Speranza
RITROVARE LA SPERANZA
Colloquio con Eugenio Borgna [l]
Il film che abbiamo scelto per introdurci al rapporto che lega la speranza al mondo degli affetti e delle relazioni interpersonali è il più bello, forse, di certo il più celebrato lavoro di Ingmar Bergman [2]. Il posto delle fragole si svolge lungo il filo dell'anamnesi in cui il protagonista, un anziano medico, trascrive i fatti accaduti lungo l'arco di una giornata: metafora dell'intera sua esistenza. Tra i molti punti di contatto che ho trovato con il suo recente bellissimo libro L'attesa e la speranza vorrei toccarne solo alcuni. La giornata del dottor Isak Borg inizia con un evento inatteso che sopraggiunge a rompere la sdegnosa solitudine in cui egli da tempo si è rifugiato: il giorno in cui deve recarsi a Lundt, per celebrare il suo giubileo professionale, nel cuore della notte ha un incubo. Sogna di vagare per la città deserta e accecante ove s'imbatte
nell'insegna di un ottico sormontata da un orologio privo di lancette, trova poi un uomo sfigurato e infine vede sopraggiungere un carro funebre che si rovescia lasciando cadere una bara al cui interno riconosce se stesso. Ogni aspetto di questa celebre sequenza svela un'angoscia che erompendo dal profondo dell'inconscio sembra non lasciare alcuna speranza. Possiamo dire che sono questi i tratti di morte di cui si nutre la disperazione?
Nella disperazione, in questa condizione umana dalla quale si allontana ogni traccia di speranza, si vive in un mondo nel quale il tempo non passa mai; ed è per questo che la disperazione può essere definita come la coscienza del tempo chiuso: del tempo come prigione. Nella disperazione si vive, cioè, in un tempo interiore (in un tempo soggettivo) che non ha più futuro, che non ha più avvenire, e che vive solo nel passato e nel presente. La disperazione sospende il tempo che si arresta e che nasconde in sé le ombre dolorose dell'angoscia. Il tempo ha una dimensione lineare, quella dell'orologio e della clessidra, il tempo obiettivo; e una dimensione interiore, quella dell'io, che Agostino nelle Confessioni ha mirabilmente analizzato, e che si compone di passato, di presente e di futuro: che si intrecciano e che confluiscono l'uno nell'altro. Nel sogno del dottor Borg l'arrestarsi del tempo, la fine del tempo, emblema della morte che si avvicina vertiginosamente, si esprime nell'immagine dell'orologio senza lancette nell'insegna del negozio dell'ottico e anche nell'orologio da polso che egli aveva con sé, e in questa bellissima e straziante immagine si colgono contestualmente la fine del tempo esteriore e quella del tempo interiore.
La disperazione ci fa perdere il tempo e ci fa perdere il mondo. Quando questo avviene, quando non c'è più in noi la speranza che è apertura al futuro e apertura al mondo (al mondo delle relazioni umane), nascono e crescono in noi il deserto degli affetti e l'angoscia che è angoscia della morte. Sono stati d'animo che il dottor Borg, imprigionato nella sua vita perduta alla speranza, rivive drammaticamente nel sogno, quando, nella città deserta, scorge un uomo che, al di sotto di un cappello di feltro, non ha volto e che poi si frantuma e si dissolve. A questa immagine, che rimanda – direi – alla incapacità del protagonista, ma anche alle nostre incapacità quando siamo divorati dalla mancanza di speranza, a cogliere e rivivere negli altri la loro identità e la loro consistenza umana, si accompagna l'immagine ancora più angosciante della bara in cui il dottore si riconosce. Certo, la disperazione è matrice dell'angoscia, e l'angoscia è angoscia della morte: in una circolarità senza fine alimentata dalla dissolvenza dell'agostiniano tempo interiore. Come non ricordare, tuttavia, George Bernanos che dice la speranza nascere dalla disperazione, e Giacomo Leopardi che afferma la disperazione non sussistere senza la speranza?
Il film prosegue col dottore che intraprende un lungo «viaggio», esteriore e interiore, ricco d'incontri, di luoghi, ancora di sogni... Verso il termine del tragitto egli è nuovamente sopraffatto dal sonno e nuove visioni, ancor più spietate e umilianti, irrompono dall'inconscio. Queste scene ci testimoniano della lacerante sofferenza che tormenta il dottor Borg. Si tratta però di un dolore taumaturgico: culminante nell'immagine del chiodo che trafigge la mano facendone sanguinare il palmo. Si tratta di una sequenza attraversata da una profonda connotazione cristologica: quel sangue infatti è benedetto, perché simbolo di vita ma anche perché quella ferità segna finalmente una breccia nella corazza del protagonista. Possiamo dire che la rinascita dalla disperazione cominci paradossalmente proprio con la sofferenza?
Ridestandosi, e liberandosi così dalle ombre terrificanti del sogno, il dottor Borg decide d'intraprendere – come lei ha ricordato – il viaggio da Stoccolma a Lundt, dove si svolgerà la cerimonia del suo giubileo professionale come coronamento dei cinquant'anni di lavoro e d'insegnamento, in automobile e non più in aereo: metafora forse del non voler saltare, sorvolare sulla propria storia, ma del voler attraversarla. Nel lungo viaggio, nel quale è accompagnato dalla nuora Marianne, egli rivede la casa dove, coi genitori, i fratelli e le sorelle, trascorreva le vacanze nella sua adolescenza, e dove si trova il luminoso «posto delle fragole». Un secondo sogno, piuttosto una réverie ad occhi aperti, lo reimmerge nel mondo incantato della sua adolescenza: sigillata dalla storia d'amore mancata e nostalgica con la cugina Sara. Ridestandosi, poi, in questo intrecciarsi di sogni e di realtà, egli vede accanto una giovane ragazza, anch'ella di nome Sara, che gli chiede assieme a due suoi amici un passaggio in automobile, e che con la sua grazia e la sua gentilezza, gli ricorda la cugina Sara ma soprattutto gli fa riscoprire l'indicibile valore degli affetti e delle relazioni umane. Nel corso del viaggio, il dottor Borg ha uno scontro/incontro poi con due coniugi, l'ingegner Sten Alman e la moglie Berit, tesi in una continua esasperata conflittualità, nella quale si rispecchiano le distorte relazioni tra il protagonista e la moglie: da molti anni mancata.
