.
    68. Le débat sur la révision du Code de droit canon, La Documentation Catholique 1505 (19 novembre 1967) 1971.
    69. ivi.
    70. Si vedano al riguardo le osservazioni di R. BERTOLINO, “La Tutela dei diritti nella comunità ecclesiale, Ius Canonicum 23/46(1983) 95-98; e di F. MORRISEY, "Réformes judiciaires et administtatives de l'Église postconciliaire., Concilium 127 (1977) 111. Costui osserva che “il principio di sussidiarietà, nel senso di decentralizzazione, è praticamente inesistente nel testo proposto. Al contrario, vengono lasciate poche cose alla competenza delle Conferenze episcopali». Cf anche J.A. KOMONCHAK, “Le principe de subsidiarité et sa pertinence en ecclésiologie., in Les conférences épiscopales. Théologie, statut canonique, avenir, a cura di H. LEGRAND – J.MANZANARÈS - A. GARCÌA Y GARCÌA, Paris, Cerf, 1988,391-448.
    71 È il caso per parecchie problematiche appartenenti al munus regendi. Così, i consigli pastorali (diocesani o parrocchiali) sono demandati alla valutazione delle circostanze locali; i canoni sulla celebrazione del sinodo diocesano sono egualmente una legge-quadro che deve essere completata dal diritto particolare, e così via.
    72. Cf MOLLER, ..Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale., 360.
    73. Cf G. ROUTHIER, Gouvernement centralisé et activité mondialisée. Le cas de l'Église catholique., Revue intemationale de politique comparée 7/2 (2000) 355-383
    74. Cf gli interventi nel campo dei sinodi diocesani o in quello dei nuovi ministeri.
    75. Le Chiese anglicane e ortodosse, per limitarci a questi due esempi, stanno vivendo anch'esse grosse difficoltà nel vivere queste trasformazione in Chiese a dimensione mondiale.
    76 M.D. CHENU, Pour une Ecole de théologie: le Saulchoir, Paris, Cerf, 1985, 117; ID., “Le sens et les leçons d'une crise religieuse”, La vie intellectuelle (10 décembre 1931) 356-380.

    (Da: Scuola Cattolica 133 (2005) 19-52)


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