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    Non è un Paese

    per bambini

    e per ragazzi

    Franco Santamaria


    Bambini e ragazzi dimenticati

    L’attenzione di tutti (o quasi) è da tempo monopolizzata dalle difficoltà economiche, dallo spread, dai dibattiti sul capitalismo selvaggio, sulla crisi politica e su quant’altro occupa le prime pagine dei giornali, dei notiziari televisivi e dei siti internet. L’infanzia, l’adolescenza, l’educazione, i diritti dei bambini e dei ragazzi sembrano rivestire in tale quadro un ruolo marginale, sia nel dibattito della società civile sia, e ancor più, nel dibattito istituzionale e nelle decisioni che competono a chi ha assunto funzioni pubbliche.
    Sembrano oramai lontani gli anni caratterizzati dallo sbocciare di progetti, di esperienze, di idee favorite dall’approvazione della legge 285 del 1997, che ebbe il merito di riportare al centro dell’attenzione – in primis del governo e del parlamento – i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Le acquisizioni, il patrimonio di saperi accumulato grazie al sostegno economico e culturale offerto dalla norma avrebbe dovuto transitare nella legge 328/2000 che promuove a livello territoriale, attraverso lo strumento del piano di zona, processi di integrazione nelle aree della formazione, dell’istruzione, del sociale, della sanità. Molto, indubbiamente, si è fatto grazie alla normativa varata dodici anni fa, ma alle politiche per l’infanzia e l’adolescenza non è attribuita quella priorità che per svariate ragioni competerebbe loro, fatte salve naturalmente le debite e positive eccezioni in diversi contesti locali.
    La drastica riduzione in questi ultimi anni delle disponibilità del Fondo sociale – le risorse che lo Stato assegna alle Regioni che poi li distribuiscono ai Comuni - ridotte dalla ultime finanziarie di Tremonti e del governo Berlusconi fino ai 274 milioni della finanziaria 2011 - ha inferto un colpo grave all’impegno e alle speranze di tanta parte del mondo adulto che si spende con passione e con professionalità in questo settore. Ne é prova l’appello “Salviamo lo stato sociale” firmato da quattro sacerdoti da tempo impegnati nel sociale: don V. Albanesi (Comunità di Capodarco), don L. Ciotti (Gruppo Abele e Libera), don A. Mazzi (Fondazione Exodus), don A. Zappolini (Presidente del Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza). I quattro sacerdoti (Famiglia Cristiana, 2012) ricordano anche che il governo Berlusconi ha ridotto il fondo per le politiche a favore della famiglia da 220 a 51 milioni di euro, quello per le politiche giovanili da 130 a 13, quello per le pari opportunità da 50 a 17, quello per l’inclusione degli immigrati azzerato.
    Una figura non di parte sul piano psicosociopedagogico, il filosofo R. Mancini (2008), ha scritto che nel nostro Paese vi è una debole cultura dell’infanzia e dell’adolescenza. Ciò è talmente vero, da dover registrare da tempo una somma impressionante di carenze, di latitanze, di trascuratezze e di silenzi da parte del mondo adulto e di quelle istituzioni che ne dovrebbero invece promuovere e tutelare i processi evolutivi. Vi è chi (Felicori, Franzoni, 1985) ha formulato un’ipotesi interpretativa di carattere storico indubbiamente suggestiva. Essi affermano che la ritrosia dello Stato italiano a occuparsi di giovani generazioni risale alle scelte compiute nell’immediato secondo dopoguerra, allorchè di stava ridefinendo l’organizzazione dello Stato e si decise di adottare una posizione di non coinvolgimento diretto nell’educazione di bambini, ragazzi e giovani che venne di fatto affidata – oltre che alla famiglia e alla Scuola – alle organizzazioni giovanili dei partiti e alle associazioni giovanili, sia di matrice religiosa che laica. La motivazione di tale scelta – che ebbe nei decenni forti e decisive ripercussioni nei rapporti fra Stato e giovani – fu individuata nella tragica esperienza del ventennio, durante la quale bambini , ragazzi e giovani furono “irreggimentati” dalla dittatura fascista (si pensi ai “balilla”); ragione per cui la Repubblica non volle rischiare in alcun modo di ripetere questa esperienza di asservimento ideologico e militaresco delle giovani generazioni, rinunciando di fatto a occuparsene a livello istituzionale.
    Al di là delle responsabilità storiche, dirette o indirette, ciò che colpisce è che nel nostro Paese si proclamano da tante parti attenzione e cura nei confronti dei bambini e dei ragazzi, ma il passaggio dalle dichiarazioni verbali e scritte alla messa a disposizione effettiva di strumenti normativi, di risorse non si verifica, inducendo a pensare che frequentemente tali asserzioni abbiano un carattere meramente strumentale o demagogico. L’intera società italiana manifesta un grave ritardo nella tutela dei diritti dei minori (di età) e si rischia un pericoloso arretramento di quei diritti faticosamente loro riconosciuti negli anni ‘80 e ’90.
    Ultimo tassello in ordine di tempo, di questo lungo cammino di inadempienze è la situazione che concerne l’AGIA (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza). Il suo presidente, nella prima relazione resa al parlamento lo scorso 18 aprile, ha dichiarato che: “Sono evidenti i danni provocati dal mancato investimento nelle politiche per l’infanzia e l’adolescenza. È soprattutto in un momento in cui l’Italia è colpita da una crisi economica molto grave, che chi governa il Paese dovrebbe, coerentemente con l’obiettivo di risanare i conti ed investire sul futuro, dimostrare lungimiranza inserendo tra le priorità dell’agenda politica la tutela e lo sviluppo dei diritti dei bambini e degli adolescenti.”
    Il presente contributo non si propone di tracciare un quadro esaustivo delle condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza nel nostro Paese, in quanto ciò costituirebbe un obbiettivo non solo ambizioso ma per intuibili ragioni presuntuoso. Tale consapevolezza, che si traduce nel mettere in luce alcuni fenomeni, in parte conosciuti e in parte probabilmente ignoti anche agli addetti ai lavori, non indebolisce ma rafforza l’intenzionalità di denuncia che esso fa propria. Intendiamo denunciare il silenzio, l’inerzia, l’indifferenza che connota tanti comportamenti nei confronti sia dei bambini e dei ragazzi italiani che degli stranieri: sia i figli di seconda generazione di cui da tempo tante voci chiedono che ad essi venga riconosciuta la cittadinanza italiana sulla base del ius soli, sia i minori stranieri non accompagnati, vale a dire gli adolescenti che arrivano nel nostro Paese senza disporre di riferimenti adulti e di appoggi utili dopo un viaggio spesso travagliato e pericoloso. Denunciare significa rendere note delle vicende, delle situazioni che altrimenti rimarrebbero nell’ombra; vuol dire informare sullo stato di difficoltà, di insufficienza, di degrado in cui si trovano tanti soggetti minorenni. Vuol dire uscire da uno stato di “coma etico profondo” (L. Ciotti) e di “disastro culturale” (T. De Mauro), per recuperare le ragioni, le responsabilità, la passione di un improcrastinabile e rinnovato impegno a favore delle giovani generazioni. Ne va del loro (e nostro) presente e del loro (e nostro) futuro.
    L’atteggiamento di denuncia viene coniugato con un approccio dichiaratamente pedagogico, che rifugge dal segmentare le condizioni di vita dei minori, analizzandole in una logica di separatezza fra i mondi vitali di un bambino o di un adolescente: sia quelli interni (affetti, emozioni, sentimenti, capacità cognitive ecc.) che quelli esterni (familiare, scolastico, del tempo libero ecc.). Ancor meno l’approccio pedagogico fa propri paradigmi obsoleti quali quelli che hanno bisogno di categorizzare i ragazzi sulla base dei loro comportamenti, individuando soggetti a rischio, devianti, disadattati, criminali ecc. e utilizzando spesso nei loro confronti le lenti di lettura della patologia, con il rischio (in questo caso sì!) di medicalizzare, di sanitarizzare e magari di ricorrere a trattamenti farmacologici per affrontare i “casi” – altro termine inaccettabile – più difficili.
    È tipico invece di uno sguardo pedagogico:
    - assumere una visione globale del fanciullo, all’interno della quale le dimensioni citate – interne ed esterne – vanno interpretate con un paradigma unitario: sono inscindibili l’una dall’altra;
    - riconoscere che le difficoltà che un ragazzo incontra e i comportamenti socialmente e culturalmente dissonanti che egli può mettere in atto rappresentano sempre dei sintomi, degli indicatori di una soggettiva elaborazione, di un processo di significazione delle esperienze, dei vissuti che ha accumulato; se non facciano con lui un percorso di disvelamento e di consapevolizzazione di quanto da lui costruito nel tempo, qualsivoglia progetto si rivelerà di corto respiro, capace di intervenire a valle delle cose, non certo di educare il soggetto a diventare più autonomo e più responsabile;
    - dotarsi di chiavi di lettura frutto della messa in comune di più sguardi: insieme a quello pedagogico quello psicologico e quello sociologico in primis, perché questioni complesse come quelle che riguardano i percorsi di costruzione dell’identità dei minori non possono che essere affrontate in una prospettiva interdisciplinare (P. Bertolini, 2005).

    Bambini e ragazzi offesi (e abusati)