Quando il viaggio sta concludendosi, e Lundt non è lontana, egli s'addormenta; in sogno rivede ancora la cugina Sara che gli rimprovera il suo egoismo e gli mostra il suo volto riflesso nello specchio: «guarda la tua faccia e prova a sorridere» – dice Sara; «fa così male» – risponde Isak. Scorgere nello specchio il proprio volto divorato dall'età e dalla fatica di vivere senza speranza, fa male ed è matrice di dolore; e il dolore si fa ancora più acuto quando egli, rivedendo la sala da pranzo della casa delle vacanze illuminata, si avvicina alla finestra, vede Sara e il fratello Sigfrid (ormai sposati) ridenti a tavola, e bussa alla finestra, ma con un chiodo si ferisce una mano e inizia a sanguinare.
Queste scene indimenticabili del sogno che il dottor Borg fa addormentandosi in automobile sono tematizzate da strette correlazioni tra visione e dolore, tra visione e sofferenza; e nondimeno testimoniano di esperienze umane che ci conducono verso le sconfinate regioni della interiorità e della riflessione; consentendo al dottor Borg di prendere coscienza della sua aridità e della sua indifferenza, della sua insensibilità ai problemi e alle esigenze degli altri. La sofferenza è la premessa a una più profonda conoscenza di noi stessi e degli altri. La rinascita dalla disperazione, la fuoriuscita dagli artigli della soddisfazione improblematica di sé, incominciano davvero dalla sofferenza; e dalla percezione dei significati salvifici che 1' angoscia della morte ha in sé.
Nello stesso sogno viene rivolta al dottor Borg la domanda: «Lei sa qual è il primo dovere di un medico?», ma costui non sa rispondere, non ricorda. «Il primo dovere di un medico è chiedere perdono!» questa è la risposta giusta. Come suona questa sentenza alle orecchie di uno come lei, dottor Borgna, che ha trascorso una vita in ospedale a contatto quotidiano con i pazienti, con le loro angosce e psicosi, con le loro attese e speranze talvolta forse tradite proprio da chi vorrebbe aiutarli?
È vero, nell'aula del politecnico ove teneva le lezioni e faceva gli esami, il dottor Borg si trova lui stesso ad essere riesaminato: un professore (l'ingegner Al-man) lo interroga, lo invita a compiere un'analisi batteriologica al microscopio (ma Borg non vedendo che il proprio occhio riflesso... sostiene che lo strumento è difettoso) e a fare l' anamnesi a una paziente (Borg dichiara la donna morta... mentre ella è viva e forse è solo psicotica), poi – come lei ricordava – gli domanda quale sia il primo dovere di un medico e alla fine lo dichiara un incompetente contestandogli freddezza, egoismo. Borg chiederà infine: «E la pena?» – «La solita, immagino» – risponderà Alman – «la solitudine».
Ora, l'esigenza di chiedere perdono, quando si fa il medico, è sempre importante ma lo è ancor più oggi, nella misura in cui il dilagare della tecnologia tende alla disumanizzazione del malato. Non sempre si ascoltano i pazienti, non sempre li si guarda, divorati come siamo dalla fretta e dalla tensione di ricorrere ai soli strumenti tecnologici per fare una diagnosi e ai soli farmaci per curare non solo le malattie del corpo, ma anche quelle dell'anima: che hanno ancor più bisogno d'attenzione e d'ascolto, d'immedesimazione e di gentilezza d' animo. Tutte cose alle quali il dottor Borg non sembrava dare molta importanza nella sua vita professionale e non (non dimentichiamo che in fondo il medico esprime in modo esemplare quella «cura» che ciascuno di noi dovrebbe avere per gli altri), se non quando faceva, nei primi anni dopo la laurea, il medico condotto.
Certo, negli anni in cui lavoravo in ospedale psichiatrico, quanta indifferenza e quanta freddezza ho incontrato nei modi con cui ci si confrontava con i pazienti. Senza generalizzare, ovviamente, sono davvero molte le ragioni che dovrebbero indurre ciascuno di noi a chiedere perdono. Non si ha tempo di condividere il dolore e l'angoscia, la tristezza e l'inquietudine di una persona malata psichicamente, o fisicamente, e divorata dall'insicurezza e dalla timidezza, dalla solitudine e dalla nostalgia di un gesto, e di una parola, di speranza.
Ciascuno di noi, in medicina e in psichiatria, è continuamente esposto al rischio di essere portatore di una violenza involontaria, certo, ma non per questo meno pericolosa. La violenza delle parole che non sono portatrici di umana partecipazione e di speranza; la violenza delle parole e dei gesti che non rispettano il silenzio e il pudore; la violenza della fretta e dell'indifferenza; la violenza delle comunicazioni incuranti del dolore e delle attese dei pazienti. L'illusione, anche, di potere (di dovere) dire la verità, ogni (apparente) verità ai pazienti; dimenticando l'invito alla prudenza e alla riflessione che rinasce da alcune bellissime parole di Hugo von Hofmannstahl: come è difficile dire la verità senza mentire.
Devo dire che il film di Bergman mi ha fatto riflettere assai sui motivi che hanno i medici, ciascuno di noi che fa il medico, di chiedere perdono ai pazienti per le cose non fatte, e per quelle fatte senza amore e senza carità.
Forse il vero punto di svolta nella giornata del dottor Borg avviene però durante la celebrazione del giubileo professionale nella cattedrale di Lundt. Al termine della cerimonia, dopo l'imposizione del cappello e la ricezione dell'anello, gli è concesso di passare dall'altra parte dello scranno del cerimoniere. Durante questo «attraversamento», carico di tutta la struttura simbolica del rito di passaggio, avviene ancora qualcosa d'imprevisto: «Non so come mi sorpresi – narra Borg – nel mezzo della cerimonia a riandare col pensiero agli avvenimenti di quella giornata. In quel confuso, imbrogliato susseguirsi di eventi tanto strani ed assurdi mi era sembrato scoprire un movente ben determinato». Cosa scopre il dottor Borg?
In quel momento egli ripensa (interpretandole) alle febbrili sequenze interiori ed esteriori che hanno contrassegnato la sua giornata. Il sogno che ha trascinato con sé le tumultuose impennate dell'angoscia e del-l' angoscia della morte, il sogno che ha fatto rinascere la stagione nostalgica e creativa dell' adolescenza e delle emozioni in essa così ardenti e luminose, il sogno che ha così crudelmente rimesso in discussione la significazione umana ed etica del suo impegno professionale, si sono intrecciati con gli incontri che egli ha avuto nel corso del viaggio: con Marianne, della quale egli ha potuto conoscere l'intensità dei sentimenti e la dolcezza del carattere (prima da lui del tutto ignorate), con Sara e i suoi due amici (Anders e Viktor, figure metaforicamente opposte e congiunte della personalità di Borg e ultimamente anche dello stesso Bergman) che gli hanno presentato la bellezza e la grazia, la generosità e la serietà, della giovinezza con il loro entusiasmo e le loro riflessioni sul senso della vita e sull'esistenza di Dio, con la madre (prolifica quanto infeconda) così gelida da voler regalare al nipote l'orologio del defunto marito privo di lancette, con il gestore del distributore di benzina che, riconoscendo in Borg il medico che lo ha visto nascere, non si farà pagare, e con 1' ingegner Alman e la moglie Berit che vivono un'esistenza desertificata dall'amore.
