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    «Non avrai altri dèi...»

    Il primo comandamento 

    Gianfranco Ravasi

    Dio allora pronunziò tutte queste parole: lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
    (Esodo 20, 1-6)

    A soli 11 anni Mozart componeva un testo musicale intitolato Die Schuldigkeit des ersten Gebotes (KV 35), cioè «Il dovere del primo comandamento»: era la prima parte di un oratorio eseguito nel 1767 con cinque attori-cantanti: lo Spirito cristiano, la Misericordia, la Giustizia, lo Spirito del Mondo, il Cristiano (un'edizione discografica è quella di Schwann-Musica sacra AMS 714 15). Il rilievo dato a questo comandamento, di cui sopra abbiamo offerto la formulazione biblica completa presente nel libro dell'Esodo, è giustificato perché la prima delle "dieci parole" del Decalogo è il sostegno, la base e l'interpretazione delle altre nove. Se per il filosofo greco Protagora (V sec. a.C.) «l'uomo è misura di tutte le cose» — tesi ripresa alla lettera da Platone nelle Leggi (IV, 716c) — «il Decalogo non percorre la via dell'uomo a Dio ma va da Dio all'uomo per cui misura di ogni cosa non è l'io ma Dio» (J. Schreiner).
    Del primo comandamento il testo biblico offre tre formulazioni diverse che ora esamineremo: esse sono come altrettante sfaccettature dello stesso messaggio che, in questo caso, è squisitamente religioso.
    Ecco, innanzitutto, la formulazione teologica: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (o con una sfumatura di ostilità «contro di me»). Questa negazione di ogni dio inferiore o parallelo non è tanto una professione teorica di monoteismo, di difficile espressione per la mentalità simbolica orientale. È piuttosto un monoteismo intuitivo, acritico, "affettivo", è una dichiarazione di adesione amorosa al Signore il cui nome sacro e impronunciabile è, però, rivelato a Israele, Jhwh. È per questo che è detto "il comandamento principe". «Dio non è un'idea, non è un'astrazione come allora lo rappresentava la piramide dei valori della filosofia greca. Dio è persona. Dio è un Tu che si piega verso gli uomini e vuole essere un Dio vicino, amico degli uomini e ricco di aiuto: il tuo Dio» (A. Läpple).
    Commentava Lutero nel suo Catechismo: “Avere un solo Dio significa avere ciò a cui il cuore si abbandona totalmente». La professione di fede che l'ebreo recita ogni giorno proclama: «Ascolta Israele il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!» (Deuteronomio 6, 4).
    Ecco poi la formulazione concreta del comandamento. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra». Israele rifiuta ogni immagine di pietra oppure intagliata nel legno e ricoperta di metallo che i popoli circostanti usavano come simulacri della divinità. Alla base di questa proibizione reiterata da tutta la S. Scrittura c'è la convinzione, tipica della cultura simbolica orientale, secondo la quale l'immagine è come la realtà stessa raffigurata. Dall'effigie, dai simboli sacri, come gli amuleti o i talismani o i pali fallici dei culti orientali della fertilità traspariva il dio stesso: l'icona era portatrice del fluido della divinità, era mediatrice efficace e magica della presenza della persona raffigurata. li Signore, invece, non è riducibile a un oggetto manipolabile, non è imprigionabile in uno spazio, né oggettivabile in una statua, è un Dio persona, condottiero che pellegrina coi suoi fedeli.
    A questo proposito suggestivo è il parallelo col computer, l'idolo del racconto filmico Decalogo I del regista polacco Kieslowski, a cui nei precedenti articoli abbiamo fatto riferimento per un commento moderno ai dieci comandamenti: a questo idolo il protagonista affida tragicamente la vita di suo figlio. Noi possiamo, invece, ricorrere a un episodio storica per illuminare questa concezione biblica di Dio cosiddetta "aniconica", cioè senza immagini. Il tempio di Gerusalemme era bersaglio delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, il sangue delle vittime sacrificali si mescolava a quello dei sacerdoti uccisi, la resistenza ebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi d'assedio il tempio fu invaso: era l'autunno del 63 a.C. e a Roma era console M. Tullio Cicerone. In quel giorno Pompeo anticipando il gesto di Tito nella definitiva distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., decise di penetrare nel Santo dei Santi del tempio, il luogo valicabile solo dal sommo sacerdote una volta sola l'anno: tutto il mondo ebraico a questa notizia si fermò con sgomento e raccapriccio. Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contemporaneo di S. Paolo: «Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente la nazione fu che il tempio, fino a quel momento sottratto alla vista, fu svelato agli stranieri» (La Guerra Giudaica I, 7, 6). Sollevato il velo che celava quel tempietto interno, il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare qualche mostruoso simulacro orientale e invece, nota Tacito (Historiae V, 9), trovò «una sede priva di alcuna effigie divina e un santuario inutile». Il Dio vivente, il Signore del cielo e della terra, non aveva bisogno di un elemento magico per farsi rappresentare nel dialogo col suo popolo.
    La proibizione delle immagini di Dio, che è forse la più antica formulazione del primo comandamento, si estende a ogni settore del cosmo visto come tripartito secondo la cosmologia classica della Bibbia: nessun elemento del cielo, della terra e dell'abisso primordiale può "riprodurre" il Creatore. La censura si estenderà, così, a ogni rappresentazione di creatura vivente e Israele resterà un popolo senza arti pittoriche o plastiche (le eccezioni appariranno nel tardo Giudaismo oppure nelle note rappresentazioni dei cherubini dell'arca). Se si vuole cercare l'immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra non bisogna ricorrere a una statua fredda o a un vitello d'oro, come farà Israele nel deserto (Esodo 32) o come farà-il re d'Israele Geroboamo I nel X sec. a. C. coi due torelli sacri collocati nei santuari di Dan e di Betel (1 Re 12, 28). Si deve, invece, guardare il volto di un uomo perché «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1, 27). La religione biblica ha come punto di riferimento solo la Parola di Dio e l'uomo come segni viventi di Dio; la religione genuina è dinamica, personale, libera, non statica, oggettuale e magica. Perciò è «maledetto l'uomo che fa un'immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d'artefice e la pone in un luogo occulto!» (Deuteronomio 27, 15). Cantava il grande poeta austriaco Rainer M. Rilke (1875-1926) nel suo Libro d'Ore:

    Tutti quelli che ti cercano ti tentano,
    e quelli che ti trovano ti legano
    a un'immagine e a un gesto.
    Noi erigiamo statue davanti a te come pareti
    così che già mille muri stanno intorno a te.

    Ecco, infine, la terza formulazione di taglio liturgico del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai».
    "Prostrarsi" è l'atto orientale dell'adorazione cultica. Esso deve avere come termine solo il Dio trascendente: «Colui che offre un sacrificio agli dèi oltre che al solo Signore, sarà votato allo sterminio» (Esodo 22, 19). Come nel giorno glorioso dell'ingresso nella terra promessa, Israele deve sempre ripetere la sua scelta religiosa: «Noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio» (Giosuè 24, 18).
    A questo punto il testo del primo comandamento si espande in una descrizione del vero volto di Dio espressa secondo il pittoresco linguaggio semitico. Dio è qanna', "geloso": è questo il primo lineamento della fisionomia di Dio. Egli è intransigente ed esclusivo (l'idea è desunta dal tema dell'amore proprio, della passione per una "proprietà"), non tollera che la sua "eredità" più preziosa, l'uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deuteronomio 4, 24). Successivamente, però, si introdurrà una sfumatura di tenerezza in questa gelosia. Nell'VIII sec. a.C. Osea, il profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e l'annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito, ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2, 16). L'amore, comunque, non cancella la giustizia, come attestano le benedizioni e le maledizioni finali riservate a chi accoglie i comandamenti e a chi li viola. Tuttavia a prevalere è sempre l'amore: se è vero che la giustizia del Signore ricorda il peccato "per quattro generazioni", è altrettanto vero che il suo amore si estende "fino a mille generazioni".
    A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima e fondamentale "parola" antica che significato ha per l'uomo contemporaneo? Il primo comandamento è un atto d'accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi feticci che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia di una nave nel mare o come una nuvola che si dissolve al calore del sole.
    Il primo comandamento è un atto d'accusa contro l'indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo di un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l'ansia della ricerca l'inquietudine della coscienza per occuparsi solo di interessi limitati, per affidarsi solo a piccole pallide lampade anziché lasciarsi guidare dal sole sfolgorante, come diceva Sant'Agostino.
    Il primo comandamento è un atto d'accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Dio viene ridotto a un oggetto manipolabile secondo i nostri interessi e la religione si trasforma in superstizione. «lo sono il Dio di Abramo, il Dio di [sacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matteo 22, 32).
    Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il "conoscere" nella Bibbia è il verbo dell'amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo, anche attraverso un lungo itinerario di ricerca finché brilli «la stella del mattino» (Apocalisse 2, 28).
    Il primo comandamento è un invito alla coerenza spirituale e gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata nell'amarezza al fisco di Cesare (Matteo 22, 21).
    Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l'aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l'uomo, "immagine di Dio" e luogo dell'incontro vivo con Dio.


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