    Date le premesse, è difficile selezionare gli aspetti da mettere in evidenza nell’ambito delle condizioni di vita e di crescita dei minori: essi ammontano nel nostro Paese a 10.837.000 soggetti in età 0-18 anni (17% della popolazione totale), dei quali 1.038.000 sono figli di genitori provenienti da altri Paesi. Ci troviamo infatti di fronte a una molteplicità di fenomeni che richiedono uno spazio adeguato di sosta per comprenderne la rilevanza e gli effetti sui bambini e sui ragazzi, nei loro cammini di formazione di base e in quelli di inserimento sociale. Basti pensare – fra le tematiche di cui non possiamo occuparci in questa sede per ovvie ragioni di spazio – a comportamenti quali il precoce e diffuso consumo di alcol, l’uso di psicofarmaci, la cura presso i servizi di salute mentale, i reati penali, il bullismo (non solo scolastico), il gioco d’azzardo e i rischi nell’utilizzo di internet, il coinvolgimento nelle attività mafiose, i suicidi e i tentati suicidi. L’elenco è purtroppo molto lungo ma, prima di dare spazio a una parziale ricognizione, riteniamo utile dare ragione dell’approccio pedagogico utilizzato nel presente contributo come chiave di lettura delle situazioni evidenziate.
    Esse riguardano soggetti che incontrano molte e gravi difficoltà nella loro vita, difficoltà che narrano di storie biografiche diverse ma che hanno in comune l’essere percepiti dalla società “dissonanti rispetto ad un certo modello condiviso di competenza sociale” (Bertolini P., Caronia L., 1993). La conseguenza è quella di essere considerati “ a rischio”, “disadattati”, “delinquenti”, “irregolari”, essere quindi stereotipati in diverse categorie sulle quali gli operatori stilano una diagnosi e programmano un relativo intervento.
    L’orientamento pedagogico (fenomenologico) stravolge i retaggi mentali propri del modello scientifico positivista, dell’approccio deterministico, del modello medico che definisce patologico sia quel quadro anomalo proprio di chi è affetto da una patologia; sia per estensione, tutto ciò che sembra uscire dalla normalità pur senza interessare la dimensione medica e propone un modello diverso di interpretazione, un modello che pone al centro la soggettività, cioè il soggetto attivo che attraverso un percorso ri-educativo diventa l’artefice del proprio cambiamento. È tale impostazione che rende possibile l’intervento educativo altrimenti, se fossero vere le ipotesi che ritengono non si possa modificare una situazione, perché frutto del meccanismo causa-effetto, non ci sarebbe più spazio per un percorso ri-educativo.
    I bambini e i ragazzi cui qui facciamo riferimento vengono chiamati difficili perché la difficoltà è parte integrante della loro vita, li accomuna e precede la manifestazione dei loro comportamenti; la loro esistenza di ragazzi è costellata da ostacoli, da difficoltà che sono tali per loro e che di riflesso fanno sì che essi siano considerati difficili dagli altri. Essi hanno tutti sperimentato la mancanza di supporti adeguati per affrontare le difficoltà e gli scogli che il processo di sviluppo di un soggetto in età evolutiva normalmente incontra (cambiamenti fisici, psicologici e sociali). Se si analizzano le loro storie biografiche, si troverà nascosto nello “zaino” un vissuto di difficoltà, di disagio, di emarginazione, di disfunzionalità che non ha permesso loro d’intraprendere il percorso della costruzione del proprio sé, e si concretizza in una “difficoltà a diventare soggetto” per se stessi e per se stessi nel mondo.
    Parlare quindi di ragazzi “violenti”, “delinquenti”, “bulli”, ecc. significa incorrere in semplificazioni molto pericolose, in pregiudizi che stigmatizzano i ragazzi e li associano solo al loro comportamento esteriore; la categoria interpretativa di P. Bertolini e il suo diverso linguaggio permette di utilizzare un’altra ottica, che non si ferma alla manifestazione dei comportamenti devianti, ma cerca di capire le motivazioni che li hanno generati e agendo su di esse apre la strada al cambiamento. Come rilevato precedentemente, classificare i ragazzi sotto diverse categorie implica la loro etichettatura in facili stereotipie, che può determinare diagnosi e trattamenti automatici, quindi “esterni” al soggetto e facilmente destinati al fallimento. Dietro ad ogni comportamento c’è una visione del mondo del ragazzo, più o meno distorta, ma che incide profondamente e che necessita di essere scoperta, ascoltata e compresa per progettare un intervento educativo adeguato e personalizzato.
    Fra le tante tipologie di bambini e ragazzi più in difficoltà ci soffermiamo su coloro che sono vittime della cosiddetta violenza assistita e sulle vittime di tratta.
    Secondo il rapporto di Save the Children del 2011 sono 400.000 i bambini e i ragazzi toccati dalla tragedia delle violenze domestiche, le cosiddette violenze assistite: sono bambini e ragazzi che assistono a maltrattamenti e a forme di violenza anche fisica dalle quali restano segnati a vita. Nella legge italiana purtroppo non è ancora riconosciuto questo specifico reato, seppure i giudici siano soliti applicare questi casi in reato della violenza privata. A. Marazzani Visconti, psicologa, afferma che “il disturbo post-traumatico da stress di violenza reiterata è uguale sia che il bambino sia stato vittima, sia che sia stato soltanto spettatore (violenza assistita) e ciò significa sviluppare la sindrome di tutti i bambini violati: la paura di tutto e di tutti” (Corriere della Sera, 14.06.2012).
    Durante la convezione delle Nazione Unite svoltasi a Palermo nel dicembre del 2000 si è dato vita al “Protocollo di Palermo”, ratificato in Italia il 2 agosto 2006. Gli Stati Parte del Protocollo si sono impegnati a formulare tale documento per punire i trafficanti e per tutelare le vittime di tratta, in particolare donne e bambini, intendendo per “bambino” qualsiasi persona di età inferiore ai 18 anni. Il titolo esatto del Protocollo di Palermo è “Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione, del traffico di esseri umani”, in particolar modo donne e minori. Per tratta di persone s’intende il “reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia d’impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di prostituzione sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi” (art. 3a).
    Le vittime del crimine organizzato transazionale sono in larga parte ragazze minorenni, che vengono reclutate tramite truffe. Viene carpita la loro fiducia dallo sfruttatore, ben consapevole della frode che sta per compiere, perché nella sua mente è già ben chiaro, fin dal reclutamento, quali comportamenti illeciti verranno compiuti a danno della vittima e quali disposizioni di legge verranno eluse. Le vittime e le loro famiglie si fidano di lui che approfitta delle loro difficoltà economiche e personali, riuscendo a far leva sulla loro vulnerabilità, con l’offerta di una realtà migliore. In altri casi invece le organizzazioni si trovano davanti a minori che non hanno riferimenti educativi ed affettivi, inseriti in famiglie disgregate a causa della mancata presenza dei genitori, deceduti oppure disagiati. I ragazzi sono molto più ingenui degli adulti ed il trafficante, reclutandoli, riesce a guadagnare ingenti somme di denaro (F. Carchedi, I. Orfano, 2007).
    Sono molti i problemi legati all’individuazione delle vittime e degli sfruttatori e alla presa in carico dei minori da parte degli operatori sociali che, con tanta fatica, tentano di reinserirli socialmente. La reale dimensione del fenomeno non è ancora quantificabile, i dati sono imprecisi: nessuno sa quanti “bambini” transitano nel nostro Paese, quali siano le loro destinazioni e le modalità d’ingresso; alcune stime, non confermate, parlano di circa 20.000 minori.
    La tratta è spesso legata ad altri reati come l’usura, l’obbligo ai lavori forzati, reati a sfondo sessuale, sfruttamento del lavoro minorile. L’usura è probabilmente la forma di tratta più recente. Le vittime diventano tali, quando il loro lavoro si trasforma nell’ipotetica modalità di estinzione di un debito contratto senza condizioni precedentemente stabilite. Il debito diventa con il passare del tempo sempre più oneroso ed è quasi impossibile per la vittima estinguerlo. Per “lavori forzati” s’intende lo volgimento di un lavoro sotto minaccia. Il lavoro forzato trova frequente applicazione nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, dell’industria tessile, del commercio ambulante e della ristorazione. Si tratta di mercati, dove è impiegata manodopera non particolarmente specializzate e sostituibile con gran facilità (F. Carchedi, I. Orfano, 2007). Esistono laboratori in cui si lavora anche 15 ore al giorno, in cui le persone rimangono costantemente segregate. Ogni scambio con l’esterno avviene attraverso le organizzazioni. La tratta a sfondo sessuale o lenocinio può essere considerata l’attività più criminale fra i vari tipi di tratta. La fattispecie si concretizza nel trarre privilegi e benefici economici dalla prostituzione di persone che si trovano in situazioni di fragilità e vulnerabilità. Le vittime, illuse dalla promessa di lauti guadagni, si affidano ai trafficanti ma, ben presto si svela la vera natura della prestazione che sono obbligate a svolgere ed è quasi impossibile liberarsi dei propri aguzzini. Il reato riguarda lo sfruttamento delle donne, di solito straniere, di minori e di bambini. Il fenomeno inizia con la privazione dei documenti di riconoscimento e da quel momento le vittime diventano “identità fantasma”. La tratta di minori e il lavoro minorile sono invece due tipi di tratta molto similari, il minorenne viene assoldato a fini di sfruttamento. Questo può variare dall’elemosina, alla prostituzione, dalla rimozione di organi vitali, alla pornografia, dallo strozzinaggio, al commercio di droga o di armi, al coinvolgimento nell’esercito, all’adesione di sette esoteriche.
    I minori portati in Italia vengono spesso utilizzati per suscitare sentimenti di compassione alle persone e quindi ottenere una facile elemosina. Ragazzi e bambini con menomazioni fisiche (mutilati, ustionati, sordomuti) assicurano un maggiore profitto economico (F. Carchedi, I. Orfano, 2007). I bambini utilizzati vivono in luoghi cadenti, non vanno a scuola e non giocano. Il tempo viene loro sottratto. Compaiono e scompaiono. È infine da considerare la pratica dell’adozione internazionale. Molti genitori non si fanno problemi, in cambio di una generosa ricompensa, a vendere i propri figli. È un fenomeno certamente molto nascosto, che riguarda coppie che scelgono delle “vie” molto più veloci rispetto alla procedura standard per l’adozione internazionale (Mirta Da Pra Pocchiesa, 2008).
    Il fenomeno in Italia ha preso piede intorno agli anni novanta. I minori ogni anno sono trafficati a scopo principalmente sessuale; purtroppo la loro giovane età rappresenta un valore aggiunto esplicitamente richiesto. La maggior parte delle vittime proviene dal sud-est europeo. L’Italia, come Paese di destinazione, ma anche di transito, rappresenta un crocevia della tratta sia nella direzione da est a ovest, sia da sud a nord. Le aree maggiormente interessate dal problema sono il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna e la Campania (nello specifico le province di Caserta e Napoli) (F. Carchedi, 2010).
    Delle giovani migranti, la percentuale più alta è rappresentata dalle nigeriane e dalle rumene. Vi sono poi ragazze albanesi, sudamericane, marocchine e cinesi. Si presentano sempre più sprovvedute e con scarsi strumenti culturali (molte di loro sono analfabete). Il più delle volte vengono violentate, picchiate e soggiogate al punto che operatori ed inquirenti hanno definito queste modalità di tratta vere e proprie torture. I supplizi si configurano non solo in ambito fisico, ma anche in quello psicologico. Le ragazze sono illuse dal viaggio della “speranza”, ma in realtà si ritrovano presto incatenate ad un debito monetario, che, se non pagato, prevede vendette sui parenti rimasti in patria. Si crea così un circolo vizioso, dove avviene la vendita del proprio corpo a tutte le ore del giorno e della notte, a volte anche in stato di gravidanza, a prezzo molto basso (una media di 15/30 euro a prestazione), col fine di restituire il debito contratto che può aggirarsi dai 15/20 mila euro, ma anche arrivare intorno ai 70 mila euro (M. Da Pra Pocchiesa, 2009).
    Le violenze che questi ragazzi subiscono durante il processo di tratta e sfruttamento discendono dalla natura stessa della tratta, che incarnando un fenomeno criminale gestito da organizzazioni coese e singoli individui, sfocia in azioni illegali in diversi luoghi e paesi. Secondo alcune recenti statistiche sarebbe diventato il secondo business illecito globale dopo il narcotraffico (Save the Children, 2011).
    Il profilo della vittima è caratterizzato da tre aspetti principali: il genere, la nazionalità, l’età.
    - il fenomeno non riguarda più solo persone di genere femminile ma coinvolge anche quelle di sesso maschile;
    - in origine la scena era dominata dalla prostituzione albanese e nigeriana, in seguito la nazionalità rumena è diventata quella più diffusa, sia nell’ambito femminile, sia maschile. Nello specifico, la prostituzione maschile viene esercitata, nella la maggiore parte dei casi, da ragazzi rumeni di etnia rom;
    - l’età è molto diversa e varia fra i 10 e i 17 anni. L’abbassamento dell’età è legata alle logiche di mercato: più i ragazzi sono giovani, più sono “redditizi” e “gestibili” (C. Barlucchi, 2005).
    La tratta dei minori è un fenomeno in continuo mutamento, con caratteristiche ancora non del tutto conosciute, che ha raggiunto dimensioni spropositate e preoccupanti. Non esistono ancora fonti sufficienti che riescano a delineare con precisione i dati in materia, che si presentano spesso imprecisi. È difficile anche rappresentare la grandezza numerica del fenomeno in relazione alle modalità utilizzate dalle organizzazioni di trafficanti: le difficoltà sono dovute ai rapidi cambiamenti che riguardano i soggetti, i flussi, i mezzi e le destinazioni. La reticenza delle vittime a emergere dallo stato di sfruttamento, è dovuta alla paura di ritorsioni contro se stessi o i propri cari, o di provvedimenti sanzionatori come l’espulsione e il rimpatrio.
    Anche i ragazzi italiani sono investiti dal problema: nel nostro Paese la prostituzione minorile riguarda principalmente bambini e adolescenti appartenenti a famiglie in condizioni sociali, economiche e culturali fortemente disagiate, che utilizzano la prostituzione in forme coatte quale strategia di sopravvivenza per sé e per il proprio nucleo familiare (IV Rapporto CRC sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia).
    Per arginare e contrastare un fenomeno di tale portata è fondamentale che gli operatori, le forze dell’ordine, i magistrati e tutti coloro che a vario titolo e in vari momenti - sulla frontiera, nei porti, per le strade delle nostre città, nei mercati, nelle campagne - entrano in contatto con le potenziali vittime, abbiano le competenze e un’adeguata formazione per identificarle e inserirle in progetti di protezione. Purtroppo, a livello istituzionale, dobbiamo registrare una grave inadempienza, legata al fatto che il nostro Parlamento non ha ancora ratificato la Convenzione di Lanzarote del 2007, promossa dal Consiglio d’Europa sul tema della protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali. Soltanto il Senato, nello scorso mese di maggio, ha completato l’iter di adozione della Convenzione, ma la Camera non ha ancora provveduto, nonostante siano passati parecchi anni e molti appelli sono stati rivolti al Parlamento in relazione a questo suo colpevole e ingiustificabile.