Il contenuto dei sogni e della realtà, vissuto nel corso della giornata, s'intrecciano e si confondono in un discorso filmico di straordinaria bellezza e inaudita profondità; e giungono a cambiare radicalmente l'orizzonte di senso della vita del dottor Borg: imprigionata fino ad allora in una disperata solitudine e in una (voluta) desertica aridità affettiva.
Certo la cerimonia nella cattedrale di Lundt è l'epifania e, in un certo senso, la conclusione di un percorso di «conversione» che gli ha consentito di prendere coscienza dell'insignificanza di ogni vita risucchiata nel gorgo dell'indifferenza emozionale e dell'egoismo, e di riscoprire gli sconfinati valori degli affetti e delle relazioni umane nutrite di generosità e di partecipazione emozionale: di ascolto e di donazione.
Nel riconsegnare questi nuovi e unitari significati agli avvenimenti della giornata il dottor Borg recupera falde inattese e nascoste di umanità e di solidarietà, di dialogo con la propria e l' altrui interiorità: aprendosi agli orizzonti dell'amore e della speranza che sono i soli capaci d'illuminare anche le notti oscure dell'anima, quelle dell'angoscia e dell'angoscia della morte. Così, egli s'avvede di provare affetto per Agda, la fedele governante, e si avvicina con grande (riscoperto) amore ai destini umani di Evald, suo figlio, e di Mariane.
Il film si chiude con un'immagine radiosa, ricolma di speranza. Sul punto di addormentarsi Borg torna con la memoria ai giorni felici della sua infanzia. Sogna la casa di vacanze, è al posto delle fragole e viene chiamato da Sara: «Isak, caro, le fragole ormai sono finite, la zia vuole che tu vada a cercare tuo padre» –«ho cercato dappertutto, ma non riesco a trovare né lui né la mamma» – «ti aiuterò io». Come una sorta di dantesca Beatrice, l'amata lo conduce sulla riva del lago dove finalmente ritrova la madre e soprattutto il padre, mai apparso lungo tutto il film, sdraiati sull'erba, vestiti di bianco, che salutano il figlio di lontano con un cenno della mano. Isak sorride e ora sorridere non fa male. In questa immagine bellissima, ammantata della luce di un dipinto impressionista, il protagonista si addormenta sereno. Bergman ci lascia dicendo che in fondo la radice della speranza è la comunione?
Il posto delle fragole è anche il film della memoria e della speranza: non c'è memoria, infatti, senza speranza; e non ci sono memoria e speranza senza il tempo: il tempo interiore, il tempo dell'io. Ma la memoria e la speranza sono correlate l'una con l'altra: quando si modifica l'una anche l'altra si modifica. Le immagini radiose del passato, che tematizzano l'ultimo sogno del dottor Borg, sono possibili proprio perché nella sua vita si è riaperta la speranza: la speranza che rinasce a volte dalla disperazione a volte dall'angoscia. Sono analisi fenomenologiche, queste, che Ingmar Bergman ritrova nella sua fantasia creatrice: al di là, ovviamente, di ogni cultura psicopatologica ma, certo, rivivendole nella storia della sua vita scheggiata talora da ansia e depressione.
In ogni caso, la memoria è immersa nel tempo, nasce dal passato e vive del passato; e dalla memoria vissuta, dalla memoria emozionale che non è la memoria calcolante, riemergono i ricordi che, come nei sogni e nelle meditazioni del dottor Borg, si modificano di stato d'animo in stato d'animo, di situazione in situazione, e che s'intrecciano senza fine con i modi con cui riviviamo l'avvenire (il futuro) e, cioè, la speranza: che è «memoria del futuro» e che è luogo di esperienze interiori senza fine.
La speranza è nutrita anche dalle cose che abbiamo vissuto e che sono nascoste, e quasi imprigionate, nella memoria; e così i ricordi si rispecchiano nelle speranze che sono in noi. Nel rifluire ininterrotto di esperienze dal passato al presente, e dal presente al futuro, dalla memoria all'intuizione e dall'intuizione all'attesa, si riformula una circolarità di vissuti che sconfinano, così, dalla speranza alla memoria, e dalla memoria alla speranza. Gli sciami delle immagini e dei ricordi, che sgorgano dai vasti quartieri della memoria e che si accalcano febbrilmente le une davanti alle altre, rinascendo da luoghi sempre più profondi e segreti, sono quelli che hanno contribuito insieme agli incontri, che egli ha fatto nel corso della giornata, a immergere la vita (quello che rimaneva della sua vita) nelle sorgenti della speranza: così luminose e così dilaganti nell'ultimo sogno a cui lei si richiama con parole intense e poetiche.
«Noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere» [3]. Sono queste ovviamente mirabili intuizioni pascaliane, e quando la speranza rinasce dalle ceneri dell'angoscia e della disperazione, è una speranza ancora più fulgida, come quella che inonda le ultime sequenze tematiche del film, che non le comuni speranze quotidiane. La speranza ricapitola, trasfigurandone il senso, la sto-ria della vita del dottor Borg e la storia di ciascuno di noi. Senza la speranza, e cioè senza l'apertura al futuro, anche il presente e il passato s'inaridiscono nella prigione fatale dell'istante e del momentaneo: dell'effimero e dell'occasionale. Le speranze non sono la speranza: gli espoirs non sono l' espérance, la quale non è se non la petite falle Espérance: come la chiama Charles Péguy. E la speranza, come il luogo della ricerca dell'infinito, è fragile e friabile: esposta alla banalità della vita, alla banalità del male, e nondimeno non è possibile cogliere il senso della vita se non vive in noi la speranza.
Come non ricordare allora qui le parole alate e insondabili di Giacomo Leopardi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva» [4].
La speranza – per tornare alla sua domanda –, la fontana della speranza è davvero la comunione. Nel suo ultimo sogno Isak Borg sorride. La speranza lo ha trasformato e, consentendone la conversione, gli ha indicato finalmente il sentiero perduto che porta alla riscoperta del senso della vita. La speranza è una passione, e l' espérance è speranza creatrice; e in ogni caso nella speranza si nasconde uno slancio senza fine verso il futuro: uno slancio che ci porta, e ha portato il dottor Borg, al di là del presente (nutrito di solitudine e di vuoto silenzio): facendogli sentire il domani come meta sempre possibile e dotata di senso.