    Bambini e ragazzi impoveriti

    Si sta riproponendo a livello nazionale un fenomeno sicuramente trascurato, ma che purtroppo è in grande espansione quale è la povertà economica. Essa va intesa come la condizione di chi si trova in stato di indigenza e rappresenta uno dei possibili motivi di disadattamento, in quanto costringe chi ne è vittima a rinunce anche pesanti e a volte a reazioni socialmente non accettabili. Dalle cosiddette nuove povertà – individuate illo tempore nelle carenze culturali, relazionali, nell’analfabetismo informatico – si è ritornati a porre l’accento nelle povertà materiali, pur non avendo né affrontato né tantomeno risolto le prime, in considerazione del peso che esse sono tornate ad assumere.
    Riteniamo siano sufficienti, per giustificare tali asserzioni, i seguenti succinti dati (Save the Children, 2012). L’Italia registra, fra i 35 Paesi dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), il tasso è più elevato di povertà relativa: nel 15% delle famiglie italiane vi è un reddito inferiore a quello medio nazionale. Si tratta di un valore percentuale enorme, pur scontando il fatto che come risaputo i dati riguardanti i redditi percepiti andrebbero depurati delle dichiarazioni non veritiere. La cifra desta ancora più stupore se da i valori percentuali si passa a quelli assoluti: risultano essere 1.876.000 i bambini e i ragazzi che vivono in famiglie povere e, di questi, 653.000 fanno parte di nuclei familiari in condizioni di povertà assoluta, in quanto non dispongono dei beni essenziali per il conseguimento di uno standard di vita minimamente accettabile. In tale quadro lo sguardo non può non allargarsi ai fenomeni indotti dalla grave crisi economica che stiamo attraversando e che si riflette sul numero di famiglie a rischio povertà: le stime riguardano il fatto che ben il 22,6% dei bambini (più di 1 su 4!) vive in nuclei familiari in tale situazione di preoccupazione; se figli di madre single, la probabilità sale a 50%. In Europa solo la Romania registra un dato peggiore del nostro rispetto al rapporto fra minorenni a rischio povertà e adulti nelle stesse condizioni, pari al 6,5%. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di famiglie e di soggetti in età evolutiva cui mancano o cominciano a mancare alcuni fattori di base ai fini di una crescita sostenibile: da una sana e corretta alimentazione a un alloggio dignitoso, da cure mediche appropriate a strumenti e opportunità sul piano dell’istruzione e della cultura, alla possibilità di ampliare il loro campo esperienziale, sperimentando opportunità di tempo libero essenziali ai fini di un armonico sviluppo, rispettoso dei loro diritti. È evidente che a rischio povertà non è il bambino sfornito di magliette Abercrombie, di scarpe Nike e dell’ultima versione dell’iPhone, ma il bambino cui difettano o mancano alimentazione, sanità, istruzione, trasporti adeguati, opportunità di svago.

    Bambini e ragazzi descolarizzati e defuturizzati

    La scarsità di risorse economiche si intreccia in molti casi – non in tutti, poiché i fenomeni di cui ci stiamo occupando non nascono e non evolvono sulla base di paradigmi deterministici – in aspetti di impoverimento sul piano culturale. Non possiamo fare se non un fugace riferimento alle scelte esiziali fatte dal ministro Gelmini per quanto concerne sia lo studio dell’arte, espulso dalle scuole superiori con l’eccezione dei licei artistici (con quale consapevolezza della nostra eredità architettonica, paesaggistica, storica usciranno dal percorso di studi, ad esempio, i futuri geometri?); sia l’insegnamento della musica, confinata ai pochissimi licei musicali istituiti in questo Paese, patria della musica operistica.
    Ci soffermiamo su una questione negletta, ignorata, rimossa (non sappiamo quale sia l’aggettivo più calzante) quale è il fenomeno degli abbandoni scolastici, vale a dire il ritiro anticipato del percorso di studi a livello superiore, prima cioè di aver conseguito un diploma, compreso quello dato dai centri di formazione professionale. Secondo l’ISTAT sono 18,8% (dati 2010) – centinaia di migliaia di soggetti - i giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno conseguito come unico titolo di studio il diploma di 3^ media (nelle regioni meridionali del Paese tale percentuale cresce al 30.3%): si tratta quindi di ragazzi che negli anni precedenti hanno abbandonato gli studi durante gli anni della scuola superiore o della formazione professionale. Sono cifre molto elevate – il doppio della Germania e ben lontani dagli obiettivi fissati dalla Carta di Lisbona – da rasentare l’incredulità e da suscitare profondi timori e preoccupazioni: con quali competenze questi giovani espulsi dal nostro sistema scolastico e formativo si apprestano a cercare un’occupazione? Quale progetto di vita sono/saranno in grado di costruire? Quali esperienze potranno fare?
    Un Paese come il nostro che si permette di lasciare per strada tanti adolescenti e giovani da una parte si priva di risorse fondamentali per il suo presente e per il suo futuro, dall’altra contribuisce a creare quelle “vite di scarto” di cui ha parlato Z. Bauman (2001) a proposito degli effetti dei processi di globalizzazione a livello mondiale.
    Molteplici sono le cause di tale fenomeno, sia di ordine personale, sia di ordine socio-culturale, sia di ordine economico come ricordato, sia ancora e non da ultimo per l’incapacità della scuola di adeguarsi alle reali esigenze e alle effettive capacità dei propri alunni. Per questi ultimi tale evento può rappresentare una vera e propria sconfitta personale sulla quale possono innestarsi sentimenti di auto-disistima, di rinuncia talvolta anche di aggressività contro il mondo adulto in genere.
    In realtà l’abbandono andrebbe inserito nel più ampio insieme di fenomeni che vanno sotto la denominazione di insuccesso scolastico, che non si esaurisce nel ritiro dalla frequenza scolastica e neppure nella bocciatura, ma che comprende le difficoltà di rendimento scolastico, la scarsa rilevanza che ha l’apprendimento scolastico nella vita di tanti ragazzi, le cui cause sono molteplici o plurifattoriali e in questa sede non possono essere oggetto di analisi approfondita. Un segnale importante è l’annuncio di qualche mese fa da parte del sottosegretario all’istruzione M. Rossi Doria, che in collaborazione con il ministro della coesione sociale F. Barca ha predisposto un piano di interventi contro la dispersione scolastica, per i quali sono messi a disposizione oltre 100 milioni di euro da impiegare in 100 microaree del territorio nazionale.
    In tale quadro va richiamata l’attenzione, seppure fuggevolmente, su un fenomeno correlato anche alla dispersione scolastica: i NEET (Not in Education, Employment or Training). Sono i ragazzi e i giovani inattivi, che in Italia ammontano al 22.7% della popolazione fra i 15 e i 29 anni (e quindi anche gli adolescenti). Il dato, riferito al 2011 e di fonte ISTAT, registra un considerevole aumento rispetto a tre anni prima, crescendo del 3.4% in confronto al 2008. Sono quindi 2.155.000 soggetti: quasi 1 su 4 rispetto al totale della popolazione giovanile nella medesima fascia d’età; a livello europeo solo la Bulgaria registra tassi peggiori. Il fenomeno è in aumento perché si sono inasprite e continuano ad aggravarsi le difficoltà economiche. Le conseguenze di questo fenomeno sono le seguenti, brevemente cennate: si tratta di giovani in cui è assente la progettualità personale, in cui è azzerata la fiducia nelle istituzioni e nella politica, che non esprimono alcuna idea di futuro. Il 46% di questi soggetti dispone, al massimo, del diploma di licenza media: è l’ “anticamera della vita da need, come ha dichiarato M. Rossi Doria.

    Bambini e ragazzi lasciati soli

    Nell’ambito del fenomeno migratorio, una posizione di particolare vulnerabilità è rappresentata dai minori stranieri non accompagnati: l’immigrazione clandestina, il processo d’integrazione in un Paese dai riferimenti culturali sconosciuti, la realtà sommersa nella quale vivono questi ragazzi in bilico tra lecito e illecito, questi e altri ancora sono gli aspetti che compongono tale fenomeno.
    In questi ultimi decenni il nostro Paese, alla pari di altri Paesi europei, ha visto crescere la presenza di immigrati stranieri sul territorio: all’interno di questi flussi migratori il numero di minori stranieri è andato aumentando con ritmo sostenuto. Vi sono minori stranieri che arrivano in Italia per ricongiungersi con la famiglia, oppure immigrati assieme ai loro familiari. Tra questi non accenna a diminuire il numero di giovanissimi che arrivano clandestinamente nel nostro paese, soli, sprovvisti di documenti.
    Una circolare ministeriale stabilisce che per minore straniero non accompagnato si intende “il minorenne non avente cittadinanza italiana o di un altro Stato dell’Unione europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano”.
    Dal 2000 vi è l’obbligo di legge di segnalare al Comitato per i minori stranieri (un organismo nazionale) la presenza di tali soggetti nel nostro territorio.
    La presenza di minorenni non accompagnati all’interno dei flussi migratori continua a interessare il nostro Paese. È tuttavia un fenomeno mutevole che va presentando nuove caratteristiche:
    - per quanto riguarda il Paese di provenienza, in passato molto forte era la presenza di ragazzi rumeni, ma dal 2007 i ragazzi bulgari e rumeni non sono più soggetti alla normativa sugli extracomunitari, perché i loro due paesi sono entrati a far parte dell’Unione Europea, ragione per cui il loro afflusso non viene più conteggiato; tra le nazionalità maggiormente presenti accanto a quelle già note come Albania, Marocco e Romania troviamo molti minori dall’Afghanistan;
    - in relazione alle regioni di insediamento, la tendenza attuale non è più quella di spostarsi dalle regioni del sud – luogo di arrivo - verso quelle del nord. La variazione in aumento del fenomeno vede una crescita significativa di presenze proprio nelle regioni del sud;
    - in ordine all’età, attualmente quasi la metà dei ragazzi ha 17 anni (il 47% circa), quindi appena sotto la soglia della maggiore età;
    - la decisione di partire è spesso determinata dalla presenza di guerre, povertà più in generale instabilità politico-economica nel paese d’origine. Unito a ciò vi è un forte investimento nel viaggio migratorio, visto come l’unica via per migliorare lo stile di vita, trovare un lavoro che permetta autonomia e indipendenza;
    - l’ingresso clandestino può avvenire con diverse modalità: i ragazzi nel programmare il viaggio migratorio, possono ricorrere alle organizzazioni di traffico clandestino oppure attuare le medesime strategie apprese da amici precedentemente emigrati. In qualsiasi caso corrono rischi altissimi. Le condizioni del viaggio sono ai limiti della decenza umana, rischiano la vita ancora prima di raggiungere il paese meta.
    Una volta in Italia, questi ragazzi incontrano innumerevoli difficoltà, non avendo documenti vivono in una condizione di clandestinità/invisibilità. Da irregolari la sfera di opportunità è notevolmente ridotta. Tuttavia è necessario fare una distinzione tra i minori stranieri non accompagnati del tutto privi di riferimenti nel territorio, dai ragazzi che invece possono fare riferimento su qualche conoscente emigrato in precedenza. Spesso i vagoni dismessi delle stazioni ferroviarie, i campi nomadi e le vecchie case abbandonate rappresentano gli spazi abitativi provvisori condivisi con altri stranieri adulti.
    Il territorio si accorge della presenza di questi ragazzi nel momento in cui vengono rintracciati dalle forze dell’ordine durante le attività di pattugliamento e, in quanto sprovvisti di documenti, vengono subito accompagnati in strutture adeguate; oppure se compiono dei reati, a causa dei quali vengono segnalati alle autorità competenti (carcere minorile, strutture di accoglienza); oppure ancora se si presentano spontaneamente presso servizi di accoglienza su indicazione di altri connazionali.
    Generalmente è il Comune in cui viene fatta la segnalazione ad accompagnare il minore presso una comunità d’accoglienza, che in un primo momento offre un sostegno materiale (soddisfacimento bisogni primari, tutela sanitaria…), per poi predisporre dei percorsi educativi e formativi individualizzati finalizzati all’integrazione di questi ragazzi con il territorio.
    Le informazioni statistiche sui minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro territorio nazionale provengono da diverse fonti. Data la parzialità dei dati che riescono a produrre, è difficile riuscire a ricomporre un quadro generale sulla effettiva portata del fenomeno. La principale fonte di informazione sui minori stranieri non accompagnati è la banca dati del Comitato per i Minori Stranieri, che registra puntualmente le segnalazioni provenienti da pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio ed altri enti che svolgono attività di assistenza socio-sanitaria.
    Al 30 giugno 2009 risultavano presenti 7042 minori, dei quali il 77% era considerato non identificato, cioè sprovvisto di documento di riconoscimento. In riferimento ai Paesi di provenienza, l’Africa segna le presenze maggiori: 3.833 minori, seguita da Asia con 1728 minori, l’Europa registra 1.386 minori e l’America 95. I maschi rappresentano il 90% (6.362 minori) e le femmine il 10% (680 minori) del totale. Più della metà dei minori ha 17 anni (52%), seguono coloro che hanno 16 anni (25%); più contenuto il numero dei 15enni (733) pari al 10% del totale; la fascia dei 7-14 segna invece 847 presenze pari al 12% e infine la fascia 0-6 registra 53 presenze pari all’1%.
    L’adolescente straniero, oltre ad affrontare gli aspetti tipici del periodo adolescenziale, deve fare i conti con la sua condizione di migrante. La migrazione determina un cambiamento profondo nella vita di questi ragazzi e la ridefinizione dei legami di appartenenza. La migrazione suscita infatti sentimenti ambivalenti di perdita del proprio mondo con le sue tradizioni e consuetudini, separazione dalla famiglia d’origine, che incidono in maniera profonda sulla propria storia e identità personale. Il minore immigrato solo vive un’esperienza di sradicamento. Crescere a contatto con una pluralità di modelli culturali può creare nell’adolescente straniero un conflitto interiore tra la voglia di preservare la propria cultura e la voglia di adattarla alla nuova realtà. Il desiderio e il bisogno di sentirsi uguali ai giovani italiani lo porta ad adottare uno stile di vita e di comportamento che non sempre coincide con quanto prescrive la cultura d’origine.
    Questi ragazzi corrono il rischio di occupare spazi marginali in entrambe le culture e sistemi linguistici. I minori stranieri - nello specifico i minori stranieri non accompagnati - che affrontano l’esperienza migratoria durante il periodo adolescenziale, rischiano di bruciare le tappe trasformandosi prematuramente in adulti, sobbarcandosi delle responsabilità troppo pesanti per la loro giovane età. Corrono il rischio di entrare nel mondo adulto senza aver vissuto le tappe adolescenziali fondamentali per la formazione della propria identità e personalità.

    Bambini e ragazzi scippati e sequestrati

    I dati e i fenomeni fin’ora messi in evidenza fanno emergere aspetti che ostacolano o impediscono a tanti soggetti minorenni l’evolvere positivo dei loro percorsi di crescita e di emancipazione sociale, connessi a difficoltà economiche delle famiglie, a forme diversificate di non-adattamento ai percorsi dell’istruzione scolastica, a forme di solitarietà in cui si vengono a trovare gli adolescenti immigrati privi di riferimenti adulti.
    Ma, se allarghiamo ulteriormente lo sguardo per quanto concerne dinamiche e fattori di sviluppo delle giovani generazioni, altri fenomeni emergono all’attenzione, ugualmente importante seppure sostanzialmente e diffusamente ignorate dal mondo adulto. Ci riferiamo agli itinerari di socializzazione, riferendoci non alla socializzazione primaria, vale a dire alla strutturazione delle relazioni sociali che avviene nei primi anni di vita all’interno della famiglia di origine, quanto alla socializzazione secondaria, quella che concerne l’impatto e l’inserimento nel contesto di vita e nelle istituzioni altre rispetto alla famiglia. In realtà preferiamo in questa sede – non ce ne vogliano i sociologi… - l’espressione educazione alla socialità, la quale viene considerata, pedagogicamente parlando, come una delle “direzioni intenzionali originarie” (P. Bertolini, 1988), poiché l’esperienza dell’altro non è per il singolo qualcosa che possa accettare o meno a seconda delle circostanze o delle eventuali scelte personali, ma è qualcosa di cui non si può fare a meno, è ontologicamente parte dell’essere persona. Fatta questa breve premessa, necessaria per dare contorni di senso alle considerazioni che seguono, il dato che balza agli occhi è rappresentato dalla quasi totale sparizione di quei comportamenti che per lungo tempo hanno caratterizzato le abitudini di vita di tante generazioni di bambini e di ragazzi, riconducibile alla pratica motoria libera, all’esperienza del gruppo informale, al tempo libero autonomamente organizzato e gestito, reso spesso oltremodo attraente per le esperienze trasgressive che permetteva di sperimentare. Forniamo in proposito qualche dato per dare ragione di tali affermazioni.
    I minori in età 6-14 anni che trascorrono abitudinariamente il tempo libero nelle modalità ricordate sono circa il 10% (ISTAT): solo 1 ragazzo su 10 nel nostro Paese ha il privilegio (!) di poter correre su un prato, di arrampicarsi su un albero (magari per rubare ciliegie…), di far volare un aquilone, di rotolarsi su un pendio, di giocare a rincorrersi e a nascondino; gli altri sono rinchiusi nelle mura domestiche o in quelle altrettanto ristrette delle case degli amici. Solo il 25% degli alunni di tutti i livelli scolastici si reca a scuola a piedi o in bicicletta. Dice P. Mottana (2011) che “L’infanzia è stata scippata. Sequestrata… intrappolata nella famiglia prima e nella scuola dopo… rapita dalle strade, dai cortili e dai giardini, non più in bicicletta, sui pattini o semplicemente in corsa. Niente più infanzia sporca, sanguinante, fangosa… non più bambini in cerca d’aria, di odori, di terra nuda e melmosa, di vegetazione ruvida e di alberi da arrampicare… bambini sporchi, incrostati di fango e di contusioni rapinate al cemento.” Non intendiamo passare per laudatores temporis acti, utilizzando il pamphlet di P. Mottana per rimpiangere i tempi passati. Vogliamo invece esprimere la consapevolezza di quanto importanti siano tali esperienze all’aria aperta nel rapporto diretto con la natura e quanto gravi siano gli impoverimenti per i bambini e i ragazzi che derivano dalla loro diffusa scomparsa. Il rapporto con la natura infatti è terapeutico. “I bambini hanno bisogno di vedere, ma anche di udire e di toccare, di sfiorare e di annusare, di afferrare e di muoversi, di avvicinarsi e di allontanarsi, di correre e di esplorare, di sentirsi parte di un tutto che li contiene… è facendo che si impara veramente”, così argomentano A. Oliverio e A. Oliverio Ferraris (2011), richiamando anche in proposito le intuizioni di tre grandi studiosi dell’infanzia quali J. J Rousseau, F. Froebel e M. Montessori. Scoprire la natura è attività più complessa (e forse più attraente) di un videogioco, poiché coinvolge tutti i sensi, permette di esplorare i limiti.
    La medesima rilevanza ha l’esperienza di gruppi naturali, che la compianta studiosa M. L. Pombeni definì come “gruppi identitari” (1996), in quanto luoghi all’interno dei quali pre-adolescenti e adolescenti hanno la possibilità straordinaria di costruire una parte importante della propria identità.
    Le risonanze di tali radicali cambiamenti sono di enorme portata, in quanto non solo vengono a mancare esperienze fondamentali per la crescita, ma in loro sostituzione non è stato congegnato alcunché di significativo; i giochi con la natura e nella natura sono stati sostituiti dai giocattoli, la maggior parte dei quali – soprattutto quelli elettronici – mette i ragazzi in una posizione di passività e di solitudine, non sperimentando le valenze che il gioco spontaneo, il gruppo, l’aria aperta rivestono e i molti vantaggi che esprimono sul piano evolutivo (). Molte sono le forme di malessere che possono derivare dalla “reclusione” dei minori nelle mura domestiche: una cronica irrequietezza, un’alimentazione disordinata ed eccessiva (nel nostro Paese i tassi di obesità infantile e i disturbi del comportamento alimentare sono i più alti d’Europa nei soggetti fra i 6 e gli 11 anni e 1 di essi su 3 è sovrappeso), un surplus di energie psicofisiche che non trova spazi di sfogo, fino al “disturbo da deficit di natura” che il pedagogista americano R. Louv (2006) ha evidenziato per primo denotandolo come quella forma di “disagio psicologico e fisico che può causare difetti percettivi, durata ridotta dell’attenzione in rapporto al livello di sviluppo, iperattività e altri inconvenienti fisici ed emotivi” (A. Oliverio, A. Oliverio Ferraris, 2011).
    Si potrebbe pensare che un ruolo di sostituzione o di supplenza è fornito nell’età dell’infanzia e della pre-adolescenza dalla pratica sportiva. Ciò è vero solo in parte e per due ordini di motivi. A livello nazionale, solo 6 minori su 10, fra i 6 e i 14 anni, praticano una disciplina sportiva, percentuale che dopo questa età calano rapidamente; tale rapporto diventa quasi irrisorio nel caso della popolazione minorile immigrata o figlia di genitori provenienti da altri Paesi. Le ragioni sono svariate e comprendono la mancanza di un’educazione alla pratica sportiva e motoria che per molte famiglie non fa parte della loro cultura educativa; il costo dell’iscrizione della frequenza dell’attività sportiva che può ammontare ad alcune centinaia di euro l’anno; la cessazione della frequenza a causa di pressioni indebite esercitate dalla società sportiva, dai suoi tecnici e dai suoi allenatori che in diversi casi – sprovvisti di un’adeguata e specifica preparazione sul piano psicopedagogico – sottopongono bambini e ragazzi ad allenamenti eccessivamente pesanti, avendo di mira la vittoria, l’individuazione precoce del campioncino, con il risultato di stancare e di stressare i ragazzi e di indurli a un precoce abbandono della disciplina praticata. Purtroppo la scuola fornisce indirettamente un suo contributo alla svalutazione dell’educazione fisica mantenendo ancora due sole ore settimanali di questa disciplina, nonostante l’UNESCO abbiano da tempo individuato in un minimo di sei ore l’attività fisica settimanale. Un ruolo non positivo esercitano anche quelle società sportive emanazioni di federazioni che da tempo hanno fatto del risultato e della prestazione la loro filosofia, snaturando così il significato educativo della pratica sportiva, in aperta e palese contraddizione con i documenti internazionali, i quali esplicitano con chiarezza l’insieme dei diritti dei minori in ambito sportivo. Fra questi vogliamo citare la Carta dei diritti dei ragazzi allo sport, varata nel 1992 Commissione Tempo Libero dell'O.N.U. e fatta propria da numerose federazioni sportive. Essa contempla 10 diritti dei bambini e degli adolescenti: praticare attività motoria, giocare e divertirsi, praticare sport in un ambiente sicuro e sano, essere allenato da personale adatto a quella fascia di età e qualificato, essere trattato con rispetto, del giusto riposo, controllo della salute, competere con giovani di pari capacità, pari opportunità, non essere sempre un campione. È giunto il tempo, riteniamo, di inserire la pratica sportiva educativa nelle politiche di welfare, anche nella direzione di ripensare gli spazi sportivi come luoghi polivalenti, a dimensione familiare, per intercettare quelle domande di relazioni sociali che non trovano altri ambiti di accoglienze e di espressione.
    Afferma nel suo testo G. Pietropolli Charmet (2011) che è in corso un vero e proprio scippo del tempo di vita dei ragazzi da parte degli adulti, così da farlo diventare tempo della scuola o del doposcuola, riempito da attività sportive, da corsi di musica, da formazione e addestramento vario, da vacanze-studio all’estero. “Sono tutte creazioni adulte finalizzate a ridurre il tempo libero dei ragazzi”, rispetto alle quali molti genitori, molti padri in particolare, nutrono grandi aspettative di tipo narcisistico nei confronti della riuscita dei figli, mentre i padri/nonni etici imperniavano l’educazione dei figli sull’imposizione della propria visione di vita.
    L’esito di queste distorsioni, carenze, inadempienze nei percorsi di educazione alla socialità è il “sequestro” dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto pressione per mancanza di spazi, di luoghi in cui inventare e organizzare giochi, scaricare energie e tensioni. Riprendendo P. Mottana “Occorre rifondare la forma delle città, ripensarne i flussi, l’impero del traffico, i ritmi, i calendari. Aprire vuoti, scavare fossati, infittire la vegetazione. Lasciare spazio ai campetti incolti, mandare a maggese le strade, coltivare ruderi e rovine…, mandare le macchine sottoterra, fare scuola all’aperto, riempire di nuovo la strada di botteghe e di venditori ambulanti. Pedonalizzare a tutto spiano, fare spazio al paidoalfiere, il bambino che schizza a zig-zag. Liberare torme di ragazzi nei vicoli e nelle piazze in cerca di guai”.

    Bambini e ragazzi “regolati” e “meritocratici”