Ma l'ultimo nostalgico e luminoso sogno, che gli riporta l'immagine della casa delle vacanze e del «posto delle fragole», e l'immagine di Sara che lo invita a ritrovare la madre e il padre vestiti di bianco, non può non farmi riandare alle parole profonde e leggere di Gabriel Marcel: chiunque spera non dice solo «io spero» ma dice anche di sperare «in te» e «per noi»; e questo perché sperare è confidare in un essere che si può solo chiamare «tu» [5]. La speranza non può se non essere comunione: «io spero in te per noi», e di questa ineffabile intuizione mi sembra essere testimonianza la storia della vita di Isak Borg che è la storia di una vita sommersa dalla solitudine e dall'angoscia, e salvata dalla speranza come dialogo e comunione.
GUSTARE LA SPERANZA
Colloquio con Remo BodeI [6]
LOVE AFTER LOVE [7]
The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other's welcome,
and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you
all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,
the photographs, the desperate notes, peel your own image from the minor. Sit. Feast on your life.
Avventurarsi nel rapporto che lega la speranza all'amore e alla festa è un'impresa facilmente destinata al naufragio. Abbiamo scelto così di ancorare il nostro dialogo ai versi di un poeta caraibico, che del mare e delle sue inside se ne intende forse più di ogni altro: Derek Walcott, premio nobel nel 1992 «per un'opera poetica di grande luminosità, sostenuta da una visione storica, conseguente a un impegno multi-culturale». Tra le molte perle sfavillanti dell'arcipelago lirico di Walcott, Love after love è un poema –quasi in forma di sonetto – intimamente strutturato da continue simmetrie che, sin dal titolo, sporgono tuttavia sempre oltre se stesse: un amore rispecchia un altro amore e allo stesso tempo spinge oltre di esso. Il verso iniziale apre immediatamente alla speranza, suscitando la promessa di un av-venire ove con profondo «trasporto» (è questo infatti l'etimo dell'inglese elation che viene dal latino elatio «portare via, elevare») sarà possibile aprirsi a se stessi e darsi il «benvenuto». Il poeta testimonia sì del profondo dissidio che travaglia implicitamente le nostre coscienze, ma anche della speranza di potersi un giorno serenamente riflettere in se stessi. Saper salutare se stessi, nel duplice senso dell'accoglienza e del congedo, del rispetto e del distacco, è un'arte per spiriti raffinati, una virtù che si conquista con l'esperienza oppure un dono a cui ci è concesso di sperare?
Anzitutto mi preme sottolineare come proprio la forma poetica apra a una polisemia di significati in grado di toccare delle corde profonde che, probabilmente, un semplice ragionamento sulla speranza non potrebbe trasmettere. Il nucleo centrale poi di questa poesia, che è anche quello della speranza stessa, è la speranza di rincontrare se stessi, di poter accogliere quella parte di sé che ci è sempre stata estranea e che ci accompagna come un'ombra e tuttavia costituisce una riserva di senso di cui dobbiamo in parte riappropriarci. C'è quindi qualcuno o qualcosa che rappresenta una donazione di significato alla nostra esistenza e che in parte ci resta oscura. Agostino nel De civitate Dei, proprio nella conclusione, parla del paradiso come del luogo in cui dies enim septimus (nella domenica della vita) etiam nos ipsi erimus (saremo noi stessi) [8]: in cui ci sarà un incontro festoso e un riconoscimento di ciò che avevamo sempre ignorato, pur essendo nostro. Ci capita sostanzialmente qualcosa di simile al sogno. Ogni notte, infatti, noi mettiamo in scena, senza volerlo, trame complicatissime di eventi di cui non siamo i registi, eppure queste trame sono nostre. C'è quindi qualcun' altro che ci somiglia, che è un lato nascosto, come quello della luna rispetto alla nostra vista dalla terra, e che agisce in noi anche malgrado noi stessi; c'è perciò questo senso di essere noi e nello stesso tempo di essere degli estranei a noi stessi. Nella poesia di Walcott, questo ideale – come dicono i tedeschi – di Selbstbegegnung, d'incontrarsi sulla porta, o nello specchio, quello più profondo e non quello superficiale da cui invece dobbiamo «sbucciare» la nostra immagine – come si dice nell'ultima strofa –ebbene questo incontro rappresenta una festa ed è il simbolo di qualsiasi incontro con gli altri. Perché noi ritagliamo la nostra personalità da un contesto che non è autoreferenziale: sin dal sorgere della nostra identità, nel bambino che inizialmente s'identifica con la madre, e poi nei rapporti con i nostri familiari, amici e persino con gli estranei, noi ci ritagliamo sempre su uno sfondo di relazioni. Incontrare se stessi, perciò, vuol dire in un certo modo non solo rincontrarci con la parte nascosta di noi stessi, ma anche con tutti gli altri, anche stranieri, che ci hanno formato.
Per rispondere alla sua domanda direi allora che non c'è una techne per spiriti raffinati, non c'è un'estetica di tipo kierkegaardiano che ci possa assicurare questo incontro. E questo perché – come dicono gli psicologi – c'è un double bind, un «doppio legame»: come non posso dire a qualcun' altro «sii spontaneo» oppure a me stesso «dormi», allo stesso modo io non posso crearmi una capacità di sentire questo io nascosto. Posso però accettarlo come dono sia nel senso diciamo «laico» di disporsi e prepararsi a un ascolto: quello che potremmo chiamare in un certo senso «arte dell'attesa»; sia nel senso religioso delle «vergini sagge» del vangelo: si tratta allora di un dono che ci viene elargito gratuitamente, dono di una felicità che qui o nel futuro eterno potrebbe esserci concessa finalmente, col ritrovare noi stessi per intero e in questo ritrovamento includere anche tutte quelle persone note e ignote che hanno costituito la trama di noi stessi. Perché – vede – noi siamo una specie di corda che intreccia molte altre vite, sia reali: quelle delle persone che abbiamo conosciuto come gli amici i genitori; sia immaginarie: per le cose che abbiamo letto o visto, infatti non dobbiamo dimenticare che siamo formati anche di questo tessuto di «vite parallele» nate o incontrate nell' immaginazione.
Proseguendo nella nostra lettura veniamo alla parte centrale della poesia che è come un estuario in cui avviene il confluire di diverse correnti: il futuro e il passato, la promessa e il comando, la seconda persona e la terza persona. Al centro di questo crogiolo di versi irrompe lo «straniero». La sua è una presenza «anticipante» e infatti è descritta ogni volta al passato: lo straniero che «era» il tuo io e che già da sempre ti «ha amato». È un terzo escluso e incluso allo stesso tempo: «ignorato» e che ti «conosce a memoria». Essendo un «altro» che è insieme oggetto e soggetto dell'amore, lo straniero è fondamento e orizzonte della speranza, della fiducia in ripetuti inizi: «amerai di nuovo», «amore dopo amore». Possiamo dire che sia questo terzo a far sì che il tentativo di sciogliere dentro di sé un dialogo amoroso non cada in un riflesso narcisistico?