    L’attuale classe politica - ma andrebbe coinvolta anche la classe imprenditoriale e altri importanti mondi – si dimostra da tempo “tetramente sorda” (T. De Mauro) alle esigenze dell’educazione, della scuola, della ricerca e della cultura. Sembra che l’attuale ceto dirigente di questo Paese, con non molte eccezioni, abbia deciso di rimuovere o sconfessare tutto ciò che ha a che fare con il sapere, con la cultura nelle sue varie espressioni, al punto che lo stesso T. De Mauro ha parlato di un vero e proprio “disastro culturale”.
    Conseguenza di tale colpevole latitanza è il fatto che la scuola, luogo principe per l’educazione, versa da tempo in condizioni preoccupanti: accanto a lodevoli e non rare eccezioni si constata un panorama di situazioni affaticate e inadeguate, continuamente castigate dalla mancanza di risorse. Il risultato pare una generale deriva educativa dei luoghi come la scuola, i cui insegnanti si propongono in qualità di garanti della trasmissione di saperi disciplinari, ma con esitazione si riconoscono esplicite competenze e responsabilità educative. È così che l’orientamento ai valori, l’attenzione alla vita emotiva, l’iniziazione alla cittadinanza attiva e consapevole, il confronto e l’elaborazione di questioni cruciali e irrinunciabili dell’esistenza rimangono sospesi in una zona di confine (tra allievi e insegnanti, tra scuola e società, tra scuola e famiglia/e, tra sé e gli altri), in quello spazio indefinito e interstiziale che se non è intenzionalmente attraversato da ponti che uniscono, collegano, aprono passaggi e scambi…, rischiando di trasformarsi in vuoto che avvolge, isola, crea fratture e contrapposizioni (fra i tanti contributi disponibili: R. Massa, 1997; E. Morin, 1999; F. Frabboni, 2002; E. Nigris, 2002; R. Moscati, E. Nigris, S. Tramma, 2008).
    Un rischio che corre l’educazione in ambito scolastico (e non solo) è quello di essere identificata nelle regole. Spaventa il modo con cui oggi si fa avanti la richiesta di più regole in educazione, accompagnate da sanzioni (chi non ricorda l’enfasi sul 5 in condotta a scuola?) e magari – ultima trovata – da controlli telematici cui sottoporre gli esiti scolastici dei bambini e dei ragazzi. Spaventa perché pare che si tratti di una richiesta tutta ideologica che non fa i conti con la potente crisi che oggi attraversa il rapporto con le regole. È come se si ribadisse il valore del loro rispetto senza avere capito come mai è in crisi il nostro rapporto con esse o, cosa ancora più grave, senza essersene accorti. Si osserva infatti in più situazioni la tendenza del mondo adulto a cercare di tacitare la propria coscienza, a cercare di giustificarsi attraverso gli strumenti regolativi, più che avvertire il desiderio di fare un pezzo di strada insieme, di dialogare, di allearsi con i fanciulli in vista del loro bene e del bene di tutti. Il richiamo alle regole diventa quindi un richiamo astratto: le regole sono importanti e vanno rispettate! Il fatto è che è molto difficile porre regole laddove regna il v(u)oto di condotta, dove le condotte di ognuno di noi sono sempre più difficili da riconoscere dentro un pieno condiviso di valori. Oggi insegnare a rispettare le regole rischia di confondersi, come pare che accada molto frequentemente, con l’insegnare i valori. Ma i valori sono altro dalle regole (le regole hanno a che fare con il funzionamento di qualcosa, i valori con ciò che è giusto e auspicabile); ed ecco che ci si incaponisce nel voler trasformare l’insegnamento del cooperare in regole di condotta cui doversi attenere. I valori vanno scoperti e perseguiti, le regole vanno capite e accettate. Che le regole siano importanti e che vadano rispettate è un principio costitutivo della regola stessa; tuttavia il rapporto dell’educazione con le regole è più complesso e il compito dell’educazione non sta tutto nell’insegnare a rispettarle, ma nell’educare a un rapporto responsabile con le regole, diventando capaci di rispondere agli altri del proprio modo di osservarle o di disobbedirle. È importate ripartire dai fondamenti: insegnare il rapporto con la regola, con la disciplina, scoprendone il valore esistenziale ancor prima che civico o etico.
    Figlio di questi tempi e nodo irrisolto nonostante le reiterate proposte e i ripetuti interventi legislativi da parte di vari ministri dell’Istruzione, è il tema-problema del merito. È figlio di tempi in cui si vorrebbe diffondere anche nei contesti tipicamente educativi – quali quelli che si occupano di infanzia e di adolescenza – la cultura dominante della prestazione, della competizione, del profitto a tutti i costi i cui esiti disastrosi sul piano sociale, culturale ed economico sono davanti agli occhi di tutti. È un problema irrisolto non solo perché è alquanto difficile stabilire criteri, metodi e premi basati sul merito ma perchè si tratta di un’impostazione profondamente errata sul piano pedagogico.
    È risaputo che col termine merito si intende l’attribuzione di un riconoscimento concreto (una ricompensa) dopo aver compiuto un’azione particolarmente buona e positiva, come ad esempio aver ottenuti elevati punteggi a scuola o elevati risultati in una disciplina sportiva. È noto che il premio, conseguente al comportamento meritevole, rappresenta un incentivo, ma sarebbe un grave errore pedagogico se si impostasse il lavoro educativo su di esso. Il rischio che si determinerebbe consiste in una sorta di distorsione morale con l’educando, coincidente con un atto di vera e propria corruzione, legato al fatto che i risultati da ottenere sarebbero agganciati a una contropartita (P. Bertolini, 1996). Rappresenterebbe un incentivo a ritenere che nella scuola si debba essere assoggettati alla logica economica della competizione per il guadagno: ma la scuola non è un’impresa che premia il merito e addirittura lo premia sul piano economico! Non si può applicare alla scuola l’ottica del merito misurato e quantificato, seguendo il criterio economico di monetizzare il valore dello studente. Le soddisfazioni di un ragazzo capace sono legate alla promozione, alle gratificazioni morali, al piacere di partecipare a una comune impresa educativa, non al premio in denaro e agli sconti che otterrebbe con la card. Il premio legato al merito non rappresenta perciò un metodo direttamente educativo – e chi lo credesse avrebbe una concezione deterministica dell’educazione -, ma solo indirettamente educativo. Si può tranquillamente affermare che il “premiato” non ha mai rappresentato un riferimento per i coetanei sul piano dell’emulazione, rischiando caso mai di suscitare contrasti e rivalità interpersonali. Non si può quindi fondare un processo educativo a scuola, nello sport, in associazione ecc. sul concetto di merito e sul premio che ne deriva; mai esso va promesso in anticipo e può essere dato solo saltuariamente. Necessita perciò un ripensamento di tale filosofia che ha assunto il valore di un mito quasi indiscutibile, facendo proprio invece un punto di vista esplicitamente ed intenzionalmente pedagogico e quindi operando in una direzione molto diversa, vorrei dire abissalmente distante: quella di accudire tutti i bambini e ragazzi che frequentano la scuola o un’associazione sportiva o altri luoghi educativi. Pedagogicamente parlando l’opzione di fondo non può che consistere nell’operare in modo che tutti – e sottolineiamo tutti – i bambini e i ragazzi siano messi nelle condizioni di raggiungere un adeguato livello di preparazione sul piano formativo. Nel momento in cui come adulti assumiamo la responsabilità di accompagnare educativamente soggetti in età evolutiva portatori dei diritti all’educazione, al tempo libero, al gioco, alla vita culturale e artistica, va riconosciuto – esperienza di tanti insegnanti, allenatori sportivi, educatori, oltre a tanti bambini e ragazzi che ho avuto modo di incontrare in questi ultimi anni – che la competizione (esasperata) non aiuta a migliorare i risultati. La motivazione allo studio, la spinta a migliorare le proprie prestazioni non nasce affatto dalla pratica di una concorrenza stressante, dalla voglia di primeggiare a tutti i costi. La motivazione nasce invece dall’imparare ad amare quello che si conosce, dal piacere per quello che si scopre, a scuola o in altri luoghi, su di sé, sugli altri, sul mondo; nasce dal cooperare fattivamente con gli altri e dallo sperimentare che tale approccio, quello di imparare in modo collaborativo, fa crescere e apporta tangibili benefici al proprio benessere psicofisico.
    Gli sforzi di una scuola, di una società sportiva, delle istituzioni non vanno indirizzati, come tuttora avviene in diversi ambiti, alla ricerca talvolta ossessiva del talento, all’individuazione precoce del campioncino, ma alla cura educativa di tutti i minori (di età) affinché nessuno si perda per strada ma possa raggiungere quei risultati che gli permettano di superare positivamente gli impegni scolastici, di acquisire competenze professionali utili, di inserirsi positivamente nella società e di costruire possibilmente un futuro sereno. Compito della scuola e delle altre realtà educative è di portare avanti con successo l’intera classe/gruppo ed è su questo - anche in fedeltà all’art. 3 della Costituzione che dichiara che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…che…impediscono il pieno sviluppo della persona umana… - che occorre investire e non sullo sforzo di far salire sul podio il primo, con il rischio di trascurare tanti altri. Una scuola che è votata al “primo” è una scuola che rischia di essere votata alla mediocrità, non al merito, perché spronata non a formare tutti gli studenti, ma a fregiarsi del nome del vincitore. Le cosiddette eccellenze usciranno invece sicuramente allo scoperto se si saranno costruite le condizioni favorevoli a livello di competenze degli adulti, di clima relazionale, di metodo, di organizzazione, affinché ciascun bambino e ragazzo possa esprimere i suoi talenti, le sue capacità e la sua creatività. Coltivarli significa dare a tutti loro l’opportunità di far emergere le specifiche attitudini; così operando, si può essere certi che i più capaci si metteranno in evidenza e potranno essere orientati nella direzione più favorevole alla loro maturazione e valorizzazione. Solo lo sforzo comune degli adulti di far progredire insieme i ragazzi molto bravi, quelli bravi e quelli meno bravi è educazione, in tutti i luoghi da loro frequentati. Solo tale sforzo comune fa emergere le eccellenze vere.
    I contesti educativi – come quello scolastico - in cui ancora domina un modello educativo di tipo trasmissivo sono male attrezzati di fronte al compito di mobilitare processi di empowerment, in cui gli interlocutori degli interventi siano concretamente posti nelle condizioni di esperire forme di protagonismo esistenziale.
    La scuola è un luogo di educazione e non soltanto di trasmissione/acquisizione di conoscenze, di contenuti disciplinari. Il dibattito in merito è oramai obsoleto (R. Massa, 1997), per cui le titubanze e le contrarietà devono lasciare il posto a quel maturo convincimento che prevede che l’intero itinerario scolastico – dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore – debba essere interpretato come un percorso caratterizzato da una esplicita e consapevole intenzionalità educativa, riguardante la maturazione della persone, oltre che la loro crescita come allievi.
    In tale contesto non si può non guardare al tema dell’interculturalità. Nel nostro Paese, nel sistema scolastico italiano, su 197 nazionalità censite dalle Nazioni Unite ne sono presenti ben 194! Ciò vuol dire che il mondo intero fa già parte della nostra quotidianità di vita, seppure con pesi percentuali differenziati da zona a zona. I “nuovi cittadini” sono in costante e considerevole aumento, al punto che in alcune aree essi rappresentano il 30-40% della popolazione scolastica. Bastano questi pochi e succinti dati per comprendere la portata di un fenomeno che per lungo tempo è stato sottovalutato e la cui soluzione è stata ed è affidata a leggi inadeguate e addirittura contrarie ai principi del diritto nazionale e internazionale. La politica delle “frontiere sicure”, praticata da diversi governi e ministri, si è rivelata miope e pericolosa, ma la realtà è fortunatamente diversa, almeno in parte. Negli ultimi anni le classi scolastiche multiculturali sono diventate una realtà sempre più diffusa non soltanto nelle grandi città ma anche nei piccoli centri: ragazzi africani, asiatico, sudamericani e dell’est europeo che parlano nelle nostre scuole almeno un centinaio di lingue diverse. Molti di loro sono nati nel nostro Paese e in prima elementare hanno già una buona padronanza dell’italiano. Per i mass media e per una parte dell’opinione pubblica (nonché per alcuni partiti) la loro presenza è una sorta di emergenza nazionale, una minaccia alla qualità dell’apprendimento. Si dimentica così che molte scuole realizzano giorno per giorno, anche in quartieri difficili, esperienze positive e spesso egregie, proprio sul piano dell’apprendimento. Dove si può lavorare con competenza e con risorse adeguate, si ottengono nelle classi multiculturali risultati apprenditivi superiori rispetto alle classi monoculturali, e questo a beneficio sia dei bambini “stranieri” che di quelli italiani. Le classi diventano così importanti laboratori di convivenza e di nuova cittadinanza.
    Occuparsi di educazione interculturale – e preparare insegnanti e educatori professionali adeguati a tale sfida – non significa solo preoccuparsi dei processi di crescita dei singoli, ma implica un ripensamento generale relativo alla cultura dell’educazione che permea i luoghi istituzionali pubblici e privati dove essa viene praticata. Interculturale infatti è un termine che definisce un approccio dinamico, di mutua fecondazione tra le culture, è un concetto più ricco di implicazioni rispetto a quello della multiculturalità, che si rivela statico poiché sta a designare la mera convivenza fra culture diverse (G Favaro, 2011). Tutto ciò interpella fortemente chi si occupa di educazione, interroga la formazione di base e la pratica professionale, che richiedono competenze sul piano della comunicazione e della mediazione interculturale, su quello dei modelli educativi di cui le varie culture sono portatici, sul piano della didattica.
    L’impegno è enorme, a tutti i livelli, compresa ovviamente la formazione a livello universitario. Non assumerlo significherebbe lasciare l’evoluzione del fenomeno delle migrazioni al suo autonomo crescere o, molto più probabilmente, al suo involversi e regredire, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare a livello sociale.

    Bambini e ragazzi stressati e famiglie sotto pressione

    In un testo di qualche anno fa (2005), R. Mantegazza inizia in chiave ironica un capitolo, ricordando quanti bambini e ragazzi siano oggetto di attenzioni eccessive da parte di tanti adulti, preoccupati dei suoi corretti comportamenti, delle sue efficienti prestazioni, dei positivi risultati da ottenere. Basti ricordare, come abbiamo visto, le attese (che diventano pretese) di tanti genitori nei confronti della risuscita scolastica, sportiva, sociale dei figli; le attese (che diventano pretese) nel campo dello sport, che spesso tramutano una pratica giocosa in agonismo esasperato; le attese (che diventano pretese) della scuola, in cui tuttora prevale la centratura sui contenuti di cui bambini e ragazzi vanno riempiti – magari con un surplus di compiti domestici –, sulla base dell’assunto che la formazione di un soggetto sia direttamente correlata alla quantità di conoscenze da trasmettere e da far apprendere. Il risultato di questi percorsi di cosiddetta normalità è che, mediamente, un preadolescente frequentante la scuola media è giornalmente sottoposto al controllo inevitabilmente stressante di un numero elevato di adulti: genitori, nonni, zii, insegnanti, allenatori sportivi, animatori di associazione ecc., tutti preoccupati che lui si esprima al meglio e diventi presto un campioncino. Un bambino di 6 anni, incontrato in un percorso di ricerca, è così sbottato: Ma tu lo sai quante cose deve imparare un bambino?!
    Se lo sguardo si dirige ora alle famiglie, non si può non rilevare – suscitando un ennesimo moto di indignazione – che il cosiddetto perno della società italiana è esaltato nei proclami pubblici, nelle istituzioni e nei partiti, mentre in realtà essa si trova in grosso affanno a causa dei pesi che gravano su di essa, a effetti di stress conforti e negative ricadute sui figli. Le politiche di sostegno della famiglia sono come risaputo sostanzialmente inesistenti, al punto che in parlamento non si è ancora riusciti a far passare neppure la proposta del quoziente famigliare, che consentirebbe a molti nuclei familiari numerosi un sostanzioso risparmio in termini di prelievo fiscale. Relativamente alla latitanza delle istituzioni è sufficiente citare il dato relativo agli asili nido, servizio essenziale per le famiglie e per le madri, soprattutto se svolgono un’attività lavorativa. Se la Germania ha ufficialmente comunicato che dal 1° gennaio 2014 si riuscirà a coprire il 100% della domanda, il nostro Paese registra tutt’ora un’offerta tra le più basse d’Europa, pari al 12% delle richieste: vuol dire che poco più di 1 genitore su 10 è in grado di fruirne e gli altri 9 devono ricorrere alle forme più varie di aiuto quale quello parentale, quello dei vicini di casa oppure affrontando spese consistenti per il mantenimento di una babysitter e comunque costruendo quasi sempre veri e proprio capolavori sul piano organizzativo personale e familiare, pur di assicurare una presenza e un accompagnamento ai figli.
    La famiglia funziona (suo malgrado) come bacino di raccolta di tutto le carenze e le inadempienze che connotano le politiche nei suoi confronti: fino a quando potrà resistere alle molteplici pressioni cui è sottoposta?
    La pressione economica, derivante dalle situazioni di povertà e di rischio povertà, si traduce nella necessità per tanti genitori di lavorare di più e senza certezze, dovendo così necessariamente diminuire il tempo da trascorrere con il partner e con i figli, oltre a dover selezionare i consumi e a rinunciare forzatamente ad opportunità importanti per i figli quali lo sport, l’educazione musicale, i campus estivi a causa delle rette che molti non sono in grado di sostenere.
    Riscontriamo poi una pressione demografica, legata al progressivo ridursi del numero medio di membri in famiglia (il 53% delle famiglie italiane con figli ne ha uno unico), per cui sono i gran parte scomparsi i fratelli e, insieme con loro, sono stati messi da parte anche gli anziani e i loro saperi, oramai considerati un peso sociale e nulla più.
    Le aumentate difficoltà della vita, non solo quelle economiche, costringono poi le famiglie a subire un aumento della pressione relazionale, poiché si accrescono i livelli di gravità e si ampliano quantitativamente le conflittualità interne (fra partner, fra genitori e figli, fra fratelli), con esiti di separazioni fra genitori che, in 7 casi su 10, si esprimono con litigi e con violenze, dovendo così ricorrere a giudici e avvocati.
    Fra i problemi (almeno in parte) inediti che le famiglie si trovano ad affrontare vi sono quelli derivanti dalla pressione culturale. La dominanza nella nostra cultura della logica del mercato e della centralità dell’impresa che deve produrre profitto (molto e subito) si è inevitabilmente estesa alla vita in famiglia, facendola diventare – o spingendo affinchè lo divenga – un’impresa che produce o dovrebbe produrre persone, istruzione, cura e distribuzione del reddito. A questo proposito ricordiamo che siamo il Paese d’Europa con il trasferimento massimo di ricchezza a livello intrafamiliare, allo scopo di contrastare da parte dei genitori e dei nonni la rapida perdita di reddito da parte dei figli, o addirittura la sua assenza. Anche l’impegno della famiglia nel campo dell’istruzione risente di tale clima culturale: se essa, l’istruzione, è definita un capitale, se ha come obiettivo principale l’individuazione e la premiazione dei più bravi e se viene a perdere la sua finalità precipua che è la formazione del cittadino. L’istruzione dei figli, accompagnare la loro crescita non solo sul piano delle conoscenze ma anche su quello delle esperienze e dei livelli di consapevolezza…, tutto ciò non è più motivo di trepidazione e di gioia, ma di preoccupazione, riferita agli ingenti capitali necessari alla formazione dei figli.
    Da ultimo, ma non certo per rilevanza, va considerata la pressione educativa che per certi versi si configura come l’aspetto più vulnerabile nella vita delle famiglie e nella relazione genitori-figli. Se il prendersi cura di un figlio – garantendogli una condizione soddisfacente sul piano economico o quantomeno sostenibile – si rivela impresa ardua, la carenza o assenza di aiuti, di servizi, di supporti fa sì che molti genitori si sentano soli (o si sentano lasciati soli) nel fronteggiare le accresciute difficoltà legate all’educazione, anche a causa della competizione che di fatto da qualche anno si trovano a vivere nel rapporto con la televisione, con internet, con i cellulari e con gli altri nuovi media.
    L’insieme delle tensioni cui la famiglia è sottoposta non può non riverberarsi sui rapporti che essa intrattiene con i Servizi sociali e sociosanitari e con la scuola. In questi ultimi anni si sono moltiplicate le richieste da parte dei genitori, sottoforma soprattutto di domande di prestazioni; si registra un mutamento della tipologia e delle modalità delle richieste, che spesso assumono la forma della rivendicazione (di un aiuto, di un diritto reale o presunto, ecc.), accompagnata a volte da atteggiamenti aggressivi, di aperta contestazione dell’operato del servizio o della scuola. Si aggiunga il fatto che una parte dei genitori è più attrezzata rispetto al passato rispetto al piano delle conoscenze di cui dispone e non esita a ricorrere ad istanze legali per far valere il proprio punto di vista. La logica collaborativa cui dovrebbero essere improntati i rapporti tra cittadini e servizi rischia di essere sostituita da un paradigma di conflittualità, esacerbata dalle reciproche accuse sul piano della responsabilità e dell’incompetenza. I problemi da affrontare sono invero tanti e, se non vengono assunti come oggetti di lavoro capaci di avviare percorsi virtuosi di risoluzione, rischiano di aggravarsi ulteriormente configurando il pericolo di collassamento dell’intero sistema. Molte famiglie si sono chiuse e allo stesso modo molte figure professionali e servizi si sono da tempo collocati in una posizione difensiva. Nel primo caso un impulso decisivo è stato indubbiamente fornito dal martellamento operato per anni dai partiti di centro destra del governo a proposito del tema della sicurezza, assurto a bandiera e vessillo di una politica nuova, con le conseguenze disastrose che conosciamo come la diffusa paura dell’altro e la perdita del senso di comunità. Professionisti e servizi sono maggiormente preoccupati della tutela di sé, avvertono la paura di fare scelte o di compiere atti che si possono rivelare controproducenti, piuttosto che accrescere le capacità di ascolto, di mediazione con le famiglie, di far propria come bussola l’etica delle responsabilità, che prevede la tutela irrinunciabile del superiore interesse del minore.

    Rianimare l’educazione (che rischia l’insignificanza)