Io credo che proprio questa idea del «terzo», che è nello stesso tempo paradossalmente escluso e incluso, eviti da un lato la tentazione di riferire tutto a se stessi, narcisisticamente, cioè di riflettersi sulla superficie di quello che si è, dimenticando quello da cui si è stati formati e che si agita in noi e in un certo senso fermenta e ribolle; e dall'altro eviti l'idea di sprofondare in un abisso senza fine in cui noi ci perderemmo. Quindi come noi siamo nello stesso tempo identici a noi stessi, momento per momento, e anche diversi da noi stessi, da come eravamo, sia fisicamente sia sentimentalmente sia mentalmente, nel passato non soltanto remoto; allo stesso modo siamo anche diversi e abbiamo bisogno di questa diversità come di uno «spessore» che ci dà senso e che ci permette di non ridurci alla puntualità di un attimo o alla banalità di un narcisismo che contempla il proprio ombelico. Sotto questo aspetto, dunque, anche il tempo si modifica in parallelo, perché questo terzo ci dà la dimensione tridimensionale e direi stetoscopica del nostro essere. Noi non viviamo soltanto in un passato che ci pesa e che in un certo modo ci condiziona, non viviamo soltanto in un presente atomico che ci sguscia di mano come la sabbia, e non viviamo o non dovremmo vivere soltanto nella proiezione in un futuro che è pura dissipazione e che diventa un inseguimento, un tentativo di accaparrarsi le cose. Sotto questo aspetto io credo che bisogna rivalutare una parola di cui abbiamo perso il significato: eternità. È l'aion greco e l' aeternitas latina, che noi immaginiamo ormai come un tempo estremamente gonfiato all'infinito, deducendo così l'eternità dal tempo; mentre tradizionalmente, almeno dal Timeo di Platone in avanti, il tempo è stato concepito come qualcosa che deriva dall'eternità. Quello che abbiamo perso di vista è che l'eternità non è un tempo lunghissimo, non ha a che vedere con la durata. L'aion, dice Plotino nelle Enneadi, è zoe, cioè vita [9]; e ancora più intensamente Boezio, nel De consolatione philosophiae [10], parla dell'eternità come plenitudo vitae: è la pienezza della vita che può essere colta anche in istanti discontinui e che si contrappone non a un tempo più breve ma – vorrei dire – a una «emorragia» del tempo. L'idea dell'eternità regge sulla contrapposizione tra la pienezza e lo svuotarsi: uno svuotarsi che c'impoverisce, che è aegestas (impoverimento) per usare l'espressione di Boezio. Sotto questo aspetto il tempo vero, quello a cui dovremmo aspirare, forse il tempo stesso della speranza, è proprio questo tempo in cui cogliamo una pienezza, in cui abbiamo la sensazione di completamento. Di conseguenza il carpe diem non diventa una «economia di rapina», in cui si cerca di cogliere quegli attimi irripetibili che potrebbero non tornare mai più, ma viene a significare questa ekstasis, forse, questo fermarsi del tempo inteso come emorragia, come perdita, che conduce all'idea che in quei momenti si ha l'impressione che niente si perde.
Parallelamente all'idea dell'eternità come plenitudo vitae si può ricorrere anche a un'immagine matematica, ad esempio quella della frazione 22/7, grossomodo corrispondente al , che dà un numero aperiodico nel quale potremmo passare tutta l'eternità – nel senso cattivo di un tempo infinito – a contare tutti i numeri, mentre invece con un colpo d'occhio nella frazione 22/7 – ciò che i matematici chiamano «infinità attuale» – noi ce l'abbiamo con immediatezza. Ancora un'altra immagine può servire a chiarire come noi trasformiamo questo tempo tridimensionale e pieno. Il tempo è come una moneta d'oro – per riprendere una metafora che Bergson usa in un altro contesto – che noi trasformiamo in spiccioli. Ecco noi viviamo con gli spiccioli del tempo, invece di tesaurizzare questa capacità che – come abbiamo detto – ci può venire come un dono, come una preparazione che non possiamo programmare, capacità di tesaurizzare questi istanti in cui probabilmente la vita ci apre degli spiragli in cui intravediamo la possibilità che il tempo – come diceva Borges – possa essere un'illusione: che in sostanza ci possano essere delle situazioni o dei momenti in cui le tre dimensioni del tempo collassano e si ritrovano insieme.
E siccome in noi stessi generalmente ci cogliamo nella dimensione dello spicciolo, della dissipazione, della dispersione e più raramente ci cogliamo nella dimensione del profondo, inteso però come voragine, questo «terzo» è quello che mantiene in tensione i due elementi e che toglie gli aspetti di perdita: non ci riduce all'appiattimento narcisistico dell'immagine immediata di noi stessi e non ci fa sprofondare nell'abisso dei numeri aperiodici che ci porterebbero a non conoscerci mai, ma ci dà questa speranza che, come nellafrazione 22/7 o come nell'eternità della plenitudo vitae, noi possiamo incontrare noi stessi e festeggiare noi stessi nella nostra interezza. La speranza è qui quella di poter vedere tutto convergere – quasi in una dantesca visione del paradiso – in un universo che si squaderna e che coincide in un punto: del resto Dante definisce l'eternità «il punto a cui tutti li tempi son presenti» [11].
In mezzo alla figura dello straniero Walcott scandisce un triplice give (letteralmente «dà»): «Offri vino», «Offri pane», «Rendi il cuore». Si passa così impercettibilmente dal tempo futuro della promessa («Tempo verrà», «Amerai di nuovo») al tempo esortativo del comando: sospeso tra il presente dell'imperativo e l'aspettativa avvenire della realizzazione. Risultato di questa triplice insistenza oblativa è una sorta di «comando dell'amore» che chiama a tessere una nuova relazione con se stessi, sbloccando un'intima economia di donazione e restituzione. Come spiegare questo paradosso in cui la speranza d'iniziare daccapo con se stessi è sottomessa al comando dell'amore?