    L’educazione è stata svilita, dimenticata, messa di fatto al margine delle già svalutate politiche per l’infanzia e l’adolescenza. Non si è investito e non si investe in questo settore cruciale della vita nazionale (non solo di quella della giovani generazioni), riducendola a una questione emergenziale, tale da suscitare una fuggevole attenzione, per poi ritornare nell’oblio.
    A parere di diversi autori, il colpo inferto all’educazione che può risultare decisivo, nel senso di renderla effimera, è la rinuncia all’educazione:
    - come messa “in discussione dei modelli concettuali, teorici ed epistemologici che guidano l’azione e il discorso” (R. Massa, 2000);
    - come “sapere critico potenzialmente sovversivo” (R. Mantegazza, 2005);
    - come “autodisciplina del dovere di essere indisciplinati” (D. Demetrio, 2009);
    - come “spinta a rivoltare il sapere, a rovesciare le certezze e i miti presunti della cultura educativa presente” (P. Mottana 2011).
    Nell’insieme, tali considerazioni convergono nel sottolineare il grande pericolo, tuttora presente, che chi ha un ruolo educativo (educatore, insegnante ecc.) non si assuma la responsabilità di costruire uno sguardo critico:
    - sui propri modelli impliciti di riferimento (modi di pensare, paradigmi teorico-concettuali, rappresentazioni mentali), cercando invece dei punti di appoggio, dei riferimenti stabili, dei modelli fortemente prescrittivi così da risolvere le sue esigenze di sicurezza delegandole ad altri;
    - sulle forme e sui modelli culturali oggi dominanti (il mercato, la finanza, il potere economico…), con il rischio di assolutizzarli e di sacralizzarli;
    - sulle pratiche e sulle metodologie dell’educare, che vanno permanentemente problematizzate attraverso una riflessività capace di costruire una circolarità tra pensiero e azione.
    Dice D. Demetrio che l’”educazione indocile è autodisciplina dell’imparare a essere indisciplinati” (2009): con questo apparente paradosso che la frase contiene l’autore intende mettere in evidenza il rischio che oggi l’ingiustizia sociale, la sopraffazione, la regola dominante del più forte, del più furbo, del più disonesto metta a tacere ogni forma di indocilità, di dissenso, di opposizione.
    Purtroppo anche l’università sembra progressivamente abdicare a questa forma di (in)cultura. Essa è sempre stata “fucina di dissenso e di critica” (R. Mantegazza, 2005): i percorsi di studio, i rapporti con i coetanei, le relazioni con i docenti, le variegate esperienze che connotavano gli anni universitari hanno sempre rappresentato una straordinaria opportunità di messa in discussione dei propri convincimenti, di teorie, di dogmi; di confronto con filoni di pensiero e testimoni autorevoli; di acquisizione, in altre parole, di un pensiero critico. Oggi l’istituzione universitaria non sembra così attenta a garantire agli studenti adeguati livelli di qualità dal punto di vista dell’offerta formativa. Gli strumenti della riflessività e della critica necessitano infatti, per essere costruiti e coltivati, di percorsi lunghi e pazienti e non di scorciatoie, di disciplina riflessiva e non di frettolosi apprendimenti, di opportunità formative (in aula, nel tirocinio e in altri contesti) di elevato profilo e non di proposte al ribasso, con il rischio di svilire di importanza e di senso, oltre all’istituzione universitaria in quanto tale, anche l’investimento di risorse personali, di tempo, di speranze nutrite che l’università suscita e nutre. Va sottolineato in particolare la perdita di rilevanza del lavoro di tesi a conclusione del triennio di studi, oggi assimilabile a poco più dell’impegno richiesto da una tesina d’esame, quando invece essa rappresenta l’occasione più importante e spesso unica grazie alla quale lo studente ha la possibilità e il dovere di cimentarsi con un tema complesso, rispetto al quale ha il compito di imparare a gestirsi sul piano cognitivo e organizzativo e a stendere un testo impegnativo.
    L’educazione, per come oggi viene concepita e praticata, rischia quindi l’insignificanza culturale, proprio perché mette da parte le specifiche dimensioni che l’hanno sempre caratterizzata quali lo sviluppo del pensiero autonomo e insieme l’attitudine alla promozione di processi di cambiamento. Ciò tuttavia non rappresenta un fatto inedito: già l’esperienza di Barbiana di don L. Milani negli anni ‘60, così come la pedagogia degli oppressi in Brasile di P. Freire negli anni ‘70 – per citare due fra i riferimenti più noti (anche agli studenti di oggi?!) – hanno avuto il grande merito di proporre metodi e contenuti nuovi sul piano pedagogico, rompendo vecchi e cristallizzati schemi, criticando la situazione presente (di quel tempo) e ricercandone un superamento attraverso un’educazione concepita come strumento di problematizzazione della cultura sociale, economica e anche pedagogica e di trasformazione della società. In tale contesto un ulteriore riferimento è dato da un testo, figlio sempre di quei tempi, che pose il seguente grande interrogativo: Educare: per quale società? (2005). L’autore, G. Girardi, un sociologo salesiano recentemente scomparso nel totale silenzio dei media, si interrogava sul rapporto fra l’educazione e il modello di società in cui essa opera, un tema che oggi sembra scomparso dai percorsi e dagli scenari mentali degli studenti (e non solo…) e che invece dovrebbe rappresentare una questione chiave per chiunque si occupa di educazione dei diversificati contesti: scuola, comunità, associazioni, strada ecc.. La domanda di G. Girardi sottende due ineliminabili questioni di fondo: qual è il proprio modello antropologico (la visione di persona) e quale la propria idea di società, considerato che è sulla base di tali modelli che l’adulto costruisce percorsi e opportunità educative? Una critica forte e autorevole è pervenuta a questo proposito anche da F. Cambi (2000). Il docente fiorentino di filosofia dell’educazione accusa “dall’interno” la pedagogia – la scienza che riflette sulla pratica educativa – di essere divenuta sempre più un sapere organizzativo, funzionale ai bisogni della società presente. C’è invece urgente necessità di costruire coscienze critiche nei riguardi delle pesantezze, delle contraddizioni, delle carenze dell’esistenza. C’è bisogno in altre parole, secondo lo studioso, di recuperare la tensione profetica della pedagogia, intendendola come istanza di cambiamento, ricerca di un futuro possibile, recupero del principio della speranza.
    È la fine dell’educazione? (R. Mantegazza, 2005). Il dubbio sorge legittimo sulla base delle riflessioni portate: sono talmente tanti gli “attacchi” all’educazione, i disconoscimenti e i tradimenti di cui è oggetto da far pensare che essa abbia perduto la sua centralità, la sua valenza di dimensione irrinunciabile del vivere sociale e politico. Lo sguardo di chi drammatizza, di chi semplifica, di chi ignora evoca di fatto il rischio reale della vanificazione del discorso educativo, della sua riduzione a moralismo, a tecnicismo, in sostanza il rischio del fallimento dell’educazione come possibilità di costruire persone per un mondo a misura di bambino, di ragazzo, di donna, di uomo; il pericolo della sua insignificanza sul piano culturale, del fatto cioè che essa non abbia più nulla da dire, sostituita da altre culture e da altri linguaggi.
    Ma chi è portatore della passione per l’educazione, per il lavoro sociale, per la politica non può essere ostaggio di tale situazione. Anzi, è proprio nelle circostanze critiche che vanno colte le opportunità o, se si preferisce, le sfide, rimettendo in gioco la speranza nel cambiamento. Occorre ritrovare le ragioni della speranza, quelle in particolare che passano attraverso la pratica educativa, poiché l’educazione è per eccellenza un’attività che guarda al tempo futuro, alle potenzialità, alle possibilità: l’educazione si nutre di fiducia e non di emergenze, di catastrofismi, di allarmi sociali (L. Ciotti, 2011).
    Per fortuna, come afferma D. Demetrio (2009) l’educazione non è finita! Ne va invece recuperata l’anima, percorrendo la strada della disciplina dell’indisciplina, o della controeducazione, come provocatoriamente propongono sia D. Demetrio che P. Mottana.
    Controeduzione non è un termine inedito, in quanto risale alla pedagogia degli anni ‘60 e ‘70, espressione di una forte contestazione delle istituzioni educative scolastiche da parte di correnti di pensiero e di grandi figure di testimoni e non solo di educatori: fra questi, oltre ai citati don L. Milani e P. Freire, vanno segnalati D. Dolci, F. Basaglia, M. Lodi, I. Illich, padre E. Balducci e altri ancora. Il termine è ritornato oggi all’attenzione grazie alle riflessioni di alcuni studiosi. D. Demetrio (2010) ricorda che il prefisso contro esprimeva da una parte posizioni di forte critica ai sistemi dell’istruzione, dell’assistenza e altri, considerati allora molto arretrati; dall’altra esso indicava soprattutto la necessità che “il lavoro educativo e sociale si ispirasse a valori, a orientamenti di senso e di significato, a principi di libertà, di equità sociale, di aiuto dei più deboli e di riduzione delle vulnerabilità”. Ancora più recentemente P. Mottana (2011) sollecita con linguaggio provocatorio, suggestivo ad “accendere le idee sopite, a scuotere gli acquietamenti sonnolenti” e lo fa con un “piccolo manuale di lampi, di incendi, di idee impervie”.
    La controeducazione rappresenta quindi un riferimento utile anche per il tempo attuale, all’interno del quale ne va ovviamente rideclinato il significato: esso non riguarda tanto la radicale contestazione delle istituzioni (seppure P. Mottana guarda a quella scolastica come a un’esperienza da “ricominciare daccapo”), quanto l’aperto dissenso nei confronti di tutte quelle forme di educazione che creano consenso acritico e non coscienze lucide, autonome. Controeducazione è messa in discussione dei modelli educativi familiari e scolastici e delle altre realtà educative che non riescono a interpretare le trasformazioni socioculturali e le nuove domande di educazione. È il tempo quindi di ripensare le pratiche educative, rileggendole alla luce di nuovi quadri di riferimento sul piano pedagogico e delle diverse istanze che i ragazzi e gli adulti portano all’attenzione degli educatori e delle istituzioni in cui operano.
    La controeducazione perciò è ricerca di nuovi linguaggi, diversi da quelli specialistici e manipolatori, è liberazione da idoli e da miti che servono solo gli interessi di coloro che intendono sfruttare gli altri, è aprirsi all’idea della redistribuzione, della partecipazione, della solidarietà, del prendersi cura di sé, degli altri, del mondo. Controeducare significa fare una scelta di parte che sostituisce le ideologie del profitto, della competizione e del successo a qualsiasi costo con le idealità che riassumono il meglio – a livello morale e di educazione alla consapevolezza di sé – di quanto l’umanità ha saputo produrre nella sua storia di libertà ed emancipazione sociale, civile, intellettuale.
    È evidente, in conclusione, che controeducazione non è altro che restituzione all’educazione del suo significato più proprio, quale esperienza umana, sociale e politica che mira a ridiscutere, a trasformare l’esistente, a mettere in questione gli assetti della società, a costruire soggetti dotati di adeguata coscienza, di nuovi sguardi e portatori di inedite speranze.

    I diritti dei bambini e dei ragazzi ostaggio delle politiche di bilancio

    Ci rendiamo conto, e lo dichiariamo esplicitamente, del pericolo contenuto nel presente contributo: quello che l’elencazione - seppur non esaustiva di disagi e difficoltà del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza e dei tanti tradimenti da parte del mondo adulto - possa sembrare un cahier de doléances: la realtà d’altronde è quella esaminata e non può essere né rimossa né addolcita. Probabilmente va considerata una forzatura l’espressione Attacco all’infanzia che dà titolo a un recente lavoro dello studioso americano (2012), che egli riferisce all’enorme e incontrastata forza d’urto rappresentata dalla società dei consumi e soprattutto da chi la promuove e la sostiene con enormi investimenti pubblicitari capaci non solo di modificare alle radici le abitudini di vita dei ragazzi, ma di snaturare il senso stesso della loro infanzia e dell’adolescenza. Ma se il titolo citato può essere considerato frutto di in eccesso polemico, non rappresenta di certo un’esagerazione l’appellativo di cittadini invisibili che la Caritas italiana ha dato come titolo a un rapporto su “Minori in situazione di disagio”, curato dal compianto A. C. Moro (2009), in riferimento a quelle situazioni in cui il malessere dei bambini e degli adolescenti, le esperienze di sfruttamento e le carenze degli interventi pubblici rappresentano aspetti gravi e diffusi della condizione minorile.
    Per comprendere la situazione che si è venuta a creare ricostruiamo succintamente ciò che riguarda le attuali politiche di welfare che coinvolgono i minori. Come risaputo, l’Italia ha scelto con la legge 328 di dotarsi di un sistema di servizi sociali correlati alle prestazione e non ai diritti, così che esse vengono legate alle leggi finanziarie approvate annualmente dal Parlamento. La stessa legge ha istituito il già ricordato Fondo nazionale per le politiche sociali, il cui importo indistinto comprende anche le risorse destinate all’infanzia e all’adolescenza; le stesse quindi sono state drasticamente ridotte proporzionalmente al taglio che 90% del Fondo sociale. Non solo. Con la modifica del Titolo V della Costituzione, la materia dei servizi sociali è divenuta competenza esclusiva delle Regioni, le quali quindi possono autonomamente legiferare con il risultato di non garantire più in modo eguale su tutto il territorio nazionale i diritti dei minori, pur sanciti con la legge nazionale 176/91 che ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. I minori contributi ai Comuni dello Stato e delle Regioni, uniti alle regole sempre più stringenti del patto di stabilità, impongono agli Enti locali pesanti sacrifici in materia di spesa corrente. Basti pensare, per fare un unico esempio, alla ridotta disponibilità dei Comuni rispetto al pagamento delle rette dei minori collocati in comunità di accoglienza. E ciò a fronte dell’aumento dei fenomeni di conflittualità di coppia, di rotture traumatiche delle relazioni, di abuso di alcol, di scarse capacità genitoriali che si riflettono sui bambini e sui ragazzi richiedendone il collocamento in situazioni protette.
    Se le risorse destinate ai minori sono quindi divenute ostaggio delle politiche di stabilità finanziaria (con i relativi drastici tagli), come si può parlare di welfare dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel nostro Paese, quando anche il Piano nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, ha approvato alla fine del 2011, non disponeva di alcuna copertura finanziaria?
    Per cogliere lo iato tra le indicazioni e gli orientamenti contenuti nei documenti internazionali che mettono al centro il superiore interesse del fanciullo (Convenzione di New York, 1989) e la concreta situazione di tanti minori nel nostro Paese di cui abbiamo delineato alcune tracce, è sufficiente a riportare le valutazioni indirizzate al nostro Paese dal Comitato ONU e riportate nella citata relazione al parlamento del 18 aprile scorso a cura del Garante nazionale:
    - un quadro normativo lacunoso,
    - la mancanza di un sistema organico di protezione dei minori,
    - le gravi sperequazioni da regione e regione,
    - il piano di azione nazionale per l’infanzia e l’adolescenza privo di finanziamenti adeguati,
    - l’ insufficiente sostegno alla genitorialità,
    - la mancanza di un sistema di formazione e aggiornamento obbligatorio per tutti gli operatori che lavorano con e per i bambini e gli adolescenti,
    - le perduranti discriminazioni normative o di trattamento
    - la mancanza di una normativa generale sul diritto all’ascolto e alla partecipazione,
    sono solo alcune delle criticità che il Comitato Onu ha evidenziato nel nostra Paese, raccomandandoci ancora una volta di colmarle al più presto.
    È questa cornice uno dei fattori responsabili delle situazione dei Servizi, i cui operatori si sentono tuttora portatori di un modello “salvifico” (F. Olivetti Manoukian, 2011), in quanto mirato a risolvere i problemi dei bambini e degli adolescenti (e degli adulti). Ma gli esiti si sono rivelati inferiori alle attese, i problemi non si sono risolti, anzi…. La conseguenza sono vissuti di assedio, di scarsa legittimazione sociale, di rappresentazione minacciante del futuro. Occorre evidentemente avviare un processo di rivisitazione e di ripensamento di tale mandato, facendo investimenti collettivi sulla conoscenza e su esperienze diverse, costruendo alleanze inedite, promuovendo commissioni parziali, piccole sperimentazioni che mettono insieme più sguardi per riconoscere i problemi.
    A questo punto viene spontaneo ritenere che la domanda che fa da titolo al presente contributo (Non è un Paese per bambini e per ragazzi) si debba trasformare da ipotesi in amara conclusione. Nel presente, in questa fase così difficile per il nostro Paese, rasenta la categoria delle pie illusioni il ritenere che governi, istituzioni, associazioni, cittadini abbiano la responsabilità e la possibilità di sostenere con risorse e mezzi adeguati i diritti dei bambini e dei ragazzi e di renderli esigibili, così che l’impegno a loro favore sia letto finalmente come un investimento e non una spesa.
    Tali considerazioni sono ancora più pesanti sul piano del giudizio se la nostra attenzione, seppure per un momento, comprende le condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza nei Paesi poveri, dove vediamo confermato un dato che da tempo non si riesce (non si vuole?) modificare in modo significativo: sono 1000 (mille!) i bambini che ogni ora muoiono per cause evitabili quali soprattutto la fame, le condizione igieniche e di salute (UNICEF), tragedie alle quali il nostro Paese dà un indiretto contributo attraverso il taglio operato ai fondi destinati alla cooperazione nazionale, ora scesi allo 0,6 per mille (6 euro ogni 1000 del nostro PIL). È nient’altro che un apporto economico di cui vergognarci rispetto a tutti i Paesi ricchi del mondo, considerato che fra questi solo la Corea del Sud fa peggio di noi.
    È il nostro un Paese in cui gli adulti si sono dimenticati dei bambini e dei ragazzi, per cui per l’infanzia si spende l’1,3% del PIL contro il 2.2% della media europea, con diversi Paesi che investono ben più del doppio di noi in termini percentuali sul Prodotto Interno Lordo.
    Tuttavia chi è portatore di un pensiero o di una sensibilità pedagogica (psicopedagogica o socio-pedagogica) non può evidentemente trascurare gli sforzi che tantissime persone, associazioni, istituzioni locali, servizi, scuole stanno facendo nei confronti dei bambini e dei ragazzi, consapevoli che solo tutelandone adeguatamente i diritti si può pensare di migliorare i livelli di qualità della vita di tutti i cittadini. Occorre tuttavia modificare profondamente l’idea di tutela (Angeli, 2009), uscendo da un approccio interpretativo meramente giuridico, secondo il quale essa si riconduce alla protezione riconosciuta dalla legge in determinate circostanze e che viene ottenuta attraverso provvedimenti giurisdizionali. In senso lato, il termine è sinonimo anche di difesa, di protezione, di salvaguardia. Tutelare i diritti dei minori significa infatti mettere in atto quei provvedimenti o quelle azioni – concrete o simboliche, istituzionali, culturali – che hanno come scopo la difesa di tali diritti, la protezione dei bambini e degli adolescenti, la condanna di comportamenti che ne comportano una lesione.
    Ma non basta. Uno sguardo pedagogico è uno sguardo che promuove, che si basa sulla logica dell’empowerment e dell’enrichment, che supera logiche assistenziali, che guarda alla persona non come individuo ma come soggetto inserito in una rete di relazioni interpersonali e come membro di una comunità locale di cui è/dovrebbe essere parte attiva, consultato su ogni tema che lo riguarda direttamente e rispetto al quale il suo parere va tenuto in considerazione come recita l’art. 12 della Convenzione di New York. I problemi di cui abbiamo parlato non possono più essere considerati marginali, o inevitabili, o questioni di carattere locale e il benessere dei bambini e degli adolescenti va considerato come una condizione del presente piuttosto che soltanto il risultato da conseguire nella loro vita futura, con la giustificazione che le preoccupazioni adulte sono rivolte a costruire quel futuro in cui esse saranno finalmente protagoniste. Il futuro lo si costruisce invece nel presente, guardando maggiormente alla vita quotidiana delle giovani generazioni, alle loro percezioni soggettive, alle loro competenze civiche, adottando un approccio meno orientato alle professioni e ai servizi, meno adulto-centrico e più puero-centrico.
    In tale prospettiva il significato di tutela si amplia ulteriormente rispetto a quanto sopra evidenziato, spostandosi da una lettura in chiave difensiva, protezionista, che ovviamente rimane, a un’interpretazione più estensiva, che rimette in gioco tutti i mondi attraversati dai bambini e dai ragazzi (famiglia, scuola, servizi, territorio, ecc…) e che di conseguenza sollecita gli adulti a rivisitare pratiche professionali, modelli organizzativi, strategie, principi di riferimento, priorità.
    L’imprevidenza, la superficialità, l’incompetenza, gli avidi interessi personali non possono più prevalere nei comportamenti e nelle scelte che riguardano le giovani generazioni, tutt’ora trattenute in una sorta di solitudine sociale senza che ciò richiami le responsabilità di chi gestisce i poteri della politica. Saremo capaci di avviare tale cambiamento? È questa, come dice don L. Ciotti nel suo ultimo libro (2011), la speranza che ci anima.