L'amore per sua natura tradizionalmente – da Agostino in poi o almeno da san Giovanni in poi – rappresenta questa capacità di cominciare daccapo, di togliere il peso di un passato che ci grava come un macigno sopra le spalle, fatto di risentimento, di senso d'inadeguatezza, di colpa, e di darci questa capacità di ricominciare. Del resto proprio il cristianesimo credo si contrapponga alla tradizione pagana e in campo filosofico soprattutto a quella stoica, perché insiste non sull'eterno ritorno, sul destino, ma proprio sulla capacità ogni volta di ricominciare. Già Agostino diceva initium ut esset, creatus est homo [12], ovvero ciascuno di noi è un inizio, e la speranza è basata proprio sull'inizio. Se noi fossimo costretti a ripeterci nel senso dell'eterno ritorno storico o in quello volontaristico e mitico dell'eterno ritorno di Nietzsche, nel «così volli che fossi» o, come egli stesso diceva, nell'ego fatum, ove io stesso mi faccio destino e accetto il destino, la potenza dell'amore di rompere gli schemi e di ricominciare non avrebbe più luogo. Invece l'amore si riscatta dai rapporti quotidiani d'interesse, dal do ut des, perché instaura quello che nella simbologia antica, nel De beneficiis di Seneca per esempio, rappresentano le tre Grazie, le Cariti, che sono appunto il simbolo della charis, e quindi della «grazia» nel senso non della bel lezza ma del dono gratuito, perché rappresentano il dare, il ricevere e il restituire. In questo circolo virtuoso di rapporti umani, che non si basa su uno scambio di equivalenti, ma proprio sul fatto che – per dirla con lo Shakespeare di Giulietta e Romeo – più do più ricevo. Ecco questa è la caratteristica di una disposizione d'animo e affettiva che è una promessa per il futuro, è una speranza. Se sono – come diceva Aristotele – un «magnanimo», do senza ripromettermi che qualcuno mi restituisca il beneficio o il favore che gli ho fatto. È questa la capacità dell'amore di rompere gli schemi e d'iniziare daccapo, perché l'amore è un comando che ci libera e, tutto sommato, anche in termini del tutto utilitaristici, c'è maggiore rendimento nell'amore, nel circolo delle tre Grazie, che non nel do ut des, il quale alla fine gela gli uomini in una circolarità in cui ricevi tutt'al più quello stesso che hai dato. Al proposito ricordo un apologo raccontato da Schopenhauer [13] che descrive un gruppo di porcospini che una notte d'inverno attanagliati dal freddo si avvicinano l'un l'altro per scaldarsi un po', ma si pungono e quindi si allontanano, però così hanno freddo, e alla fine trovano una situazione per loro ottimale, ma sostanzialmente miserabile, che è quella della tiepidezza. Si tratta di una metafora dei rapporti umani impietosa ma in fondo sincera: la maggior parte dei nostri rapporti sono improntati alla tiepidezza e più o meno oscillano tra la blanda ostilità e la falsa empatia. Di fronte a tutto ciò il grande, rischiosissimo, «gesto» dell'amore – ad esempio il gesto di offrire il pane e il vino a cui esorta la nostra poesia – è quello del disarmo unilaterale in cui uno si toglie gli aculei e affronta i pungiglioni degli altri. D'altronde nell'amore e nell'amicizia il bello forse dipende proprio dal fatto che io sono vulnerabile ma nella speranza che nessuno mi ferisca, perché ho abbandonato la guerra di tutti contro tutti.
Al comando dell'amore segue l'esortazione ad affrancarsi dal passato. L'espressione take down significa «tirare giù» ma anche «abbattere, demolire», e infatti l'invito posto dal poeta è diretto contro un passato morto, irreversibile e cristallizzato che opprime e ostacola: quello delle «lettere» dove l'amore vive solo nel rimpianto, quello delle «fotografie» che fissano un istante passato che mai più tornerà, quello delle «note» gettate nella disperazione e che conservano un'immagine alterata di se stessi. La speranza perciò non è rivolta soltanto verso il futuro, ma anche verso il passato che non possiamo cancellare e che dobbiamo tuttavia in qualche modo dimenticare o almeno lasciare alle nostre spalle. Potremmo intendere allora la speranza come una sorta di «virtù del tempo»: mentre la disperazione rimanendo fissata sul passato sarebbe figlia di un sentimento puramente irreversibile del tempo; la temerità, l'utopia, interamente proiettata nel futuro, apparirebbe figlia di una sicurezza cieca nel tempo avvenire; la speranza sembrerebbe invece intonarsi all'essenza stessa del tempo, alla sua identità nella differenza, al suo continuo irreversibile dischiudersi.
Dobbiamo far attenzione a non relegare l'utopia semplicemente nello slancio verso il futuro, e per fare ciò seriamente l'utopia deve essere storicizzata. Le utopie classiche sorgono in termini più o meno espliciti nel III secolo a.C., ad esempio con Evemero, e si sviluppano fino alla metà del Settecento sotto forma di utopie geografiche, cioè di isole alle quali si giunge soltanto per un naufragio o un cambiamento di rotta, remote e del tutto separate dal resto del mondo: in esse c'è una società perfetta, ordinata, soprattutto più che felice; ebbene queste isole vengono considerate semplicemente come termine di paragone per giudicare la cattiva realtà presente, ma nessuno credeva seriamente alla possibilità di realizzare l'utopia. Il termine stesso utopia, coniato da Th. More nell'opera omonima del 1516 – anche se sarebbe stato più corretto in greco dire atopia – dovrebbe indicare per definizione che queste società sono irrealizzabili. Invece, a partire da un'opera del 1770 di Louis-Sébastien Mercier, per la prima volta a livello dell'immaginario la società perfetta viene posta nel tempo, nel futuro, per l'esattezza nell'anno 2440. Ciò presuppone l'interpretazione che Rousseau dava dei cambiamenti umani, infatti nell'Emilio, che è di otto anni prima, del 1762, c'è una fra-setta – che a prima vista potrebbe apparire innocua –ove si afferma che l'uomo esce buono dalle mani della natura e che la società lo corrompe. Questa affermazione stravolge tutto quello che tradizionalmente si era sempre sostenuto, cioè che l'uomo è malvagio e che l'autorità e il potere politico cercano di frenarne le tendenze. Dalla tesi di Rousseau i giacobini come Robespierre e Saint-Just trarranno l'idea che la rivoluzione deve rovesciare le istituzioni cattive e permettere all'uomo di arrivare, nel tempo, a una società perfetta. Su questa idea dell'uomo nuovo si baseranno poi tutte le rivoluzioni moderne di destra e di sinistra: col mito rispettivamente della restaurazione di un ordine passato corrotto o della costruzione di un futuro migliore.
In termini più teorici – tornando così alla sua domanda – insisterei sul fatto che questa speranza tridimensionale da un lato riscatta il passato dalla sua fissità e dal suo non sciogliersi nella fluidità di un tempo aperto, dall'altro toglie al presente questo suo carattere granulare e sostanzialmente dissipativo, e dall'altro ancora – e questa mi sembra la cosa più importante –la speranza, a differenza di quanto comunemente si crede anche in base all'uso che di questo termine si fa nel linguaggio, non riguarda solo ed esclusivamente il futuro come slancio. Le porterò un esempio per me assai eloquente: viaggiando spesso all'estero mi ha colpito ovunque il fenomeno degli emigranti, soprattutto quelli del passato, quando i viaggi erano lunghi, diciamo dal Cinquecento in poi, i quali hanno dato il nome della loro città o della loro regione a luoghi lontanissimi e magari del tutto differenti. Io mi sono sempre domandato perché e credo di aver trovato una risposta: se diamo coscientemente a luoghi estranei dei nomi familiari l'atterraggio è più morbido: i nomi ci servono da ponte. In termini più generali questo vuol dire che siamo non solo emigranti nello spazio, cosa che capita oramai sempre più frequentemente a un numero sempre maggiore di persone, ma siamo tutti «emigranti nel tempo», per cui abbiamo bisogno della memoria e di dare nomi vecchi a cose nuove, per non nascere ogni giorno, come pulcini che escono dal guscio, e abbiamo bisogno dell'oblio, del dimenticare il passato ricordandolo, per poter aprirci al nuovo. Il presente è perciò questa fragile passerella tra la memoria e l'oblio, e sotto questo aspetto la speranza rappresenta la volontà di ricordare e paradossalmente anche di dimenticare; una volontà che in ogni caso ha come schema la capacità di rendere il tempo fluido, o – come lei dice molto bene – un incessante irreversibile fluire. La speranza deve riconquistare, anche contro una certa tradizione, questo suo aspetto tridimensionale: deve guardare il passato, il presente e il futuro, deve coinvolgere la memoria e l'oblio, e deve attraverso lo snodo del presente, ricombinarli di volta in volta in maniera diversa.
Giungiamo infine al verso con cui Walcott ci congeda e che fa proprio l'invito offerto inizialmente a se stessi di sedere e mangiare: «Siedi qui. Mangia»,«Siedi. È festa: la tua vita è in tavola». La speranza di poter far festa, di sedere e mangiare, di dilettarsi e pascersi della propria vita (feast on your life), lasciano intendere che il non accogliere se stessi, da un lato, e il fossilizzarsi sul passato, dall'altro, conducono alla frenesia e all'inedia. Colui infatti che non è riconciliato con se stesso restando annodato nei propri errori e ricordi è costretto a fuggirsi e cercarsi senza posa, e ugualmente può tutt'al più nutrirsi ma non mangiare: nel senso in cui per gli uomini tale attività non è pura autoconservazione bensì reale condivisione. Eppure spesso sentiamo dire che il dilettarsi della vita è legato all'immediatezza, mentre la speranza proiettandoci verso il futuro risulterebbe piuttosto un impedimento al banchetto della vita.
Io parto dalla constatazione, spesso dimenticata, che siamo tutti ospiti della vita. In genere si dà un privilegio errato o per lo meno eccessivo alla coscienza rispetto alle funzioni spontanee sia del nostro corpo sia della nostra psiche. In fondo il nostro cuore batte, il sangue circola, i polmoni si gonfiano e si svuotano d'aria, le ghiandole secernono gli ormoni, milioni di globuli bianchi s'immolano ogni volta che abbiamo un minimo graffio e tutto questo senza l'intervento della nostra volontà; così come la nostra volontà non interviene nemmeno nel sogno oppure nel fantasticare. Noi dobbiamo recuperare la meraviglia della presenza di una spontaneità che è in noi, di una vita di cui noi siamo ospiti e di cui banchettiamo malamente, perché non festeggiamo questa vita e in fondo ce ne serviamo come fosse un servomeccanismo: il nostro corpo è dimenticato e questo non è un fatto soltanto edonistico.
Credo invece che una delle grandi intuizioni del Cristianesimo sia proprio la resurrezione della carne e quindi la dignità anche del corpo. Noi viviamo sostanzialmente con ingratitudine, siamo – direbbe Fortini – degli ospiti ingrati di questa nostra esistenza. Un modo per poter festeggiare questo incontro con noi stessi e con lo straniero che è in noi è proprio quello di sederci al banchetto della vita e di alzarci non dico sazi, però almeno riconoscenti: capaci di ripetere con Marco Aurelio la benedizione dell'oliva matura che cade dall'albero che l'ha prodotta.
La festa con noi stessi è una festa in cui noi riconosciamo di essere dei nodi di relazioni che comprendono anche l'estraneo, lo straniero che è in noi e fuori di noi: il volto dell'altro, da non considerare qui alla Lévinas come un totalmente altro, quanto piuttosto come lato nascosto e parte di noi stessi. Per parafrasare san Paolo ove dice che per ora vediamo Dio per speculum et in aenigmate [14] e poi lo vedremo faccia a faccia, la speranza che anche la poesia di Walcott ci trasmette è quella di una rivelazione in cui vedremo noi stessi faccia a faccia, in cui bisognerà però «sbucciare» (peel) dallo specchio l'immagine immediata e superficiale, narcisistica, e sostituirla con una pluralità nella quale riconoscere che in fondo noi siamo tutti e che nel volto di ognuno si rispecchiano i volti di tutti. Festeggiare la vita significa rendersi conto che facciamo parte di una catena e che siamo anelli di qualcosa che è più grande di noi, che si prolunga nel tempo. Ciascuno di noi dovrebbe ricordare che viene da una lunga catena di viventi comprendente non solo i miliardi di nostri antenati umani, genitori, nonni, bisnonni e così via, ma persino quelle forme di vita elementare persino non umana, come i virus che – secondo quanto la biologia più recente ha scoperto – il nostro DNA ha inglobato al suo interno. L'estraneità a noi stessi così, paradossalmente, si può convertire nel luogo d'accoglienza dell' estraneità di tutti gli altri: in questa estraneità riconciliata con noi stessi possiamo ospitare tutti i volti degli altri. Perché in fondo l'altro c'è dove lo si fa entrare.
NOTE
1 EUGENIO BORGNA, libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l'Università degli Studi di Milano, è stato responsabile del Servizio di Psichiatria dell'Ospedale Maggiore di Novara. Alternando una produzione più tecnica, rivolta ai colleghi psichiatri, a libri più divulgativi, dove analizza emozioni e sentimenti che possono essere segni di disagio e psicosi, Borgna ha saputo affrontare l'interpretazione naturalistica delle malattie mentali, oggi sempre più in voga, rivalutando la linea fenomenologica che si rifà specialmente ai lavori di Eugène Minkowski. Tra le sue opere più recenti ricordiamo: L'arcipelago delle emozioni (2001), Le intermittenze del cuore (2003), Il volto senza fine (2004), L'attesa e la speranza (2005).