    I diritti dei bambini e dei ragazzi tutelati da una comunità educante

    La tutela dei diritti dei bambini e dei ragazzi è un compito collettivo. Nessuno, in una società tanto complessa, può pensare di essere l’unica agenzia educativa, né può illudersi di portare avanti il proprio compito a prescindere dall’impegno altrui. Avvertiamo in tale prospettiva una particolare necessità e una grande sfida dell’educare: trovare nuovi punti di incontro, nuove modalità per tenere insieme le storie educative di ciascuno e di tanti, restituendo l’educazione alla famiglia, alla scuola, alla pratica sportiva, ecc.. Per camminare in questa direzione occorre costruire reti leggere, che consistono nel ritessere continuamente le relazioni che intercorrono tra i diversi soggetti della rete e che non necessariamente hanno bisogno di strumenti formali per funzionare, come protocolli d’intesa o simili. La metafora della rete è utilizzata per indicare quelle strutture di relazione in cui i diversi componenti sono sostenuti da legami reciproci: scuole, centri di aggregazione, servizi sociali e sociosanitari, associazioni, parrocchie sono istituzioni che rivestono un ruolo specifico nel lavoro con gli adolescenti e che possono/debbono trovare proprio nella comune responsabilità educativa un elemento fondamentale di cooperazione. Non dimenticando che una rete interistituzionale è sempre e comunque una rete relazionale, perché il tessuto dei rapporti è costruito e alimentato non da soggetti imprecisati ma da quelle persone che ricoprono incarichi ai diversi livelli di responsabilità.
    La sfida è di elevato profilo.
    Lo sviluppo delle esperienze improntate al lavorare insieme (fra educatori, tra figure professionali diverse, fra istituzioni……) ha contribuito ad introdurre un’espressione, lavoro di comunità (E. R. Martini, A. Torti, 2003), che fino a un po’ di tempo fa era patrimonio di una cerchia ristretta di operatori e di tecnici, oltre che di studiosi. Per chi opera nel settore dell’infanzia e dell’adolescenza la comunità locale assume un’importanza fondamentale, in quanto è attraverso la sua attivazione che si costruisce la rete delle risorse solidali, vale a dire la rete dei soggetti che avvertono una comune responsabilità e impegno nei confronti delle giovani generazioni e dei loro cammini di crescita. È nella comunità locale che deve essere perciò attivato il processo di comunicazione e di integrazione fra istituzioni, servizi, enti, famiglie, ecc. che porterà la collettività a percepirsi e a diventare effettiva risorsa (comunità competente). Ed è sempre in tale contesto che va ridata centralità all’opzione educativa, nelle scelte delle amministrazioni pubbliche e nei processi di integrazione dei diversi sistemi locali (comunità educante).
    È quindi opportuno approfondire come la comunità in cui i ragazzi vivono sia chiamata ad affiancarli con discrezione per sostenerli nella soluzione dei propri compiti evolutivi. Si tratta di una vicinanza che presuppone una capacità relazionale e intende favorire il confronto tra i bambini e gli adolescenti e il territorio, innescando un processo di sviluppo vicendevole: mentre gli adolescenti costruiscono i propri percorsi esistenziali, contribuiscono a cambiare i contesti sociali e culturali in cui vivono.
    Uno dei più importanti fattori di frantumazione del rapporto sociale sta nella più radicale e generale crisi dell’asse persona-società-Stato, che caratterizza l’odierna vita sociale e che si collega all’insufficiente attenzione assegnata alla dimensione della comunità (G. Milan, 2005). Attualmente l’interesse nei confronti della comunità e del territorio nasce dal bisogno di comunità che la società attuale manifesta, che è pressante richiesta di comunicazione interpersonale significativa e di qualità; di legami e di relazioni che producano processi di identificazione e di appartenenza; di partecipazione, stili di vita condivisi, intenzionali e scelti; di sicurezza individuale, intersoggettiva e sociale.
    Scurati afferma che occorre pensare ad una società educativa, cioè ad un’organizzazione comunitaria che renda possibile a tutte le istanze sociali di essere presenti nel concerto delle forze attivamente disponibili per rendere a tutti il servizio della loro competenza e della loro ricchezza culturale e informativa (G. Scurati, 2005). È urgente, a livello pedagogico, rinvigorire e dove necessario costruire un positivo senso di appartenenza della persona al suo tessuto sociale, sapendo che si tratta di uno dei suoi bisogni fondamentali. La relazione interpersonale tra educatore e ragazzo è indubbiamente necessaria, ma non ancora sufficiente, anche in ordine alla sua ricerca di senso: rischia di essere parziale e scarsamente incisiva. La comunità ha la potenza affettiva e la potenza etica per sostenere efficacemente un’impresa educativa. Secondo la prospettiva di Milan (2005), l’autentica emancipazione della comunità, in prospettiva pedagogica, si realizza lungo due direttive fondamentali: quella della qualità delle relazioni interpersonali e quella della comune tensione intorno ad un insieme di valori che, come un ponte, legano vari soggetti. Ogni bambino e ragazzo vive appartenenze multiple: la famiglia, il gruppo dei pari, la scuola, la comunità ecclesiale, l’ambiente di lavoro, i luoghi dell’andare giornaliero (giardini, negozi, bar, ecc.). Il lavoro in rete fra gli attori istituzionali pubblici e privati diventa quindi una strategia irrinunciabile per favorire una comune progettualità pedagogica a vantaggio delle giovani generazioni, soprattutto degli adolescenti che stanno sperimentando la difficoltà del vivere e il bisogno di essere sostenuti da una fitta rete di relazioni interpersonali positive ed educativamente significative. Tale policentrismo di luoghi e pluralità di strumenti trova sintesi nel ruolo di promozione e di coordinamento svolto dagli enti locali (legge 328/2000). La mancanza di tali opportunità rappresenta una negazione del diritto dei ragazzi e dei giovani non solo a crescere, ma a diventare cittadini.
    Il percorso guarda quindi alla comunità solidale, alla comunità competente, alla comunità educante come a comunità “possibili” e non a realtà “date”, in cui l’attenzione ai problemi collettivi non può andare a discapito di quelli individuali.
    In tale prospettiva sono in atto numerosi tentativi di riscoperta dell’educare in luoghi impensati, dove l’educativo appare celato, sta più nel nascondimento e nell’implicito e va disvelato. Possiamo parlare di tracce utili, di indizi su cui sviluppare percorsi di osservazione e di rielaborazione. L’assunzione dei luoghi di vita quotidiana (quartieri, luoghi pubblici, parchi, piazze, strade….) quali luoghi privilegiati dove sostenere e promuovere legami solidali è una priorità. In fondo è nei luoghi di vita quotidiana che troviamo povertà relazionali e tante disaffiliazioni, ed è sempre nei luoghi di vita quotidiana che si possono intrecciare molti legami: familiari, amicali, inter-generazionali ed interculturali.
    Il lavoro educativo deve allora ricominciare a presidiare le piazze, i luoghi di incontro delle persone compresi i cosiddetti non luoghi (M. Augé, 2005), quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Non luoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono non luoghi i supermercati, i centri commerciali… il non luogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. A questi non luoghi è possibile, forse, restituire un’identità, è possibile ridare significato ai luoghi informali dove le persone transitano o addirittura trascorrono intere giornate. Nei centri commerciali, ad esempio, si può pensare di organizzare dei caffè per genitori: in qualche contesto si è già passati dalla fase ideativa a quella realizzativa, con risultati interessanti. Così come possono diventare luoghi di animazione, di incontri intergenerazionali le tante piazze e piazzette di cui sono ricchi i nostri centri, soprattutto quelli piccoli e di media grandezza. I luoghi della quotidianità, i microcosmi - la scuola, la parrocchia, l’associazione – possono rappresentare l’occasione per ridare senso allo stare insieme, magari a partire da iniziative come un pranzo o una gita. Proprio da qui ci sembra si possa e si debba ripartire per aiutare gli adulti a riappropriarsi di quel grande compito che è l’educazione: riapprendere a ritrovarsi, a passare del tempo insieme, a raccontarsi le cose.

    I compiti della politica

    Si è fatta strada un’istanza generatrice di impegno a favore delle giovani generazioni, che ha contribuito ad innalzare la sfida sul piano culturale, oltre che strategico e metodologico, affermando l’idea che promuovere politiche educative (e sociali) significa sostenere la normalità della vita delle persone e non solo offrire aiuto in particolari situazioni di disagio e di crisi. Significa ancora, come detto, far prevalere i modelli dell’empowerment - basato sui punti di forza e non di debolezza e che non offre soluzioni preconfezionate - e dell’enrichment, fondato su obiettivi di arricchimento delle competenze e delle potenzialità delle persone.
    L’operatore educativo non può quindi non far propri obiettivi – allo stesso tempo culturali e politici (capaci cioè di incidere nelle scelte riguardanti le politiche sociali del territorio) - di riconoscimento dei diritti, proponendosi di consolidare le risposte per l’infanzia e l’adolescenza in una logica di rafforzamento dei diritti dei minori, compresi gli immigrati.
    L’istanza educativa e quella politica hanno oggi più che mai la responsabilità di recuperare il loro senso originario attraverso uno scambio reciproco, allo scopo di perseguire insieme un’educazione alla cittadinanza che, mirando a restituire la capacità di pensare e agire politicamente, consenta a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, di riguadagnare il gusto per la politica, vale a dire per la polis, per il vivere insieme, per la cura dei beni comuni.
    Sappiamo bene come nel nostro tempo si è determinata una vera e propria crisi della politica, che va interpretata come allontanamento di essa dalle sue originarie funzioni e quindi come suo ridursi ad un esercizio del potere per il potere che nulla ha più di valido sul piano dell’autenticità, in quanto chi lo esercita non si riferisce più alle esigenze degli altri, ma solo alle proprie. Ma è alla politica che spetta il compito di decidere, di individuare le priorità, di orientare le scelte della comunità a un presente e a un futuro che collochi l’educazione e le giovani generazioni ai primi posti dell’agenda. Occorre quindi lavorare nella direzione di promuovere la cultura dell’educazione a livello di polis, coinvolgendone tutti gli attori.

    (con la collaborazione di C. Drigo e di K. Bolelli)


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