2 Il posto delle fragole (Smultronstället), Svezia 1957, regia di INGMAR BERGMAN. Interpreti: Victor Sjostrom (Isak Borg), Ingrid Thulin (Marianne), Bibi Andersson (Sara), Gunnar Bjornstrand (Evald), Folke Sundquist, Bjorn Bjelvenstam, Naima Wifstrand, Jullan Kindahl, Gunner Sjoberg, Gunnel Brostrom, Gertrud Fridh, Ake Fridell, Max von Sydow, Gunnel Lindblon, Per Sjostrand.
Trama: Il dottor Isak Borg deve ricevere un alto riconoscimento dall'Università di Lundt nel suo cinquantesimo anno di professione. La notte precedente ha un incubo. Al risveglio, invece di partire in aereo, decide di andare in macchina, accompagnato da Marianne, sua nuora. Lungo il viaggio Isak sosta presso una casa, accanto a un lago, dove in gioventù trascorreva l'estate assieme ai suoi familiari. Lì ritrova il «posto delle fragole» e vi si sdraia perdendosi nei ricordi. Viene poi risvegliato da una giovane ragazza, di nome Sara, in cerca di un passaggio assieme ai due amici Anders e Viktor. Dopo pranzo, Isak si reca in visita presso l'anziana madre. Ripreso il viaggio, si addormenta tormentato da un nuovo inquietante sogno. Al risveglio, confessa a Marianne: «mi sento morto, pur essendo vivo». La nuora si accorge che quelle stesse parole furono pronunciate da suo marito Evald; ella confessa a Isak che la crisi del suo matrimonio è dovuta alla decisione di Evald di non volere il figlio che sta già crescendo dentro di lei. Arrivati a Lundt ha luogo la cerimonia durante la quale il dottor Borg ha come un'illuminazione che cambierà la sua esistenza.
Orso d'oro al Festival di Berlino nel 1957; Premio Oscar per il miglior film straniero nel 1961.
INGMAR BERGMAN, nasce a Uppsala nel 1918, figlio del cappellano della corte reale. Grandissimo regista e drammaturgo, sia teatrale che cinematografico, è considerato uno dei più importanti autori della storia del cinema. La sua arte è estremamente nuda: pochi gesti, suoni, espressioni, volti circonfusi di silenzio: da considerarsi come «presenza» che mette lo spettatore faccia a faccia con l'espressione più pura delle emozioni e dei sentimenti. Le sue pellicole sono caratterizzate da una cura estrema per la narrazione, che lo farà apprezzare a livello internazionale soprattutto con II settimo sigillo (1956, Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 1957) e Il posto delle fragole (1957). Gli anni '70 portarono Bergman alla fama mondiale grazie a regie divenute emblema del cinema d'autore: Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1973), Il flauto magico (1974), Sinfonia d'autunno (1977). Nel corso degli anni '80, Bergman si è per lo più ritirato dall'attività cinematografica, dedicandosi ancora al teatro. La sua ultima celebre pellicola, Fanny e Alexander (1982), costituisce una sorta di somma di tutto il suo lavoro.
3 B. PASCAL, Pensées, fr. 172 br.
4 G. LEOPARDI, Zibaldone, 18 ottobre 1820.
5 G. MARCEL, Homo viator, tr. it. Roma 1980.
6 REMO BODEI, filosofo di fama internazionale, è attualmente recurrent visiting professor alla University of California, Los Angeles, dopo aver insegnato a lungo Storia della filosofia all'Università degli Studi di Pisa e alla Scuola Normale superiore. Tra le sue opere più recenti: Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico (1991), Le forme del bello (1995), Le prix de la liberté (1995), Se la storia ha un senso (1997), La filosofia del Novecento (1997), Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia (2000), Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze (2002), Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia (2005). Una delle sue opere più fortunate, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste (1991), di recente pubblicata in una seconda edizione riveduta e ampliata (2005), contiene un capitolo su «La gioia di ritrovarsi» (pp. 151-185) ove il lettore potrà trovare alcuni ulteriori approfondimenti ai temi toccati lungo il colloquio che qui viene pubblicato.
7 Love after love, di DEREK WALCOTT, da Sea Grapes, London - New York 1976.
Amore dopo amore
Tempo verrà / in cui, con esultanza, / saluterai te stesso arrivato / alla tua porta, nel tuo proprio specchio, / e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro, / e dirà: Siedi qui. Mangia. / Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. / Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore / a se stesso, allo straniero che ti ha amato / per
tutta la tua vita, che hai ignorato / per un altro e che ti sa a memoria. / Dallo
scaffale tira giù le lettere d'amore, / le fotografie, le note disperate, / sbuccia
via dallo specchio la tua immagine. / Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
(tr. it. di Giulio Forti, da Mappa del nuovo mondo, Milano 1992, p. 99)
DEREK WALcarr è considerato il più grande poeta e drammaturgo delle Indie Occidentali. Premio Nobel per la Letteratura nel 1992, nelle sue opere indaga ed esprime il complesso confronto tra l'eredità della cultura europea e quella originaria delle Indie Occidentali, attestando il suo sentirsi un «nomade» tra entrambe quelle civiltà. Nasce nel 1930 a Castries, capitale di Saint Lucia, nelle Antille Minori, figlio di Warwick, artista bohèmien che lascerà Derek e suo fratello gemello Roderick quando erano ancora bambini, e della madre Alix, insegnante presso il St. Mary's College, che per prima gli trasmetterà l'amore per la poesia. Dopo la borsa di studio alla West Indies University di Kingstone, Giamaica, Walcott si trasferisce nel 1953 a Trinidad, lavorando come giornalista in quotidiani locali e come professore in diverse scuole. Oggi la sua vita si divide tra Trinidad e gli Stati Uniti, dove è titolare della cattedra di Poesia all'Università di Boston. Tra le sue innumerevoli opere ricordiamo la raccolta Collected Poems 1948-84 (1985; tr. it. parziale 1992), l'immenso poema epico Omeros (1990; tr. it. 2003), le opere teatrali Ti-Jean and His Brothers (1985; tr. it. 1993) e The Odyssey. A stage version (1993).
8 AGOSTINO, De civitate Dei, XXII, m, 4.
9 PLOTINO, Enneadi, III, 7, 3ss.
10 BOEZIO, De consolatione philosophiae, V, 6.
11 DANTE, Paradiso, XVII, 17-18.
12 AGOSTINO, De civitate Dei, XII, xx, 4.
13 A. SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena, II, 2, cap. 30.
14 1Cor 13,12.
(Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza, San Paolo 2006, pp. 27-40; 55-71)